Desandrè Ida

Ida Desandrè

Nata ad Aosta il 10.10.1922

Intervista del 17.05.2000 a Bolzano realizzata da
Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n. 2 – durata 37′

Arresto: luglio 1944 ad Aosta

Carcerazione: Aosta; Torino

Deportazione: Bozen; Ravensbrück; Salzgitter; Bergen Belsen

Liberazione: aprile 1945 a Bergen Belsen

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Nota sulla trascrizione della testimonianza: L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Ida Desandrè, sono nata ad Aosta il 10 ottobre 1922.

Sono stata arrestata nel mese di luglio del 1944 dai fascisti, e in seguito deportata in Germania. Prima di essere deportata sono stata rinchiusa nelle caserme militari di Aosta, poi nella prigione di Aosta. In seguito sono stata a Torino nelle carceri nuove, di passaggio al carcere di San Vittore a Milano, e poi sono stata trasferita a Bolzano. A Bolzano sono rimasta circa una ventina di giorni.

D: Ida, dove sei stata portata a Bolzano?

R: Nel campo di concentramento di Bolzano, e in seguito da Bolzano sono partita per la Germania. Il primo posto in cui sono stata è il campo di Ravensbrück. Nel campo di Ravensbrück ho fatto la quarantena; in seguito sono stata trasferita in un campo di lavoro, sempre alle dipendenze del campo di Ravensbrück. Questo campo era situato nella località di Salzgitter e vi sono rimasta sino verso la metà di aprile (1945): dalla metà di aprile sono stata trasferita un’altra volta e sono finita nel campo di Bergen Belsen.

D: Questo è stato il tuo percorso di deportazioni; iniziamo col campo di Bolzano.  Quando sei arrivata nel campo di Bolzano dove ti hanno messo, te lo ricordi? 

R: Sì, ricordo perfettamente l’ingresso nel campo di Bolzano: ricordo un grande capannone

modo da una rete metallica. Ricordo perfettamente dove erano situate le cucine, le toilettes.

La mia permanenza a Bolzano non è stata troppo malvagia perché ci portavano a lavorare dentro a caserme, dove c’erano diverse mansioni, non per tutti uguali. Con il mio gruppo attaccavamo bottoni ai telo-tenda dei militari. Poi alla sera si rientrava nel campo.

D: Con te c’erano molte altre donne?

R: Sì tante, tante donne. Con il gruppo con cui sono partita dalle carceri di Torino e anche da Milano siamo quasi sempre rimaste unite. Erano donne che provenivano da diverse località, c’era anche una compagna di deportazione della Valle d’Aosta, e operaie delle fabbriche di Torino, donne di Milano, di Cremona, di Imperia; insomma, da parecchie zone del Piemonte, della Liguria …

D: Poi da Bolzano sei partita; tu ricordi in maniera precisa il giorno della tua partenza.

R: Sì, ricordo in modo perfetto il giorno della mia partenza perché era il 10 di ottobre (1944), il giorno del mio compleanno.

D: Ti ricordi da dove siete partite? 

R: Siamo partite appunto dal campo, adesso non so ricordarmi con precisione, se siamo state caricate su dei camion oppure se abbiamo fatto la strada a piedi verso il binario dal quale partivano tutti i treni che ci portavano in Germania. Questo binario esiste tuttora, sono tornata tempo fa a rivederlo.

D: In quanti eravate più o meno sul tuo vagone?

R: Il mio vagone poteva al massimo contenere 40 persone: eravamo invece più di 100.

D: Tutte donne?

R: Tutte donne, anche anziane, chi più chi meno.

D: Avevate dei vettovagliamenti, del cibo?

R: Aveva dei vettovagliamenti chi aveva avuto la possibilità di ricevere ancora qualcosa nel campo di Bolzano. Io per esempio sono stata tra una di quelle che aveva anche ricevuto dei soldi dai familiari e dagli amici che mi avevano anche fatto arrivare dei pacchi. Siamo partite per la Germania con un po’ di mele, un po’ di zucchero, qualche tavoletta di cioccolato, qualche pezzo di pane, non tanta roba.

D: Il trasporto ha fatto qualche fermata?

R: Il trasporto si è fermato alla stazione di Innsbruck verso sera, al calar del sole: ricordo perfettamente i raggi di sole che sparivano dietro la montagna. A Innsbruck ci hanno fatto scendere più che altro per mandarci alla toilette, poi immediatamente ci hanno fatto risalire sul treno.

D: Il treno si è più fermato?

R: Il treno non si è più fermato, almeno che io ricordi, e sono passati tanti anni. Dopo 5 giorni e 5 notti di viaggio siamo arrivate a Ravensbrück.

D: Come avete provveduto ai vostri bisogni fisiologici, se il treno non si è più fermato?

R: Questa è stata veramente una cosa molto penosa, non soltanto per me, ma certamente anche per

tutte quelle che erano sul vagone. Abbiamo dovuto in qualche modo risolvere questo problema facendo un buco tra le tavole del vagone. Queste cose si svolgevano così, con grande umiliazione … trovarsi così di fronte anche a persone sconosciute. Questa è stata, posso dire, la prima grande umiliazione che abbiamo subìto.

D: Poi siete arrivate a Ravensbrück. Cosa è successo quando hanno aperto il vostro vagone?

R: Arrivammo a Ravensbrück su un binario morto, cioè il binario arrivava sino lì. Ci hanno fatte scendere e ci hanno incolonnate 5 per 5. Ci hanno contate ed era un grosso problema per le guardie che ci accompagnavano questo contare: non doveva mai mancare nessuno in rapporto alle cifre che loro avevano. Purtroppo anche durante il viaggio qualcuna è morta.

Ricordo in modo particolare la presenza del lago (nel campo di Ravensbrück); non so di averlo visto con precisione, comunque sentivo la presenza del lago e soprattutto ho il ricordo dolcissimo del suono di una campana. Quando si arriva in questi luoghi anche soltanto il suono della campana ti dà la sensazione di non essere in un posto sperduto, cioè ti fa sperare che ci sia la presenza di qualcuno vicino a te.

D: Come ricordi l’arrivo al campo?

R: Dopo che ci hanno contate e ricontate ci siamo avviate lungo un viale circondato da aiuole ben curate, con casette in stile tirolese, molto belle, con i gerani fioriti alle finestre nonostante che fossimo già nel mese di ottobre. Più che altro guardavo le tendine. Quando siamo partite per la Germania eravamo convinte di andare in Germania a lavorare, anzi in un certo senso era come una liberazione partire per la Germania, perché non sapevamo nulla di ciò che ci aspettava. Pensavamo di andare a lavorare; e questo era il nostro pensiero vedendo queste aiuole, tutte queste casette, che poi erano le case dei nostri aguzzini. Dicevamo: “Qui ci faranno lavorare”, speravamo che la nostra vita si sarebbe svolta in questo modo sino alla fine della guerra. Invece purtroppo le cose poi si sono presentate in un altro modo: finito il viale, ci siamo trovate di fronte un grande ingresso, un grande portone, abbiamo cominciato a vedere le torrette con le guardie sopra, con le armi puntate, il filo spinato, si è spalancato il grande ingresso.

Cosa abbiamo visto entrando nel campo? Abbiamo visto le prime prigioniere incolonnate. C’erano colonne di donne vestite a righe, qualcuna coi capelli rasati e con gli attrezzi agricoli, e le facevano sfilare cantando, le facevano anche cantare. Altre invece trascinavano misere carrette su cui erano andate a raccogliere le morte nel campo, destinate al forno crematorio. A Ravensbrück funzionava giorno e notte il forno crematorio.

D: E l’ingresso nel campo?

R: Per prima cosa non siamo state guardate subito perché siamo state due giorni fuori, dormendo all’addiaccio sul piazzale del campo. Fortunatamente avevamo ancora con noi i nostri indumenti e quel poco da mangiare che era rimasto nei nostri fagotti; li tenevamo ben cari questi fagotti perché le poverine, le prigioniere che erano già lì prima di noi anche di notte cercavano di rubare quel poco che noi ci eravamo portate appresso. Fortunatamente io avevo con me il cappotto, mi ci sono coperta e non ho sofferto

eccessivamente il freddo. Dopo due giorni siamo state chiamate dentro la baracca adibita alla vestizione; ci hanno fatto spogliare nude e abbiamo dovuto lasciare tutto; tutto ciò che avevamo con noi ci è stato preso, non ci è rimasto neanche un ago per cucire né uno spazzolino da denti, niente. Tutto ci è stato portato via, tutti gli oggetti cari, le fotografie, tutto tutto tutto, siamo rimaste nude. E poi siamo state anche notevolmente depilate, visitate nelle parti più intime del nostro corpo: pensavano che qualche oggetto avrebbe potuto essere nascosto. Dicendo oggetto intendo una catenina d’oro, un anellino che sarebbe servito come merce di  scambio nel campo per qualche miska di zuppa.

D: Dopo la spoliazione, la depilazione, la rasatura e le visite corporali, è la volta delle docce.

R: Sì, la doccia e poi la vestizione, cioè dopo la doccia ci hanno consegnato i vestiti. Allora c’era chi otteneva il vestito zebrato e chi no, ed è ciò che per esempio è successo a me: mi è stato dato un vestito nero con una croce di stoffa di diverso colore cucita davanti e dietro. Sul braccio era cucito il triangolo già col mio numero.

D: Il triangolo di che colore era?

R: Il mio era rosso; il triangolo rosso era per le deportate politiche. C’erano anche altri colori: il triangolo giallo per gli ebrei, il triangolo verde non ricordo … insomma, c’erano parecchi colori.

D: Poi il blocco di quarantena.

R: Ci hanno assegnato il posto nelle baracche. C’è da precisare che il campo di Ravensbrück era stato costruito per, non so, 9.000 / 10.000 persone circa, ma purtroppo verso la fine della guerra eravamo già più di 50.000, e il campo non si è ingrandito nel frattempo. Il campo è rimasto quello che era, le baracche sono rimaste quelle, perciò  eravamo pigiate dentro queste baracche. Mi è stato dato un posto per dormire, c’erano i letti a castello, chiamiamoli letti ma erano semplicemente dei tavolacci con un po’ di paglia e una coperta. Il mio posto è stato assegnato al quarto castello, ma questo posticino era occupato da 3 prigioniere polacche; le poverine erano già da un po’ di tempo nel campo; vedendosi arrivare un’intrusa ad occupare una parte di questo piccolo posticino mi riempirono di botte. Io non capivo perché mi picchiassero così; non avevo colpa se mi avevano rifilata in questo angolino.

Voglio raccontare un particolare: entrando nella baracca in attesa appunto che ci venisse assegnato il posto, io mi sono appoggiata sul primo lettino del castello, che era ricoperto da una copertina a quadretti bianchi e blu, tutta diversa dagli altri letti. Era il letto di una kapo: non pensavo di fare qualcosa di male, ma lei senza dirmi niente mi allungò un ceffone. E mentre mi picchiava mi chiamava “Badoglio”. Tutte noi italiane eravamo chiamate “Badoglio”. Perché? Perché in fondo in fondo la considerazione che i tedeschi avevano delle prigioniere italiane era doppiamente terribile: noi non eravamo il nemico, noi eravamo i traditori, e questo certamente ha influito molto sulle punizioni e sul comportamento che loro avevano nei nostri riguardi.

D: Quanto tempo sei rimasta a Ravensbrück?

R: Io penso grossomodo di avervi fatto la quarantena, adesso dire con precisione non lo so, ricordo

vagamente. Nei giorni in cui siamo rimaste a Ravensbrück – io parlo sempre al plurale perché siamo quasi sempre rimaste assieme noi del gruppo partito da Torino e da Milano, noi che provenivamo dal Piemonte e dalla Liguria – ci portavano a lavorare. Andavamo a lavorare dalle parti in cui c’era il laghetto; ci facevano caricare sabbia su grandi carrelli sistemati su rotaie: dovevamo caricare, riempire questi carrelli, spingerli e svuotarli. Certamente era un lavoro inutile ma era un modo anche questo per toglierci le forze, per debilitarci e per farci capire che eravamo là per soffrire, ecco.

D: Lo specifico di Ravensbrück è quello di essere un campo tutto femminile.

R: Sì, nel campo di Ravensbrück c’erano tutte donne.

D: Solo donne.

R: Giovani, vecchie, anziane, insomma c’era un po’ di tutto.

D: Tu hai subìto esperimenti in questo campo?

R: Sì, in questo campo sono stati fatti degli esperimenti sulle prigioniere. Esperimenti anche terribili. Quello che è stato fatto a me, come a tante altre, consisteva nel toglierci il ciclo mestruale: a qualcuna mettevano qualcosa nel mangiare, invece tante altre venivano messe su un tavolo e veniva iniettato direttamente nella salpinge un liquido molto irritante; questo liquido ci ha tolto le mestruazioni. Da quel momento sino a quando non sono tornata a casa, anzi anche per un periodo di tempo successivo al mio rientro a casa, non ho più avuto le mestruazioni.

D: E il vostro corpo si è riempito di che cosa?

R: Togliere il ciclo mestruale era un problema molto grave per la donna, ma i nazisti sapevano benissimo le conseguenze di tutto questo: loro dicevano che noi eravamo degli schiavi e che gli schiavi si riproducono troppo in fretta, come i topi. Certamente anche in questo senso cercavano il modo di eliminare il più possibile le persone, e così anche con noi, che non avremmo potuto magari più avere figli. Questo penso sia stato lo scopo di questo esperimento, e forse anche vedere l’effetto che poteva fare sulla donna togliere il ciclo mestruale. L’effetto è stato che i nostri corpi si sono riempiti di grossi foruncoli sempre pieni di pus, e i  pidocchi  si accompagnavano benissimo coi foruncoli ….

D: Durante il periodo che tu sei rimasta a Ravensbrück hai subìto anche una selezione. Te la ricordi?

R: La selezione è stata quando ci hanno scelte per portarci fuori dal campo di Ravensbrück, perché il campo aveva dei campi satellite, dei campi di lavoro. Sono arrivati degli industriali tedeschi e ci hanno scelte, cioè individuavano tra le prigioniere quelle che più o meno avrebbero potuto rendere nella loro fabbrica e nel lavoro. Ci guardavano soprattutto, mi ricordo, le mani: chi aveva anche le mani callose era evidente che fosse una persona già abituata a lavorare e senz’altro avrebbe reso in fabbrica. Io fortunatamente avevo già i calli alle mani perché abituata a lavorare, ho lavorato sin da piccola.

Prima di tutto questo però diciamo dell’appello al mattino a Ravensbrück. Alle 5 dovevamo uscire fuori dalle baracche per l’appello, qualunque fosse stato il tempo, qualunque fosse stato il modo in cui potevamo uscire; tante volte dovevamo uscire anche nude, e l’appello durava tante ore, a seconda se durante la notte qualcuna era morta oppure se qualcuna era assente per qualche altra cosa. Contavano, contavano e ricontavano; l’appello durava fin a quando i conti non tornavano. A Ravensbrück succedeva anche questo. Cosa posso dire? Tra tante altre sempre del mio gruppo, siamo state scelte per andare a lavorare in una fabbrica in un campo di lavoro che si chiama Salzgitter. Ci hanno caricati su dei treni un’altra volta e ci hanno portato in questo posto. Non abbiamo viaggiato tanto perché Salzgitter non era tanto lontano da Ravensbrück. In questo campo di lavoro c’erano parecchie baracche, adesso ricordo vagamente quante baracche c’erano, ma c’erano donne di tutte le nazionalità: greche, polacche, russe, francesi, italiane.

D: E lì a Salzgitter cosa facevate?

R: A Salzgitter ci portavano a lavorare dentro delle fabbriche. Noi andavamo a lavorare in una fabbrica in cui si costruivano i cerchi di rivestimenti per le bombe. Ci davano della polvere tipo polvere di alluminio, non so bene di che cosa fosse composta questa polvere, e si cominciava a costruire dal piccolo cerchio via via sempre più in grande, fino a quando la forma della bomba veniva data da tutti questi cerchi l’uno sopra l’altro. Questo era il lavoro che si svolgeva nella nostra fabbrica; si facevano i 3 turni, si lavorava dalle 6 del mattino alle 2, o dalle 2 alle 10 di sera; poi c’era il turno di notte. Questo è stato il lavoro di Salzgitter.

D: Poi anche da Salzgitter sei stata trasferita.

R: Sì, da Salzgitter siamo state trasferite perché il fronte stava avanzando. In una notte tremenda ci hanno fatto uscire dalle baracche, con urla tremende, e bastonandoci ci hanno caricate su dei camion e ci hanno portate via: la nostra destinazione era nuovamente Ravensbrück. Purtroppo durante il viaggio il nostro convoglio è stato bombardato, e naturalmente il treno non ha più potuto proseguire per Ravensbrück. Allora abbiamo camminato, ma non quella notte, che abbiamo passato nel bosco. Il giorno dopo abbiamo camminato, e dopo tanti chilometri siamo arrivate nel campo di Bergen Belsen.

D: Quando siete state trasportate da Salzgitter a Bergen Belsen siete state bombardate nella stazione di Celle, te lo ricordi?

R: Siamo state bombardate nella stazione di Celle presso Hannover; abbiamo subìto un bombardamento terribile, e in seguito a questo bombardamento abbiamo dovuto proseguire sulla strada a piedi. Facendo tutti questi chilometri a piedi per arrivare nel campo di Bergen Belsen avevamo tanta sete, tantissima sete, e soffrire la sete è una cosa molto brutta. E poi anche fame, perché non ci è stato distribuito più niente da mangiare. Io avevo con me un pezzo di pane, un piccolo pezzo del pane che ci veniva distribuito nel campo. Non so con che farina fosse fatto, se ci fosse almeno un po’ di farina ma forse non c’era neppure. Questo pezzo di pane me l’aveva dato una compagna di deportazione che era riuscita a rubarne un po’ e che aveva distribuito tra noi compagne; io, per non mangiarlo e perché mi durasse di più, ho continuato a leccarlo tutto il tempo che abbiamo camminato; tra l’altro eravamo anche mitragliate. Quando arrivavano gli apparecchi aerei si lasciava la strada e si correva a ripararsi nei boschi. Dopo tanti chilometri finalmente arrivammo a Bergen Belsen. Io avevo sempre in mano questo pane che si era ridotto ormai ad una palla a furia di leccarlo, era una piccola palla. E non appena sono entrata nel campo di Bergen Belsen, sono stata avvicinata da una prigioniera che aveva un po’ d’acqua dentro il recipiente che chiamavamo miska: mi ha fatto segno che se le avessi dato il pezzo di pane lei mi avrebbe lasciato bere un sorso d’acqua: ecco, ho rinunciato al pane per bere un po’ d’acqua, perché la sete era stata talmente grande.

Del campo di Bergen Belsen cosa possiamo dire? La nostra prima impressione nel vedere tutto ciò che c’era attorno a noi, un inferno dantesco, è stata: “Qui è finito, qui loro hanno vinto, noi abbiamo senz’altro perso”, vedendo tutto il disastro che c’era. Nel campo non c’era più nulla che funzionasse, non c’era acqua, non davano più da mangiare. I cadaveri erano tutti sparsi nel campo, erano cadaveri accatastati, mucchi e mucchi di cadaveri che la notte buttavano fuori dalle baracche. Vedere questi cadaveri così, con le membra tutte storte, con gli occhi aperti, le bocche aperte, con le piaghe da decubito, è stata una cosa terribile, una cosa che ancora io non ho dimenticato, nonostante siano passati tantissimi anni. Il mio pensiero va sempre a questa povera gente che è morta in un modo così terribile.

D: Ida, perché sei stata portata nei campi di concentramento?

R: Io sono stata portata nel campo di concentramento perché mio marito era militare ad Aosta; l’8 settembre (1943) c’è stata la disfatta dell’esercito italiano, e anche lui, come tutti gli altri, dopo 8 anni di servizio militare è scappato assieme agli altri. Ha fatto parte della Resistenza in un modo abbastanza blando, ma non ci voleva tanto per essere arrestati; anche se non si partecipava alla Resistenza, in quel periodo bastava una frase fuori luogo, oppure un’imprecazione per il pane che non ci davano o per la fame che si pativa e si poteva benissimo essere arrestati.

Io ho visto persone arrestate perché trovandosi in un luogo pubblico, in un bar o in una cantina, con la radio che trasmetteva il giornale radio, non si alzavano in piedi e non si toglievano il cappello, come invece si doveva fare. Ebbene, bastava che ci fosse un fascista dentro al locale, e potevano arrestarti per questo.

Essere arrestati non significava aver fatto qualche cosa, essere arrestati significava questo: il governo italiano doveva consegnare al governo tedesco un certo numero di prigionieri, e per raggiungere la cifra tutto andava bene: quelli presi nel rastrellamento e quelli presi per delle sciocchezze.

Ripeto, mio marito ha lasciato l’esercito e siamo stati arrestati tutti e due, lui è finito in Germania prima di me, perché ha fatto tutto il mio viaggio sino a Bolzano, e poi è partito per la Germania qualche giorno prima di me, inviato in un campo di lavoro vicino a Lipsia, non in un campo di sterminio, ed è rientrato in Italia nel mese di agosto (1945), mentre io sono rientrata in Italia nel mese di settembre del 1945.

D: Ritorniamo ancora a Bergen Belsen, che è l’ultimo campo in cui sei stata deportata e dove sei stata liberata. Ci stavi descrivendo le immagini del tuo arrivo; quanto tempo vi sei rimasta?

R: Noi siamo stati liberati dalle truppe inglesi il 5 di maggio (1945), non mi vorrei sbagliare ma mi sembra tanto che fosse il 5 di maggio. E poi siamo rimasti ancora parecchi giorni dentro a questo campo, perché la situazione era caotica e doveva essere organizzata anche l’evacuazione del campo. Le prime persone che sono state portate fuori dal campo sono stati i prigionieri che quasi quasi erano all’ultimo stadio. Sono stati portati via i bambini, perché c’erano anche bambini e delle giovanette, lì dentro. Non bisogna dimenticare che nel campo di Bergen Belsen è morta Anne Frank e tantissime ragazzine.

Quando hanno potuto, gli inglesi ci hanno portate via, ci hanno fatto fare la doccia e ci hanno disinfettate tutte con il DDT, spargendo sui nostri corpi nudi, un’altra volta nudi, tutta la polvere di DDT. Siamo state portate via e ci hanno di nuovo, non tutti, sparsi in questa regione; noi siamo ritornate a Celle dove eravamo state bombardate, e siamo state messe dentro delle caserme, precisamente nella scuderia delle caserme, a dormire un’altra volta per terra sulla paglia. Così per un paio di giorni; io ero già abbastanza malata, avevo sempre la febbre. Fortuna volle che incontrassimo dei prigionieri militari che avevano requisito una casa tedesca, dove forse c’era un laboratorio perché c’erano dei letti a castello. In attesa del rimpatrio l’avevano requisita e ci diedero una camera, per tutte tranne la mia carissima compagna di deportazione di Imperia, che purtroppo è stata portata in ospedale perché era gravemente ammalata; gli inglesi infatti l’avevano portata via dal campo di Bergen Belsen, quasi subito.

D: A Celle fino a quando sei rimasta?

R: Lì siamo rimaste fino a settembre, quando ci hanno rimpatriate. Tante volte ci chiamavano, ci radunavano perché si doveva partire, e poi invece il convoglio non c’era. Ci sono stati dei grossi problemi in quel momento, perché eravamo talmente tanti e le ferrovie funzionavano non in modo tanto buono. La Germania era anche distrutta nelle ferrovie, nei ponti, nei treni e tutte queste cose. Per organizzare il rimpatrio c’è voluto tanto tempo. Primo Levi nel suo libro “La tregua” descrive molto bene le fasi del rimpatrio. Non tutti siamo stati fortunati da avere subito un convoglio che ci portasse a casa. E poi, ripeto, io ero già ammalata; sono stata poi ricoverata in una clinica tedesca, dove bene o male sono stata curata dalla febbre, diciamo, intestinale; avevo anche la scabbia in tutto il corpo, soprattutto sulle mani, dove si vedeva un po’ di più e questo mi tormentava un po’ di più.

D: Quando sei rientrata in Italia?

R: Sono rientrata in Italia verso la fine di settembre (1945).

D: Attraverso quale percorso?

R: Sono passata di nuovo dal Brennero, come quando sono partita, e sono ritornata a Bolzano. Siamo arrivati a Bolzano quando spuntava l’alba; bellissimo questo ingresso a Bolzano, dove la Croce Rossa ci ha accolti. La prima cosa che ci è stata data è stato un pezzo di pane, un panino bello grande, molto bianco, che forse era fatto anche con farina di riso. Eravamo talmente commosse, in modo particolare, nel ricevere questo pezzo di pane dopo tanto tempo che non riuscivo neanche a mangiarlo, me lo baciavo.