Maris Gianfranco

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sono Gianfranco Maris, sono nato a Milano il 24 gennaio del 1921. Se debbo affrontare nel suo sviluppo e nelle sue radici la mia esperienza concentrazionaria ritengo che sia necessario che io parta un poco da lontano. Io voglio partire da quando avevo 17 anni e frequentavo la seconda Liceo a Milano presso il Liceo Carducci. Qui conobbi un mio compagno di scuola, il quale a sua volta mi fece conoscere ad un certo momento un suo fratello. Come accade fra giovani si chiacchierava, ci si incontrava, si discuteva e il fratello cominciò a passarmi dei libri perché io leggessi e trattassi e conoscessi dei temi di cui avevamo parlato a voce.

Inizialmente ero abbastanza stupito perché questi libri portavano un timbretto, Ventotene; io non capivo bene cosa volesse dire questo Ventotene, soltanto in un momento successivo capii che erano i libri che questo fratello aveva avuto mentre era a Ventotene confinato politico, dopo essere stato carcerato politico. Questa conoscenza mi portò alla conoscenza di altri che erano tornati dal confino di Ventotene e che erano invece clandestini a Milano. Questo rapporto mi portò non dico ad una militanza operante e responsabile all’interno del Partito Comunista, ma mi portò ad una dimestichezza con il Partito Comunista o quanto meno con dei militanti clandestini del Partito Comunista. Questa vicenda per una infinità di complicate ulteriori vicende mi portò ad essere preso, io come gli altri, sotto particolarissima attenzione dai fascisti del gruppo rionale di Oberdan, di Via Cadamosto che era in Porta Venezia a Milano; io abitavo ed ero nato in corso Buenos Aires. Costoro quasi con cadenze ravvicinate o sempre più ravvicinate, ogni tanto ci convocano nel gruppo rionale per sapere cosa facevamo e le cose si concludevano con delle grandi violenze e delle grandi percosse.

Per uscire da questa situazione particolarmente difficile ad un determinato momento, ritenni, raggiunta la maturità classica, di chiedere di frequentare il corso allievo ufficiali. Così feci, e a vent’anni ero sottotenente. Sottotenente con una coincidenza particolare: ero diventato sottotenente quando il 10 giugno del 1941 l’Italia era entrata in guerra. E così senza soluzioni di continuità io partii per la Grecia prima, e poi passai alla guerra di Croazia; e fui prima in Slovenia poi in Croazia praticamente per il ‘41, ‘42, ‘43 fino all’8 settembre.

Intervento: La dichiarazione di guerra è del ’40?

In Croazia trascuriamo le vicende drammatiche e dolorosissime per chi aveva invece una cultura della libertà dell’uguaglianza e del rispetto fra i popoli.

L’8 settembre mi coglie in Croazia in una situazione che era diventata particolarissima in quei tempi, proprio nell’ultimo mese, perché in Croazia vi erano anche dei battaglioni della milizia volontaria sicurezza nazionale, fascisti. Anche loro dopo il giugno del ‘40, dopo l’entrata in guerra dell’Italia, erano stati mandati al fronte ed erano in Croazia. Il 25 aprile del 1943 io operavo nella zona di Bromoravizze; fui chiamato ad Ogulin dal comando di reggimento e mi si impose di prendere sotto il mio comando una compagnia di milizia volontaria sicurezza nazionale del battaglione San Giusto che doveva essere ricondotta nell’ambito dell’esercito in quanto non potevano più avere la camicia nera, non potevano avere più i fascetti alle mostrine, dovevano avere le stellette, e anche i loro ufficiali diventavano soldati semplici. Per cui io inglobai nel reparto che comandavo anche questi cento uomini.

D: Scusa questo è avvenuto quando esattamente?

R: Questo avveniva il 25 luglio del 1943.

L’8 settembre del ‘43 questi uomini erano inquadrati nel mio reparto, ormai da un mese e quindici giorni. Quando io mi resi conto, dopo l’8 settembre, il 9, 10, 11 che ormai il comando di reggimento era scomparso, i comandi non esistevano più, che si era dissolto tutto e tutti avevano preso disperatamente la strada di casa con tutti i mezzi immaginabili possibili, io mi trovai lì solo, centinaia di chilometri lontano dai confini d’Italia, senza sapere cosa fare. Allora io presi contatti con i comandanti partigiani della zona. Perché? Perché avevo questo retroterra politico che mi sospingeva verso una presa netta di posizione a favore dei partigiani perché volevo schierarmi a fianco a loro nella lotta che io avevo ritenuto e conosciuto come una lotta sacrosanta.

Qui si inserisce il dramma per me, perché mi dicono che tutto ciò è possibile, però vogliono la consegna di quei cento uomini della milizia volontaria sicurezza nazionale che erano stati inglobati nel mio reparto; evidentemente senza che io abbia necessità di spiegare le ragioni, per me ciò non era assolutamente possibile. Quindi io fui costretto a iniziare, credo unico nella storia dell’esercito italiano dopo l’8 settembre, una ritirata militare con tutte le regole della sicurezza per poter in questa ritirata garantire sia la sicurezza degli uomini del mio reggimento, che avevo sotto il mio comando sia quelli che avevo poi cooptato, diremo così, dopo il 25 luglio del 1943. Cioè con marce molto lente, con fiancheggiamenti, avanguardia, ecc., per un centinaio di chilometri in una situazione disperata perché avevamo soltanto poche gallette, basta dire che noi ogni giorno mangiavamo mezza galletta bagnata nell’acqua, per giorni e giorni, fino a quando siamo riusciti ad arrivare prima a Fiume e successivamente a Trieste. Fra Fiume e Trieste tutti presero la strada che ritenevano più conveniente per garantire la propria sicurezza, per poter tornare a casa ecc., finalmente poi io solo riuscii a rientrare in Italia.

Premetto: qui c’è una parentesi che io devo aprire. Insieme ad un certo gruppo fui accerchiato da un reparto delle SS armato e noi eravamo tutti armati ancora, ed era ormai quasi la fine di settembre .. era il 20 settembre, avevamo impiegato molto tempo, fummo catturati, fummo chiusi in un vagone ferroviario e fummo portati a Przemyśl, in Polonia. La situazione era per me ragione di un vero furore; per cui quando alcune settimane, dopo vennero degli ufficiali tedeschi e ci dissero che era stato ricostituito l’esercito italiano in Italia e chiesero se qualcuno di noi volesse aderire, io ravvisai in questa scelta la possibilità di realizzare situazioni nuove e diverse delle quali avrei potuto operare quella scelta finalmente volontaria di lotte di collocazione nella lotta che avevo pensato di realizzare l’8 settembre, quand’ero ancora in Croazia.

Dissi che ero disponibile, ci presero, eravamo proprio uno, due, tre tanto è vero che fu angosciosa anche questa scelta di fronte a tutti quanti gli altri che ritenevano che noi fossimo addirittura dei traditori; dei traditori perché la massa, pur avendo l’angoscia della prigionia e l’angoscia della lontananza dalla famiglia, pur intravedendo attraverso quella scelta la possibilità di tornare a casa, la rifiutarono. Fui molto fermo, io dissi di sì; ebbi una piccola prudenza, presi un compagno che era un ufficiale notaio di Venezia, e gli dissi: “Guarda tu mi conosci, sai cosa potrebbe capitarmi; qualunque cosa mi possa capitare ove io morissi prima sappi che questa è la ragione della mia scelta”. Comunque fui portato, mi pare, a Ulm, poi di lì, nella fine di ottobre, primissimi di novembre su un treno e portati in Italia. Questo treno passa il Brennero, passa naturalmente Verona, arriva a Bologna di notte. A me pare che quello sia il momento giusto, scendo dal treno in un buio tremendo e mi allontano dal treno rapidissimamente; poi in una situazione – non conoscevo qual era la situazione di Bologna;  Bologna era stata bombardata -, il treno si era fermato, non è che si fosse fermato in stazione, era fuori stazione; io non capivo più niente, però vidi alcune persone che camminavano perché si vede che altri erano scesi, e pure lì c’era altra gente che camminava in una certa direzione. Io mi misi al seguito di costoro, mi confusi nel buio con le loro figure, che malamente si intravedevano e arrivano alla stazione di Bologna dove salgo su un treno che va in direzione di Milano. Nella notte fonda mi infilo in questo convoglio, ma dove mi metto io ci sono una serie di soldati ufficiali tedeschi. Mi siedo lì in silenzio, non parlo, non succede niente, e il buio, non c’è nessuna lampadina accesa nel treno per dirle in breve. All’alba arrivo a Milano. Scendo, erano le prime luci dell’alba; arrivo a casa mia, prendo degli abiti borghesi, prima che si accorgano, nessuno si accorge che io sono arrivato, esco e vado in un rifugio, che io conoscevo, di questi miei compagni comunisti in via Fatebenefratelli, proprio di fronte all’ospedale Fatebenefratelli in Milano. Questo è un grosso antefatto. E’ l’antefatto che spiega perché io poi cambiai nome e fui catturato poi con un altro nome. I compagni mi condussero a Varese, dove c’era un funzionario del comune che era molto favorevole alla Resistenza. Questo riuscì perché era un funzionario di elevato rango: mi procurò una carta di identità falsa dove io presi il nome di un mio zio, Gianfranco Lanati, mantenendo inalterati gli altri dati e dissi che ero nato in Santa Maria Capovetere e che la mia Residenza era Santa Maria Capovetere.

Prima ho fatto una certa peregrinazione perché cercano di collocarmi come comandante partigiano, perché fatalmente in quella situazione io ero un elemento prezioso per la Resistenza; in quanto non sapevo nulla della vita, non conoscevo nulla della vita perché ero passato praticamente dai banchi di scuola alla guerra, ma però della guerra sapevo tutto, perché avevo fatto tre anni al fronte, e poi conoscevo le tattiche della guerriglia, prima in Val Canobina; ma in Val Canobina non c’era ancora un tessuto connettivo che si potesse utilizzare poi nella val Brembana. Siamo nel novembre, ai primi di novembre del 1943. Quindi le organizzazioni partigiane sono in formazione faticosa, sottolineo faticosa. C’era stata l’esplosione popolare dell’8 settembre, ma esaurita quella spinta iniziale.. poi le formazioni partigiane sono frutto di organizzazione: trovare gli uomini, organizzarli, dare loro la possibilità di vestirsi, di mangiare .. era tutto molto faticoso. Vengo mandato in Val Brembana, e allora lì in Val Brembana, in una valle che parte da San Giovanni Bianco, la Val Taleggio noi organizzammo un gruppo partigiano abbastanza numeroso; non gruppi foltissimi, ma venti, trenta persone, un piccolo gruppo riuscimmo a organizzare. Questo direi che siamo riusciti a mettere in piedi nel corso di circa un mese, un mese e mezzo fra i 5, 6, 7 e 8 di novembre e il 5, 6, 7, 8 e 15  dicembre del ’43.

I mezzi erano infimi, non avevamo neanche mezzi finanziari; io ricordo che far vivere questo gruppo, avevo cinquecento lire da parte e usai anche questi miei soldi e ci sostentavamo soltanto mangiando fagioli bolliti e polenta e basta.

Le vicende di questo gruppo partigiano finiscono per quanto è a mia conoscenza, rapidamente. Perché? Perché verso il 20 di gennaio, il comando militare di Milano mi chiede di ritornare a Milano in quanto ha bisogno di un comandante in Valtellina dove il gruppo armato è molto più consistente e quindi ha maggiormente bisogno di una direzione militare. Scendo a Milano con Abele Saba, all’alba mi pare del 22, 23, 24 di gennaio.. era il giorno del mio compleanno tra l’altro. Andiamo separatamente, io seguendo lui e vedendolo da lontano, andiamo prendendo un treno dalla stazione centrale a Lecco. Quando giungiamo a Lecco io lo seguo da lontano, ma poi mi affianco a lui; nel momento in cui mi affianco a lui, proprio di fronte alla sede del Comune di Lecco, ci troviamo circondati dalle SS.

Io non avevo visto, evidentemente erano nascosti nel Comune sono usciti alle nostre spalle, ci hanno circondati, io mi sono trovato con tre, quattro, cinque mitra nella testa e così lui e ci hanno separato immediatamente. Ci hanno separato immediatamente, ci hanno fatto percorrere un po’ le vie della città come per esporre il trofeo della caccia; poi ci hanno messo in una vettura da una parte Abele Saba, hanno messo me in un’altra vettura, dopo una sosta in una caserma che non saprei come riconoscere. E qualche ora passata su un tavolaccio in quella caserma isolato, fui portato a Bergamo.

A Bergamo fui messo in una cantina di una casa delle SS; poi da quella cantina mi trasferii in un’altra cantina che era trasformata però in una serie di celle, che in una piazza, che oggi si chiama Piazza delle Libertà, alle spalle del Tribunale di Bergamo, lì c’è un grande e moderno immobile. E lì mi misero sotto la sorveglianza della Guardia Nazionale Repubblicana fascista, però di proprietà e di riserva della Gestapo. Io lì fui tenuto undici giorni e undici notti.

Quelli della Guarda Nazionale Repubblicana mi massacravano di botte per divertimento, perché non mi interrogavano, ogni tanto entrava qualcuno e mi massacrava di botte. E io ero isolato lì nella cella. Di notte avevo l’interrogatorio delle SS. Undici notti di interrogatori. Nel corso dei quali la posizione che avevo presa era la posizione più assurda di questo mondo, anche come risposta, perché io dicevo che non conoscevo la persona con la quale io ero stato arrestato, catturato, non l’avevo mai vista, non sapevo chi fosse.

Io però avevo una situazione drammatica personale, in quanto ero stato preso armato; non solo avevo le armi addosso, ma avevo anche due borse nelle quali c’erano materiale di propaganda e armi.

Quindi dire che non sapevo chi era quello, che non sapevo chi fosse dicendo che io andavo a cercare un rifugio per me, era la mia tesi: essendo io un soldato che l’8 settembre era rimasto sbandato e non sapevo come fare a vivere e sopravvivere, quelle erano le armi che io avevo anche prima e che me le portavo appresso, ma era più difficile dire perché avevo anche il materiale di propaganda della Resistenza. Comunque il primo discorso che loro mi dissero era che io sarei stato fucilato, perché il bando della Repubblica fascista della Repubblica Sociale italiana stabiliva che coloro che venivano presi armati dovevano essere immediatamente fucilati, e che quindi io sarei stato fucilato e che qualche speranza di non essere fucilato avrei potuto averla se avessi detto qualche cosa; e io continuavo ad insistere che invece non sapevo niente di niente, non conoscevo nessuno, che quelle armi le avevo, le conservavo per ricordo, cioè una posizione quasi di offensiva; però era la posizione che ritenevo giusto in quel frangente e nella situazione generale del paese e per la scelta che avevo fatto di mantenere.

Dopo undici giorni però la Gestapo, io non appartenevo alle prede dei fascisti, erano prede della Gestapo, e anche Saba era preda Gestapo; noi abbiamo saputo dopo che eravamo stati denunciati, non ci presero a caso. Ci attendevano, noi avevamo un piccolo gruppo staccato di partigiani che era stato catturato, ed erano stati fucilati; credevamo che erano stati fucilati tutti, invece uno non era stato fucilato. Saba infatti quando fu catturato a Lecco lo aveva visto, io invece non l’avevo visto e quindi non avevo capito, non avevo potuto formulare nessun collegamento.

Sta di fatto però, che i tedeschi non volevano fucilarmi immediatamente, in quanto speravano di poter avere quelle informazioni che volevano avere. Allora mi trasferirono nel carcere di Sant’Agata di Bergamo, che era nel braccio del Tribunale militare tedesco, sezione di Bergamo distaccata da Verona; e io proseguii nella mia istruttoria per novanta giorni.

In un’altra cella, ma io non lo sapevo, sottoposto al mio medesimo trattamento c’era Abele Saba.

Quindi, io ho avuto poi altri novanta giorni, sessantanove giorni, novanta, settantanove giorni di interrogatori e anche Abele Saba, li ha avuti continuando a tenere questa mia linea che non sapevo niente.

Sta di fatto che un giorno, uno di quelli che loro chiamavano i secondini, mi porta all’aria. Voglio ricordare questo, perché voglio ricordare come anche oscuri uomini che non erano nella Resistenza, la vivevano nella loro coscienza e nella loro scelta. Questo carcere, era un carcere complicatissimo perché era un vecchio convento: scale scalette, corridoietti, mentre passo per uno dei tanti corridoietti per poi scendere una scaletta e andare a prendere l’aria, apre lui stesso una porta, mi butta dentro e mi dice “Presto, presto, presto”. Io entro e trovo Abele Saba.

Cinque minuti, dieci minuti cerchiamo di mettere in piedi, lui ed io, un racconto qualsiasi: lui mi dice che ha saputo per tramiti che il reparto in Val Taleggio non c’è più, l’hanno spostato e quindi posso anche dire che sono stato in Val Taleggio, perché lì non c’è più nulla, l’hanno spostato. E invece potrei dire sempre sulla scelta mia che ero uno sbandato che cercava un collocamento per vivere, sopravvivere, nella campagna, qualcuno che mi mantenesse e mi facesse lavorare ecc. E che avendo incontrato lui, che avevo conosciuto nel passato, lui mi aveva proposto di portarmi in un posto sul lago dove lì avrei potuto, presso suoi amici, passare il tempo di lavorare e poter mangiare e sopravvivere.

Allora abbiamo imbastito questo discorso; non è che fosse molto più intelligente di quello di prima, ma comunque noi negli interrogatori successivi a questo nostro incontro, abbiamo detto queste cose lentamente l’uno e l’altro.

La cosa non cambiò molto ai fini, perché sia Saba che io fummo condannati a morte: io ero condannato a morte come Gianfranco Lanati, e lui come Abele Saba. Però sia lui che io, essendo nelle mani dei tedeschi forse per una scelta diremo di opportunità non fummo fucilati: lui fu prelevato al mattino e mandato per un altro itinerario per un campo di sterminio, un campo di annientamento; io per un itinerario un po’ più complesso fui mandato ugualmente in un campo di annientamento KZ.

Mi mandarono a Milano dove stetti sette, otto giorni, poi da Milano con un convoglio fui mandato a Fossoli.

D: A Milano dove ti hanno mandato?

R: A Milano mi hanno mandato nel carcere di San Vittore di Milano. Io sono stato pochi giorni, il tempo forse che consentisse a loro di preparare il convoglio e di mandarci … poi infatti, arrivammo a Fossoli in un gruppo abbastanza numeroso, un gruppo tutto di politici, in Fossoli io rimasi sino al 20 di luglio.

L’11 di luglio di sera si sono verificati due episodi, voglio fare un piccolo passo indietro. Nel campo di Fossoli i partigiani avevano organizzato una struttura interna segreta che aveva come finalità e sogno quella di poter liberare il campo attraverso un colpo di mano. Il comandante di questa struttura era Leopoldo Gasparotto; poi c’era una serie di giovani partigiani – ero giovane anche io allora, avevo ventire anni – che già si predisponevano per tempo nella piazza dell’appello alla sera in certe posizioni, avendo ognuno un compito particolare; il suo uomo di aggredire in un determinato momento sia delle SS sia magari qualche traditore, qualche spia che era all’interno di questo gruppo. Il momento per questa azione doveva essere quello nel quale i partigiani emiliani avessero attaccato le torrette agli angoli del campo, impegnando quindi gli uomini delle torrette in un combattimento con loro; distolte le armi delle torrette per questo attacco partigiano esterno, il gruppo interno doveva operare questa azione. Soltanto che non fu possibile fare questo perché Gasparotto, il 21 di maggio del ’44 fu preso: vennero in baracca, lo portarono fuori, aveva i calzoncini corti, fu portato fuori caricato su una vettura che si allontanò dal campo. Poco tempo dopo, noi abbiamo visto rientrare un ciclo con un cassonetto dietro, e abbiamo visto colare del sangue: era il corpo inanimato assassinato straziato di Leopoldo Gasparotto.

Il giorno 11 di luglio del ’44 vengono prelevati sulla Piazza dell’appello settantuno uomini. Dicono che dovranno partire per la Germania l’indomani mattina; in effetti la cosa è chiara, perché noi veniamo a sapere che un gruppo di ebrei era stato mandato al poligono di tiro del Cibeno e avevano scavato una fossa lunghissima. E questi uomini, per la verità non tutti e settantuno vengono poi assassinati l’indomani mattina sull’orlo di questa fossa. Uno viene salvato, viene tolto dal gruppo dei settantuno ed era Carenine: era un compagno che aveva combattuto in Spagna e il maresciallo Haage che lo toglie dal gruppo perché gli serviva in quanto era un muratore lo faceva lavorare nel campo. Altri due fuggono al mattino quando si ribella un gruppo nella fucilazione e ne restano quindi sessantotto. In effetti però uno viene si nasconde, ed è quello che ha scritto la preghiera del partigiano, Olivelli, che si nasconde in una baracca sotto le merci e non lo trovano. Quindi ne vengono fucilati sessantasette; Olivelli finirà anche lui in un campo di sterminio. Gli altri rimasti dopo questa fucilazione, del gruppo forte politico che veniva da Milano, siamo stati caricati su dei pullman…

D: Ecco scusa due cose, ti ricordi la data di quando sei arrivato a Fossoli? Più o meno..

R: Ricordo che era la vigilia di Pasqua. Potrei verificarlo perché io ho il registro del Carcere di San Vittore con il nome di quelli che partirono insieme a me per Fossoli. Doveva essere qualche giorno prima di Pasqua, qualche giorno dopo Pasqua, scusa, mi sto sbagliando; la fine di aprile del 1944.

D: L’altra domanda era questa ti ricordi se c’erano dei sacerdoti a Fossoli?

R: A Fossoli c’erano sei sacerdoti. Di cui poi parlerò anche perché ho un ricordo molto vivo e molto affettuoso di loro.

D: Il numero di Fossoli tuo te lo ricordi?

R: 315, quello me lo ricordo; sì 315.

D: E la baracca quale era?

R: Io ero nella baracca 19.

D: Nel periodo che tu sei rimasto a Fossoli, durante il giorno vi facevano lavorare?

R: No, io non lavoravo. Alcuni lavoravano. Per esempio, in Fossoli io poi trovai altri due che erano della mia brigata: Ciceri che era un ragazzo di Lecco che fu fucilato con i sessantasette e un siriano, si chiamava Giorgio Titorian; questo siriano era stato reclutato da me, perché essendo soldato nell’armata francese, e la Siria era sotto quel tempo il protettorato francese, e quindi nell’esercito francese c’erano anche i siriani. Questo siriano fu prigioniero di guerra, e come tale venne portato a Bergamo dove c’erano dei campi di concentramento per prigionieri di guerra. Dopo l’8 settembre era fuggito sulle montagne; quando io arrivai in Val Brembana, mi mise a rastrellare a mia volta tutti i prigionieri di guerra, perché cercavo di proporre a loro di entrare nella brigata che io andavo formando in quel momento.

Titorian poi venne anche lui con me nel campo di sterminio. Allora, siamo pochi giorni dopo la fucilazione, veniamo portati a Bolzano.

D: Ecco, ma dal campo di Fossoli vi hanno portato alla stazione di Carpi?

R: No, noi siamo stati portati al Po con dei pullman. Poi abbiamo attraversato il Po su dei barconi, mi fai ricordare una circostanza. Anche lì allora, noi volevamo far affondare il barcone, poi però dopo c’erano i vecchi che non sapevano nuotare, c’erano i giovani o le donne, c’era una situazione per cui noi non ci sentimmo, perché noi partigiani potevamo essere anche nuotatori esperti capaci a superare la corrente del fiume, o lasciarsi trascinare più a valle, ma gli altri sarebbero morti, e questa è una scelta che nell’immediatezza non poteva essere fatta.

Passiamo con i barconi, veniamo caricati nuovamente su altri pullman e veniamo portati a Bolzano. A Bolzano mi fermo però pochi giorni, non più di otto giorni credo.

D: Ti ricordi questo trasporto cioè da Fossoli a Bolzano quanti eravate? Poi accennavi che c’erano anche delle donne…

R: Però le donne non vennero con noi al di là del fiume Po, quindi non so che fine fecero; non erano donne neanche del campo. C’erano alcune donne che non so a che titolo fossero state caricate su questo o forse perché facevano fare anche loro, consentivano a qualcuno che doveva passare il Po di salire; sta di fatto che c’erano alcune donne su quel barcone, che è una chiatta enorme, non erano donne che poi furono deportate con noi.

D: Quanti eravate più o meno?

R: Non era un trasporto per Bolzano molto numeroso. In precedenza vi erano stati trasporti molto più numerosi, io non credo che superassimo la memoria qui non è che mi assista. Io vedo stranamente soltanto tre camion, non ne vedo di più, diciamo quattro, ma non vedo cinque, dieci camion sui quali io penso che non potevamo stare più di una quarantina di persone.

Quindi non credo che il numero potesse andare oltre le centoventi, centotrenta e centoquaranta persone, però non ho ben chiaro il numero.

D: E il viaggio è durato un giorno solo?

R: Noi siamo arrivati partendo al mattino, alla sera eravamo già a Bolzano; non ci siamo neanche fermati a Verona. A Bolzano non mi ricordo che mi abbiano dato un altro numero, ci hanno messo in cameroni che evidentemente erano di adattamento recente per questo tipo di ospitalità, in quanto erano come delle valli, come degli hangar alti, alti, alti e però separati ogni campata dall’altra da dei muri altrettanto alti, che però superavano di poco il livello dell’ultimo castello, senza peraltro arrivare a chiudere tutta questa campata fino alla cima. Per cui c’era ancora spazio, c’era comunicazione tra una campata e l’altra.

Rimasi, come ho detto, circa otto giorni, dopo di che siamo stati caricati, questa volta su un treno molto lungo in vagoni bestiame, con me c’erano nel mio vagone i preti di cui tu mi hai fatto ricordare.

D: Ti ricordi qualche nome?

R: Uno era Camillo Valota dalla Valtellina; l’altro era quello dei Paolini, che era la Cardinal Ferrari, don Paolo Liggeri. Poi vi erano altri due, di cui in questo momento però mi sfuggono i nomi. Credo che nel mio vagone c’erano anche due partigiani feriti, uno era un giovane di cui non ricordo il nome che portava un busto perché era stato ferito in combattimento e aveva avuto una ferita nella schiena, per cui portava uno di quei busti che reggono anche il collo. L’altro era Bracesco, Bracesco che aveva perso una gamba mentre trasportava delle armi, era stato intercettato da parte dei reparti armati della Repubblica Sociale Italiana.

Arrivammo qui dopo parecchio tempo con soste continue, non dico notturne, soste continue perché o vi erano ragioni di bombardamenti, o bisognava dare la precedenza ad altri treni; ogni tanto si sostava a lungo sui binari, neanche nelle stazioni e quindi sete, fame, era fine luglio. I disagi, cinquanta-sessanta persone in un vagone, devono fare i loro bisogni, perché poi l’umanità che deve compiere queste rituali quotidiane necessità sporca … insomma una situazione disastrosa anche se fra di noi la comprensione e la tolleranza era infinita … logicamente nessuno veniva disturbato per queste cose dall’altro, però creava grave disagio, fame e sete, fetori.

Arriviamo di notte a Mauthausen. Una stazioncina che sono quelle stazioncine svizzere, una baracca di legno, tutto lì, ma vediamo che si chiama Mauthausen. Per noi non diceva niente. Con noi invece c’era un avvocato di Milano, Barni, al quale gli è venuta una sincope, perché Barni era stato a Mauthausen prigioniero di guerra della prima guerra mondiale. E lui si è ricordato che Mauthausen voleva dire per lui comunque quantomeno, perché non sapevamo che cosa ci aspettava, ma voleva dire quantomeno fame, sofferenza, sete, dolore.

Voglio qui ricordare invece una situazione particolare. Quando stiamo per arrivare, il treno rallenta, siamo alla stazione; si capisce che siamo arrivati. I preti pensano che se fossero in “divisa” (uso questa parola tra virgolette evidentemente), cioè se indossassero l’abito talare questo potrebbe essere un parafulmine per loro. Allora si mettono tutti con la tonaca, indossano tutti l’abito talare. Si aprono le porte, il buio della notte, qualche luce, e poi vediamo molti uomini con i cani. Scendiamo, saltiamo giù sulla terra – forse era in terra battuta ancora allora – non mi ricordo bene, sul marciapiede di questa stazione. Come vedono costoro i quattro preti con l’abito talare, si avventano sui quattro e li massacrano di botte; li massacrano di botte. Il che comincia ad essere per noi un elemento di riflessione di giudizio su quello che sarebbe stata la nostra condizione. Ci inquadrano, dopo questo episodio, e lì iniziamo una faticosa salita; faticosa in senso generale per tutti, perché fra di noi c’erano anche molte persone anziane, non è che fossero tutti i giovani della Resistenza armata: c’erano patrioti, uomini politici, tipografi, tutti quelli che avevano partecipato alla Resistenza. La strada per il campo KZ di Mauthausen stava in salita, è ad alcuni chilometri, un quattro chilometri circa.

Nel buio della notte, tuttavia non una notte di buio totale, perché un po’ di luna c’era. Io aiutavo a salire un operaio della Breda che non riusciva a camminare e aveva un pacco, una valigia da portare, che non era in grado di portare. Io non avevo nessun pacco né nessuna valigia perché mi avevano preso con gli abiti che indossavo nel gennaio del ‘44 e avevo ancora quegli abiti; non avevo niente. E allora gli portavo il pacco e lo aiutavo a salire.

Era un uomo anche capace di ironia e di spirito. Quando siamo arrivati in vista di questo campo, che cosa ci si presenta? Noi vediamo su questa altura, che si stagliava in questa luce della luna, una sorte di castello enorme, muri poderosi con torrette con sentinelle armate in alto, poi fili spinati, due serie di fili spinati, una visione apocalittica. Questo che era con me, questo vecchio mi dice, parlando in milanese, e io lo ripeto in milanese “Ui, ti” a me “… a me che schi me pare el quartetto dell’Aida”, cioè si immaginava forse la tomba dove Radames, quella coreografia che era negli occhi di chi era appassionato di lirica. Bene arriviamo nel campo di Mauthausen, aprono le porte, siamo ancora molto lontano dall’alba; ci mettono subito a destra, tutti in fila, tutti in piedi e a terra i nostri abiti.

Ci sono alcune ore prima che venga l’alba. E noi siamo lì, qualcuno passa e ci dice che ci toglieranno tutto; io per esempio avevo con me una fotografia di mia madre e chiedo allora a Bracesco “Ci toglieranno tutto ma a te Bracesco le stampelle te le lasciano”, gli dico “Lasciami che io infili sotto l’imbottitura delle tue grucce la fotografia di mia madre, poi me la darai”. E così facciamo, infiliamo lì la fotografia di mia madre. Sta di fatto che quando viene l’alba e arrivano, Bracesco che non aveva una gamba, il giovane partigiano che aveva il bustino, questo vecchio che avevo aiutato a salire e un prete che mi pare fosse di Bologna, un uomo molto grasso, enorme, vengono prelevati, portati giù da una scaletta e noi ci rendiamo conto che non tornano più.

Non sappiamo ancora esattamente che lì c’è una camera a gas, però non tornano più. Non tornano più. Non escono. E quindi cominciamo ad avere l’ulteriore messaggio: vediamo che sono tolti quelli che non sono idonei al lavoro. E poi noi invece veniamo portati giù da un’altra parte, spogliati, ci portano via tutto, rasati, depilati, disinfettati, ispezionati inchinandoci avanti per vedere se per caso avessimo qualche cosa; non avevamo proprio più niente. Con noi c’era Aldo Ravelli. Aldo Ravelli che aveva con sé qualche centinaio di migliaia di lire, in biglietti da mille. I biglietti da mille di quel tempo erano piccole lenzuola, tovaglioli enormi, pezzi di carta. Quando si accorsero questo lui distribuì a tutti noi questo denaro dicendoci di andare al gabinetto. E ognuno di noi andò al gabinetto, per non consentire che questo denaro finisse nelle mani delle SS. Quindi depilati, spogliati, non avevamo più niente. Qualcuno aveva dato il suo orologio a qualche altro che era già prigioniero del campo, comunque ci tolsero tutto. E fummo dopo portati in una baracca cosiddetta di quarantena, che era ai limiti del campo. Erano i giorni nei quali Mauthausen era una macelleria per coloro che erano ritenuti cospiratori nell’azione condotta all’interno dell’esercito tedesco contro Hitler, per cui pervenivano ogni giorno lì numerosi tedeschi prigionieri e li fucilavano. Erano questi i giorni. Quindi all’ulteriore vicenda della condizione della deportazione ai fini del lavoro della morte del campo, si aggiungeva questa contingente vicenda della soppressione dei congiurati del colpo di Stato, nel tentativo di colpo di Stato di luglio del ‘44 contro Hitler.

Ci mandano in questa baracca, ci distribuiscono un berretto, siamo nudi, non ci sono castelli, non ci sono coperte, dormiamo uno a fianco all’altro così fitti che se uno si gira su un altro fianco nella notte si deve girare tutta la fila, tutto un effetto domino da una parte e dall’altra. Non abbiamo spazzolino da denti, non abbiamo cucchiaio, abbiamo però un cappello e siamo nudi. Ci cominciano a dare una zuppa. Una gamella è riempita di zuppa per due persone. Premetto che, a questo punto, non eravamo più soltanto italiani: siamo italiani, jugoslavi, croati, serbi, cecoslovacchi, russi, di tutta Europa in senso allargato, un’Europa allargata. Quindi difficoltà di lingua tra di noi enormi, non abbiamo un cucchiaio e siamo in due a prendere la zuppa e la dobbiamo prendere, ma ci intendiamo fra di noi. La prendiamo a sorsi, però come mangia un maiale, a sorsi: un sorso io, un sorso te, un sorso io, un sorso te. Però abbiamo il berretto. Insisto su questo berretto, perché la storia della zuppa va avanti per tutti i giorni che rimaniamo lì, ma parallelamente si sviluppa una sorta di educazione ad ordine chiuso diremmo con un linguaggio, mutuando il linguaggio militare, perché veniamo inquadrati alla mattina e al pomeriggio fuori dalla baracca, noi nudi in file con il nostro berretto. E per ore il comando è questo: Mützen ab Mützen auf, Mützen ab Mützen auf … su il berretto, giù il berretto, su il berretto, giù il berretto. A questo punto è un ulteriore messaggio che almeno i più avvertiti di noi ricevono, registrano e su quello riflettono, perché? Quali automatismi vogliono indurre in noi? Solamente un automatismo di rispetto verso il superiore quando passa per cui tu automaticamente togli il berretto e non tieni il berretto in testa. E’ un po’ poco, con i loro sistemi basta che la prima volta che non togli il berretto ti danno quattro sberle, o quattro legnate, e tu hai subito capito, poi da quel momento in poi togli il berretto quando passa un superiore.

Ci sono degli automatismi diversi, un automatismo che abbiamo avuto dopo, non conosciamo le teorie di Pavlov e del cane che viene sottoposto a dei processi che determinano degli automatismi. Però ci rendiamo conto che vogliono determinare in noi un annientamento della volontà, dell’intelligenza, della vigilanza, dello spirito. Dopo giorni di questo, siamo nuovamente smistati in altri blocchi di quarantena perché la quarantena dura ancora altri giorni; mi pare che duri una quindicina di giorni nel suo complesso. Fra questa quarantena in questo posto dove siamo nudi col berretto, all’altra quarantena dove invece siamo con gli abiti che ci vengono distribuiti, degli zoccoli aperti, un paio di pantaloni. A me è capitato un paio di pantaloni forse dell’armata polacca o non so di quale altra armata, poi una giubba, io ebbi una giubba verde con tanti bottoni che non so da quale esercito provenisse, e poi una camicia. Altri ebbero quelle cose a righe che conosciamo, ormai l’iconografia è nota. Però vestiti nella maniera più svariata.

Allora passano e assimilano il lavoro. Data la mia specializzazione mi mandano a lavorare in cava di pietra, mentre gli operai vengono mandati in fabbrica, la Steyr. Naturalmente a questo punto ci hanno dato il numero che viene messo sul petto e sui pantaloni, con il triangolo rosso con su scritto “it” per noi e il numero. Il mio lo ricordo ancora oggi, era 82.394 e la prima cosa che capii immediatamente dopo le altre, sulle quali prima mi sono soffermato, è che questo numero io dovevo capirlo in tedesco, perché se non lo capivo in tedesco ogni volta che facevano l’appello prendevo delle gran botte. Allora diventava sì un riflesso automatico, io ricordo il mio numero questo lo conoscevo e poi quando io sentivo questo suono io dicevo “Ich” sono qua. E così facevano gli altri, perché anche coloro che erano addirittura analfabeti il linguaggio del campo lo hanno subito appreso.

E poi si è appreso quel linguaggio del campo che ha consentito … io ricordo sempre che ventuno nazionalità con ventuno lingue diverse si sono parlate, si sono conosciute, si sono comprese, si sono stimate, si sono rispettate, si sono aiutate.

Vengo mandato in cava di pietra e a questo punto forse io posso rapidamente procedere fino alla liberazione.

In cava di pietra rimango il resto del mese di agosto, settembre, ottobre, novembre e dicembre. Poi vado a gennaio a lavorare nel Transportkolonne. Preciso meglio, quelli che trasportano da un’ala all’altra delle fabbriche, la Steyr, portano le casse, fanno il trasporto esterno.

D: Quando parli della cava, tu intendi la cava quella sotto Mauthausen?

R: No, no. Io ho sorvolato un passaggio, perdonami, io nella cava sotto ci sto pochi giorni e lavoro pochi giorni, perché vengo passato poi a Gusen 1; poi il resto della mia deportazione lo passo a Gusen I, alla cava. Alla cava sotto Mauthausen passo i pochi giorni di agosto dopo la quarantena. Dopo di che finita la quarantena io passo alla cava di Gusen 1.

D: Come lavoravate lì alla cava di Gusen 1?

R: Alla cava di Gusen 1 c’erano dei detenuti che operavano, mettevano mine per far saltare la parete. Le mine, i buchi per le mine per creare i fornelli venivano fatti con il martello pneumatico, facevano dei buchi, infilavano della gelatina, della dinamite, sistemandola secondo anche le indicazioni del Meister del lavoro, il Meister civile, e poi si faceva saltare, crollava. Noi nella cava, tranne quei pochi che erano addetti a questo lavoro del creare fornelli e mettere le mine, trasportavamo soltanto il materiale. Allora lo trasportavamo o a spalle individualmente, oppure avendo quella che gli spagnoli chiamavano una barriquella, una barella, delle assi con due bastoni, uno davanti e uno di dietro e si mettevano o più pezzi, oppure grossi massi, ma fino a 30-40 chili si portavano così.

D: E dove portavate queste pietre?

R: Le portavamo all’estremo limite della cava. Vi erano una serie di impianti, di frantoi che frantumavano questi massi in varie grandezze, addirittura fino alla sabbia. L’ultimo frantoio era sabbia. Oppure venivano trasportati perché lì passava la ferrovia. Allora noi li dovevamo portare da dove crollavano a terra, all’interno dell’anfiteatro della cava e li portavamo ai frantoi o al caricamento per i treni.

D: L’esplosione era in uso anche nella cava di Mauthausen?

R: Sì, sicuramente; perché se no come fai? Deve crollare perché se no quelli, non è che c’erano per terra i sassetti quelli che li portavano su dalla scala della morte…

D: Quindi non è che lavoravano in verticale a taglio?

R: No, ho capito quello che dici. Io so come è quello, non so se tu vai a Siracusa trovi le latomie, perché vengono fatte secondo un vecchio sistema, come si fa a Carrara, cioè tu hai dei motori che trascinano e tirano un filo di acciaio che strisciando continuamente secondo una certa collocazione dei due motori su una parete tagliano proprio delle lastre come tagliare il burro con un filo con due prese estreme di questo filo. Qui era per crollo, non c’era taglio; è possibile che questo taglio ci sia stato in tempi più antichi, perché effettivamente quelle cave sono di origine antichissima. Io credo che Vienna viva e sia stata costruita solo perché c’erano quelle cave che, attraverso un trasporto a basso costo rappresentato dal Danubio, poteva utilizzare come Milano ha utilizzato i marmi di Candoglia attraverso il Ticino, attraverso il lago. Così Vienna utilizzava per lastricare la città o costruire queste cave. Però forse allora tagliavano, quando sono stato io facevano buchi e saltavano le rocce. Oppure anche con il picco e pala poi dopo rompevano.

D: Lì a Gusen ti ricordi il tuo blocco e la tua baracca? Quali erano a Gusen?

R: Io ne ho attraversate tre secondo il lavoro che ho fatto. Sono stato alla 31, alla 26, mi pare anche alla 14, e poi da fine gennaio alla liberazione sono stato al blocco B, che era invece fra i blocchi più prossimi all’ingresso del campo.

Siamo al lavoro della cava. Ad un certo punto vengo prima addetto al trasporto dei sacchetti di cemento verso la fine di dicembre che pesavano cinquanta chili ognuno, ma io ero ancora in forza, quindi ce la facevo abbastanza. Trasportavamo i sacchetti di cemento, da dove arrivava la ferrovia si dovevano trasportare, credo fino a dove poi successivamente io lavorai anche per scavare le gallerie. Ho lavorato però pochi giorni in questo trasporto di cemento, dopo di che sono stato addetto al trasporto all’interno delle baracche. Poco tempo perché poi sono stato addetto a scavare le gallerie.

Dopo che abbiamo finito di scavare una galleria abbiamo immesso, scaricando dalla ferrovia e trascinando, le macchine che arrivano dall’Italia perché erano state predate e rapinate in Italia. Alcune anche macchine ancora nuove, non utilizzate, neanche macchine vecchie di impianti disattivati in Italia.

Le abbiamo immesse in queste gallerie. Alla fine di questo lavoro, dopo che avevo lavorato come scavatore e come muratore nella galleria, dopo che avevo immesso nella galleria queste cose, fui trasformato in operaio all’interno di questa galleria.

D: Come è che vi cambiavano lavoro? Venivate chiamati? C’era una selezione?

R: Ignoro totalmente. Cosa determinasse questa scelta credo che fosse determinata dalle necessità loro di lavoro, ma erano ignorate dalla gran parte di noi. Anche se io ebbi una possibilità di maggior conoscenza delle vicende del campo, perché quando arrivai ero ben noto ad alcuni che erano venuti con me. Per esempio c’era un senatore, uno che poi fu senatore del partito comunista di Siena, Vittorio, poi dirò il nome fra poco, che era stato comandante militare a Milano, Vittorio Bardini di Siena; quindi io avevo conosciuto lui a Milano come comandante di Milano, con lui avevo avuto contatti quando ero in Val Brembana per l’organizzazione della Val Brembana, lui aveva combattuto in Spagna. Quando arrivò a Mauthausen lui immediatamente fu recepito nell’organizzazione clandestina del campo politica, perché era conosciuto dagli spagnoli che erano lì nel campo perché era stato in combattimento in Spagna.

Lui mi segnalò naturalmente e allora entrai in un ruolo vorrei dire di giovane partigiano politicamente affidabile che poteva essere introdotto per le cose che minimamente si potevano fare. Anche minimamente nei confronti dei compagni, rimproverarli se cedevano la loro zuppa per avere una sigaretta, rimproverarli se non si comportavano con dignità, se diventano servili. Ricordare a loro quale era il loro dovere di comportamento perché erano dei prigionieri trattati in maniera disumana da chi aveva occupato il nostro paese e contro i quali noi avevamo combattuto. Insomma era più un ruolo etico-organizzativo che non un ruolo veramente ai più alti gradi, proprio perché dove c’era Bardini, dove c’era Francesco Albertini, dove c’erano altri, allora lì invece magari c’erano possibilità maggiori di avere informazioni e di operare nell’ambito della clandestinità del campo.

Allora le condizioni di vita del campo le avranno descritte già tanti, credo sia inutile che le descriva io.

Il cibo. Penso che è inesistente, arriviamo all’inizio, quando arrivo prendono una pagnotta, ogni giorno una pagnotta e viene divisa in sei. Poi dopo un poco viene divisa in otto e via via in una progressione che porta nell’ultimo mese a dividere la pagnotta in ventiquattro. Una pagnotta di un chilo diviso in ventiquattro fette per il lungo e poi … Alla mattina una gabellina di un liquido nero che credo sia, dicevano che fossero zucche abbrustolite, quindi poi bollite per trovare questo estratto dolciastro nero, una specie di surrogato, uno dei tanti surrogati fantasiosi di caffè con una gabellina. Poi a mezzogiorno questo litro di zuppa che era fatta di una brodaglia i cui elementi erano soprattutto costituiti, pochi perché era molto brodaglia, erano barbabietole da foraggio, quelle lunghe bianche. E alla sera invece con la fetta di pane ci davano una fettina di margarina, un dado di margarina, un dado di un insaccato strano, ma insomma vuol dire trenta grammi di roba, 25-30 grammi di roba, poca roba. Questa era l’alimentazione.

Una alimentazione che credo gli stessi padroni di fabbriche delle industrie tedesche si rendevano conto che era insufficiente. Questo io l’ho capito dopo perché veniva distribuita ogni sera a coloro che lavoravano nelle fabbriche, una zuppa che era gialla, ci hanno dato un mestolo di zuppa, potrei dire un quarto di litro di un liquido giallo, non so che cosa ci fosse dentro, so che era giallo e che era un quarto di litro, veniva distribuito soltanto a chi lavorava nelle fabbriche perché era una distribuzione personale a quelli che lavoravano nella fabbrica da parte del padrone. La zuppetta Steyr si chiamava per chi lavorava nella Steyr. Io l’ho capito dopo quando dopo la guerra ho potuto leggere la corrispondenza fra le fabbriche e le SS. I deportati erano proprietà delle SS e quindi le SS li manteneva e riceveva quattro marchi al giorno per darli in affitto come manodopera, come se desse un cavallo per lavorare dodici ore, per le dodici ore di lavoro che questo cavallo o uomo davano loro ricevevano quattro marchi, però dovevano pensare poi a vitto e alloggio, diciamo così. I padroni si rendevano conto che essendo la vita media di questo cavallo-uomo che ricevevano in affitto, in godimento temporaneo, essendo la vita media tre mesi, succedeva che per quindici giorni rendevano poco perché era un apprendistato, negli ultimi giorni rendevano poco perché stavano per morire, allora la corrispondenza tra le fabbriche e le SS era questa: gli ultimi cinque pezzi che ci avete consegnato non sono buoni, hanno durato soltanto due mesi, allora loro per farli durare di più gli davano una zuppetta a carico proprio.

Per solidarietà con se stessi, per avere qualche giorno di più, qualche energia in più a propria disposizione.

Questa era l’alimentazione. Il lavoro durava dodici ore, o dodici ore di giorno o dodici ore di notte secondo i turni, che si potevano fare però soltanto quando si scavavano le gallerie e nelle fabbriche, non si facevano i turni alla cava di pietra. Dodici ore.

Le sevizie vorrei dire erano infinite. In che senso io trascuro per un attimo la violenza individuale del capo-campo, del capoblocco, del capo del lavoro, del kapò, perché c’era un kapò in ogni squadra, in ogni blocco che ti picchiava, derubava il cibo, anche scarso che già c’era.

Trascuro tutta questa violenza, io guardo proprio come regime la violenza globale. Per esempio una volta la settimana ci portavano a fare la doccia. Durante il lungo inverno eravamo nella baracca, arrivavamo dopo il lavoro alle 6 di sera, ci spogliavamo nudi, ci mettevamo fuori dalla baracca nudi, era pieno di neve, attraversavamo nudi il campo innevato per arrivare a metterci in fila dietro altri gruppi che ci precedevano per andare a fare la doccia. Quando uscivi dalla doccia, non avendo né sapone né asciugamano ed eri soltanto bagnato di acqua gelida o calda che si sostituiva di volta in volta, uscivi bagnato, ripercorrevi a ritroso il cammino nella neve camminando nudo per andare alla tua baracca e poterti vestire. Questa era un modo per far morire la gente evidentemente.

Per esempio, a mio avviso, ulteriore tortura collettiva. Questa era collettiva anche se poi si traduceva di volta in volta in una tortura individuale, era quella del Lauskontroll, il controllo dei pidocchi.

Ogni sera questo rito dei controlli dei pidocchi faceva una serie infinita di vittime, cioè non era preso l’individuo: tutto il blocco doveva ogni sera spidocchiarsi. Allora nella incerta luce della baracca tu prendevi la tua camicia e guardavi nelle giunture se c’era qualche pidocchio. Dopo aver ben guardato però tutti passavamo davanti al kapò, il quale seduto su uno sgabello guardava e ogni pidocchio che tu non avevi saputo, prendevi cinque bastonate. Io ricordo quello che è capitato a me nel mese di dicembre, fra Natale e Capodanno, con un freddo tremendo, il campo pieno di neve, mi trovarono cinque pidocchi. Allora il rito qual era? Tutti quei disgraziati che prendevano che avevano trovato i pidocchi li avevano messi in fila da una parte, poi c’era uno sgabello sul quale tu ti dovevi piegare mettendo le mani, e un vice kapò, sotto semivice, quasi aiuto kapò, perché ce n’erano tanti che desideravano farlo, con un bastone di legno lungo ci dava il numero, un pidocchio cinque bastonate, oppure io che avevo cinque pidocchi, venticinque bastonate.

Io avevo visto cos’era accaduto ad altri; poi dopo le bastonate pisciavano sangue, perché cosa accadeva? Dopo la prima bastonata, chi prende la bastonata si inchina per non prendere la seconda. La seconda invece se tu ti chini la prendi sulle reni invece che sul sedere. Io che avevo visto mi presi le venticinque bastonate senza muovere di una frazione di millimetro il sedere, perché volevo essere ben sicuro che quel disgraziato che continuava a picchiarmi con molta solerzia colpisse sempre in quel residuo di parti molli che c’era ancora sul mio sedere. Non volevo che mi colpisse sulle reni perché sapevo che avrei pisciato sangue l’indomani mattina e sarei finito al crematorio subito. Non solo ma finite queste bastonate, le venticinque che presi, mi fecero arrampicare sulla porta esterna della baracca e mi fecero mettere gli abiti sotto la neve sulla cima della baracca. Non solo. Poi mi hanno fatto stare nudo tutta la notte, all’indomani mattina mi hanno fatto uscire nudo, mi hanno mandato a fare la doccia attraversando nudo tutto il campo coperto di neve, sono tornato nudo, mi han fatto ri-arrampicare, riprendere gli abiti, li ho messi e sono andato a lavorare.

Vorrei dire che bisognerebbe superare il ricordo individuale di quella volta che tu hai preso le botte per mettere in evidenza il regime finalizzato alla morte dei campi di lavoro, perché questi erano destinati all’annientamento dell’uomo, non solo attraverso dodici ore di lavoro senza cibo, ma vivendo nelle intemperie senza abiti, vivendo le quotidianità nella sofferenza più disperata e poi su tutto questo si accumulavano tutte le singole violenze individuali.

D: All’interno di queste violenze collettive, rientra anche l’appello? L’appello era una tortura in che senso?

R: Era una tortura perché non ti potevi muovere e dovevi stare lì magari delle ore e per uscire a lavorare e prendere il lavoro alle sette del mattino, la sveglia era alle cinque, tu avevi lì ventimila persone e allora le contavano. E alla sera quando si ritornava c’era un altro appello e tu dovevi portare con te al ritorno anche i morti, ti dovevi trascinare a spalla anche i morti perché l’appello si faceva con i vivi in piedi e i morti per terra, in modo che tornassero esattamente i numeri che erano stati annotati al mattino all’uscita per andare sul posto di lavoro.

D: A Gusen 1 che tu ti ricordi ci sono mai state impiccagioni o fucilazioni?

R: Io per Gusen 1 ho sentito di impiccagioni, sicuramente le fucilazioni del luglio. Ho sentito anche di impiccagioni, io non ne ho mai viste nel tempo in cui sono stato lì, anche se altri dicono che ce ne sono state e io ritengo che possono benissimo esserci state, perché il sabotaggio sul lavoro veniva punito con l’impiccagione.

Vorrei invece ricordare a proposito di sabotaggio un episodio che è accaduto a me personalmente, fortunatamente mi è accaduto negli ultimissimi giorni di aprile, vorrei dire all’antivigilia del giorno in cui poi le SS hanno lasciato il campo.

Io lavoravo in una di quelle gallerie e lavoravo all’imboccatura della galleria e in quelle ultime settimane ero andato a lavorare sui controlli. In che cosa consisteva il mio lavoro? In questa galleria arrivavano delle grandi lamiere che passavano sotto le grandi trance che sagomavano queste lamiere; queste lamiere poi venivano saldate fra di loro in modo che formavano poi una Maschinenpistole, io con una linguetta dovevo verificare che i punti elettrici fossero saldati, se no dovevo rimandare la saldatura. Io non solo non verificavo nessuno, ma avevo un martello di legno vicino, un Holzhammer e davo delle gran martellate. E potevo farlo perché quest’ultima parte era, la galleria era tutta a serpente, a curva, quest’ultima mi consentiva di farlo in quanto nessuno mi poteva vedere. Che cosa è accaduto? Lì lavorava anche Albertini con me. E’ accaduto che una mattina vediamo arrivare lungo la decouville cinquanta, sessanta vagoncini della decouville trascinati, pieni di questo pezzo; arrivano lì con l’ufficiale delle SS e il capo del lavoro di tutta la Steyr, entrano e chiedono chi controllava quei pezzi lì, migliaia e migliaia. Non è mai uscito un pezzo. E dicono che li controllavo io. Arriva il tedesco, io sono lì sull’attenti, lui mi piazza due manrovesci, e io resto sull’attenti, senza neanche portare la mano alla faccia, senza ripararmi neanche. Albertini viene chiamato perché parlava il tedesco. E lui mi chiede perché tutti quei pezzi sono dissaldati. Allora io gli dico: “Qui fa molto caldo, questa galleria è chiusa lì, qui fa un caldo, sudiamo, appena saldati li controllo, vengono portati fuori e lasciati lì fuori, lì fa freddo”. Io penso che questo sia, c’è una differenza termica che determina questo e forse fanno saltare la saldatura. Questo mi guarda, stringe i denti, mi guarda con odio, stringe il pugno e lo alza, poi lo abbassa, esce a grandi passi seguito da tutti gli altri pieno di furore, e io pieno di sudore resto lì. Però non vi meravigliano queste cose perché non erano atti di eroismo, erano coerenza, per chi sa che la vita media è tre mesi e ne ha già fatti tanti di mesi.

Questo episodio ricordo.

Un altro episodio invece che voglio ricordare è quello dei gas.

Alla vigilia sempre della fine, il giorno 21 di aprile del ‘45, io lo sottolineo sempre 21 aprile del ‘45. Era chiaro per noi che la guerra stava per finire perché sentivamo i bombardamenti, passavano tanti aerei da oscurare il sole; evidentemente sentivi che sparavano i cannoni, l’artiglieria di campagna, sparavano nei dintorni, passavano lì, quindi sentivi che ormai erano arrivati lì, non era finita la guerra. Il 21 ci riuniscono sulla piazza dell’appello di Gusen, passa il capo-campo, il comandante delle SS con alcuni ufficiali, i comandanti dei blocchi ecc., e uno per uno li tirano fuori, ne tirano fuori seicento, non uno, seicento. Ne tirano fuori seicento, tra gli altri c’era Arialdo Banfi, non Arialdo, il fratello di Arialdo Banfi, l’architetto Banfi che era insieme a Rogers Peressutti, il grande studio architettonico di Milano. Momi Banfi.

Viene lui, noi cerchiamo attraverso qualche trucco di farlo rientrare, di fargli cambiare collocazione. E lui era talmente consapevole che non avevano altro approdo che quello che non ha voluto tornare indietro, è rimasto lì. Li gasano tutti nella notte, e li mettono in una baracca che svuotano sigillandone le porte e le finestre con della carta incollata.

Ecco io credo che questo sia emblematico di tutto: tu puoi parlare finché vuoi, di tutto quello che è stata la deportazione, ma quando tu dici che il 21 di aprile questi uomini fanno una selezione per gasarne seicento alla vigilia della loro fuga dal campo, questo dà la misura della criminalità del totalitarismo nazista e fascista.

D: Il giorno della liberazione dove ti trovavi?

R: Io ho sentito mille volte questa domanda: “Chissà che gioia hai provato!”

Io ero a Gusen, ero uno dei pochi che stava in piedi ancora, io non ho provato questa gioia. Non so quale perversione, quale strana vicenda era andata maturata in me, ma dentro ero devastato, avevo visto troppa gente morire. E vorrei dire che prima io ne avevo visti morire troppi in guerra, avevo visto tanti compagni giovani, avevo avuto due grosse battaglie in Croazia dove erano morti centinaia e centinaia di uomini del mio reggimento, giovani, miei compagni di corso. Avevo visto troppa gente fucilata, impiccata, ho visto troppa gente morire a Mauthausen assassinata. Ero contento non ero felice, ero contento, ero triste.

D: Come te la ricordi la liberazione?

R: E’ esattamente il pomeriggio del 5 di maggio. La liberazione è avvenuta perché si è aperta una porta, è entrata una camionetta, c’erano su due persone, non è che è arrivato un reparto, è arrivata un camionetta con due persone, fotografie, qualche parola, credo che uno fosse un italo-americano per cui credo masticasse qualche cosa del dialetto antico della mamma. E poi dopo se ne sono ripartiti, sono andati via. Quello che è accaduto nel campo credo che sia fatto noto.

Giustizia è stata fatta.

E anche qui vorrei fare una notazione, perché mi fu chiaro in quel momento. A mio avviso chi definisce quell’ecatombe che c’è stata una vendetta, vuol dire che non ha capito nulla della vita e vissuto inutilmente. Perché? Furono ammazzati i kapò, furono ammazzate le spie anche all’interno della nazionalità, furono anche ammazzati, linciati crudelmente se vogliamo, però nel campo da tre giorni i guardiani non erano più le SS, erano fuggite, erano arrivate delle truppe territoriali, dei vecchiotti che da tre giorni stavano lì. Nessuno di questi ha ricevuto neanche uno schiaffo. Perché sottolineo questo? Per dire che quando questa violenza si scatena non è una violenza cieca, è un fenomeno vorrei dire fisico, una reazione pari e contraria, i kapò meritavano la morte, le spie meritavano la morte. Questi non meritavano neanche uno schiaffo perché non avevano dato a noi neanche uno schiaffo. E così è stato.

D: Gianfranco il ritorno?

R: Il ritorno è molto divertente. Io ho avuto un ritorno particolarissimo. Perché mi trovavo una sera a passeggiare fuori da Gusen, proprio fuori dal campo, era credo la fine di giugno, era passato quindi già parecchio tempo dal 5 di maggio. Noi eravamo stati lì, avevamo cercato di aiutare quelli che non avevano potuto, che non camminavano più, quelli che dovevano essere ricoverati in ospedale, quelli che dovevano essere aiutati per mangiare. Noi abbiamo fatto il nostro dovere fino all’ultimo nei confronti dei nostri compagni. Ma oramai la fase drammatica era anche scomparsa perché la fase successiva alla liberazione … noi per dieci, quindici giorni abbiamo avuto morti a non finire, perché mangiavano ciò che non potevano più mangiare perché erano state distrutte anche le strutture preordinate per digerire il cibo, le strutture fisiche. Ma superato questo, ormai la situazione era più quieta, gli altri erano negli ospedali quelli che ancora erano molto malati e andavano organizzandosi i trasporti. Lì io passeggiavo con Ravelli e con Belgioioso, davanti al campo, vediamo arrivare un’autolettiga dell’armata americana. E arriva vicino a noi, scende un soldato e ci chiede se conosciamo Ludovico Belgioioso. “E’ questo qui”, che era lì con noi; con noi c’erano anche altri due, credo uno fosse Emanuele Flora e l’altro Magini di Roma, non mi ricordo come si chiami di nome. Allora scende un altro ufficiale, italiano questo, che era Cicogna, il cugino o il cognato di Belgioioso che era nell’armata degli alleati, perché aveva risalito l’Italia nei reparti italiani e con gli alleati. Avendo sentito la radio, perché noi eravamo riusciti a far sentire alla radio chi erano i presenti superstiti in Gusen, aveva sentito che in Gusen era superstite Ludovico Belgioioso. Lui si è fatto dare un’autolettiga dal suo comando e con i soldati è venuto fino a Gusen e ha imbroccato proprio noi. A questo punto su quella autolettiga sono saliti i cinque che eravamo lì: allora Ravelli, Belgioioso, credo Emanuele Flora, il Maggini ed io, e siamo arrivati in Italia così.

D: In questi cinquantacinque anni che sono trascorsi dalla liberazione, quante volte sei stato intervistato, raccontando però come hai fatto oggi la tua storia?

R: Questa è la prima volta che la racconto, perché io in questi cinquantacinque anni … io sono prigioniero di uno schema ideologico-culturale, vado nelle scuole, parlo, ecc., non ho mai raccontato le mie vicende, ho sempre e soltanto raccontato la storia dei processi che hanno determinato il sorgere del nazismo, il crearsi all’interno del nazismo per repressione e per manipolazione della cultura di uomini che finivano per essere convinti dell’intrinseca necessità di eliminare altri uomini inferiori. Ho sempre parlato dell’organizzazione di sterminio, ma della mia storia inserita in questo quadro non ho mai parlato.

D: Due cose riferite a Gusen 1: ti ricordi di Don Sordo?

R: Don Sordo era a Bolzano. Io però non l’ho più visto a Gusen e a Mauthausen; so che è morto con noi il fratello di lui che era un medico dentista, è stato a lungo anche un dirigente della nostra associazione. Don Sordo lo ricordo però soltanto per Bolzano.

D: L’altra cosa come a Gusen 1 c’erano queste fabbriche della Steyr, della Messerschmitt, ma voi come facevate a sapere i nomi di queste aziende? C’era scritto da qualche parte?

R: Io non so risponderti se c’era scritto da qualche parte, perché il mio metodo di dire le cose ricordandole è di vedere se vedo una scritta o se vedo Messerschmitt, però quello che vedo sono gli aeroplani. Quello che vedo sono le Maschinenpistolen, quello che vedo è la cava, quello che vedo sono le macine della cava, quello che vedo è la ferrovia, quello che vedo sono le baracche, però noi sapevamo che era la Messerschmitt quella di quegli aeroplani lì e sapevamo che era la Steyr quella che faceva le Maschinenpistolen. Non escludo che ci fosse anche scritto, ma non ho memoria di grandi visibili cartelli.

D: L’ultima cosa, vicino a Gusen 1 c’era il campo di Gusen 2

R: Sì, era proprio contiguo e separato da noi da un enorme spazio vuoto dove però venivano seppellite le patate; il campo era contiguo si può dire, non realizzava una vera e propria soluzione di continuità questo spazio ampio, anche perché aveva una sua funzione specifica: seppellivano sotto le patate che poi venivano usate per l’alimentazione.

D: Ti ricordi quando Gusen 2 è stato abbattuto?

R: Lo abbiamo bruciato anche noi. Gusen 2 lo abbiamo svuotato di tutti i cadaveri facendoci aiutare dalle popolazioni che insomma non ti dico, i carri, lì noi siamo intervenuti sulla popolazione, imponendo alla popolazione di venire a prendere questi cadaveri spostarli con i carri e poi noi per timore di epidemie lo abbiamo bruciato, perché anche da noi vi era stato un periodo nel quale i forni crematori non avevano funzionato e i campi erano pieni di morti. Lì quotidianamente ne morivano decine e decine e decine per cui si formavano delle cataste di morti.

Gusen 1 non è stato bruciato, Gusen 2 è stato bruciato.

Rigouard Adriano

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Adriano Rigouard. Sono nato a La Spezia il 27 aprile 1925. A La Spezia sono stato arrestato per attività in una squadra SAP, il 17 settembre del 1944 e portato presso la caserma del 21° Reggimento Fanteria. Qua sono stato per due mesi, ci sarebbe a lungo da parlare perché c’erano già altri prigionieri, tutte le notti dovevamo salire sopra per gli interrogatori, ci hanno dato un po’ di botte, ma il più che era tremendo era vedere ritornare gli adulti; dal lunotto che avevamo sopra la nostra porta noi ci schiacciavamo contro il vetro per vedere e tornavano giù delle persone che erano tutte tumefatte. Io me le rappresento sempre come una polpetta di carne tritata, l’unica cosa che si vedeva era il bianco degli occhi, perché gliene facevano di tutti i colori, prima li picchiavano con sacchetti pieni di sabbia, gli davano …

Mi ha arrestato la Guardia Nazionale Repubblicana in seguito alla dichiarazione sotto tortura del nostro capo-squadra. Questo l’hanno picchiato, l’hanno torturato e ha fatto i nomi degli appartenenti alla squadra. Pensate che noi al mattino siamo andati dove c’era la sede, abbiamo portato via i manifestini e due pistole che c’erano, e poi ce ne siamo stati tranquillamente a casa, ingenui senza che nessuno ci abbia aperto un po’ le orecchie a dire “andatevene”. Lì sono state mancanze di chi avevamo al di sopra. Quindi al mattino del 17 settembre hanno circondato il quartiere del Favaro e ci hanno presi tutti. Ci hanno rinchiuso al 21°, poi abbiamo assistito a queste cose che già ho iniziato a dire. Molto probabilmente loro si sono accorti subito che noi eravamo l’ultima rotella e non è che ci avevamo sottoposto a grandi torture, ma gli adulti li hanno ridotti proprio in maniera inumana: con la scossa elettrica gli pungevano i testicoli, gli facevano dei lacci e li sospendevano per i testicoli, gli mettevano una manichetta in bocca e aprivano l’acqua gli facevano la pancia in questa maniera. Io voglio dire questo, che oggi sento tutto il dovere di avere delle scuse sopportato dei sospetti verso coloro che mi hanno fatto arrestare, perché mi sono reso conto che la resistenza alla tortura è soltanto nei bei libri e nei bei film, non è possibile resistere alle torture, c’è un limite. Se sei capace e se ti danno il tempo di ucciderti, se no non c’è niente da fare, i tormenti sono così tanti che non puoi, anzi poi ti dirò il resto.

Dunque ci hanno portato al 21° e col passar del tempo questo carcere si è riempito, prima eravamo in otto, poi piano si è riempito. Hanno messo nel carcere, nella cella insieme a noi, delle persone anziane che soffrivano di disturbi intestinali. Insomma per farla corta questi hanno dovuto mangiare dove prima avevano fatto i loro bisogni, insomma è un quadro che non è facile descrivere. Con tutto ciò, dopo queste varie traversie, il 4 di novembre ci hanno imbarcato su delle moto zattere e ci hanno portato al carcere di Marassi di Genova, ci hanno consegnato alle SS. Le SS hanno ricominciato da capo, però senza sapere nemmeno i motivi per cui eravamo stati arrestati.

D: Scusa Adriano, tu sei stato accusato di cosa in particolare?

R: Prima ero stato arrestato per appartenenza alla SAP, poi dalle SS ero stato accusato di aver ucciso un colonnello della Guardia Repubblicana, di aver partecipato a fare saltare una batteria, tutte cose che sono successe quando io stavo in carcere, quindi proprio erano al di fuori di … Però avveniva questo: loro hanno preso tre persone, fra le quali anche un sacerdote, e devo dire, lo devo dire con tutto quello che ho detto prima, un certo Don Stretti li han presi e li hanno torturati ben bene, poi ci portavano davanti a loro e questi dovevano sostenere l’accusa. Allora a me mi han detto “Tu hai fatto questo, hai ucciso il colonnello” e cadevo dalle nuvole. Il prete diceva: “Ma ti ricordi, te l’ho data io la pistola, le armi te le ho date io?”. Io dicevo di no, allora cosa hanno fatto? Mi hanno fatto inginocchiare, un pezzo d’uomo delle SS, sulle cose delle seggiole, c’erano quelle sbarre che tengono assieme le seggiole, mi ci ha fatto inginocchiare sopra e poi quando sono stato inginocchiato mi ha preso a seggiolate. Poi c’erano altri due testimoni che anche loro, sotto la minaccia della tortura, dovevano confermare quanto detto. Adesso in tutto questo, io non ero un giovane di grande resistenza, e dico anche la verità non avevo ancora acquisito quei grandi ideali che mi avrebbero portato a sopportare, però chi mi ha fatto crollare le braccia, il sistema nervoso, è stato il prete, perché lo conoscevo bene, era stato lui che mi aveva educato a certe cose. E allora, dato che poi prima di me molti ne erano passati, non sapevano mai di cosa si tratta, ho preso e ho firmato. Quello che ho firmato era la mia condanna a morte, perché accettavo quello che loro …

Per questo poi ho dovuto passare tutte le altre persone, ed è venuto fino all’8 dicembre. L’8 dicembre al mattino presto ci hanno caricati su un camion a rimorchio, ci hanno legati a due per due, la mia mano destra con la destra dell’altro, insomma intrecciati, ci han caricati su questo camion, era la mattina di dicembre, 8 di dicembre, pioveva, era freddo e su questo camion scoperto siamo partiti e siamo arrivati fino a Padova. A Padova ci hanno messo su un pullman che in mezzo aveva il soffietto, aveva il soffietto e mi pare che prima siamo passati da Milano, han caricato altra gente, e poi abbiamo proseguito per …

Su questo pullman qualcuno aveva cominciato a tagliare e anche qua qualche persona si è gettata, però dietro c’erano le macchine, con i fari, han visto e sono subito intervenuti con la loro maniera, avevano la bomba a mano e dove battevano battevano, ci hanno rovinato insomma in sostanza, ci hanno fatto un sacco di ammaccature. Alla bell’ e meglio siamo arrivati a Bolzano. Dico la verità ormai quando siamo arrivati faceva giorno, trovarmi in mezzo a quel panorama, all’aria aperta, e vedere, mi sembrava, dopo tre mesi che noi non ci portavano nemmeno a prendere l’ora d’aria come fanno ai soliti carcerati, dopo tre mesi sempre lì, poter respirare e poter vedere fuori mi sembrava una cuccagna, di essere in un altro paese. Poi mi ricordo che là eravamo tutti italiani, il capoblocco era italiano, è stata una lieve parentesi, levando il mangiare che era sempre scarso, però è stata una buona parentesi ecco. Mi ricordo che alla sera ci arrampicavamo attraverso i castelli, ci si andava ad affacciare sul muro perché di là c’erano le donne, e queste a volte passavano magari qualche pezzo di pan tostato, del pane secco, qualche drappo e persino dei ferri da portarsi durante il viaggio se qualcuno … E lì a Bolzano siamo stati cinque giorni.

D: Ti ricordi in che blocco eri a Bolzano?

R: Credo che sia il blocco E; se ricordo bene era il blocco E, era il blocco dove c’erano i perseguitati politici diciamo, il triangolo rosso.

D: Ti ricordi nomi di altri tuoi compagni che c’erano con te?

R: Sì, c’erano i miei compagni. C’era Lubrano Franco, Angeloni Alfredo, Tartarini Bruno, poi adesso non me ne viene altri. Luciano, non me ne ricordo altri.

D: Tu sei stato cinque giorni nel Lager di Bolzano e dicevi che avevi visto delle donne. Ti ricordi se hai visto anche dei sacerdoti nel Lager di Bolzano?

R: Io penso che nel Lager di Bolzano siano arrivati quei sacerdoti che sono partiti con me da La Spezia, però non sono sicuro, non sono sicuro perché non so se poi a Genova loro hanno seguito la nostra via, non ne sono più tanto sicuro.

D: Adriano, e dopo cinque giorni che sei rimasto lì a Bolzano, nel Lager di Bolzano cosa è successo?

R: Nel Lager di Bolzano niente di speciale, la conta al mattino e alla sera, la faccenda di imparare a mettersi e a togliere il cappello in maniera perfetta, tempi perfetti, qualcuno che si è meritato le venticinque bastonate di punizione e la cellula di garanzia, la cella di rigore. Però non tanti particolari, è stato un periodo troppo breve.

D: E poi cosa è successo?

R: Nel pomeriggio del 13 di dicembre per Santa Lucia, ricordo le date perché le ho sempre collegate, ci hanno caricato sui vagoni.

D: Dal campo dove vi hanno portato per caricarvi sui vagoni?

R: Dal campo siamo andati penso alla stazione, però era la stazione merci, mi ha dato quell’idea, perché so che avevamo seguito un torrente e avevo visto uno di quei capannoni che sono di solito negli scali merci, negli scali merci delle stazioni. Ci hanno caricato abbastanza stretti in questi vagoni e nel mezzo del vagone c’era cenere e trucioli per i nostri bisogni. Ci avevano dato la nostra razione di pane, era non so un etto di pane al giorno, che ce la siamo mangiata andando alla stazione mi sa e poi ci hanno rinchiusi dentro, bere niente. Senza bere.

Quando siamo stati sul vagone, io penso sull’imbrunire, siamo partiti. Ed ecco che sono saltati fuori questi scalpelli, questi martelli e sono nati anche dissidi fra di noi, perché io ero ragazzo ma mi rendevo ben conto che com’ero conso, com’ero messo, non sapendo la lingua, non sapendo nemmeno dov’ero, non sarei andato un gran che lontano ecco perché … Ma altri, infatti non so come qualcuno è riuscito ad aprire, come si chiama, il portellone, il ferro che chiude il portellone, lo ha aperto, hanno spinto il portellone e in cinque sono fuggiti. Adesso io questo l’ho raccontato così di seguito, però non so quanto tempo, da quanto tempo eravamo già in viaggio. Se ne sono accorti, sono saliti sul vagone, mi han picchiato col calcio del fucile. Ricordo che dove ci eravamo fermati, perché ci hanno portati in un binario morto, c’era una cassa fatta di strisce di legno, han preso queste strisce che avevano sopra dei chiodi, e dove han battuto, han battuto, hanno rovinato anche un occhio ad uno, e ci han conciato ben ben male. Poi io non so quanto siamo stati fermi, che poi fra parentesi anche questa stanchezza, questa fame, questa sete perché il nostro vagone era foderato di lamiera. Quindi noi non ci rendevamo nemmeno perfettamente conto se era giorno o se era notte, solo magari qualche fessura dal portellone ci poteva dire che era giorno. Poi eravamo così stretti che non potevamo stare, dovevamo stare o tutti in piedi o tutti seduti incastrati l’uno nell’altro, senza cercare di andare a finire nel mucchio delle feci.

Quando siamo stati, so che hanno gettato dentro un secchio di patate, che io non lo so se ho mangiato, se ne ho mangiato non ricordo più perché la ressa è stata tanta. Poi io dico la verità, io non so se son rimasto sempre lucido, se dentro quel vagone sono sempre restato in lucidità. E il colmo dei colmi, che dopo il fatto della curva han messo un soldato di guardia sopra il mucchio delle nostre feci.

Siamo arrivati a Mauthausen, quello che era Mauthausen, era buio noi non ce ne rendevamo conto né dove andavamo e né cos’era. Quando siamo scesi, in faccia avevamo un dito di patina gialla, di anidride carbonica. Poi dimenticavo di dire: dalla sete avevamo leccato il ghiaccio che si formava nel nostro fiato nella parete di zinco, di lamiera. E siamo arrivati, ci hanno messo in colonna; sì sì perché là andava tutto a bastonate, prima picchiavano e poi dicevano il perché, insomma ci han messi in colonna e siamo partiti, a piedi. Io non so quella strada come l’ho fatta perché quando l’ho rivista quanto era lunga ho detto “a me non sembrava di aver fatto tanta strada”, o dormivo e ho camminato o ero fuori coscienza, fatto sta che sono stato meravigliato quando ho visto, poi era anche in salita, faticoso. Per fortuna io bagaglio non ne avevo. Insomma quando siamo arrivati, lì ci spalancano i cancelli, entriamo dentro. Ai lati dell’entrata c’erano due file di persone con bastoni, nerbi, manici di piccone, di badile, gomma, i fili dell’alta tensione, e cominciano a menar botte, giù botte, giù botte, giù botte, picchia di qua, picchia di là. E poi ci hanno spiegato che quando si passa davanti alle SS ci si scopre. Noi eravamo coperti di stracci, non avevamo il cappello, avevamo qualcosa giusto che le donne ci avevano passato lì a Bolzano, un pezzo di tela ecco. Ci hanno spiegato e … Poi ci hanno portato davanti a una baracca, ci hanno fatto schierare e da là, dalle cantine sotto, c’era qualcuno che diceva: “Se avete qualcosa datecelo perché tanto vi tolgono tutto, vi tolgono tutto”. Lì siamo stati un po’ increduli, poi la cosa si è ripetuta. C’era della gente che era salita a Milano che in quelle valigie aveva di tutto; allora abbiamo tutti gettati, chi uova soda, la magnesia San Pellegrino, qualche pezzo di salame, tutti abbiamo cercato di ingoiare qualcosa. Poi sono arrivati, la squadra addetta, ha detto: “Spogliatevi tutti”. Era in piena notte. “Spogliatevi nudi e lasciate tutto lì, lasciate tutto lì a terra”. Avevamo delle perplessità … “Ma questi qua cosa dicono?”. Qua c’era neve ghiacciata per terra. Io andavo col pensiero a mia madre che mi diceva togliti di lì che c’è corrente, la corrente d’aria e questi mi vengono a fare spogliare bello nudo. Fatto sta che poi han cominciato … ci siamo spogliati e abbiamo aspettato poi il nostro turno, siamo andati a fare la doccia, un po’ d’acqua calda, un po’ d’acqua fredda, poi ci hanno tutti pelati, dalla testa a tutti i peli che avevamo sul corpo, poi ci hanno disinfettato con della creolina, che sembrava di essere delle torce accese. E poi ci hanno passato della biancheria, era una commedia, a chi han dato le mutande a bambola, a chi quelle della nonna, a chi il camicione da notte. Insomma era tutta roba che loro avevano accumulato. E a me m’era toccato persino un paio di mutande lunghe e la camicia abbastanza buona. Le scarpe, ecco le scarpe … a me non se sono accorti, avevo gli scarponcini della divisa da marinaio, loro non se ne sono accorti che m’erano rimaste ai piedi. Adesso mentre passo davanti per uscire c’era uno lì, mi ha preso, e mi ha detto: “Te come va?”. Dato che come ho detto ero pieno di scabbia, e avevamo avuto i pidocchi a non finire, e la mano dove mi avevano messo la manetta l’aveva messa così stretta che mi era gonfiata. Allora m’han preso e in piena notte cammina in mezzo a queste baracche appena illuminate dalla luce che c’era in tempo di guerra, la luce con l’oscuramento, mi han fatto capire che andavamo al Revier, all’ospedale. E io non volevo, io volevo restare con gli amici, non ero ancora cosciente, io volevo restare con i miei amici. Questo mi ha dato un paio di frustate e mi ha portato via. Adesso quando siamo arrivati davanti ad ogni baracca c’era un mucchio di morti. Io non so come spiegare questo, se è un brutto sogno, passa la baracca, poi erano ben sistemate come fossero state le traverse della ferrovia, ogni baracca … Finché sono arrivato al blocco 8 dove c’erano gli infettivi. Mi buttano dentro, e come sono arrivato uno mi è saltato addosso e mi ha tolto le scarpe e mi ha dato un paio di scarpacce vecchie. Mi ha dato scarpacce vecchie e poi mi ha portato in un castello dove erano già in tre, c’erano già tre persone, infatti quello lì era sporco, era gente che aveva la dissenteria, era appena appena appena pulito con lo straccio, con qualcosa. E mi ha detto “Mettiti lì”. Io che esitavo ad andarci, quegli altri che non mi ci volevano perché erano già in tre, erano stretti; insomma poi ho detto ormai ero fuori coscienza, ormai non lo so se ero ancora lucido, mi sono sdraiato lì. Poi al mattino è venuto il medico, mi ha guardato, poi mi hanno tutto pitturato con della roba per la scabbia, per curarmi la scabbia e sono stato lì. Sono stato lì e ricordo che lì ho passato il Natale, mi han dato un pane intero, un pane tedesco intero. Però io ero sempre a calpestare che volevo andar via, volevo uscire, volevo andare dagli amici.

D: Scusami un attimo Adriano, dopo la vestizione ti hanno dato anche un numero di matricola?

R: Sì, ma la vestizione io non l’avevo ancora avuta, avevo avuto solo una camicia, la camicia e le mutande, perché all’ospedale non aspettava niente di più, chi era all’ospedale  camicia e mutande e basta, e scalzi. Poi, ecco quando si andava dal medico, anche se il mio malore fosse stato nel dito qua, bisognava andare nudi. Quindi l’ospedale era molto pericoloso perché s’era sempre sotto la sorveglianza della selezione, era pericolosissimo. E poi giusto questa mia tendenza a voler andare a riunirmi con gli amici. C’era un francese che mi diceva “Guarda stattene qua, cerca di star tranquillo e stai qua”, ma io non capivo perché quello mi diceva queste cose. “Stattene tranquillo”, mi tranquillizzava; poi giusto ci han dato questo pane, due sigarette a Natale, mi ricordo che han fatto persino l’albero di Natale con delle figurine, perché c’erano mille contraddizioni no, con le razioni di pane e di zuppa che ci toglievano a noi i Kapò facevano la festa, si son fatti il Natale. Passato il Natale secondo loro la scabbia era guarita e allora mi han portato, mi han fatto fare una doccia ghiacciata, che mi è venuto il mal della tarantola, quanto ho dovuto saltare per levarmi il freddo. E poi mi è venuto in mente di farmi vedere che qua dove avevo dormito sul tavolazzo mi si era infiammata, gliel’ho fatto vedere al dottore allora mi han cambiato reparto, mi han portato in chirurgia. Sono andato là, mi hanno tagliato, mi hanno tagliato dove c’era la suppurazione, è stata la mia fortuna. Lì ho trovato un medico polacco che ha fatto di tutto per trattenermi lì più tempo possibile. Però il tempo è passato e allora son dovuto uscire e mi han portato alla quarantena. La quarantena la chiamavano così, ma per lo più era come un magazzino non di uomini, un magazzino di pezzi, perché noi eravamo Stück, ein Stück, due Stück.

Quando si andava nella quarantena avevamo diritto ad avere una giacca e un paio di pantaloni, che non erano a righe come si vede nelle … erano per lo più vestiti militari che nella schiena, nella giacca c’era una finestra con le righe zebrate, una riga rossa, altrettanto era nella gamba dei pantaloni, con la riga rossa, poi sulla giacca il numero, il triangolo rosso e il numero. E dico la verità che non mi viene più in mente dove mi hanno immatricolato. Penso che sia stato lì, però non me lo sono mai più ricordato. Mi avevano dato un numero di latta, legato col fil di ferro.

Adesso cosa avveniva? Che in questi blocchi di quarantena erano sempre al completo, erano pieni, perché arrivava anche gente da fuori; per dormire bisognava mettersi a pesce in scatola: testa e piedi, testa e piedi, testa e piedi, insomma a formare un unico tappeto a completare tutto il pavimento, che non rimaneva niente per poter, un corridoio per poter riuscire a camminare non c’era. Quando uno doveva uscire doveva camminare sopra gli altri. Allora era un lamento, era un lamento, chi bestemmiava in tutte le lingue, ecco che poi il babele lì era che c’erano cento paesi, gente di cento paesi, ognuno imprecava nella sua lingua. Poi anche lamenti, perché sai metterci un piede nello stomaco o in un occhio, insomma … Allora si svegliava il capoblocco, “Alle raus”, tutti fuori nella neve in piena notte. Adesso sulla porta del blocco di quarantena c’era un certo numero di zoccoli, chi ce la faceva metteva quelli, che poi non è che ci fosse tanta differenza perché erano inzuppati di neve, bagnati. E gli altri restavano scalzi. Ci si attaccava fra di noi, ci si sfregava, ci si massaggiava, e poi facevamo i covoni, ci si ammucchiava, ci si fiatava nella schiena uno con l’altro con la speranza che altri si ammucchiassero, insomma si veniva a fare … E poi sempre cercare di saltare sui piedi perché erano scalzi, evitare di farceli congelare. Finché non girava meglio al capoblocco si doveva restare lì.

Adesso alla sera quando si andava, prima di sdraiarsi, toglievano le ante delle finestre. La finestra spalancata: levavano l’anta, chi dormiva sotto aveva tutta l’aria addosso. E c’è stato anche un poverino che era lì sotto a dormire e una notte ha detto “Ma perché io devo andare a camminare sopra gli altri, esco dalla finestra”. La sentinella dalla garitta lo ha fulminato.

E poi bisognava tirare avanti. Al mattino bisognava andarsi a lavare nel Waschräume, era una baracca apposta, che era sopra un poggio, c’era un poggio e sopra c’era questa baracca. Per salire c’erano degli scalini scavati nella terra, che però venivano sempre riempiti dalla neve. Quindi salire lassù era un’impresa. Poi quando eravamo nella baracca trovavamo là tutti quelli che durante la notte erano morti, li buttavano nel Waschräume.
Certo poi a scendere era più facile, ci si metteva col sedere per terra e si tornava. Insomma da lì siamo andati avanti non so quanto sarà stato, quindici-venti giorni e poi un bel giorno, “antreten”, han chiamato un numero.

D: Il tuo numero te lo ricordi?

R: In tedesco non lo ricordo più però, il mio numero era 114.154, l’ho in tasca.

Insomma hanno chiamato i numeri e era anche un’impresa, perché io dovevo, per lo più mi ricordavo che avevano chiamato in anticipo, usavo la memoria, che avevano chiamato in anticipo poi toccava a me. Insomma mi han chiamato e mi han dato un paio di zoccoli che nella metà si aprivano, facevano da cerniera. Ci han messo lì, saremmo stati un centinaio di persone, ci han portati nella piazza principale del campo, mi hanno spiegato che i blocchi di quarantena facevano campo a parte diciamo, quattro o cinque baracche fra quattro mura che poi portavano tutti in questa piazza.

Ci hanno messo in fila e ci hanno portato a Gusen. Gusen 2 a piedi, siamo andati a piedi, che non è molto lontano, fatto in condizioni, ma come eravamo già conci noi non è stata un’impresa facile. Ci hanno portato a Gusen, mi hanno mandato alla baracca 27, e poi bisognava prendere il lavoro. Adesso il lavoro a Gusen non era lì sul luogo dove c’era la baracca, bisognava prendere un treno che ci portava sotto le gallerie di Sankt Georgen. Allora bisognava far la conta del mattino, poi metterci in fila per cinque, sfilare davanti alla SS che contava, poi salire su una piattaforma, che era abbastanza grande, da contenere le persone che poi sarebbero state nel vagone. Allora nel tempo che il vagone iniziava e finiva di passare a fianco a questa piattaforma, noi dovevamo riempire il vagone. E lo stesso, al contrario, all’arrivo, però il treno camminava a passo d’uomo, ai fianchi c’erano le SS col lupo e il faro se era notte perché facevamo una settimana lavoravamo di giorno e una settimana di notte.

E poi da lì dove ci lasciava il treno bisognava correre alle gallerie. Lì prima di entrare nelle gallerie torna in fila a ricontarci, e poi il primo lavoro che mi hanno dato mi hanno messo assieme ad un tedesco a fare dei collegamenti elettrici sui motori degli aerei. Ma io il tedesco non lo capivo, il mestiere non lo conoscevo, allora questo ha un po’ brontolato poi mi ha mandato via. Allora mi hanno messo a mettere lo schermo di protezione al bidone della benzina, come si chiama?

D: Un paracolpi?

R: Era la corazza che proteggeva la benzina, il serbatoio della benzina. Questa era una lastra abbastanza grande, pesante, bisognava portarla alla mola a smeriglio e fargli degli scassi uno per parte, poi bisognava dargli una certa inclinatura col martello e poi farli brasare per chiudere la fessura e poi metterli sotto e avvitarli; c’erano un bel numero di viti da mettere. Queste viti molto spesso non combaciavano. Allora ci voleva un punteruolo apposta, col martello e mettere le viti. Adesso questo lavoro andava fatto dal basso rivolto verso l’alto. Questo lavoro mi ha demolito, mi ha distrutto, tanto è vero che ormai mi ci voleva tutta la mia forza, tutta la mia volontà per lavorare. Poi avveniva anche questo: se si andava al gabinetto in galleria c’era il guardiano, il Kapò, che passava lì del suo passo, ogni volta che passava lasciava cadere un colpo con ‘sto filo di piombo, il filo di rame fasciato di piombo, bisognava essere disposti a farsi rompere la testa o un orecchio perché bisognava prendere il colpo. E allora io preferivo portarmela al campo, senonché ormai ero ridotto in una maniera che non potevo più star seduto, perché ormai c’erano soltanto le ossa, le ossa dell’anca. Non avevo la forza di stare in piedi, mi dovevo appoggiare sulla carlinga. E un mattino, dopo aver cercato di resistere, di andare al gabinetto, in quell’attimo giusto ero seduto, è venuto impellente perché poi là che faceva più terrore era la diarrea, la diarrea era il terrore. Ho detto “Vado, bisogna che mi decida di andare”, nello sforzo di alzarmi mi sono tutto sporcato, sono diventato lo zimbello di quattro o cinque che mi hanno gonfiato di botte, insomma. Poi alla bell’ e meglio sono riuscito ad andar fuori, mi son levato le mutande l’ho gettate via, ho cercato di ripulirmi, e sono ritornato sul lavoro. E devo dire anche questo: ho avuto la fortuna che mentre finivo io, finiva anche la guerra, anche loro non erano più, ormai non avevano più la certezza della vittoria, non avevano più il fanatismo che avevano quando siamo arrivati, se c’era qualcuno c’era qualcuno di questi Kapò ignoranti che non capivano niente, se no Adriano non sarebbe ritornato.

Ricordo che quando si ritornava al campo bastava che mi scontrassero e andavo in terra, nella neve ormai in disgelo, mi sporcavo, poi alzarmi era una tragedia, non ce la facevo, finché non trovavo qualche compagno che mi desse un aiuto.

Poi sul lavoro c’era la tensione di non sbagliare, perché gli errori venivano considerati sabotaggio e a seconda del tipo di errore andava dalle venticinque nerbate all’impiccagione. Ricordo che un povero giovane di Udine, ormai il nome non lo ricordo più, ma stava ancora bene perché era da poco che era arrivato là, l’avevano messo a pulire in terra con la randazza. Dato che oltre alla fame e alla sete si era accumulato anche il sonno, perché quando era che si lavorava di notte, che il giorno si poteva riposare, invece c’erano mille cose da fare, e la doccia, e portare i vestiti all’autoclave, e a rinnovare la riga in testa e a fare la barba, insomma si riposava poco, quindi il sonno era arretrato. Questo giovane io non so, ha trovato la maniera nascosta di dormire, si è seduto e si è addormentato. Lo hanno trovato e ce lo siamo portati in baracca impiccato.

D: Adriano scusa, con voi nelle gallerie c’erano anche dei civili a lavorare?

R: C’era qualche militare dell’aviazione. Civili non ne ricordo, forse qualcuno c’era ma io non ne ricordo. Poi era anche una tragedia col mangiare, perché veniva sempre meno. Prima quando siamo arrivati prima era un pane in tre, poi un pane in cinque, poi un pane in dieci, poi si andava a tagliare il pane, era un ammasso di muffa. Insomma il mangiare diventava un’ossessione. L’interrogativo del mattino era quanto pane avrebbero dato oggi. E tutta l’attenzione era al pane e a cercare di non prendere bastonate.

Insomma alla meno peggio è arrivato il giorno che non ci hanno più portato a lavorare.

Ma dimenticavo di dirvi una cosa molto importante. Al mattino si partiva per andare a lavorare, chi non partiva veniva finito: a Gusen 2 non c’era la camera a gas, chi non partiva per andare a lavorare gli facevano un’iniezione al cuore e poi li ammucchiavano lì davanti alla baracca.

Mi ricordo che un mattino siamo arrivati, si vede che non avevano ancora finito il lavoro, era ormai aprile avanzato, c’era venuto anche il sole addosso, e noi eravamo lì ormai imbambolati; sentivamo fra il mucchio dei morti uno che diceva “eine Decke”, voleva una coperta “eine Decke” e noi non siamo stati capaci di aiutarlo. Per fortuna poi non è più arrivato materiale, non ci hanno più portato a lavorare e io sono ancora vivo.

Senonché come è venuta la liberazione ci siamo subito gettati fuori dal campo, che è stata la nostra stupidaggine. Poi è passato un camioncino di quelli che portavano le bibite, ci ha caricati io e Ciacchini/Ciachini, un compagno che era ridotto come me e ci hanno portato all’ospedale civile di Linz. Come mi hanno messo a letto non ce l’ho più fatta a stare in piedi, per portarmi al bagno dovevano portarmi in braccio.

D: E quanti anni avevi Adriano?

R: Ho compiuto il 27 aprile del ‘45 vent’anni. Ho compiuto vent’ anni.

E poi la cosa più dolorosa, più dura, nella gioia della liberazione: un mattino mi metto a sfogliare la cartella che avevo ai piedi del letto, c’era scritto tutto in tedesco e non capivo niente. Senonché ho trovato scritto tbc polmonare in latino. Allora è stato un trauma. Ho superato anche quello, ho detto “non è vero” non è vero perché io mi facevo un dato quadro della malattia, dicevo “ma io ho fame, io mangio”, infatti come mi sono rimesso scappavo dall’ospedale, andavo fuori a chiedere da mangiare perché c’erano i militari italiani. Insomma mi vedevo che rifiorivo, ma purtroppo era vero. E ci sono voluti cinque anni di sanatorio per rimettermi in piedi. Poi ho avuto la pensione, mi sono curato a casa, sono uscite per fortuna le cure che mi hanno fatto guarire.

D: Da Linz come ti ricordi il tuo ritorno?

R: Da Linz ricordo che ci hanno prima radunati in una scuola su una collina, e poi ci hanno portato sul treno ospedale della Pontificia Opera di Assistenza. Poi da Bolzano mi hanno portato all’ospedale di Bergamo, Ospedale Clementina di Bergamo, lì c’era questo mio povero amico, Roberto, che era morente, mi chiamava perché le mosche gli davano fastidio: “Adriano la mosca, la mosca”. Poi è venuta una sua zia, una zia a trovare, anzi una zia e la madre e quando è andata via la zia m’han portato a casa con dei mezzi di fortuna e come sono arrivato a casa, dato che mi avevano raccomandato di ricoverarmi subito; all’indomani sono entrato nell’altra vita. Insomma, per me la guerra non è mai finita, m’è cambiato tutto.

D: Adriano il momento della liberazione, tu dove ti trovavi al momento della liberazione?

R: Al momento della liberazione mi trovavo sdraiato in baracca, a Gusen 2, perché ormai non mi reggevo più, senonché tutto il clamore che mi ha spinto ad andare fuori, e abbiamo visto passare delle camionette di americani sulla strada, perché adesso a Gusen 2 non si nota più, ma il campo era più basso, era coperto con dei teloni di iuta dalla strada. Però avevamo visto questi camion, poi eravamo rimasti su, le SS era già fuggita prima, ci avevano messo la guardia, come si chiamava quei vecchi col pennino, la Guardia Nazionale e poi erano spariti anche loro, siamo rimasti abbandonati. E quella è stata la liberazione, quei giorni di maggio, quel bel sole. Non me lo sarei creduto rovinato in quella maniera.

D: Adriano ancora due cose; quando tu hai raccontato che da Spezia ti hanno portato al campo di Bolzano hai detto che sei passato da Padova?

R: Sì.

D: E poi da Padova?

R: Aspetta, aspetta, forse era Pavia. Da Pavia, mi sono confuso, da Pavia, il pullman lo abbiamo preso a Pavia.

D: Un’altra cosa: venti anni nel Lager. A vent’anni tu eri deportato nel Lager: avevi un progetto speranza, cosa è che ti ha mantenuto vivo?

R: Se devo dire, di ideali politici non ne avevo ancora di così forti, io avevo imparato l’abc della politica in montagna, nelle canzoni della Resistenza, poi c’era il commissario, perché come volevo dire sin dall’inizio noi siamo vissuti a fascismo all’apoteosi, l’impero, vestiti da balilla, ci insegnavano la fierezza, poi non avevamo confronti politici, non c’era paragoni, noi pensavamo che tutto il mondo fosse così. Poi c’è stato il 25 luglio, insomma qualcosa si è cominciato a orecchiare. Poi l’8 settembre. Poi vivevo in un rione come Migliarina, che si è subito visto il voltafaccia, come prima tutti tacevano, nessuno ci aveva mai detto una parola, il 25 luglio si è tutto rovesciato, infatti i primi a partire per la montagna erano stati quelli che si erano messi in evidenza il 25 luglio. Poi lì ero in montagna, c’era il commissario, abbiamo cominciato ad imparare la politica, certo quando ho sentito dire la terra a chi la lavora, il pane a chi lavora, che poi leggendo fra parentesi io le avevo prese per parole d’ordine comuniste, invece a quanto pare erano parole di Sant’Agostino, che però la chiesa non mi aveva mai detto.

E’ da allora che ho cominciato ad essere il vero partigiano, perché allora non avevo ancora quella potenza ideale che mi ha fatto resistere. Sono stati i vent’anni, diciannove anni, penso che non so se è una impressione mia, nessuno accetta di morire ma i giovani particolarmente. E là vedevo che qui i giovani che morivano avevano come un senso di stupore in viso: “Ma guarda cosa mi è capitato?”. Però sono sempre stato portato ad avere fiducia; vedevo un uccellino “Porta bene, mi porta speranza”. La prima macchia di verde che ho visto fra la neve, a primavera forse, perché poi c’erano anche questi contrasti: gli americani sono qua, dopo l’indomani erano cento chilometri più indietro. E dato che quando mi hanno arrestato gli americani erano a Carrara, dicevo “in carcere non ci sto mica tanto”, e invece piano piano anche questa speranza è dovuta scemare. Era forse il mio carattere, ero forse, come si potrà dire, immaturo, non so, idealista, speravo in me, e speravo tanto di sognare mia madre, che a volte quando sul lavoro mancava l’energia mi andavo ad accucciare sotto la carlinga disperato, mi sfogavo di pianto, mi sfogavo di pianto a invocare mia madre. Il desiderio di sognarla, non mi è mai capitato, anche la notte riuscivano a fartela diventare un incubo, perché al mattino bisognava andare a ritirare il caffè, che poi non l’hanno mai visto, ma quel po’ d’acqua calda e allora chi capitava capitava. Io ormai che ero ridotto in quelle condizioni avevo un incubo: “Ho detto questi se mi prendono è finita, infatti al mattino Aufstehen, io non ce la facevo”. Facevo “No, guardate come sono ridotto non ce la faccio” e questi a picchiarmi, facevano finta di non capire che io, non è che non volevo non ce la facevo a portare quei bidoni, finché quel povero disgraziato che era con me si è bruciato, se l’è rovesciato addosso, ma anche quella volta lì sono stato fortunato, sono rimasto vivo.

Rupel Savina

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

D: Come ti chiami ?

R: Rupel Savina ma Savi ….

D: Quando sei nata?

R: Il 3 del 10 del 1919.

D: Dove?

R: A Prosecco, provincia di Trieste.

D: Posso chiamarti Savina adesso io ..?

R: Sì tesoro. Sui documenti mi hanno ridato il mio nome. Savina va bene, Rupel Savina.

D: Savina, quando sei stata arrestata?

R: La prima volta del 16 giugno, no agosto del ’43 fino all’8 anzi fino al 10 di settembre. Dopo sono stata liberata che era il “ribalton[1]”.

D: Perché sei stata arrestata quella volta?

R: Perché, non so neanche io perché. Sono venuti e mi hanno arrestato.

D: Ma sono venuti a casa a prenderti?

R: A casa. Me, mio papà e mio fratello, tutta la mia famiglia. A Prosecco.

D: E dopo il 10 settembre 1943 …

R: Alle 8 di sera siamo partiti per Frosinone e alle 6 di sera è arrivato l’armistizio. Così dopo due giorni mi hanno liberato. Quella volta ero deportata dai Gesuiti, a Trieste sempre.

D: I Gesuiti sono le carceri?

R: Le carceri dei Gesuiti ma adesso non son più là.

D: E dopo sei stata arrestata ancora, quando?

R: Dopo sono stata arrestata il 18 novembre del ’44.

D: Dove?

R: Sempre a casa.

D: E perché?

R: Quella volta un rastrellamento, non sapevamo neanche per cosa. Sempre contro il nazifascismo, ecco. Avevamo le nostre idee e volevamo essere liberati.

D: Savina, chi e che ti ha arrestato questa seconda volta?

R: I tedeschi.

D: E hanno arrestato solamente te della tua famiglia?

R: Quella volta sì, sola, dopo otto giorni anche mio fratello.

D: E dove ti hanno portato?

R: Al Coroneo.

D: Che sono le carceri di Trieste?

R: Sì il Coroneo.

D: E ti hanno interrogata?

R: Sì un poco, qualche cosa.

D: Non hai subito violenze, botte?

R: No.

D: Cosa ti chiedevano?

R: Solo dov’era mio fratello più piccolo e dove lavora, dov’è e tutto questo.

D: Ma tuo fratello era partigiano?

R: Era in organizzazione, come eravamo la maggioranza nel paese.

D: E quanto sei rimasta lì al Coroneo?

R: Dal 18 di novembre al 2 dicembre.

D: Poi al 2 dicembre cosa e’ successo?

R: Il 2 dicembre mi hanno portato verso le 4, 4 e mezza di mattina alla stazione di Trieste e mi hanno messa nei vagoni di trasporto per la Germania.

D: Eravate in tante donne?

R: Sì circa cinquanta in tutto.

D: In un vagone?

R: Sì.

D: E c’erano anche degli uomini?

R: No, solo donne.

D: E c’erano anche persone anziane?

R: Si, qualcuno anche. Non so se quarant’anni, ma pochi, la maggioranza gioventù.

D: E voi non sapevate dove stavate andando?

R: No.

D: E quanto è durato il viaggio?

R: Il viaggio quattro giorni, perché il giorno di San Nicolò siamo arrivate. Il 6 dicembre.

D: Durante il viaggio il treno si è fermato il trasporto?

R: A Villach, solo una volta e dopo sul terzo giorno, di sera mi ha portato qualcosa come una zuppa, un quarto di litro. Un poco di caldo dopo tre giorni. Niente altro.

D: Per tre giorni non avete mangiato..

R: Sì. chi aveva qualche cosa con sé allora si guardava di mangiare quel necessario per salvare più a lungo.

D: Tu credevi di andare a lavorare in Germania?

R: Ma speravo di essere almeno un poco libera ma non mi aspettavo quello che dopo ho visto, in che condizioni.

D: Savina, dopo quattro giorni di viaggio siete arrivate dove?

R: A Ravensbrück, sarebbe circa 80-85 km oltre Berlino, a nord.

D: Cosa ti ricordi dell’arrivo a Ravensbrück ?

R: Verso sera era già scuro, due tre ore, quando siamo scese era pieno pieno di ragazzini di 7-8-10 anni e voleva che davamo i nostri bagagli. Abbiamo detto impossibile e loro li pretendevano, quasi quasi obbligavano. Allora noi ci siamo rifiutati perché erano nostri. Hanno cominciato a sputare a tutte e non potevamo fare niente perché c’erano SS tutto intorno. Rifiutammo di darli però non rispondemmo niente andammo a cinque verso la porta del Lager. Sulla porta del Lager che mi ha impressionata, almeno a me, ho visto due impiccati, proprio sulla porta del Lager. Quello mi ha fatto un’impressione che non ho mai dimenticato.

D: E dopo che siete entrate nel campo.

R: Nel campo per una sera ci hanno messo sotto una tenda grande grande. Quella sera non potevamo respirare perché l’aria era una roba incredibile. Non si poteva respirare. Era una puzza che non si può neanche descrivere com’era. Là chi aveva ancora qualcosa … abbiamo finito quasi tutto, dopo quattro giorni. Chi aveva qualcosa le è sparito. Poi ho visto che in una colonna dentro un grande porzie c’era. Ho guardato e ho detto “sarà abbastanza da mangiare perché già abbiamo abbastanza fame. Ci dev’essere abbastanza da mangiare se hanno delle porzie – porzie sarebbe come bacinelle grandi. E cantavano. Se cantano si vede che lavorano e non va tanto male”.

Di sera era scuro e non si vedeva. Solo da lontano si vedeva che marciavano cinque e cinque. Dopo quella notte si è dormito poco e la mattina presto mi hanno portato in un altro posto, di fronte, e là ci hanno detto che dovevamo cambiarci.

Difatti hanno portato via tutto quello che avevamo, tutto, tutto. A certi, quasi tutti, anche i capelli. Tutto. A me sono stata fortunata e un’altra, siamo restate e mi hanno lasciato i capelli. Del resto hanno portato via tutto quello che avevamo ed eravamo nude. Per non so quante ore. A noi sembrava assai lungo perché era assai freddo. Eravamo nude e aspettavamo cosa mettere addosso.

Siamo andate in questo bagno grande grande, e là hanno portato su un carretto, tirato da queste prigioniere, si è fermato davanti alla porta e ha portato questo poco da vestirci per tutte noi. Allora abbiamo diviso. Chi era più fortunata riceveva qualche vestito un poco più pesante. Certe della roba di seta, roba che non ci riconoscevamo più l’una con l’altra perché eravamo … può capire in che modo. Non potevamo credere. Dopo che eravamo là tutto il giorno, verso sera era l’inverno e veniva subito scuro, ci hanno portato nel blocco di Zugänge[2], blocco 29, e là mi hanno messo su questi letti a castello e hanno messo su ogni letto, che era circa 70 cm, ne hanno messe tre. Eravamo stanche, sfinite un po’ dal trasporto, annientate il primo giorno – con una parola – non potevano credere che così presto eravamo arrivate a questo.

Là hanno dato ordine alla mattina c’è stato l’appello che era tremendo. Una che era già dentro mi ha avvertito “Guarda che l’appello è la roba più tremenda”. Allora quando c’era l’appello dovevi essere pronta subito, alzarsi e andare non restare se no si andava incontro a prendere legnate.

In quel momento eravamo già sfinite, alla mattina, non so a che ora perché non avevamo orologio, era ancora due o tre ore di scuro, eravamo già sull’appello. Come hanno ordinato, anche se non capivi a suon di bastonate dovevi capire. Il primo giorno sono stata battuta tre volte. Perché il primo giorno, io ero quasi ultima, pioveva una roba spaventosa, freddo, piove eravamo in fila come militari e c’era una pozzanghera piena d’acqua e io invece di tenere le gambe dritte tenevo le gambe una di qua e una di là: hanno cominciato a battermi per le gambe. Freddo e sentivo dolori forti e non ho capito per cosa allora una davanti mi ha detto che dovevo tenere. Ed ho subito capito.

Dopo quando siamo rientrate ero sempre ultima perché non volevo mai, si doveva mantenersi sempre in mezzo, mai ultima, no prima, ho subito capito ma non sapevo. Ero ultima sempre … non avevo il coraggio di spingere, insomma vado ultima e per il freddo mi tenevo così e vado dentro. Sulla porta mi hanno acchiappato e mi hanno buttato fuori. Ero giovane, ho fatto un salto e non sono cascata per terra. Allora ho guardato perché e non capivo perché era freddo. Sono andata di nuovo dentro così. Di nuovo mi butta fuori ed ogni volta mi ha dato una nerbata. La terza volta che avevo paura ad entrare perché ero rimasta sola e una, dietro questa Ausierka, mi ha fatto che dovevo guardarla. L’ho guardata questa prigioniera mi ha fatto “dritta” come dovevo comportarmi, allora era una scuola che non ho mai dimenticato, ho fatto così e infatti mi ha lasciato entrare.

Così il primo giorno sapevo già regolarmi. Dopo non ero mai più battuta, mai più perché non ero la prima e anche per andare a prendere il rancio, il mangiare, non si doveva essere primi e neanche ultimi perché i primi erano guardati come volessero essere primi, era questo.

D: Savina, la vestizione. Cosa ti hanno dato da vestire?

R: Un vestito nero, stretto, di lana fino qua e qua tutto un pizzo, come se dovessi andare a ballare. Ma per me era grave perché ero incinta e dovevo sposarmi quel giorno che ero in viaggio per la Germania. Dovevo sposarmi il 2 gennaio. Ero contenta lo stesso perché era di lana. Dopo mi hanno dato il numero. Il mio numero era 91329: Questo non lo dimentico mai, in tedesco era Einundneunzigtausenddreihundertneunundzwanzig, non l’ho mai dimenticato. Questo era importante perché se chiamavano si doveva subito … Così abbiamo cominciato la vita del Lager, ma era tremendo. Non si può capire come si viveva perché non vi era che giorno, non c’era un orologio. Pensa che bestia.

Poi quella era insopportabile l’odore, ci volevano cinque-sei giorni per poterci abituare un poco poco, si teneva sempre qualcosa ma sull’appello non si poteva, si dovevano tenere le mani dritte. Non ci potevamo tappare il naso. Tremendo.

D: Savina, ti hanno messo in qualche compagnia di lavoro?

R: Per il momento no, ho aspettato. Dopo di là sono restata sempre in questo blocco di Zugänge perché ero, ma erano di tutte le nazioni era là; dopo mi hanno spostato al blocco 32. Nel blocco 32 ero finché avevo la mia creatura e dopo fino al giorno, doveva essere il 14 di febbraio, doveva essere no l’11 febbraio, perché dopo tre giorni avevo questa creatura.

Ha vissuto quattordici giorni, il giorno 28, come calcolavo, è morta di fame e di stenti.

D: Come facevi al alimentarlo?

R: Prego?

D: Come facevi ad alimentarlo, a dargli da mangiare?

R: Niente. Facevano esperimenti perché quasi tutte che erano con me quella volta sono tutte morte. Le conoscevo.Una di Gorizia, Pinter Helena, era di Piuma, vicino Gorizia. Aveva 18 anni e quella era stata violentata da quello da cui lavorava. Il padrone l’ha mandata e l’hanno portata via, trasportava il vino di Vipacco con un cavallo, l’hanno arrestata, così raccontava. Perché il padrone aveva paura che sua moglie lo veniva a sapere. Piangeva sempre. Lei era magrolina. Eravamo tutte magre.

D: Ed era in campo con te anche lei?

R: Prego?

D: Era in campo a Ravensbrück  con te anche lei?

R: Sì. E’ venuta su da Gorizia lo stesso giorno perché erano tante di Gorizia, erano di Biglie, erano di Ranciano, Vertoiba. Erano tante. Abbiamo fatto il viaggio preciso sempre là. Dopo delle mie paesane i primi giorni di dicembre, prima di Natale, sono andate per le fabbriche a lavorare. Certe sono restate là ma al Betrieb, alla Schneiderei, che dopo sono andata anche io a lavorare a Betrieb. Noi in tempo di due ore si doveva sapere lavorare a macchina elettrica, il mio mestiere era altro. Insomma non si può neanche capire, insopportabile. Solo se si aveva quella di tornare ancora una volta a casa.

D: Quindi Savina, tu come altre donne avete partorito un bambino a Ravensbrück ?

R: Sì, ma sono tutte morte quelle che conoscevo.Una era di Solcano di Gorizia, non so se aveva bambino o bambina ma è morta anche lei. Lei era sposata con un Grossovin ed i suoi genitori avevano una, come si dice, una segheria.

La segheria. Sono slovena e sono diversi anni che non parlo tanto italiano perché sono via dal mio lavoro.

D: Lo so che è doloroso Savina, lo so che per te è molto doloroso. Per quattordici giorni tu hai tenuto la tua creatura lì a Ravensbrück ?

R: Era tremendo perché sapevo che sarebbe morta, dal primo giorno perché non c’era niente. E anche quei tre giorni che mi martirizzavano, non so come sono sopravvissuta. Perché erano patimenti, lo facevano per vederequanto sopportavauna donna. Mi ricordo che guardavo e sapevo che sarebbe morta; ma forse succederà che finisce la guerra. Sarebbe stato un miracolo. Perché si sentiva già che sarebbe finita presto, perché si sentiva il fronte vicino. I Russi. Speravamo perché gli ultimi due mesi più venivano i bombardamenti più eravamo felici perché prima finiremo.

Solo di sera andavamo a letto e avevo le speranze almeno di sognare casa e i miei familiari. Eravamo tre fratelli là. Non sapevo dove era l’uno o l’altro. Mio papà era solo a casa. Guardavo questo cielo delle volte e mi consolava anche quello. Guardavo il cielo tante volte. Ho detto: tutto mi avete portato via tutto, ma proprio tutto ma il cielo, questo non avete potuto portarlo via perché questo copre anche i nostri familiari, le nostre case, i nostri paesi. Anche quello, si doveva sempre avere speranza e guai ad abbattersi; poi neanche parlare.

Poi alla fine era tremendo perché non si poteva più. Il 25 di aprile di sera è venuto un ordine, c’era anche dentro qualche organizzazione, si sentivano già i cannoni, il fronte era vicino, era tutto rosso il cielo. “Abbiamo 20-30 km al più grande fronte, guardiamo di nasconderci”. Questo è un ordine venuto quando era già un’ora di buio. Dopo sono venuti i tedeschi ed hanno detto “In cinque minuti tutti fuori” dopo hanno dato altri ordini. Saremo liberati. Sono andati dentro con queste mitragliatrici. Finito. Chi è restato dentro ha perso la vita. Dopo sarà quel che sarà, siamo venuti fuori. Hanno dato cinque minuti allora tutti pian piano, pochissimi sono restati e quelli sono finiti là.

Ci hanno messo in fila, era verso mezzanotte già se calcoliamo indietro le ore che era scuro, ci hanno messo in fila ed hanno dato l’ordine a destra o a sinistra, non mi ricordo più, se non si può camminare 30 km che si metta da parte che verranno i camion e li porterà via. Quelli che se la sentono di camminare 30 km si mettano dall’altra parte. Abbiamo detto “So che non camminerò 30 km, ma neanche 3 km però vado da questa parte perché non posso credere che mi porterà con un camion”. Sapevo che nel blocco 23 i camini che fumavano erano le persone che ardevano ogni giorno, giorno e notte. Allora ho detto “No, mi metto da questa parte”.

Dopo hanno diviso un pacco da 5 kg per cinque persone – che erano sempre per cinque – dentro questi pacchi abbiamo spartito subito perché nessuno poteva portare 5 kg, era pesante e poi è meglio spartire subito. Chi ha mangiato subito qualche cracker o latte in polvere o cosa. Li portavamo così perché non avevamo niente. Avevamo un piccolo vasetto e qualcosa abbiamo messo là, se no portavamo tutto poi mangiavi. C’erano quelli che mangiavano subito, io mi salvavo più che potevo perché sarò sempre più bisognosa quando camminerò.

Abbiamo camminato fino all’alba, siamo andati fuori, era una fila, il campo era grande, era una fila grandiosa. Non finiva mai. Siamo andati fuori. Quando veniva l’alba, veniamo sulla strada principale e vediamo i militari del fronte, tutti fasciati, tutti rovinati venivano carri con cavalli e questa gente che si ritirava dal fronte, gente dei paesi, con le carrozzelle, coi figli, senza figli, coi bagagli, si ritiravano tutti dal fronte. Avevano tutti fretta. E noi ci siamo messi in mezzo e loro da una parte e dall’altra, eravamo in centro. Perché quando venivano questi apparecchi mitragliavano, loro scappavano fuori dal centro della casa e noi dovevamo stare là, avevamo sempre le guardie con i cani; ogni tanti passi c’era un soldato della Wehrmacht che seguiva la colonna e camminavi, camminavi. Otto giorni e otto notti.

Sempre in fila, si vedeva questa fila davanti e dietro di noi, giorno e notte, non c’era altro. Il primo giorno si mangiava quello che si aveva, il secondo giorno anche ma dopo non si aveva più niente e dopo si fermava venti minuti, mezz’ora; andavamo dove c’era acqua per farci qualcosa con la roba che si trovava per strada o un poco di radicella, che cominciava a spuntare quella radice selvatica o indifferente. Si trovavano i cavalli o qualche bestia che era morta allora tiravamo fuori e allora con queste mani, erano tanti, tutti là tutti raggruppati. La prima volta ho detto “Cosa fa là quel gruppo, cosa spartisce?”. Dopo che abbiamo visto che era uno scheletro, siamo arrivati troppo tardi e dopo guardavamo tanto se si trovava qualche bestia crepata o morta o di bombardamento o cosa.

Mi ricordo una volta, senza nessun coltello, solo tirando l’uno con l’altro.Qualche volta si tirava, si tirava e dopo non si trovava niente perché qualcuno perdeva la mano. Qualche volta mi è toccato che mi hanno portato la mia razione di pane. Che dovevo quellavolta vestirmi che non avevo niente addosso, quando avevo questa creatura, anche per questa creatura, solo con il pane o con la zuppa si comprava qualcosa.

Quella volta mi ha salvata una certa Pierina che era infermiera, ma era anche lei come noi, deportata. Però faceva l’infermiera, era di Gorizia, era una brava persona. Mi ha detto “Anche se ti hanno rubato ti procurerò io”, lei mi ha trovato un cappottino piccolo, ero secca e tutto mi stava, fino qua e sotto avevo una canottiera da uomo. Quando è morto il mio piccolo.

Quando era l’ultimo giorno, quando ho visto questa gente che si ritira ho detto “Ma noi forse torneremo, ma loro?”. Loro saranno adesso prigionieri e noi forse avremo la nostra liberazione. Intanto se devo morire, morirò fuori del Lager e quello mi ha dato tanto, tanto coraggio. Che abbiamo camminato, camminato: in otto giorni abbiamo fatto, giorno e notte, non so, so che chi si strascinava una con l’altra, qualche amica che aveva un po’ più di forza, quella che stava per morire, si trascinavano una con l’altra. Una volta forse due volte, gli ultimi giorni che il fronte era un po’ lontano, perché a loro veniva il cambio con la macchina e li portavano via e venivano altri di quelli che ci guardavano.

Gli ultimi giorni proprio non potevo più e ogni tanto domandavo a questi, non ci bastonavano per andare avanti però sempre in cinque, quella che non poteva più si ritirava, allora restava ultima, come è toccato a me l’ultimo giorno. Ho domandato “Dove andiamo?” mi hanno risposto: “Bitte wohin? ” “Ich weiß es nicht, immer weiter” … Allora dopo l’ultimo giorno era c’era una pianura, noi eravamo in colonna, bellissimo era questo bel prato e guardavo, era un bel sole che tramontava, questo è l’ultimo sole “Ragazze se venite qualche volta a casa“, dopo ci siamo trovate con le mie paesane, quando sono andata a lavorare al Betrieb Schneiderei. “Dite che non potevo più andare avanti. Portate i miei saluti ai miei fratelli se torneranno anche loro e dite che non ce la facevo più”. Sono uscita dalla fila perché si doveva andare fuori della fila e mi sono poggiata su un albero e guardavo questo sole e sono passati forse anche venti minuti, il sole era andato via.In quel momento sento mitraglie, mi giro, credevo che era vicino il fronte e vedo che cascano queste prigioniere che non potevano andare avanti, con la raffica. Quando erano a forse cinquanta metri, vedo una che era proprio con me, che dormiva con me aveva due figli, era di Ljubljana, due ragazze, la vedo che si alza di nuovo sul ginocchio e si teneva così e guardava avanti, voleva ancora camminare. Loro le hanno detto: “Noch einmal e ancora raffiche” è caduta lei e ancora un venti altre là per terra. In quel modo che ho visto come finivano le ultime mi ha preso una forza di volontà, “No!” – ho detto – “Non devo crepare su questa maledetta terra. Devo tornare a casa”. Era già quasi scuro e ho cominciato a camminare, non so chi mi ha dato la volontà, i nervi: devo tornare a casa.

Mi sono messa in fila con quelle che erano ancora vive e ho cominciato a camminare, a camminare, dopo un’ora ho visto venire, come altre, come si poteva, si camminava sempre come si poteva però non è questi che mi guardavano con i cani sapevano che non potevo scampare perché ultimo, ultimo che cascava. Dopo quella sera abbiamo camminato tutta la notte e alla mattina presto sentimmo come una bomba. Ci siamo girate e si può dire che eravamo proprio ultimi, tutta la notte ancora, forse c’era un chilometro dietro di noi. Vediamo che era saltato un ponte che avevamo passato prima e siamo restate tutte ultime. Saltato questo ponte è venuto un camion che ha detto “Ormai è finito”. Ha caricato tutti su un camion e siamo andati avanti. Siamo cascate per terra, doveva essere di sera tardi oppure verso la notte, la mattina c’era il sole, una bella giornata fredda perché era maggio. Abbiamo visto che non c’era più nessuno di questi tedeschi e ultimo che era ha cominciato che voleva ancora e l’altro “Non vedi che è finita?” lo ha battuto e lo ha buttato via. Dopo quel camion sono restati un po’, siamo restati ultimi e siamo scappati in un boschetto che era lì vicino e là siamo stati al sole, non si vedeva nessuno. “Allora siamo libere, libere”.

In quel momento non si vedeva nessuno, allora certe une sono andate per dritto dove era questo camion ad hanno trovato tanto tanto the, come the russo, tante scatolette e le hanno caricate tutte, due o tre erano mezze bruciate, qualcuna che tutto per terra, qualcuna era ancora buona. Insomma l’abbiamo sciolto, ci voleva l’acqua, allora abbiamo visto una casa, come una fattoria, grandiosa, ma era da fare cento metri su una collina, bellissima, là troveremo acqua. Una è andata, noi dietro pian piano che ci tenevamo l’una con l’altra, ci aiutavamo per metterci in cammino perché non si poteva. Eravamo indurite per terra. Avevamo il the, siamo libere, non si vedevano più i militari, i tedeschi. In quel momento vedo che da una parte viene un militare su un cavallo grande con una stella rossa così. “Partisan!” ho detto. “Niet Partisan!” – ha detto, “za ruski vojnik”, che sono militari russi. Ho detto “Non ci sono più tedeschi?”. “No”. “Siamo libere”. Non ci potevano credere, come alzarsi dalla morte.

Ha detto: “Non è ancora finita la guerra, dovete stare bene attente perché ci sono tanti che si nascondono ed è un peccato adesso”. Parlava russo ma ci capivamo, tutto capivamo perché era così, purtroppo non so perché si sentiva una parola di qua e una di là e si capiva abbastanza.

“Dovete stare assai attente a non perdere la vita, perché è peccato forse, venite in una casa che credete sia vuota e invece c’è sempre qualcuno che può tirare ed uccidervi. Perché la gente è disperata e siamo ancora in guerra”, hanno detto questi russi.

Arriva un altro con un cavallo e ci dice “Volete tanto mangiare ma non mangiate, guardate anche l’acqua può essere avvelenata perché tanti hanno perso la vita. Sono quattro anni che combattiamo ed ho visto tanta gente morire. Ed è peccato perché avete tanto superato che avete patito tanto nei Lager. Dovete avere tanto sentimento perché in qualche angolo potete ancora trovare la morte. Se adesso avete bisogno di qualche cosa, qui ci sono le mucche mungerle e bere il latte”. Se sono patate allora sì, cucinarle ma neanche frutta, niente perché è pericoloso. In qualche orto si trovava.

Si doveva sempre stare attenti; mai fidarsi. Sempre in gruppi andare mai andare da soli, due o tre o quattro sempre nei grandi gruppi e non aver premura di andare a casa perché le strade sono rovinate “Verrà il giorno, aspettate, abbiate pazienza. Noi vi porteremo da mangiare ancora per un giorno dovete andare avanti sole come potete. Poi le nostre cucine vi porteranno. Raggrupparsi più che potete insieme. Anche di notte sempre in tante insieme, mai sole.”

Qualche volta anche per prendere un uovo si perdeva la vita.

Così siamo state liberate e sono finita in un palazzo di Himmler; dappertutto era Hitler e Himmler sulla porta su quelle sale grandi dove c’erano armi antiche e su una porta c’era una tenda rossa e una tenda verde; giusto per avere le coperte di notte. Io ho scelto la verde, lei la rossa. E’ indifferente. Dopo quella coperta che avevamo per tutto il viaggio, siamo arrivati a casa dopo quattro mesi, il primo di settembre; eravamo state liberate il 3 maggio.

A Lipsia c’era un fiume, Elba, mi pare, che dovevamo andare, dopo un mese siamo andati su questo fiume fino in Cecoslovacchia e non so quanti chilometri con questa barca. Sulla cornice del fiume alla mattina gli uomini e dopo pranzo le donne. Abbiamo messo per capitano uno zingaro, che i russi gli davano non so quanto da mangiare e lui mangiava e così ne dava, era tutto buono per mangiare.

Dopo 12 km abbiamo visto una fattoria grandiosa con tante tante bestie, abbiamo detto qua ci fermiamo e là c’era da mangiare per tutti e siamo stati due o tre giorni, eravamo in cinquecento. Sotto c’era questa barca di commercio e là dormiva una vicino all’altra strette come pesci. Basta che andavamo verso casa. Ci siamo accorti poi che c’era un ponte piccolo e la barca non poteva andare oltre, è venuto il comando dei russi: non si poteva toccare quel ponte. Sono venuti due camion, siamo andati in una fabbrica di zucchero avevamo un paio di chili di zucchero, avevamo sempre paura di non trovare da mangiare. Avevamo cambiato quello che avevamo addosso con quello che trovavamo per essere più pulite, perché dentro non era possibile lavarsi. Era acqua sporca nei Lager, davano un sapone che si restava più sporche. Non so di che cosa era, una puzza che non si poteva sopportare, quel sapone bianco che quando si insaponavamo non andava più via. Era come una colla, meglio non mettersi niente.

Dopo abbiamo camminato 40 km e quello che dovevamo portare lo hanno portato loro con i camion per noi tutti. Non avevano altri camion, i russi non li avevano. Però finché eravamo in quella casa, di Himmler, ci hanno portato da mangiare, andavano là e ci portavano pane, subito dal primo giorno, abbastanza pane e dopo siamo andati 40 km a piedi.

Siamo andati a Prinzwalk in una bella cittadina piccola. siamo stati per cinque giorni una fabbrica, forse erano caserme, c’era una grande corte forse c’erano militari dentro prima. Eravamo tutti noi quasi cinquecento, ci siamo stati cinque giorni. Dopo siamo andati sui treni e ci hanno portato a Neubrandenburg, nelle caserme. Belle caserme, sul monte e là abbiamo aspettato fino al giorno che siamo andate verso casa, fino al 12 agosto.

Il 12 agosto eravamo sicure che in tre, quattro giorni arrivavamo a casa, invece siamo arrivate a settembre. Mio fratello … siamo arrivati a casa ma sono andati via perché sono andati a fare il militare per mangiare.

Erano brutte le guerre, sono tremende. Solo questo dico, chi l’ha provato se ha un poco di onestà un poco di cuore, non dovrebbe mai più venire nessuna guerra.

D: Savina scusa una cosa veloce quella fabbrica che tu citavi, che in due ore dovevi imparare …

R: Era a Ravensbrück. Sempre a Ravensbrück; prima mi hanno mandato in una baracca dove si andava solo per lavorare perché veniva la roba del fronte, le divise tutte rovinate, tutte sporche di sangue delle bombe, tutte bruciate. Rovinate e noi, almeno io, dovevo perché avevano messo una tavola grande come era la baracca, dritta, e tutto intorno avevamo e dovevamo mettere quello che trovavamo nelle scarselle sulla tavola. Là ero due o tre giorni ma non si poteva per la puzza che era dentro, questi odori, questa roba sporca, rovinata; se si guardava verso la luce non si vedeva l’una con l’altra tanta polvere, tanta sporcizia c’era. Fuori era enorme e dentro tanto di più per la polvere. Ogni notte – io lavoravo di notte – andavo fuori non potevo mai buttare fuori questa roba tremenda.

Un giorno come trovo nella tasca di questa divisa vedo come un portafoglio, era abbastanza grande l’ho messo sulla tavola però era rovinato. Passa un’Ausierka perché passava sempre così attorno e quando ha visto ‘sta roba, guardava se era qualcosa che voleva. “Cos’è”. L’ha guardata, mi ha levato di mano questa roba, ha cominciato a guardare e dopo l’ha messo dentro e ha visto che era bruciata e ‘sto portafoglio era bruciato, sporco di sangue. Ha guardato e l’ha levato dalle mani, non sapevo, ed è andata via. Dopo un po’ torna e ha cominciato che era suo fratello, era al fronte e gli era toccato. E’ andata via e non l’ho vista più. Il giorno dopo viene e mi dice di andare con lei e mi ha portato in questo posto in cui c’era assai confusione perché c’era un cento macchine, ma era netto, c’era aria pulita. E io ero contenta solo in due ore dovevo sapere le macchine elettriche, per metterle in moto con le ginocchia. Mi ha messo dove si lavora delle camicie, delle divise dei militari, delle aviazioni; era la fabbrica per tutti, roba nuova. Ha visto che non potevo nemmeno lavorare perché stavo male, ero assai grave. Allora mi aveva messo in un altro posto, meno difficoltoso in cui dovevo fare segno se qualcosa non va bene; allora dove potevo stare in piedi, non potevo stare seduta perché mi doleva schiena. Se trovavo qualcosa difettoso o non ben cucito dove portarlo nella parte di fabbrica che lavorava e aveva quello da fare. Segnalavo che non era ben fatto. Quando ha visto che non potevo stare più in piedi mi ha dato i posti meno difficoltosi.

D: Abbiamo finito, però prima di finire una cosa importante: come hai chiamato tuo figlio?

R: Danilo, perché mio fratello si chiama Danilo. O l’uno o l’altro tornerà, Kleiner Partisan. E’ vissuto, non so come ma è vissuto per quattordici giorni.


[1] A Trieste, l’armistizio di Cassibile viene definito in dialetto “Ribalton”, ad indicare l’evoluzione del conflitto dell’8 settembre 1943.

[2] Blocco degli arrivi.

Limentani Mario

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Limentani Mario sono nato a Venezia il 18-7-1923. Nel ‘37 sono venuto a Roma con la mia famiglia; nel ‘38 hanno messo le leggi razziali. Ci hanno levato la scuola, il lavoro, chi aveva una licenza gli è stata levata; insomma noi non facevamo più parte dell’Italia, il soldato non si poteva fare. Poi venne il 1940 quando l’Italia entrò in guerra, essendo ebrei eravamo esclusi. Poi venne l’8 settembre vennero i tedeschi a Roma. Verso la fine di settembre Kappler si presentò alla nostra comunità israelitica di Roma, chiedendo entro ventiquattro ore cinquanta chili d’oro altrimenti prendeva cento uomini e li portava in Germania a lavorare.

Ci siamo dati da fare, cinquanta chili d’oro in ventiquattro ore erano un po’ elevati, però siamo riusciti, anche con la cooperazione dei cattolici, che si sono presentati in tanti dando ciò che hanno potuto dare. Abbiamo consegnato questi cinquanta chili d’oro credendo che ormai per noi non c’era più paura. Invece il 16 ottobre alle ore 4,30 di mattina, circondarono il rione ebraico e vennero per le case. Io abitavo in via della Reginella n. 10, proprio nel quartiere ebraico. A casa mia, per fortuna, avevo a parte della cucina, un cunicolo che andava giù, un nascondiglio in cui c’era una cantina. Noi uomini ci siamo calati credendo che portavano via solo gli uomini, invece quando ci siamo calati le donne hanno cominciato a strillare … portavano via pure le donne, ammalati, vecchi, bambini; allora sono risalito con mio fratello ho preso mio padre, mia madre, tre figlie di mio fratello e siamo scesi. Poi non vedendo mia cognata sono risalito, aspettava il quarto bambino, era incinta di pochi mesi, salii e feci: “Vieni giù”. “No, non vengo giù”. Non ce la faceva con la pancia, poi non voleva lasciare il padre, la madre e una sorella. Mentre io convincevo mia cognata, sentivo con il calcio del fucile che buttavano giù la porta e allora mia cognata ha detto: “Vattene”. E io mi gettai giù. Siamo rimasti là qualche ora; da sotto vedevamo passare tutta questa gente, poi siamo risaliti e non c’era più nessuno. Non c’era né oro, né soldi perché gli avevano detto su un foglietto in mano: “Se avete oro soldi e biancheria, portatevela appresso perché dove vi portiamo vi può essere utile”. Quella mattina presero 1.222 persone, tra le quali 400 uomini, 400 donne e 222 bambini. Da quella spedizione ritornarono un solo uomo e una sola donna. Neanche un bambino di quei 222, neanche un bambino.

Io ero scappato con mio padre e mia madre ed eravamo andati in una zona qui vicino, abbiamo preso in affitto un bunker, quello dove mettono le macchine; io e mio fratello dovevamo uscire per rimediare i soldi per dare da mangiare a sette persone. Per fortuna mio fratello aveva un amico e gli ha dato dei documenti falsi, io invece no.

Un giorno passai per la stazione in via Cernaia, sarebbe qua di dietro, camminando ho visto tre persone che stavano attaccate al muro, ma non potevo più tornare indietro, perché sennò… ma io con la coda dell’occhio ho visto che erano fascisti. Camminai e quando passai, questi mi fischiarono; io feci: “A me?”. “Sì, vieni qui, documenti”. “Guarda mi sono cambiato i calzoni, i documenti non li ho”. Allora quello dimezzo ha fatto un cenno con la testa, mi hanno messo in mezzo a questi due … “andiamo dentro il portone, prendiamo le generalità e poi te ne vai”. Vedevo che passava il tram numero 4 che andava dalla stazione in via Po. Feci una franconata, avevo venti anni e mezzo, ero un ragazzo ancora snello, vedevo che il tram veniva giù – i tram a quei tempi erano aperti – così, io mi inchinai, mi presero per le caviglie, avevo le mani in tasca e mi buttarono per terra. Corsi, stavo per prendere il tram e ho sentito una rivoltella qui sulla nuca, fece “Stai fermo che ti sparo”. Le gambe mi tremavano, anche se ero giovane sentirmi una rivoltella alla testa … e mi portarono in via Montebello, alla questura. Mi levarono la cravatta, tutto quanto, fece “Tu non avevi i documenti”, mi dettero uno schiaffo, lungo per terra. Mi portarono in camera di sicurezza e c’erano un’altra quindicina di ragazzi come me e mi hanno domandato “Come ti hanno preso?”. Quando è stata la sera ci hanno portato su al primo piano. C’era il maresciallo, entrarono questi ragazzi uno per volta e uscivano con un bigliettino in mano, avevano un’ora di tempo per arrivare a casa e c’era il coprifuoco. Arrivò il mio turno, mi guardò, poi guardò un libro “Limentani Mario, prego si metta seduto”; disse “Tu sei ebreo?”, Sissignore sono ebreo, c’è qualcosa di male? Sai dove ti mandiamo noi?”. M”e lo dica lei, io non lo so”. Mi hanno preso ma non so il motivo. “Ti mandiamo in Germania a lavorare”, “Mandatemi in Germania”. Mi fece una proposta. Dice: “Senti, ti dò la parola d’onore che ti lascio, però devi fare una cosa”. “Mi dica, se posso volentieri”. “Dimmi dove sta tuo padre, tua madre, tuo fratello e tre nipoti”. Questo di me già sapeva tutto. Dapprima stetti zitto, poi disse: “Allora?”. “Senta, già che io alla sua parola non ci credo, per carità, perché un italiano che mette in mano a un altro italiano per cinquemila lire a persona, per me lei l’onore non ce l’ha”. Dice: “Guarda che … faccia quello che gli pare”. “Ammesso e non concesso che lei abbia la parola, mi lasci per prendere sei del mio sangue, no, invece che cinquemila ne prenda trenta, lasci perdere”. Allora si arrabbiò, diede un cazzotto chiamò il piantone e disse: “Portalo a Regina Coeli. Arrivai alla porta, mi rivoltai e gli feci un segno col ditino, così. Dice: “Che significa quel segno? Lei deve pregare Dio che non ritorno, perché se ritorno la mando all’altro Paese”. Da lì mi hanno mandato a Regina Coeli, blocco n. 5. Ci stetti un po’ di giorni; il 4 gennaio del 1944 alle quattro e mezza di mattina ci dettero la sveglia, ci hanno incatenato cinque per cinque e ci hanno portato alla stazione Tiburtina, ci hanno caricato, ci hanno messo dentro un vagone, settanta persone per vagone, ci hanno rinchiuso. Solamente una ventina si potevano mettere seduti, abbiamo viaggiato, siamo partiti, abbiamo fatto due giorni e due notti per arrivare a Monaco di Baviera. Siamo arrivati verso mezzanotte e siamo andati  al campo di concentramento di Dachau, ma ancora non sapevamo nulla. Credevamo di andare in un campo di lavoro come avevano detto, ci hanno rinchiuso dentro la baracca delle docce, ci hanno lasciato là un po’ di giorni, non sapevamo nulla ancora; poi la mattina ci svegliarono, ci hanno preso e siamo arrivati a Mauthausen, l’11 gennaio del 1944 verso le undici, mezzogiorno.

D: Scusa Mario, a Dachau non vi hanno fatto la spoliazione.

R: No, niente, non ci hanno dato matricola. Non sapevamo niente perché eravamo dentro la baracca ma non si vedeva niente. Arrivati a Mauthausen, sulla destra dove c’è il muro del pianto ci hanno messo lì e ci hanno fatto l’appello. Ancora non sapevamo, non si vedeva niente, la neve alta, un freddo, 20 gradi sotto zero. Ogni qualvolta che chiamavano un ebreo si faceva uscire dalla riga e ci hanno messo sulla baracca dove sotto ci sono le docce. Eravamo solo 11 ebrei su 480 italiani. Ci mettono in fila addosso al muro, ci misero con le spalle sopra la baracca e si presentò uno delle SS Sarà stato due metri, aveva le spalle, era un colosso. Mentre i nostri compagni andavano giù un po’ per volta a tagliarsi i capelli, tutti vestiti, questo mi chiamò per prima, mi disse: “Sprechen Sie Deutsch?”. Ma non sapevo cosa, però col dito faceva così. Ho capito, sono uscito e mi sono messo … mi fa: “Parli tedesco?”. E io non rispondevo, non sapevo. Un collega nostro, certo Renato Pace, fece: “Mario, ti ha domandato se parli il tedesco”. Non sapendo dove eravamo caduti, risposi un po’ sgarbato: “Ma che mi importa a me, non so quasi l’italiano!”. Alzai le spalle e dissi: “No, non parlo il tedesco”. Non glielo avessi mai detto: mi dette un cazzotto mi mandò lungo per terra, mi rialzai, mi ha riempito di cazzotti, di calci. Per fare breve il discorso, per cinque sei ore di seguito fino all’ultimo che andavo a fare la doccia, cominciava col primo e finiva con il secondo poi ricominciava con me; insomma avevamo la faccia gonfia, usciva il sangue dagli occhi, dal naso, dalle orecchie dalla bocca, dappertutto; gli occhi erano diventati così non ci riconoscevamo più uno con l’altro. Finito di far la doccia ci hanno levato i vestiti, i capelli, l’oro, quello che avevamo e ci hanno mandato a far la doccia, l’acqua era gelata. Finito di fare la doccia, ci hanno fatto uscire senza asciugarci, senza vestire; ci hanno mandato al blocco di quarantena che sta giù in fondo. Siamo entrati là e c’erano i nostri compagni, quando ci hanno visto questi poveracci “Ma che vi hanno fatto, perché vi hanno fatto così…”. E noi chiudevamo gli occhi e dicevamo non lo so; ci hanno dato il vestito e da quel momento non ho inteso più il mio nome.

Da quel momento il mio nome era “Zwei­und­vierzig­tausend­zwei­hundert­dreißig”, 42.230. Dovevamo imparare in pochi secondi altrimenti erano botte. La mattina presto ci hanno levato dalla quarantena e ci hanno mandato al blocco numero 5, il blocco degli ebrei. Entriamo dentro viene un francese, ci ha visto con la stella ebraica e ci ha detto: “Ma voi siete ebrei?”. “Sì”. “Ringraziate Iddio che ancora siete vivi”. “Perché?”. “Perché quelli che vi hanno preceduto li hanno subito eliminati”. “Ma scusa come li hanno eliminati?”. “Guarda là sotto”. Siamo andati sotto e abbiamo visto il fumo. “Ma che cosa è quello?”. “Sono usciti da là”. “Come sono usciti da là?”. “Quello è il forno crematorio”. “Ma perché? Non lo so”.

Quando è stato il giorno appresso sono venuti da Torino, il convoglio e invece c’erano cinque ebrei e li hanno mandati da noi, padre e figlio, due fratelli e un altro. Viene questo francese e fece: “Guarda, voi domani andrete a lavorare alla cava, però quando andate giù mettetevi sul lato destro, quando venite su mettetevi sul lato sinistro”. “Ma perché?”. Ho fatto io. “Lo vedrai domani mattina”. Effettivamente la mattina alle quattro sveglia, mi metto subito in fila, siamo stati due tre ore là in fila, per l’appello, poi hanno aperto il portone e siamo andati giù, e siamo arrivati alla cava … Effettivamente aveva ragione perché sulla destra non c’era il burrone, sulla sinistra c’era.. noi la chiamavamo la scalinata della morte, le SS dicevano invece che era il muro dei paracadutisti. Oltre cinquanta metri. Il nostro lavoro consisteva da dodici ore al giorno andare giù a mettersi sulle spalle un masso di granito di minimo venticinque chili, si doveva percorre questa scalinata in fila per cinque, non era che tu pigliavi il masso e andavi su, no, prendevi il masso dovevi mettertelo in spalla e poi aspettare la fila. Davano il via e andavano su e lì morivano tutti i giorni duecento, duecentocinquanta perché bastava perdere l’equilibrio … sa noi eravamo appena arrivati giovani di venti, sedici, diciotto anni, bastava che cadeva uno o sennò quando arrivavamo su le SS con il calcio del fucile ti davano una botta sulle costole tu perdevi l’equilibrio e cadevi. Finito il nostro lavoro noi ci dovevamo prendere i cadaveri metterli sulle spalle e andare su, c’era quello che contava, per modo di dire, cento persone, loro dicevano “einhundert Stück” significa che noi non eravamo più uomini, significa sono usciti “cento pezzi” e cento pezzi dovevano ritornare, perché se ne mancava uno stavi delle ore e ore. Noi portavamo questi cadaveri. Poi si posavano per terra, gli addetti ai forni crematori li pigliavano e ritornavamo alla baracca numero 5. Alla baracca numero 5 non c’erano le cuccette, come le altre baracche, si doveva dormire per terra, per modo di dire su una parete che poteva andare cento centocinquanta persone, ci doveva entrare duecentocinquanta. Perciò il capoblocco quando dava le bastonate, insomma … 

Un passo indietro, noi ebrei prima di entrare nella baracca ci dovevamo spogliare nudi, solamente con una camicia di cotone, fare il pacco dei vestiti, delle scarpe e lasciarli fuori sulla neve, può immaginare quando la mattina dovevamo… Il capoblocco aveva due modi per svegliarci, dipende da come si svegliava lui, o a suon di bastonate, aveva un coso di gomma o sennò con la pompa dell’acqua. Può immaginare, tutti bagnati uscire fuori in mezzo alla neve; era diventato legno, per fortuna è durata quattro mesi solo. Quattro mesi, ma erano quarant’anni, no quattro mesi. Da lì ci hanno mandato a Melk.

D: Scusa un attimo Mario, quando ti hanno dato il numero, l’immatricolazione da mettere sulla zebrata, vi hanno dato anche la piastrina per il polso?

R: Il polso e il collo.

D: Cioè?

R: Il fil di ferro con la piastrina di metallo, con il numero mio sul collo e il polso.

 D: A te che triangolo hanno dato?

R: La stella ebraica.

 D: E basta?

R: La stella ebraica gialla e rossa e sopra “it” che significa italiano.

D: Quando vi hanno chiamato per andare a Melk, è stata fatta una selezione?

R: No, una selezione no. La selezione l’han fatta dopo due mesi, poi vi racconterò. Andiamo a Melk, una bella passeggiata…

D: Con cosa siete andati a Melk da Mauthausen?

R: Siamo andati dopo quattro mesi e mezzo.

D: Sì, ma con cosa? Con cosa vi hanno portato?

R: A piedi. Da Mauthausen a Melk è una bella … perché Melk rimane vicino a Vienna, invece Linz …. Arriviamo a Melk ed era un campo, vicino c’era l’aviazione e lì i bombardamenti erano dalla mattina alla sera. Lì però ci hanno dato la cuccetta, eravamo insieme agli altri, non insieme … come a Mauthausen, però sempre la stella ebraica. Non solo eravamo ebrei, eravamo pure martirizzati dai prigionieri stessi perché eravamo oltre che ebrei italiani, ci chiamavano traditori. Lì si doveva uscire dal campo per andare a lavorare, dicevano che non sapevano che c’erano i campi di concentramento, eccome se lo sapevano, perché noi dovevamo uscire dal campo, un bel pezzo di strada vicino alla ferrovia. La mattina c’erano i bambini che ci aspettavano le donne e gli uomini anziani, invece di buttarci un pezzo di pane, ci sputavano addosso e ci buttavano le pietre. Poi sulla ferrovia si doveva andare a lavorare alla cava, era sulla montagna. Si facevano delle gallerie di sette chilometri l’una che poi combaciavano con quelle altre e lì facevamo dei saloni, là si lavorava…. Avevano bombardato le cose e non c’era più niente. E invece siamo andati a lavorare là. Si lavorava dodici ore di giorno e dodici ore di notte.

Le dico un particolare, quello che mi hanno fatto.

Lavoravo di notte, una mattina entrò una delle SS dentro la baracca ha preso venti ragazzi e in mezzo mi ci ha messo pure a me, si rivoltò e mi ha visto che avevo la stella ebraica e mi ha messo in mezzo. Io avevo un vizio che quando ci chiamava il capoblocco o le SS, mi mettevo sempre per ultimo, perché volevo vedere quello che succedeva davanti, tante volte chiamavano per andare a prendere la legna, e poi quando era ora della zuppa, ti davano quei due cucchiai di zuppa per noi era tanto. Anche quella mattina mi misi di dietro in venti in fila, arriviamo dentro una baracca, entra per primo un francesino snello, entra dentro gli strilli! ”Oddio che stanno facendo lo stanno ammazzando?”. Gli strilli proprio, pochi minuti dopo questo poveraccio esce fuori con la mano sulla bocca. “Ma che ti hanno fatto?”. Ha aperto la bocca gli hanno tolto tutti i denti, non gliene hanno lasciato uno; io sono stato fortunato, al tredicesimo ha buttato le pinze, mi ha mandato via “Geh weg”, “Vattene” perché si era stufato. Me ne ha tolti solamente dodici, puoi immaginare, là cominciai a buttarmi giù.

D: Vi toglievano i denti per quale motivo?

R: Per divertimento. C’era un dottore che stava così, passano le SS che fai? Te lo trovo io il lavoro. Tutti questi disgraziati, tutti i denti, poi a me a un bel momento mi squartarono la bocca, li toglievano, li strappavano proprio e buttavano giù: la bocca si era gonfiata, sono stato qualche giorno senza mangiare, mi pulivo con la neve; ecco perchè c’è la selezione. In quel tempo che ero a Melk, il forno crematorio ancora non funzionava, quando morivano mille duemila, li mettevano sui camion e li portavano a Mauthausen e là facevano la selezione. Sapevo che c’era la selezione, spogliandomi mi detti un paio di schiaffi qua, andavo da quello “Dammi un paio di schiaffi, ma dammi i cazzotti”. Vedeva che stavo bene, andavo là facevo così, facevo vedere che stavo bene, mi fa che ancora potevo lavorare. Vado io là “Linz”… ho visto il capoblocco sussurrava alle SS, mi fa “Torna indietro” , mi hanno messo al posto di ad… Ci portano di fuori e ci buttano sopra i cadaveri, arriviamo a Mauthausen…

D: Scusa un attimo Mario, tu a Melk nelle gallerie che lavoro facevi?

R: Dietro le cave, scavavo le cose e portavo fuori con il coso; specialmente la notte la bufera, quando più in là faceva freddo di agosto, può immaginare. Ci misero sopra i cadaveri. Come arrivammo a Mauthausen, quelli che erano ancora in vita, per terra sul muro della morte e quegli altri li portavano vicino al forno crematorio e li buttavano là. Si è presentato uno con un libro faceva: “Tu che sei italiano, francese”; siccome io qualche parola l’avevo capita, avevo imparato, bisognava imparare sennò erano botte, ho capito che cosa è successo; io presi mi strappai la stella ebraica, misi in saccoccia e mi buttai sulla destra. Cominciai a darmi un paio di schiaffi … quando venne da me fece: “Tu? Italiano”. Mi guardò mi mandò in infermeria. L’infermeria era fuori del campo, sulla destra, che adesso ci hanno fatto i monumenti, c’è una grande buca.

C’era un certo Paolino, spagnolo, che era capo cucina, mi conosceva bene, come mi ha visto, “Oh, Jud italiano!”. E io dissi una parolaccia perché parlava bene italiano; gli dissi i morti. “Ma che succede?”. Gli spiegai, “Va bene ti chiamerò italiano solo, va bene?”.  Mentre stavo parlando con lui, mi fa “Vuoi una sigaretta?”. Lui aveva le sigarette, ma non fumava; era un colosso puoi immaginare, le SS gli facevano: “Permetti una parola?” Lui faceva boxe, tutte le domeniche faceva boxe e mandava al creatore. E va bene dammi una sigaretta, mentre stava per rompere un pacchetto, ancora mi ricordo il nome “Zorro” erano piatte piccole, da venti, passa una SS “Paolino, permetti una parola?” “Eccomi”. Mi ha dato in mano le sigarette e mi ha detto: “Pigliati una sigaretta e mi dai il resto”. Come si allontanò mi squagliai e gli rubai le sigarette. Da lì mi salvai. “Ma come ti salvi con le sigarette?”. Sì, sono stato quasi un mese vendendo le sigarette, farne commercio una zuppa e facevo, compravo e vendevo, insomma dormivo, non lavoravo, mangiavo, non pigliavo botte, stavo bene no?  Quando erano cinque giorni andavi in infermeria ti guardavano e io avevo qui sulle gambe tutte rotte le piaghe; quando sapevo che dovevo andare a fare la visita, pigliavo e mi grattavo poi davo una pulita con l’acqua poi mi rifasciavo andavo là altri cinque giorni, stavo bene. Quando è stato l’ultima volta “noch eine fünfe” meno male altri cinque giorni, poi ci ripensò e disse “Vieni qua indietro, metti il piede qua sopra”, disse bandito, “Sei bandito, tu ci provi è quasi un mese che sei qua”; mi prese il numeretto, quando pigliavano il numeretto eri fritto, lui quando andava a Mauthausen faceva la dichiarazione e ogni due domeniche c’era l’impiccagione. Esco fuori da questa baracca e chi incontro? Paolino. “Ahoo non mi saluti più? Mi hai fregato le sigarette ..”. Non mi ha detto niente perché ha capito. “E manco mi saluti! Piantala, non stare a rompere. Aohh che ti è successo?” “Solo tu mi puoi salvare”. Gli ho fatto: “Un’altra volta? Che ti è successo? Così raccontai tutto. “Cosa vuoi da me? Che mi sei figlio? Mi hai rubato le sigarette, io non ti posso fare niente”. Però lui mi guardava … “Guarda guarda va fa…” dissi e andai via. Dopo una mezz’oretta venne dentro uno e dice: “42230 vai alla baracca numero tot che ti vogliono”. “Va be’”, ho fatto io. Era martedì mi pare, mi impiccano oggi invece che domenica. Vado dentro “Guarda tu vai su domani mattina alle quattro c’è il trasporto che va a Melk. Allora mi salvai, andai su alle quattro, quattro e mezza e là mi salvai.

D: Ti hanno riportato ancora a Melk?

R: Sì, mi hanno riportato ancora a Melk e sono stato qualche altro mese. Sempre a lavorare e là era una cosa insopportabile.  Insomma arriviamo e poi da lì siccome si avvicinavano gli alleati ci hanno mandato a Ebensee.

D: Da Melk a Ebensee come vi hanno portato?

R: Sempre a piedi … quella è stata, era la marcia della morte: anche se un mio collega un mio compagno, stava per cadere non potevo sorreggerlo perché sennò le SS prima sparavano a me e poi a lui. Lì, quando cadevano, le SS davano una mitragliatrice e buttavano giù. Siamo arrivati manco la metà a Ebensee, siamo arrivati e nel blocco n. 8, blocco degli italiani, da lì non si doveva uscire dal campo per andare a lavorare perché a Ebensee c’era la montagna e sopra questa montagna c’era il campo di concentramento. Faceva un freddo enorme e là c’erano pochi passi e si usciva dalle baracche e si andava a lavorare dentro le gallerie e facevo le stesse cose. Passarono i mesi e non ce la facevo più. Quando è stato gli ultimi di aprile, io stavo dentro a lavorare e non ce la facevo, sono caduto su un masso e mi sono messo a sedere, è venuto il Meister che era civile e chiamò le SS, “Scusa sa che mi porti i morti qua? Quello non ce la fa manco a reggere un cacciavite”. Non mi ha detto niente, quando è stata l’ora che dovevamo entrare nella baracca invece di mandarmi nella baracca numero 8 mi mandarono nella baracca della morte. Come ti ripeto io camminai, andai proprio in fondo in fondo, mi appoggiai alla baracca però sono caduto, sono svenuto, sopra di me sono caduti altri due, ma erano morti. Insomma erano tre giorni che non potevo neanche muovermi, hanno cominciato a entrare dentro con le barelle a prendere i vivi, i cadaveri e avevano fatto le fosse comuni; per eliminare più persone, hanno fatto le fosse comuni e venivano, buttavano e buttavano; mo’ toccava al gruppo vogliamo dire mio, ho aspettato, sentivo che strillavano in tedesco, in francese non capivo, perché avevo perso la memoria. Non parlavo stavo con gli occhi sbarrati e non parlavo, questo me lo ha raccontato un mio amico, un carissimo mio amico. Mi trovai alla baracca numero 8, il 2 o 3 maggio mi ritrovai con otto coperte sopra. E non capivo niente, vedevo che tutti camminavano con il pane, avevano dato l’assalto ai magazzini e quello è stato un male, perché morivano per mangiare. Effettivamente io quando vedevo da mangiare io lo buttavo anche se non capivo, vedevo e un amico mio un certo Ciccio, mi dette una botta, lui stava bene grazie a Dio, mi dette una botta e mi fece cosare.

E là non capivo più niente, non mangiavo, non capivo più niente, quando il 5 maggio è stato liberato Mauthausen; invece Ebensee è stato liberato il 6 maggio, alle 14.30 entrarono gli americani sfondarono, vedevo, però non ho avuto quella gioia di piangere, dicendo sono libero, non capivo nulla. Allora questo amico mio mi ha portato alla tenda che hanno allestito mi hanno portato in città, dove mi hanno spogliato, lavato e pesato. Pesavo ventisette chili e due etti. Hanno requisito case, hanno requisito tutto quanto, però non c’era più posto e mi hanno mandato al vagone della Croce Rossa. C’era un treno della Croce Rossa, dopo cinque giorni mi hanno preso e mi hanno portato in una villa .. pagherei un milione a vedere quella villa, francamente, una villa, figlio mio, avevo la mia cameretta, una ragazza che mi custodiva, mi lavava, mi dava da mangiare mi portava a spasso, però non capivo niente. La mattina passava il comandante americano con l’interprete e mi domandava come stavo, però io guardavo con gli occhi sbarrati e non …. Dopo ventitre, ventiquattro, venticinque giorni, una notte m svegliai di soprassalto, feci così proprio, tutto buio, misi la mano di dietro e accesi la luce, mi guardai intorno, lenzuola pulite bianche, pigiama … “Signore Iddio mio, ma dove sto qui?” Mi alzai, aprii una porticella e c’era una vasca da bagno, mamma mia, apri la finestra, tutto verde, prato bello, guardai in cielo tutto stellato, stavo con le mani così e guardai in cielo, feci uno strillo da bestia, uno strillo, ma forte, la ragazza che stava nella cameretta a dormire, ha sentito questo strillo ed è venuta là, ha aperto la porta e mi vedeva che stavo così. Poi io mi rivoltai e vidi questa ragazza, e in tedesco gli feci “Hallo Fräulein, es ist fertig Krieg”. “Signorina, ma è finita la guerra? Io sto bene? Ritorno a casa mia?”. Allora questa qua vedendomi così venne là e mi fece: “Sì, sei ancora vivo grazie a Dio”. Mi abbracciò, feci un pianto dirotto erano mesi che non mi usciva più una lacrima anche se mi menavano non usciva più una lacrima. Questa poveraccia mi ha ricoperto bene, mi accarezzava, mi è andata a prendere un bicchiere d’acqua, mi ha calmato e mi sono addormentato. Quando è stata la mattina che è venuto il comandante americano, stavo sdraiato e allora che è successo, venne e mi ha fatto le stesse domande, dice: “Come stai?” “Aho’, io sto bene! Io torno a casa mia, grazie a Dio, grazie a voi, ritorno a casa mia”. E il comandante con le lacrime, mi abbracciò. Insomma, sono stato quasi due mesi, ma mi hanno trattato benissimo, gli americani mi imboccavano.

D: E quando sei rientrato in Italia? Come?

R: Poi sono rientrato nel campo, perché dovevamo fare… si radunava tutti gli italiani e si andava via. Io sono ritornato a Roma il 27 giugno.

D: Che percorso hai fatto e con che cosa?

R: Siamo partiti con i camion fino a Bolzano, fino a che siamo rimasti in mano agli americani con i guanti bianchi. Come siamo arrivati a Bolzano, niente. Sì, c’era la Croce Rossa, c’era un panino con il formaggio e via siamo montati un’altra volta sul camion per andare a Bologna perché non c’erano treni a Bologna, montai sul camion e svenni. Fermarono il camion venne la Croce Rossa e svenni .. “Portiamolo all’ospedale questo”. “No, no”, feci io. “Sono vicino a casa, vado a casa mia all’ospedale”. Allora l’amico mio che stava con me siamo partiti insieme e siamo ritornati insieme. Fece Mario: “Ci vado io a casa. Glielo dico io che sei vivo”. Perché dopo l’ho saputo: mia madre mi credeva morto, perché nel nostro rione qui a Roma avevano messo un cartello dicendo che Mario Limentani era deceduto a Mauthausen. Mia madre mi credeva morto.

In quei tempi quando moriva un figlio, un marito o quello che sia si vestivano di nero, adesso non si usa più. Mia madre invece non si era vestita di nero e quando la vedevano, dicevano “Ma perché? Figlia mia bella, il lutto lo porto al cuore, non al vestito”. Pareva che se lo sentiva questa donna. E mi hanno portato all’ospedale a Bolzano, non lo so quale ospedale, era un grande ospedale. Là sono stato un po’ di giorni, quando è stato il quinto giorno non ce la facevo più e sapevo che c’era un treno che andava a Bologna andai dal coso e dissi: “Guardi dottore mi dia il biglietto che io voglio andare”. “No, ancora sei debole”. “Guardi sto bene, sia buono”. Insomma gli rompevo gli stivali fino a che mi hanno dato. Come sono uscito dall’ospedale, se stavo altri quaranta giorni là morivo io non ci stavo, mandavo per aria tutto.  Ritornai a Roma, andai a Ponte Garibaldi. Siamo arrivati alla stazione Tiburtina, non avevo i soldi e non sapevo dove andare. Andai in un ufficio, “Guardi io vengo dalla Germania”; dice “Embe’?”. “Qualcuno mi porterà a casa mia ..”. “Dove abiti?”. Abitavo in via Arenula. “Aspetta adesso, viene la camionetta ti faccio portare a casa”. Sono passate due ore nessuno mi prendeva, all’ultimo mi sono stufato ho preso il tram; non ho pagato il tram, non ho pagato niente e sono andato a casa.

Grazie a Dio ho ritrovato tutti quelli che ho lasciato.

D: Mario, durante il tuo periodo di deportazione nei campi hai trovato anche delle donne deportate?

R: Sì, a Mauthausen c’erano delle donne. Erano al campo 3 ma si vedevano poco.

D: Hai trovato anche dei religiosi deportati, dei sacerdoti?

R: Sì, sì mi ricordo uno che si chiamava … Mi ricordo che aveva fatto il presidente qui .. Era prete poi si è spogliato. C’erano dei sacerdoti, dei preti e pure loro prendevano le botte come noi.

D: E dei ragazzini, dei bambini ne hai visti?

R: Purtroppo io posso dire tre cose solamente, perché se dovessi dire tutto ciò che ho passato io, tutto ciò che ho visto io … Già non parlo mai perché farebbe male a me stesso, quando vado per le scuole non racconto; racconto solamente tre cose.

Un giorno il comandante di Mauthausen portò il figlio che compiva diciotto anni ha preso quaranta deportati li ha messi sul muro del pianto, ha preso la sua rivoltella e l’ha messa in mano al figlio e il figlio uno per uno li ha giustiziati, per far vedere che lui era un uomo, non noi.

La seconda volta entrò uno delle SS si rivoltò e ha visto un gruppetto di ragazzi piccoletti, tre anni e mezzo, sei, cinque anni, si soffermò a guardare poi prese il più piccolo, si mise a giocare un po’ poi con tutta la sua forza lo buttò sui fili spinati. Quel bambino è rimasto appiccicato lì. “Che cosa ha fatto di male quel bambino?”.

Un’altra volta entrò uno delle SS ubriaco, cominciò a sparare, dopo pochi secondi è caduto ubriaco, ne uccise quattrocento.

Queste sono le tre cose che io dico solamente, altro non posso e non voglio dire perché sono cose che c’è rimasto impresso, sono passati 57 anni e mi pare sempre di essere stato lì. Io adesso ho parlato con voi, mi avete interrogato, io questa notte non dormo. Perché mi viene tutto in mente ciò che io ho detto, molte notti io mi sveglio mi pare di stare lì.  Mi pare di stare nel campo e vedere con gli occhi i maltrattamenti che hanno fatto ai miei compagni, quello che hanno fatto a me. E’ una cosa indimenticabile, non si può scordare, io vado per le scuole, porto i ragazzi a Mauthausen, non lo faccio per me ma lo faccio per un suo avvenire, per mettere in guardia che oggi domani non possa più succedere una cosa simile.

D: Come si chiamava l’amico che ha fatto tutto il percorso con te?

R: Questo Ciccio ha fatto con me, poi un altro Davide, però disgraziatamente siamo tornati in quattro qui e sono rimasto solo io.

D: E di tutto il trasporto che siete partiti, in quanti siete tornati?

R: 480, e siamo rimasti in tre, quattro, uno sta a Torino, erano due fratelli, erano i nipoti di Badoglio. Partiti con noi. Adesso uno sta a Torino, gli ho telefonato dopo 52 anni, il fratello è ritornato Pietro si chiamava, ha avuto un incidente con la macchina è morto, e questo è rimasto che io a un congresso nostro si parlava del più e del meno, sta a Torino, sta con me, e mi dette il numero del telefono. Quando ritornai a Roma gli telefonai, dice: “Ma chi sei?” “E’ inutile che ti dico il nome. Io mi ricordo di te perché siete due fratelli”. “Ma tu chi sei?” “Io ti dico un particolare”. Io gli dissi quel particolare e non ho neppure finito che si è messo a piangere.

Isola Luigi

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Isola Luigi, sono nato a Varazze il 30 giugno 1925. Sono stato arrestato il 28 di luglio del 1944, sempre a Varazze, da un manipolo di bersaglieri. Fui condotto subito alle prigioni locali, interrogati dagli ufficiali dei bersaglieri. Alla sera ci portarono alle carceri di Sant’Agostino a Savona, sotto la giurisdizione delle SS tedesche. Rimasi a Sant’Agostino circa una settimana, dopo una settimana ci trasferirono a Genova, ci dovevano portare alla casa dello studente; senonché durante il tragitto, siccome ci misero sopra una corriera – le corriere di quell’epoca andavano a gas – a metà strada mancò la bombola del gas e rimanemmo fermi a Cornigliano. L’autista si diede da fare per sostituire questa bombola, ma si vede che il tempo è passato perché non la trovava ed è venuto tardi; finché siamo ripartiti e quando siamo arrivati alla casa dello studente, che era praticamente chiusa, non ricevevano più nessuno, e ci dissero che dovevamo essere portati a Marassi.

Infatti ci portarono nel carcere di Marassi a Genova. Anche qui rimasi mi sembra otto o dieci giorni, non di più. Dopo dieci giorni un mattino vennero le SS e ci tirarono fuori dalla prigione, noi eravamo convinti di andare all’interrogatorio alla casa dello studente. Invece quando siamo usciti fuori nel piazzale mi ricordo c’erano dei pullman che ci aspettavano, tre grossi pullman e insieme a degli altri, che erano forse delle altre celle, ci caricarono su questi pullman. E partimmo per la volta di Milano. Il viaggio fu …

D: Scusa un attimo Luigi perché ti hanno arrestato?

R: Venni arrestato perché mi incolparono di far parte di una cellula comunista. Mi arrestarono per quello, io mi scuso di non averlo detto prima, perché dovrei fare dei passi indietro per spiegare come diventai comunista, per dire, diventai comunista, avevo 17 anni potevo essere, insomma …

Dunque la mia infanzia purtroppo è stata un’infanzia un po’, non dico brutta ma una infanzia da povera gente. Era un’infanzia da povera gente, mio padre e mia madre lavoravano tutti e due, mia madre faceva la lavandaia, mio padre lavorava alla Tubi Ghisa di Cogoleto, nell’andare a lavorare un giorno cadde di bicicletta e purtroppo morì. E restammo io mio fratello e altre due mie sorelle ad aiutare la mamma. Io ero ancora un ragazzino, avevo circa 10 anni. A 14 anni mi misero a lavorare nei cantieri Baglietto; nel frattempo scoppiò la guerra, mio fratello fu richiamato, fu mandato in Grecia, dove purtroppo morì anche lui, in un combattimento.

Io avevo in casa mia un giovane che faceva il tubista all’officina gas dove lavorava prima anche mio fratello. Il giovanotto che era di qui, di Savona, dormiva e mangiava da noi, veniva a casa il sabato. Propose al proprietario dell’officina gas, visto che mio fratello era mancato, di prendere me al suo posto. E andai a lavorare all’officina gas. Qui conobbi bene questo giovanotto, che io in casa insomma si conosceva così ma le sue idee, le sue cose non le aveva mai confessate e conobbi che era un fervente comunista, proprio un militante, che poi infatti fu fucilato con i tredici qui, lo presero e lo fucilarono qui in Valloria, insieme ad altri tredici. E sovente mi parlava di questo comunismo, di questa cosa, come doveva essere composto, la società non era giusta, insomma mi convinse e divenni anch’io partecipante a queste cose. Infatti alla sera si andava ad attaccare i manifesti, a scrivere, si cercava di fare quello che si poteva fare. Mi fecero la spia, che a volte si dice chi trova un compagno trova un tesoro, io purtroppo trovai un serpente, mi fecero la spia e mi arrestarono.

Mi arrestarono quella sera del 28 di .. E feci tutta la trafila.

D: Scusa Luigi, tu non hai mai subito quindi interrogatori?

R: Gli interrogatori li ho subiti sì, la prima sera, lì a Varazze, poi basta, poi non ho mai subito un altro interrogatorio, non ho mai avuto qui sevizie e cose non ne ho mai avute; qui sono sempre stato prigioniero, ma con i nostri, diciamo le nostre ansie, le nostre cose perché si sapeva che essendo in prigione sotto le SS qualunque cosa poteva succedere fuori potevano anche prenderci come ostaggio e metterci al muro, fucilarci.

In sostanza partimmo per Milano dal carcere di Marassi a Genova. Il viaggio fu un’odissea, fu un’odissea perché chi guidava i camion erano degli ufficiali tedeschi e pure se non erano pratici di viaggi, non erano pratici dell’itinerario, non eravamo ammanettati, eravamo messi così tranquilli; l’unica cosa che mancava era il mangiare e il bere. Le cose per andare a fare che bisognava aspettare che loro fossero comodi. Infatti io avevo ho parlato, avevo con me una, sul sedile avevo una signorina che diceva di essere una giornalista, poverina se la fece addosso perché non la lasciarono scendere, se la fece …

D: Scusa Luigi quindi non eravate solamente uomini?

R: Eravamo uomini e donne. Poi adesso vengo ad un particolare che … Vuol dire che si arrivò persino in un punto che sbagliarono strada, presero un fiumiciattolo, una cosa che era asciutta la presero per una strada, ci infilammo lì dentro e poi dovemmo tornare indietro. Oltre a tutto venivano i caccia a mitragliare, allora ogni tanto si scappava, si scendeva, ci facevano scendere; io mi ricordo che in un momento di quelli lì ho cercato di scappare, mi sono infilato in un cespuglio. Quando han chiamato non mi sono presentato; senonché uno, forse senza pensarci, ha detto, siccome avevo un vestito un po’ da marinaio, dice “Il marinaio dov’è? Il marinaio dove è andato?” E allora ho dovuto far finta di abbottonarmi i pantaloni e dire che ero andato a fare, dico “Sono qui, sto arrivando, un momento”. E va be’.

Si arrivò in un punto dove c’era da attraversare il Po; eravamo a San Benedetto del Po, c’era da attraverso ‘sto ponte che mettevano solo di sera, lo facevano di chiatte perché quello che c’era normale era stato buttato giù. Oltre tutto sì che lo mettevano di sera ‘sto ponte, ma prima passavano tutti i militari che venivano in giù, tutte le colonne tedesche, poi se c’era tempo si passava noi. Insomma rimanemmo lì a San Benedetto due giorni, ci infilarono in una stalla e mi ricordo che in due giorni che siamo stati lì ci hanno dato un pezzettino di formaggio parmigiano e una cosa di pane. E una sera mentre eravamo lì c’erano marito e moglie, che oltretutto poverini li avevano arrestati mentre andavano al lavoro, avevano lasciato a casa i due bambini con la nonna, due bambini piccoli con la nonna e li avevano arrestati e non avevano più saputo niente. Mi ricordo che si sono messi a cantare una canzone genovese, non le dico la commozione che venne a tutti.

Dopo due giorni, una sera allora ci imbarcarono, si passò il ponte. Si passò e si arrivò a Milano, nella mattinata, nei giorni che si arrivò a Milano e ci portarono a San Vittore. A San Vittore ci misero in uno stanzone, eravamo parecchi in quello stanzone lì, e mi ricordo come dicevo che era forse il 15 e il 14 di agosto e c’era un temporale; noi lì dentro si vedeva ‘sti lampi, si sentivano ‘sti tuoni, speravamo sempre che fossero gli alleati che stessero arrivando, perché dicevano c’era sempre radio bugliolo che diceva sempre “arrivano, arrivano, i tedeschi sono in rotta, son di qua son di là”. Beh lì a San Vittore siamo stati anche poco, forse cinque o sei giorni. Un mattino ci chiamano e ci portano fuori, ci caricano sui camion, camion di quelli militari, ci hanno stivato dentro con piedi, calci, pugni, han fatto tre camion, … si parte dove si va non si; e poi ci han portati con destinazione era Bolzano mi ricordo.

D: In questo trasporto c’erano ancora delle donne con te?

R: No, in questo trasporto eravamo tutti uomini; non ce n’erano donne; le donne le ho riviste poi a Bolzano, perché a Bolzano quando sono andato io non era un campo di concentramento, ma quando sono andato io più che altro era un campo di smistamento, perché a Bolzano arrivavano tutto quello che i tedeschi rubavano in Italia, macchinari, di tutto, arriva lo immagazzinavano, lo catalogavano poi di lì si imbarcava sui camion e si portava alla stazione e si caricava sui vagoni. C’era un blocco a parte che arrivava la gente, la mettevano in questo blocco e quando c’era il numero sufficiente facevano i treni da mandare in Germania.

D: Cosa ti ricordi tu del campo di Bolzano?

R: Io mi ricordo che quando sono arrivato al campo di Bolzano .. avevano detto prima che era un autocentro, dove c’era un autocentro italiano, lo avevano requisito e avevano fatto questo campo. E c’erano quattro enormi padiglioni, fatti a tetto, come si entrava c’era una villa, una palazzina, poi c’erano ‘sti padiglioni, poi c’erano i gabinetti che li avevano fatti, avevano fatto una tettoia, avevano fatto dei buchi con una tavola, quelli erano i gabinetti, perché non c’era ancora … Poi c’era un’altra grossa palazzina che lì serviva da magazzino. Sul fianco di qui c’erano le cucine, c’erano dei cosi vuoti che poi in uno di quei sgabuzzini abbiamo fatto la cosa del dentista, non so a chi aggiustavano i denti o se gli serviva per poi togliere i denti, e dietro ancora c’erano i laboratori, la falegnameria e l’officina. Lì hanno cominciato poi a selezionarci. Piano piano siccome avevano i nostri documenti, a seconda del mestiere, delle cose che si aveva. Infatti c’era la baracca a, b, c e la baracca d. La baracca d era quella dove avevano messo un po’ di recinto perché poi c’era un piazzale enorme; avevano messo un po’ di recinto, lì mettevano quelli che arrivavano e che erano di passaggio, quelli che non servivano, quando li avevano selezionati. Poi c’erano le altre baracche che servivano per la falegnameria, ognuno aveva la sua baracca; e io fui messo nella baracca dove c’erano i meccanici, gli idraulici, quella roba lì, facevo l’idraulico e fui messo lì.

Fui destinato come dico nella baracca lì dei lavoratori meccanici.

D: Ricordi che blocco era?

R: Blocco a, era il blocco a, il primo. Poi c’era la b, la c, poi c’era quell’altro dove, come dico, mettevano quelli che non servivano. Infatti di noi, dei miei amici, eravamo in quattro, no eravamo in cinque e lì vi fu un po’ un mistero perché ce n’era uno che faceva il panettiere, non serviva, quindi lo misero; un altro che era un .. come ho detto, aveva un’officina di auto … non gli serviva forse neanche lui; ci tennero in tre, io che facevo l’idraulico, no in quattro ci tennero, io che facevo l’idraulico, due che facevano il falegname e uno che non faceva niente, uno che era un manovale, quello lo tennero.  Questo lo mandavano a caricare e a scaricare, e lì cominciammo a fare i lavori.

Come dico si arrivò lassù che non c’era niente. Alle finestre di questi cameroni non c’era niente; noi abbiamo cominciato a fare le grate. C’era era un fabbro che era di Udine, era una cannonata e avevamo il capo che era un altro fabbro di Milano, era un dirigente del partito comunista; venne il momento che dovevano deportarlo anche lui fu fatto scappare.  Io ero ancora lì.

Devo dire che abbiamo fatto tutte queste grate, abbiamo messo tutti i ferri che sporgevano in fuori per mettere poi i reticolati. Quando abbiamo finito quello poi venne il momento che si doveva ripristinare tutto l’impianto dell’Alfa e allora mi ricordo che c’era un maresciallo che si chiamava maresciallo König, mi diceva “Dimmi cosa ti serve, vado a Milano e vado a prendere gli attrezzi”. E infatti andò a Milano, prese un cavalletto, prese le filiere, dei tagliatubi, prese tutto quello che poteva servire. E cominciai a fare questi impianti, cominciammo a mettere un po’ d’acqua nelle baracche, a mettere un lavandino nel cortile, cominciammo a mettere l’acqua nei gabinetti, perché nei gabinetti non c’era niente, come dico era un buco, e poi c’avevano messo sopra una tavola, e lì si andava, ci si teneva così. E cominciai a fare tutti questi impianti. Poi portarono un autoclave, me la ricordo, un’autoclave che era rotta; io l’aggiustai, però mancava un manometro, che era spaccato. E ‘st’ufficiale mi disse: “Adesso quando vado a Milano cerco di procurarvelo, cerco di procurarvi ‘sto manometro”; avevamo girato dappertutto lì si vede che non erano ancora riusciti a trovare un manometro. 

Nel frattempo, come dico, lì a Bolzano non si stava male, non si stava male perché il rancio era quello che era, però c’era chi poteva pagare e si faceva dare, facevano il supplemento rancio. E allora, specialmente nella baracca lì dove ero io c’erano tanti che avevano qualcosa e pagavano anche per noialtri che eravamo indigenti e allora si prendeva sempre un po’ di più di zuppa. Mi ricordo che facevano quella zuppa di orzo, soltanto che non la lasciavano cuocere bene, allora si mangiava ‘sta zuppa e cresceva nella pancia, dei dolori di stomaco. E poi alle volte la sera ci davano una fetta di polenta, polenta dura, la facevano bollire tanto che diventava, ti davano una fetta di polenta e una fetta di marmellata, dura anche quella. E quello era il rancio della sera.  E lì, come dico, ci stetti fino a novembre.

D: Scusa Luigi, ti ricordi il tuo numero di immatricolazione di Bolzano?

R: Di Bolzano non ne avevo, non ce n’erano numeri di matricola. A Bolzano, chiamavano ancora per nome; hanno cominciato a darci poi il numero di matricola a Mauthausen.

Io mi ricordo che un giorno lì, non era ancora, come dico, un campo di concentramento, però un giorno uno gli venne la cattiva idea di scappare, lo presero con i cani, con i cani lo portarono in mezzo a quel piazzale, ormai era più morto che vivo, tutto azzannato da questi cani; misero un palo in mezzo al campo e lo legarono lì, e lo lasciarono lì. Io mi ricordo che lo abbiamo sentito gridare per tre giorni, senza bere, senza mangiare, giorno e notte lì, sotto il sole se c’era il sole, sotto l’acqua se c’era l’acqua, stette due notti senz’altro, e poi mi sembra ancora un altro giorno. Ma due notti senz’altro che non si poteva dormire perché lo sentivamo gridare, finché poi morì poverino. E quello fu l’unico episodio che vidi lì che mi impressionò.

D: Visto che tu hai girato tutto il campo di Bolzano, ti ricordi del blocco celle?

R: Non c’era ancora il blocco celle. L’hanno fatto dopo il blocco celle.

D: Dicevi che nel blocco A hanno raggruppati tutti i meccanici, nel blocco B e nel blocco C chi c’era?

R: C’erano gli altri che facevano … c’erano i cuochi, c’erano quelli che lavoravano nel campo, c’erano gli inservienti, c’era tutta quella gente lì. E lì arrivavano i pullman. Io mi ricordo che andavo a vedere se vedevo gente di Varazze; infatti ne vidi due, poi non ritornarono lì, quattro gemelli, due si chiamavano Piombo e due Cinelli, erano gemelli che abitavano a Varazze, non son tornati, sono morti tutti e quattro. Mi ricordo che li vidi arrivare con un pullman; lì arrivavano pullman misti: donne, bambini, non li separavano, li mettevano nella baracca lì, che poi dovevano essere trasportati. Infatti prima che andassi via io fecero mi sembra due trasporti, due volte partirono questi qui.

Quando toccò poi al mio trasporto …

D: Prima del tuo trasporto due cose importanti, quando tu eri dentro a Bolzano hai visto se c’erano anche dei religiosi?

R: Sì, c’erano anche religiosi; c’erano i Geova anche e c’erano tanti tanti zingari. Tutti, bambini, donne, zingari ce n’era tanti. Sì religiosi ce n’erano; sul mio convoglio uno l’avevo nel mio vagone, ma poi ce n’erano altri tre o quattro che erano preti, uno era sul mio vagone che era un prete di Genova. Quando è stato il momento che io dovevo partire …

D: Scusa sempre Luigi, dicevi prima che un funzionario del partito, che era dentro nel campo …

R: Un mattino ci chiamarono a far l’appello, ci portavano fuori a far l’appello poi ci chiamavano per nome, e questo non rispose. Allora cominciò il trambusto: ci infilarono di nuovo dentro la baracca, ci chiusero, in genere non ci chiudevano. Cosa è successo, cosa non è successo? Non si sapeva perché non si sapeva; poi, quando tutto si calmò e siamo andati di nuovo in officina, disse perché  questo che era scappato, perché era il capo officina oltretutto non c’era più, disse che avevano procurato una scala, gli avevano buttato la scala, aveva saltato il coso e c’era una macchina che lo aspettava. Altrimenti da Bolzano non si andava via.

Da Bolzano coi cani che c’erano non si andava via.

Domanda: Ti ricordi il nome di questo?

R: Non me lo ricordo, eppure ce l’ho in mente, ce l’ho in mente da qualche parte.

D: E di dov’era questo?

R: Di Milano. Era un milanese, un fabbro in gamba anche lui; e mi ricordo che faceva cornici di ferro battuto per ‘sti ufficiali, per essere un po’ … Ce l’ho nella mente ma non mi viene in mente, è l’unico forse che mi è rimasto nella mente questo qui.

D: Luigi, com’è che facevano l’appello lì a Bolzano?

R: A Bolzano ci mettevano baracca per baracca sul campo e lì chiamavano per nome, si rispondeva “presente”. L’appello era una cosa semplice, non avevamo, come dico, numero di matricola, come se fossimo stati in prigione, come ritorno a dire.

Quando venne il momento che dovevo partire anch’io, mi misero nella baracca naturalmente, mi spostarono; allora si sapeva che c’era la spedizione, finito un lavoro quando non si serviva più si mandavano lassù. Però non eravamo scontenti di andare in Germania perché eravamo convinti di andare a lavorare. Nessuno sapeva niente di cosa succedeva, di quelli che erano in Germania cosa succedeva, si va a lavorare si va a lavorare. Infatti mi ricordo che quelli del blocco lì ci diedero una scatoletta di carne, perché se le procuravano, ci diedero una maglia di lana, dicendoci “lassù farà freddo”, la carne vi servirà magari nel trasporto, che poi ci si avesse potuto parlare e dire tenetevela per voi che a noi non serve a niente qui perché qui ci portano via tutto, quindi è inutile che ci date la maglietta di lana, qui non serve più niente.

Ci misero in colonna, ci portarono alla stazione di Bolzano dove c’era la tradotta che ci aspettava. Questa tradotta l’avevano, c’erano i finestrini con le sbarre va bene, dove non c’erano avevano tirato dei reticolati e lì cominciammo a vedere cos’era la disciplina tedesca, perché ci infilarono dentro a calci, pugni, tutto quello che poteva capitare ci infilarono dentro. E lì c’erano donne e bambini, tutto, lì c’era tutto. Lì non c’era selezione, la selezione c’era soltanto per chi non lavorava e poi dentro tutti insieme. Fatevi conto in un vagone che non ci si poteva neanche sedere da tanti che eravamo pigiati dentro. Quindi non ci si poteva sedere, non si potevano fare i nostri bisogni perché quello, sì, si facevano, un bel momento bisognava farli ma farli tutti insieme del vicino, senza mangiare e senza acqua. Sì, avevamo la scatoletta di coso, ma la scatoletta di carne con cosa si apriva? Con i denti, la scatoletta di carne di latta non si apre, il più era la sete però. Mi ricordo che in ogni stazione che si fermava c’era qualcheduno che sapeva il tedesco e diceva “Gridate Eine Miski Wasser” e gridavamo sì “Eine Miski Wasser”, ma nessuno si muoveva.

Perché il viaggio, noi non si sapeva che si andava a Mauthausen, ma quando poi si è calcolato da Bolzano a Mauthausen, il viaggio è una stupidata, non è distante, non so quanti chilometri farà ma non è una distanza eccessiva. Un giorno abbiamo messo più di cinque giorni, cinque giorni e quattro notti, sì perché passavano i convogli, ci infilavano in un coso morto finché passavano convogli, quando la linea era libera noi si andava. E si stava delle giornate fermi in una stazione per quello che si gridava che avevamo sete; la fame sì, ma la sete … Meno male che dopo uno o due giorni si mise a piovere, allora con un po’ di carta, con un po’ di cartone abbiamo fatto dei canalini e chi aveva un bicchiere, qualcosa, prendevamo quest’acqua che veniva giù dal tetto del vagone. Insomma siamo arrivati a Mauthausen in una sera di novembre, una serata nuvolosa, pioveva, piovigginava, pioggia fitta, un freddo cane; metà siamo scesi dai vagoni, metà li abbiamo tirati giù e li abbiamo messi sulla panchina, se ne erano andati. Metà erano andati.

D: Sul tuo trasporto c’era questo sacerdote? Ti ricordi chi era?

R: Il nome non me lo ricordo, ma mi ricordo che mi raccontò il fatto, perché dice: “Io sono qui per una mia parrocchiana”. Gli aveva detto che si erano rotte le calze e che non trovava le calze e lui per scherzo gli aveva detto “Te le dà Mussolini le calze”, questa aveva fatto la spia e lo avevano portato. Non mi ricordo. Era un parroco di Genova.

Arrivammo a Mauthausen ci scesero, come dico, quelli che scesero, gli altri li tirammo giù e li mettemmo lì; ci fecero incolonnare ci portarono su, mi ricordo che come si uscì dalla stazione, Mauthausen rimane un po’ su una collinetta e tra la nebbia si vedeva un riverbero rosso, noi abbiamo detto sarà un’officina, sarà una fonderia, sarà qualcosa, ci portano lì a lavorare.

Poi dopo venimmo a sapere che era un crematorio che funzionava.

Arrivammo al campo di Mauthausen, ci fecero fermare su un piazzale ci fecero attendere e allora cominciammo a vedere qualcheduno vestito con queste zebre che girava lì per il campo, veniva lì furtivamente, cercava di farsi capire. Voleva sapere se avevamo degli anelli, degli orologi, se avevamo qualcosa da dare a loro poi ce li avrebbero restituiti, perché altrimenti i tedeschi ce li portavano via. Qualcheduno glieli diede; io non avevo niente non gli diedi niente, poi sparirono, anche le scatolette di carne gli abbiamo dato, nessuno era riuscito ad aprire queste scatolette. Ci diedero l’ordine di spogliarci, di mettere la roba in un angolo che poi alla fine della disinfezione l’avremmo ripresa. Andammo dentro tranquilli perché non si sapeva ancora che tante disinfezioni erano camere a gas; in un salone grande, ci saremo stati in un migliaio di persone, tutto un treno era stato caricato … Stavo dentro e c’erano tutti i cosi dell’acqua, in quel momento aprono l’acqua, acqua gelata, fredda, fredda e non ci si poteva spostare. Un bel momento acqua fredda finita, acqua calda, bollente, anche lì peggio che l’acqua fredda perché l’acqua fredda resisti, ma l’acqua bollente. Bene, un po’ di tempo acqua fredda, acqua calda, acqua fredda, acqua calda, poi entrano due o tre con dei rasoi e qui la pelata. Pelata completa … Mi ricordo che ‘sto prete l’avevo vicino, dice: “Io ho una certa età ma dice non mi sarei mai creduto di vedere degli spettacoli così, di dover finire così con donne bambini nudi qui”. Dice: “Io non avrei mai detto che si arriva a questo punto qua”.

Bene ci pelarono e poi ci buttarono fuori. Manganellate ancora niente, ci buttarono fuori sul piazzale nudi, vestiti non c’erano, nudi. Un’ora sotto la pioggia al freddo, nudi sul piazzale. Poi ci portarono alla baracca, mi ricordo che andammo alla baracca 27; sapemmo dopo che era una baracca di eliminazione perché le baracche avevano quel dato posto che erano dei castelli a tre, si stava due per castello il minimo, due, due e due, e lì c’eravamo quattro, cinque anche più seduti uno sopra l’altro, perché, come dico, ci infilarono dentro anche in quella camera come ci si stava, chi era per terra, chi era, sempre nudi, nudi. 

Alla notte allora cominciarono le bastonate. E chi ci comandava a noi, chi era il capo blocco, chi era il capo campo, era un ex, uno spagnolo preso in Spagna, gli mancavano tutte e due le orecchie, gliele avevano fatte cadere, gliele facevano congelare poi con la bacchetta tac, ti tenevano fuori al freddo. Ed era uno dei pochi che era ancora superstite lì e faceva quel lavoro lì, anche lui era diventato; per la sopravvivenza si faceva di tutto.

Di notte entravano dentro, secchi d’acqua freddi, tubo di gomma, cinghie, cinghiate, insomma che al mattino quando ci si svegliava ce n’era sempre sei-sette, dieci partiti, li tiravano fuori. Piano piano ci siamo fatti il posto per dormire. Piano piano ci siamo fatti il posto, si faceva così. Quattro giorni e quattro notti nudi, completi senza vestiario e senza niente; si usciva, ci chiamavano al mattino dieci per volta, ci facevano infilare nella doccia, c’erano quelle docce rotonde così che venivano giù, si infilava sotto col busto, quello aveva l’acqua gelata, c’era quello col tubo, se uno si tirava fuori perché … tubate. Poi aveva il fischietto “pirilì” e si usciva. Dieci, ne entravano altri dieci, si andava fuori dalla baracca nudi. Allora ci si metteva due a due, ci si brancava così, a fregarsi la cosa per scaldarci. Dopo quattro giorni, ci hanno dato un paio di mutande, ma non mutande di lana, mutande di cotone lunghe, però di cotone e una camicia e basta. Scalzi e una camicia.

Al mattino ci hanno incolonnato e ci hanno portato in un ufficio. In questo ufficio ci chiamavano dentro uno per uno, ci hanno fatto una fotografia, prima davanti poi di profilo, ci hanno chiesto tutti i dati che volevano sapere: quando si è nati, di che religione eravamo, tutto quello che si poteva dire, il mestiere che si faceva. E poi ci diedero il numero di matricola, ci diedero una striscetta di tela dove c’era scritto la nazionalità, Italy, e dove c’era il triangolo; io avevo il triangolo rosso perché i deportati politici avevano il triangolo rosso.

D: Il tuo numero di Mauthausen?

R: Il mio numero di matricola me lo ricordo anche in tedesco perché me lo fecero imparare, era: “Hundertdreizehnneun”, quello era il mio numero di matricola. E quando si uscì, l’ufficiale che era lì ci  disse: da oggi voi non vi chiamate più per nome, voi avete soltanto un numero, dovete rispondere soltanto con questo numero, altrimenti son castagne.

Io mi ricordo che ci portarono poi di nuovo al blocco, e al mattino fecero l’appello. Allora cominciò l’appello vero e cominciò a fare i numeri. Quando arrivò il mio numero – ero zero completo  di tedesco, non sapevo proprio niente – quello là continuava “”Hundertdreizehnneun”. Allora si degnò un bel momento … Isola Luigi, “Presente”, “Oh, jawohl”; mi fece avvicinare, mi fece mettere sull’attenti, mi sputò in fronte e con la matita copiativa mi fece il numero sulla fronte. Poi mi fece voltare a destra, mi sputò sulla guancia, me lo fece qui, poi a sinistra, “Gira per il campo finché non sai il tuo numero”. Ecco perché ho imparato il numero anche in tedesco. Questo di Auschwitz non lo so in tedesco, ma quello là l’ho imparato, l’ho imparato subito. E allora al mattino quando chiamavano bastava che dicessero “”Hundertdreizehnneun”,“jawohl”, non ho mai più preso.

Le botte si prendevano, bisognava stare attenti quando si usciva per il campo se si incontrava un ufficiale, un soldato: mettersi sull’attenti, lasciarlo passare mettendosi sull’attenti e non guardarlo, guardare da un’altra parte perché se per caso uno lo avesse scontrato, guai, allora erano nerbate … se non si andava a finire alla famosa scala del pianto, quella dei trecentottanta gradini, quanti erano? Trecentottanta gradini mi sembra che fossero. E come dico lì la disciplina era quella; lavoro, l’aveva chi aveva qualcosa, ma lì era già quasi tutto preso: o che  si andava alla cava o si portavano i morti al crematorio. Nostro compito era quello di raccogliere i corpi che erano in giro e quelli che arrivavano da fuori, perché ne arrivavano dei camion da fuori, di carne maciullata, loro dicevano che era carne di animali, di cosi morti nei combattenti, per noi era carne di cristiano. Si tiravano giù da ‘sti cosi, si mettevano nelle griglie, poi si portavano dentro al coso, dove li stendevano sulle griglie, poi c’erano gli addetti apposta per il crematorio. I crematori erano in funzione tutto il giorno. Io mi ricordo che il blocco 28, era proprio quasi sotto, quando si mangiava a mezzogiorno quella ciotola di brodaglia che ci davano, ogni tanto veniva giù qualche lapillo, eppure purtroppo si toglieva con le dita, perché si mangiava così come gli animali, perché non c’era niente; ah sì qualcheduno che aveva scheggiato per avere una scheggia di coso, il castello dove si dormiva ha preso legnate ma legnate in abbondanza.

In sostanza la vita del campo di Mauthausen era quella, noi eravamo destinati lì e io non feci in tempo ad ambientarmi perché un mattino mi chiamarono, mi riportarono lì a questo ufficio e mi diedero il vestiario: un paio di pantaloni, una giacca zebrati, un paio di zoccoli, un paio di pezze da mettere ai piedi al posto delle calze, e un berretto. E mi dissero: “Tieniti a disposizione perché devi andare in Polonia a Auschwitz”. E io, quando mi dissero Polonia, capii Polen. Ho detto: “Se vado a Pola sono vicino a casa, posso anche cercare di scappare”.

Due giorni dopo mi chiamarono e ci portarono di nuovo alla stazione di Mauthausen, ci infilarono sul treno, però questa volta su un treno normale, un treno comune. Ci infilarono su questo treno, io capitai in uno scompartimento, ero praticamente solo nello scompartimento, perché questo treno era carico di ebrei, rumeni, ungheresi reclutati un po’ dappertutto e li stavano portando a Auschwitz. Il viaggio, a parte il mangiare, perché mangiare non ce ne diedero, non fu bestiale come fu bestiale quell’altro per arrivare a Mauthausen. La sete ci si poteva togliere perché l’acqua nei gabinetti c’era, era acqua cattiva, ma c’era, quindi la bocca si bagnava. Verso metà pomeriggio, arrivammo; il treno si fermò e c’era questa consolazione; poi riprese perché ad Auschwitz il treno andava direttamente dentro il campo, non si fermava fuori, aprivano i vagoni, si scendeva; dopo la pensilina c’era un caseggiato, un salone che era immenso sembrava una piazza, ci infilarono tutti lì dentro. Io non conoscevo nessuno, come dico, di lì eravamo partiti in due, uno diceva che era italiano, che poi non era, era un serbo, … parlava un po’ italiano, e lì persi anche a lui. Ci infilarono in questo camerone e lì c’era da attendere, si aspettava; in fondo a questo camerone c’era una balaustra di legno e c’erano due ufficiali tedeschi e c’erano due addetti come noi, vestiti a zebre come noi, non so cosa facessero perché ero distante e non riuscivo a comprendere; poi, piano piano che si avvicinava il mio turno, vidi che si alzavano la manica della cosa e quando poi toccò il mio turno mi facevano la matricola.

La matricola di Mauthausen non serviva più, qui serviva solo Italy con il triangolo, perché la matricola era fatta qui nel braccio, era impressionata qui. Questa era la matricola, davanti a me ne erano già passati 201.825, perché io porto il 201.825, quindi guardate quanta gente era già passata davanti a me, quanta ne sarà passata ancora poi, ma non tanta perché poi anche lì hanno distrutto tutto. Ecco la fortuna che ho avuto io … a volte mi dicono “Ma come hai fatto a ritornare indietro?”. Perché sono stato fortunato, sono capitato in un periodo in cui i tedeschi avevano più bisogno di manodopera, cioè ammazzare la gente e finché uno era valido e faceva qualcosa lo tenevano in vita, gli davano solo il necessario per vivere. Io sono capitato in quel periodo lì. Mi ricordo che mi fece: “Italiano?”. Dico: “Sì.” Dice: “Giudeo?”. Dico: “No, son cristiano.” “Come cristiano? Qui cristiani non ne viene.” Dico: “Io son cristiano, perché devo dirvi che sono giudeo se sono cristiano? Se  poi volete che vi dica che sono giudeo…”. Questo era un polacco zebrato come me, forse non aveva il coraggio, poi prese il coraggio e parlò all’ufficiale, che non si poteva parlare, e gli disse: “Questo dice che lui non è ebreo”. Dice: “Ma perché sei qui?”. “Mi han detto che devo venire a lavorare qui, mi han mandato per lavoro, io non so”. E allora l’ha detto a questo ufficiale tedesco. Questo ufficiale tedesco ha fatto segno, “Si sposti, si metta lì”. Mi misi lì ad un fianco, questo ufficiale andò via e ritornò dopo una mezz’oretta circa … poi arrivò e mi fece capire che dovevo uscire e cercare la baracca numero 9. In questa baracca dovevo fermarmi e poi sarebbe passato un addetto che avrebbe chiesto Golleschau e io mi dovevo presentare. Uscii fuori, fate conto di uscire in un campo dove ci sono un’immensità di vita di baracche e non si sa da che parte girare, le prime baracche erano tutti uffici, tutti magazzini, tutta roba. E io cercavo questa baracca, non avevo il nome, il tempo stava passando, stava venendo buio, luci non ce n’erano e non trovavo questa baracca. Gira e gira, girai tanto che un bel momento stanco mi buttai in terra e per la prima volta, vi dico la verità, mi misi a piangere perché avevo proprio pensato che questa fosse stata l’ultima ora, perché mi avevano raccomandato, sotto l’acqua mi avevano fatto capire di non sbagliare perché se sbagli poi se ti vedo ancora ti saprò dire.

Infatti in un bel momento mi rialzai … la forza della disperazione, devo trovarla questa baracca, le girerò tutte e infatti poi la trovai, trovai …

D: Le baracche erano di legno o in muratura?

R: Le baracche ad Auschwitz erano in muratura, non erano di legno, soltanto che la zona dove mi avevano mandato era una zona ormai forse abbandonata, era in disfacimento; infatti non c’era più niente lì, c’era solo questa baracca che gli stava cadendo il tetto, dentro c’erano sì i castelli, c’erano i cosi, ma non c’era più niente, c’era un po’ di paglia ammucchiata e basta. Io cercai di ammucchiare ‘sta paglia e adattarmi per passare la notte. Senonché mentre ero lì in questa paglia, era già buio, sentii dei passi e io credetti che venissero a cercarmi, mi venissero a chiamare, mi alzai e mi tenni pronto. Invece era quel polacco, che rimpiango ancora adesso di non sapere il nome, di non sapere di dov’era, di non sapere niente, perché io una parte, per essere venuto indietro, forse la devo a lui. Sto polacco è venuto, in un gabellino aveva due o tre patate schiacciate, e aveva una coperta, mi ha detto: “Ti porto una coperta”. Parlava anche discretamente un po’ l’italiano, poi mi disse che era stato a Milano a fare dei lavori, aveva un po’ imparato l’italiano. Mi diede questa coperta e mi disse: “Non muoverti di qua, perché se perdi il posto qui sei fritto”. Dico: “Possibile?”. Dice: “Se domani mattina sei ancora qui io vengo, in mattinata presto, vengo, ti spiego e ti faccio vedere”. Infatti al mattino io ero ancora lì, arrivò e dice: “Vieni e vieni di corsa. Vieni, vieni vieni”. E mi portò dove il giorno prima facevano le matricole e da un finestrino, siccome rimaneva un po’ sotto mi fece vedere, dice: “Guarda dentro”, c’erano tutti quelli che erano il giorno prima tutti andati, tutti gasati. Ha detto: “Questa è la disinfezione”. Infatti ce n’era qualcheduno dalla porta che aveva cercato di aprire questa porta, ce n’era qualcuno avvinghiato alle gambe, quando se ne accorgevano ormai era tardi e dicevano “li portiamo alla disinfezione”. Per quello poi c’era venuta la fobia della disinfezione: ogni volta che c’era da andare a fare la disinfezione si aveva paura che la disinfezione si tramutasse in una camera a gas. Mi fece vedere, dice: “Te sei stato fortunato quindi non muoverti di qui perché se no passano al tuo turno vai a finire lì, domani è il turno tuo”. E stetti lì quattro giorni e lui veniva la sera, veniva sempre a portarmi un pochettino di cose, si fermava due o tre minuti lì e poi andava via. Poi una mattina non mi trovò più perché al mattino arrivarono, chiamarono Golleschau passarono con un camioncino, io salii sopra ‘sto camioncino e andammo via. E andammo su una montagna vicino ad Auschwitz, vicino, insomma si viaggiò circa un’oretta su questo camioncino, inerpicandosi su questa montagna. Da una parte c’era un fabbricato, un’industria, una fabbrica e dall’altra c’era una cava, e poi era una industria di cemento, facevano cemento, e avevano bisogno di un idraulico perché ci sono tante flange, ci son tante guarnizioni, funziona quasi tutto a vapore; e loro avevano bisogno. Io infatti divenni poi un esperto dei sotterranei, perché i tubi passavano tutti nei sotterranei, io mi infilavo lì dentro al mattino e uscivo alla sera quando suonava la campana dell’adunanza, che si ritornava dentro. E come dico in quel campetto non si stava male, perché eravamo pochi. C’era tanta disciplina, infatti anche lì due rumeni tentarono di scappare. Li trovavo al mattino, c’era una scaletta dove si dormiva che veniva giù, fatta a chiocciola e poi c’era un po’ di pianerottolo.

Erano tutti e due lì che gli avevano sparato alla testa, tutti e due lì che bisognava o saltarli o passarci sopra.

D: Quanti italiani c’erano con te?

R: Lì non c’era neanche un italiano, era tutta una colonia di ebrei grechi; ne ho trovato uno che adesso poi vi racconterò e ne ho trovati altri otto proprio all’ultimo, quando ormai si stava scappando; ci portarono via dalla zona sovietica cercarono di portarci in quella americana. Lì non ce n’era, c’erano soltanto come dico degli ebrei.

Insomma una sera suona la campana, che suonò prima del previsto, come mai suona la campana, bisogna radunarsi al campo. Ci siamo radunati dentro e allora è venuto il capo campo, l’ufficiale dice: “Dobbiamo evacuare il campo, il fronte si sta spostando, noi dobbiamo evacuare il campo. C’è da fare quattro chilometri a piedi, prendetevi una coperta, quello che avete; ci diedero un pezzo di margarina e si uscì. Questi quattro chilometri son venuti lunghi; noi eravamo lì circa un seicento, settecento e non eravamo tanti, ma piano piano la colonna cominciò ad ingrossarsi, perché tutti i campi che erano limitrofi ad Auschwitz venivano evacuati per portarci tutti a ‘sto Auschwitz e si cominciò a marciare: un giorno, due giorni, tre giorni, quattro giorni, si arrivò a Auschwitz. Auschwitz era stato evacuato anche lì, si passò in questo campo, c’erano i morti, c’era una desolazione e si continuò. Ogni tanto ci davano qualche cosa, ogni tanto si mangiava un pochettino di questa margarina, finché un giorno arrivammo in una stazione vicino ad un treno convoglio che ci aspettava. Era un convoglio merci, i vagoni coi piani non coperti. Ci fecero salire anche lì, chi ci stava, ci stava, chi non ci stava non ci stava, sotto la neve perché nevicava, mi ricordo che veniva la neve con dei fiocchi grossi così e partimmo con ‘sto treno. E su ‘sto treno ci si stette anche lì due giorni e più, lì come si poteva, al freddo; meno male che ci avevano lasciato prendere ‘sta coperta. Mi ricordo che quando poi sono riuscito ad alzarmi, perché era difficile anche potersi sedere, c’era chi bisticciava per sedersi, perché quello che rimaneva in piedi bisticciava per sedersi. Mi ricordo che quando mi sono alzato non riuscivo a piegare la coperta, era dura dal ghiaccio.

E anche lì quando si arrivò in questo campo, il campo di Oranienburg, vicino a Berlino, ci fecero scendere. Anche lì chi scese e chi non scese, più tanti non scesero, più tanti erano già eliminati in partenza, tra la stanchezza del viaggio e tutto il resto. Anche lì ci infilarono, qualcheduno aveva bisogno di fare i suoi bisogni. Allora avevano allestito un camerone: avevano tagliato quei bidoni della benzina, gli avevano tagliato il coperchio, avevano messo sopra delle tavole, una scaletta; si andava lì sopra e quello era il gabinetto. Quello lì era il gabinetto. Per dormire un altro stanzone: avevano fatto una riga intera come quella delle macchine e avevano diviso il posto per dormire, un po’ di paglia. Quello era quello che avevano preparato. Poi, piano piano ci assegnarono una baracca e mi misero a lavorare alla mia squadra di lavoro; c’era una strada e ci si andava a fare il ciotolato, quando si poteva fare; quando non si poteva fare, perchè magari c’era stato un bombardamento a Berlino, ci prendevano e ci mandavano a togliere le macerie e ci mandavano alle bombe, cioè a cercare le bombe che non erano esplose, ci davano la bacchetta di ferro, le bandierine rosse: se si sentiva qualcosa di metallo si mettevano. Noi si cercava di scappare nel campo, ma a volte però facevano una retata, ti rimaneva dentro e si andava a finire lì. E ci portavano a fare quei lavori lì. Senonché c’era un campo grosso, immenso di cani Dobermann che erano addestrati a tirare delle slitte con le rotelle, che erano i porta-ordini. Erano addestrati ‘sti cani, ci mandavano a fargli la pulizia e a dargli da mangiare, ma ci mandavano quando non c’erano; quando c’erano, non conoscevano altro che la divisa: quello che non fosse stato in divisa lo sbranavano. Gli davano da mangiare nelle ciotole, la carne secca, quella roba lì; li mantenevano bene. Allora cosa si faceva? Si aspettava che non ci fossero degli ufficiali in giro, poi in due, uno andava dietro la baracca di questo cane, e gli faceva … e l’altro prendeva la ciotola e la portavamo via per mangiare. Sì, per mangiare le gallette e le cose che davano a ‘sti cani. Però erano talmente furbe ‘ste bestie, che quando se ne accorgevano, facevano un buchetto in terra, rovesciavano la ciotola poi ci si sedevano sopra. Allora non si muovevano di lì. Però erano una cosa … Poi divennero un pericolo. Mi ricordo che poi gli ufficiali russi gli spararono perché circolavano persino liberi questi cani, erano ritenuti un pericolo.

Come dico lì il lavoro consisteva di andare a togliere le macerie, di togliere le bombe esplose, perché purtroppo il campo si era ristretto perché stavano arrivando i russi, anche lì. Infatti tutte le sere si cercava in baracca di capire se il fronte andava bene, chi diceva di sì, chi diceva avanzano; insomma la speranza era sempre quella che arrivassero da un momento all’altro gli alleati a liberarci.

Lì cosa si faceva? Si faceva questo: al mattino c’era l’appello, l’appello in cosa consisteva? Un momento prima di parlare dell’appello parliamo un po’ di un’altra cosa, poi ci arriviamo all’appello.

Dunque la vita della baracca era una vita che potete immaginare in un campo di concentramento, si dormiva in due e avevamo l’obbligo alla sera, quando si andava a dormire, di toglierci gli zoccoli, i pantaloni, la camicia; insomma di metterci nudi, avvolgere gli zoccoli nella camicia e nei pantaloni che servivano poi per cuscino, di mettersi sotto nella coperta, c’era una coperta e un po’ di paglia. Alla notte si prendevano la briga, i tedeschi, la sentinella che era fuori, di venirci a svegliare, veniva dentro ci diceva “aufstehen”, ci faceva uscire, vestire, ci faceva mettere in fila, poi diceva “schlafen”, ci mandava di nuovo dentro; così due o tre volte per notte, fino alle quattro e mezza del mattino, quando c’era la sveglia per tutti per l’appello. L’appello serviva più che altro per le razioni di zuppa che dovevano arrivare alle baracche. Cosa succedeva? Che nella notte magari era morta una persona, due, tre, a seconda, morivano tutti i momenti di stenti; allora si aveva l’obbligo se se ne accorgeva di prenderlo e portarlo nel gabinetto, si metteva nella doccia. Al mattino, quando c’era, veniva il nostro capo baracca, prigioniero come noi, ormai erano tutti delinquenti comuni che li avevano messi a dirigere le baracche, e guardava quanti morti c’erano. Poi si usciva, ci  metteva in fila, ci contava, poi prendeva due, due o tre a seconda di quanto, si andava a prendere questo morto si cadeva in piedi, in fila; si portava al campo dove poi facevano l’appello generale. Perché si portava questo morto? Perché poi quando finito l’appello scivola giù e va be’ si lasciava lì poi passavano gli addetti col carretto, li ramazzavano e li portavano via. Si faceva questo perché doveva corrispondere a tante razioni: se eravamo venti consegnati il giorno prima, venti dovevamo essere. Ma perché? Perché portavano venti razioni, però due o tre razioni dei morti le prendeva il capo baracca che le barattava. Io adesso non l’ho detto, perché come dico, a volte succedono tante cose che … quando si era a Mauthausen ci hanno dato ‘sto numero di matricola: con cosa si cuciva? Con cosa si attaccava? Con lo sputo? Non avevamo mica niente. Mi ricordo che lì c’era addirittura un prete che gli faceva ‘sti lavori, gli faceva le calze, dava il filo e l’ago, però voleva un pochettino della razione. E bisognava dargliela perché altrimenti come si faceva? E così succedeva: volevano contare ‘ste razioni perché poi rimanevano a loro e poi loro le barattavano per le sigarette o per le calze, o per le maglie, o per qualcosa insomma. Perché si deve sapere che ogni quindici giorni facevano la die Läuse, cioè i pidocchi. Veniva dentro il capo baracca diceva: “Die Läuse”. Allora in cosa consisteva? Si andava in una baracca di disinfezione, la doccia, se c’era della peluria perchè erano nati i capelli, rasavano di nuovo. Poi la roba si metteva da una parte, la mettevano in un carrello e la mandavano all’autoclave, la sterilizzavano e noi ci facevano ‘sta doccia, poi quando si usciva, si usciva da una porticina. Lì c’era un addetto con un bidone di creolina, non so se sapete cos’è la creolina, ma pura non diluita e aveva un guanto di spugna. Ci faceva allargare le braccia poi metteva ‘sta cosa qui, una manciata in testa, una qua sotto e una qui. Figuratevi voialtri, all’indomani faceva così, la pelle se ne andava come quando le bisce cambiano la pelle. Poi si andava a prendere i vestiti, svelti a prendere i vestiti che fossero i miei, i suoi, di qualcheduno l’importante è prenderli, averli, qualcheduno ne prendeva due perché poi faceva commercio col capo-campo. E l’altro rimaneva nudo. Rimanere nudi per il campo voleva dire andare a finire al crematorio, non si poteva mica circolare nudi per il campo. O uno aveva qualcosa in baracca da barattare, allora lo barattava con delle mutande, con delle camicie, o se no rimaneva nudo e andava a finire nel crematorio. C’era anche quella cosa, dover correre a prendere, poi uno diceva “Ma c’hai la mia, te”. E si cambiava. Era anche quello.

Si cominciava questo appello, come dico, alle quattro e mezza ci portavano sulla piazza, si calcolava, lì avevano detto che eravamo circa venticinquemila dentro a quel campo, ci mettevano sull’attenti, col berretto in testa, e quando il capo campo, eflin prigioniero come noi, consegnava i documenti gli effettivi all’ufficiale tedesco, dava l’attenti, volevano ci si togliesse il berretto, dicevano “Mütze ab”, cioè levarsi il berretto; bisognava togliere il berretto, picchiarlo sulla coscia, voleva sentire un colpo unico. Non puoi capire. Allora consegnava la cosa, poi “…”, dalle 4 e mezza alle cinque, quanto era durato il coso, a fare quel lavoro lì; finché venivano le otto, l’autoparlante diceva “Arbeitskolonne formieren”, “formate la colonna dove lavorate”, allora ci si scioglieva e si andava alla colonna dove si lavorava.

Quella era la vita del campo di Oranienburg… Soltanto che lì non c’era il crematorio, allora cosa succedeva? Che questi morti li accumulavano e poi coi residui della benzina gli davano fuoco. Tanto che Luftwaffe aveva protestato perché diceva che questi falò facevano i segnali agli apparecchi nemici.

Finché un bel momento arrivarono veramente i russi. Si cominciarono a sentire, a veder passare gli aeroplani, han cominciato a buttare anche dei manifestini che incitavano a ribellarsi, a fare. Ma prima di tutto, io il russo non lo capivo, ma lo capivano i russi perché ce n’erano tanti e cominciarono ad evacuare il campo. L’evacuazione del campo … chiamavano per autoparlante, chiamavano perché lì c’erano tanti norvegesi, svedesi, ce n’erano tanti. Hanno cominciato a chiamare gli svedesi, i norvegesi e a portarli via. E piano piano han chiamato per nazione, finché han chiamato gli italiani e io mi sono presentato; qua ho trovato otto italiani. Che poi non erano prigionieri politici, erano prigionieri militari; era per quello che non li avevo mai visti, perché erano in un’altra zona, in un’altra parte del campo. Lì trovai ‘sti otto italiani, ci siamo messi d’accordo, perché avevamo paura perché dicevano che li portavano via a gruppetti ‘sta gente e poi li fanno fuori, per non avere delle testimonianze. Quando hanno chiamato gli italiani non ci siamo presentati, loro non stavano mica a guardare per il sottile, se c’erano gli italiani c’erano. Quando han chiamato i russi, che sono stati gli ultimi, allora ci siamo presentati insieme ai russi. Lì ci hanno fatto marciare giorno e notte, di corsa, perché pioveva; avevamo sempre il fronte che incalzava e loro volevano portarci verso gli americani. Ci han fatto viaggiare tanto che a un bel momento ha cominciato a morire la gente. Io mi ricordo, e quello mi dispiace, mi ricordo che c’era uno, un sardo, mi si è aggrappato alle gambe, è caduto, si è inginocchiato, si è aggrappato alle gambe, ho cercato di alzarlo, c’era l’ufficiale tedesco che seguiva la cosa, mi ha fatto segno di andare. Allora questo mi ha detto: “Se ritorni in Italia avverti la mia famiglia”. “Come avverto la tua famiglia? Come faccio? Mi dai l’indirizzo, ma dove me lo scrivo? Dove me lo metto?”. La testa non era mica poi più a posto; so che era un sardo, so che il tempo che lui mi diceva così, l’ufficiale col boschetto mi ha dato un colpo nella schiena, ho fatto in tempo di far così, gli aveva sparato. E quello è l’unico ricordo degli italiani che mi è rimasto perché mi è rimasto proprio, mi dispiaceva anche gli altri morti, ma quello era … quello mi è dispiaciuto proprio. E va be’ insomma che ci hanno fatto marciare, questo così arriviamo poi alla fine.. Ci hanno fatto marciare per una quindicina di giorni, tanto che si mangiava, meno male che i russi conoscevano, si mangiavano delle radici che loro cercavano nei campi dove ci si fermava, cercavano ‘ste radici, che erano commestibili.  

Un giorno ci han fermato tre o quattro camioncini della Croce Rossa Internazionale, della Croce Rossa Svizzera, perché si stava morendo tutti, lì si stava morendo tutti, non solo noi, anche quelli che ci accompagnavano, erano rimasti tagliati fuori, se andavano da una parte arrivavano i russi, se andavano di lato c’erano i russi, allora si cercava sempre … a volte si faceva la stessa strada due o tre volte. Arrivano e ci diedero un pacco ogni cinque persone, dice: “C’è un pacco da dividervi in cinque”. Allora cosa abbiamo fatto? Non si sapeva cosa c’era dentro questo pacco. Vediamo se riusciamo a prendere uno una cosa e uno l’altra, insomma un po’ di cose differenti. Allora non ci siamo messi insieme, ognuno si è messo in un .., io mi sono messo per esempio … avevo un francese, avevo un polacco, avevo un ungherese, eravamo in cinque, non c’era nessuno di italiani, ci siam divisi così. Poi abbiamo aperto ‘sto pacco, in cui c’era una scatoletta, una lattina di latte condensato, un sacchettino di prugne secche, una scatoletta con delle vitamine, un pacchetto di sigarette e una confezione di tè. Erano le cassette di conforto dell’esercito americano. Cosa si divide, chi è che vuole il the? Avevamo voglia di prendere tè coi biscottini? E allora cosa abbiamo fatto? Uno si è girato, si è messo con la testa più così e abbiamo fatto … uno prendeva qualcosa in mano… a chi questo? … dice a chi questo? E questo all’italiano per esempio. Solo che a me  toccarono le prugne. Ma insomma non ce la cavammo tanto male perché qualcheduno gli toccò le sigarette, qualcheduno gli toccò il latte condensato e qualcheduno purtroppo il tè … e va be’; però il latte e le prugne venivano già bene perché per lo stomaco, non son venute poi bene perché abbiamo mangiato latte e prugne, poi abbiamo cominciato dissenteria a non finire. Ma le sigarette si cambiavano con qualcheduno che aveva qualcosa, perché c’era sempre quello furbo, che si era fatto le scorte.

Poi una sera si arrivò in un fienile. Ci fermarono lì, per la notte, ci chiusero dentro, i tedeschi andarono via perché c’era un paesino, si vede che sono andati a vedere se trovavano da mangiare. Cosa si fa cosa non si fa, qui qualche giorno ci levano di mezzo, adesso è venuta la Croce Rossa ma poi se non viene più, un bel momento questi si stufano, ci fanno fuori. Allora io e altri due abbiamo deciso di cercare di scappare. Questo fienile era fatto a due piani, soltanto quel piano che era di sopra era venuto giù, c’era rimasto un angolo con un po’ di fieno sopra ancora. Ci siamo arrampicati su per le colonnette che tenevano su ‘sto coso, siamo andati in quest’angolo, e al mattino ci siamo lì messi, dove il tetto spiove, ci siamo tirati sopra il fieno e abbiamo aspettato; infatti sono arrivati i tedeschi un bel momento, fanno la conta e sento il tedesco che dice “Drei Mann weg”, “tre sono scappati, tre non ci sono. Sono partiti…” e han lasciato due lì e con le Maschinenpistolen hanno cominciato a sparare, diciamo dentro al fieno, non son stati lì a guardare, han fatto due o tre raffiche dentro al fieno e neanche gli è venuta voglia di girare e sparare su, magari non ci avrebbero preso lo stesso, ma siamo stati fortunati; il mattino poi loro sono andati via. Siamo stati tutto il giorno ancora lassù in silenzio, la sera siamo scesi, è venuto il padrone, bagna la testa, e se vi trovano qui vi ammazzano, vi fucilano. Be,’ insomma ci ha dato un po’ di tabacco e dei fiammiferi e ci ha detto: “Uscite di qui, c’è una stradina che va su in campagna, prendete quella stradina, troverete una baracca. Dentro la baracca ci sono gli arnesi di lavoro, gli aratri, c’è tutta quella roba lì e ci sono le patate della semina”. Noi non aspettavamo altro e siamo andati a finire in quel fienile lì, siamo stati lì fino forse il primo di maggio. Il primo di maggio perché la guerra è finita poi dopo, il primo di maggio sono arrivati i russi dove eravamo noi, e allora siamo stati liberi. Lì è stata la liberazione.

Soltanto che poi i russi ci hanno detto che dobbiamo organizzarci per venire in Italia, che loro non hanno la possibilità e i mezzi di venire e di portarti in giù, perché dice che dalla parte loro i tedeschi avevano rotto tutto, non ce erano treni, dovevamo andare nella zona americana. Però ci fecero una carta, un benservito che diceva: “Con questa carta potete andare da qualunque parte, potete rivolgervi a qualunque comando russo, che vi saranno dati aiuti”. Ci hanno organizzato, abbiamo preso un carro, abbiamo preso un po’ di provviste perché c’erano dei magazzini tedeschi e poi siamo partiti, siamo venuti verso l’Elba. Quando siamo stati all’Elba non volevano lasciarci passare.

D: Dov’è che esattamente ti hanno liberato?

R: A Berlino; ma un momento.

I russi proprio dove sono arrivati era un paesetto, era Freistein, era un paesetto di campagna. Ma poi dove avevamo avuto proprio la liberazione perché il comando era Berlino poi, lì erano di passaggio; loro passavano, poi lasciavano una guarnigione, ma poi siamo andati a Berlino con loro poi. E lì ci hanno fatto questa carta, ci han dato ‘sto carro, siamo arrivati fino all’Elba. All’Elba bisognava lasciare lì il carro; c’era da passare di là dell’Alba e non c’era il ponte, avevano buttato giù dei carri armati, poi ci avevamo messo le tavole sopra; passavamo sopra questo ponte di tavole, dove a metà c’era la sentinella, di qua c’era la sentinella russa, di là c’era la sentinella francese, perché eravamo finiti nella zona francese. Non ci han lasciato passare perché han detto che non avevano l’ordine di lasciar … tutti passavano, fuorchè gli italiani; gli italiani dovevamo ritornare a Berlino … allora cosa c’era? C’era uno con noi, uno di quelli che è scappato con me, che viveva e lavorava in Francia, era scappato in tempo di guerra, era venuto qui in Italia e l’avevano arrestato. Ha parlato lui in francese; mi ha detto: “Facciamo una lista di doni”, quando siamo andati là che chiedevano il nome lui gliela diceva in francese; ci hanno mandato in un campo di concentramento francese e lì hanno cominciato ad uscire i guai perché non ci potevano vedere, dicevano che gli avevamo dato la pugnalata alla schiena, di qui e di là e … Siamo andati avanti così, finché poi loro sono andati via, noi abbiamo cercato di venir via con loro perché il treno veniva a Mentone e han detto, da Mentone in Liguria ci si va anche a piedi. Quando siamo stati lì hanno fatto la spia agli americani perché allora eravamo già passati con gli americani, che non siamo francesi che siamo italiani. E ci han fatto scendere. E poi quando son partiti sul treno ci facevano le mani, ci dicevano italiani maccheroni, ma qualcheduno con la testa spaccata a casa c’è andato perché le pietre che erano lì in ferrovia … A volte mio figlio mi dice “Ma te ce l’hai più coi francesi che coi tedeschi”. Dico: “Certamente, perché i tedeschi perlomeno sapevano che eravamo contro, dicevano che li avevamo traditi, può darsi anche a ragione, ma dico ma questi qua dico erano in campo di concentramento come voialtri, mangiavano la zuppa che mangiavate voialtri, e mi venite a dire che io ero fascista!”. E allora me la son presa con loro, mio figlio mi dice “te la prendi coi francesi, ce l’hai coi francesi”.

D: Luigi ma tu quando sei arrivato in Italia?

R: Io sono arrivato dopo un anno preciso.

Dunque mi hanno preso il 28 di luglio e io sono arrivato al 28 di luglio dell’anno successivo. Era un’odissea venire poi in Italia, perché poi siamo andati a finire nel campo degli inglesi, poi gli inglesi ci han portato nel campo dove finalmente si riunivano tutti gli italiani, perché siamo i soliti noi che non abbiamo mai organizzazione. Lì mi sono preso la pleurite. Una sera arrivo in baracca, c’era lì un compagno che mi dice: “Ma te hai la febbre”. Dico: “Ma che febbre!”. Dice: “Aspetta che te la misuro, ho un termometro io”. Avevo la febbre a 40. Allora va a chiamare il dottore del campo che comincia a fare dei segni davanti agli occhi, dice: “Domani mattina ti portiamo all’infermeria”. L’infermeria era una birreria, dove c’era una sala da ballo, avevano messo dei letti e fatto un’infermeria. Il medico tedesco mi ha visitato anche lui, poi ne è venuto un altro, un polacco, han fatto un consiglio, poi mi ricordo che dice: “Oggi a mezzogiorno te non mangi”. “E perché?” Dice: “Te non mangi, hanno da fare un lavoro che te non mangi”. Mi hanno fatto sedere poi su uno sgabello, han chiamato uno, mi hanno fatto abbracciare, poi han preso una siringa che era grossa così, con l’ago, han cercato qui poi tac, due litri e mezzo d’acqua han tirato fuori. Prima ha cominciato a sgorgare da sola, poi han cominciato a tirarla fuori. E lì non so se son stato tre o quattro giorni, poi vengono i miei amici, mi dicono: “Guarda che domani noi partiamo, domani c’è il convoglio noi partiamo”. “E io?”. E il dottore mi dice: “Te…”

D: Questo dov’era?

R: E chi lo sa dov’era ‘sto campo di concentramento, non lo so. Non sono mai riuscito a sapere dov’era, perché questo campo di concentramento era in un posto dove prima c’era un campo di aviazione; avevano fatto questo campo di raduno per gli italiani, ma non so dove fosse la località.

D: Ma in Francia?

R: No no, in Germania. Eravamo sempre in Germania. Han fatto ‘sto treno; io mi sono impuntato, non ho più voluto stare lì. Allora il dottore, come dico, mi aveva fatto ‘sta carta, siamo partiti con ‘sto treno, a me m’avevano messo su un vagone solo, con un infermiere, che era il vagone che serviva da infermeria. Mi ricordo solo che siamo passati da Amburgo; qui ci siamo fermati, ma non so da dove si venisse; siamo arrivati fino a Innsbruck. Quando siamo stati a Innsbruck ci hanno fatto scendere e han detto: “Qui vi facciamo la disinfezione, domani ripartite”. Infatti quelli che erano arrivati il giorno prima prendevano il treno nostro e venivano giù in Italia; questi prendevano il treno che arrivava poi all’indomani. Siccome ero malato, avevo questa pleurite, non mi hanno fermato, non mi hanno fatto neanche scendere dal treno, mi han fatto stare lì e son partito subito. Col treno siamo arrivati fino a Bolzano; no, fino a Pescantina dove ci hanno dato un panino di pane bianco e un limone; chi dava poi ste cose erano quelli del Vaticano. Ci han fatto scendere e ci hanno imbarcato sui camion che ci hanno portato fino a Milano. In stazione ci hanno imbarcato su un treno a seconda delle destinazioni verso cui si doveva andare. Ci hanno fatto scendere a Genova, dove c’era poi il treno che veniva verso Ventimiglia.

Io mi ricordo che il treno che portava la carrozza per gli internati c’era dopo tre ore; io ho preso il primo che c’era, oltretutto avevo trovato un vicino di casa, che lavorava a Genova. Gli ho domandato: “Come sta la mamma, come sta mia madre?”, dice “Tua madre sta bene”. Dico: “Allora fammi un favore, quando arriviamo a Varazze scendi un momento, vai su un momento prima te cerca un po’ di prepararla sta vecchietta”. Quando sono stato sul treno ho dovuto fare poi una lite col controllore che voleva che pagassi il biglietto, io mi ricordo che gli ho detto: “Glielo dò il biglietto, gli dò una manciata di pidocchi con la croce uncinata”. E poi si son messi in mezzo i viaggiatori, hanno detto “E’ una vergogna!”. Dico io, è un anno che manco da casa, mia madre che ha già perso un figlio, che non sa dove sono andato a finire, ma io ci andavo a piedi piuttosto a casa.

E ricordo che sono arrivato a casa, questo era andato su e dice che poi gli aveva detto alla mamma: “Lo vedreste volentieri vostro figlio?” Dice: “Eh!”. E dice: “Allora se vi dicessi che a Genova?” Dice: “Mi cambio e ci vado subito!”. Dice: “No, no stia lì che è qui che arriva su dalle scale”. E lì è finita l’odissea.

D: Luigi tu non sei mai stato intervistato in questi cinquantacinque anni?

R: No. E’ venuta una volta una, ma due domande così, mai più saputo niente. Non ho mai più saputo niente. Una cosa, che a volte mi dicono: “Ma avete aspettato tanto a farvi vivi e a parlare, perché non …”. Dico: “Quando siamo arrivati prima di tutto c’era l’euforia della fine guerra, la gente ballava, cantava, non pensava nemmeno a noialtri. Poi abbiamo cominciato a parlare quando abbiamo visto che si era deciso Levi a scrivere, qualcheduno insomma un po’ più istruito di noi … e ti dico la verità, non si credeva neanche noi di aver passato quello che si era passato. Ma è verità o non è verità? Ma saranno immaginazioni? Saremo scemi? Possibile che sia così? Infatti quando mi dicono “Ma come ha fatto?”. Ragazzi fortuna, fortuna. E’ fortuna, perché altrimenti non si veniva a casa, se non si era fortunati non si veniva a casa. Fortuna perché magari nel periodo che si stava male qui io ero andato un po’ più in là … infatti mia moglie a volte mi dice, le dico sempre: “Ma io sono scarognato, non riesco a vincere una cosa”. Dice: “Ma te hai già avuto la fortuna, quella di venire a casa”. A volte mi dico: “Ma sarà una fortuna o sarà una disgrazia? Ero già pronto là, qui invece mi tocca di nuovo, là ero già pronto per andare, adesso qui invece ho dovuto iscrivermi per farmi bruciare, invece là ero già, senza spese, senza niente. Dice: “Ah, sei fortunato” e dico “Sì, per quello sì”.

D: Luigi tu non sei più ritornato su nei luoghi?

R: No, no. Non ce la faccio. Non ce la faccio.

Siamo partiti in cinque amici e sono ritornato solo; ero il più gracile, il più esile, a parte uno, quello che aveva l’autofficina, che era già anziano, gli altri erano tutta gente che erano più … Sono venuto solo.

Grazie Luigi.

Stanzione Mirella

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Mirella Stanzione e sono nata a La Spezia l’11 marzo del 1927. Ho qualche difficoltà a ricordare il passato di deportata in un campo di sterminio nazista. Ricordare è doloroso. Inoltre mi chiedo: “Si vuole veramente sapere? Capire?”. Forse io non dovrei pensare e dire questo, forse la mia testimonianza può servire a far sì che non si ripetano gli errori commessi in passato. E quindi è giusto che in qualità di sopravvissuta io parli della mia esperienza.

Il 2 luglio del 1944 le SS tedesche, armi in pugno, sono entrate in casa mia, a La Spezia, e mi hanno arrestato insieme a mia madre. La mia era, ed è una famiglia antifascista; mio fratello era partigiano. Per la logica nazista combatterli ed essere contrari al regime vigente costituiva un motivo più che valido per l’arresto e la deportazione. Che io e mia madre personalmente avessimo partecipato attivamente alla lotta partigiana non aveva nessuna importanza, per il nazismo bastava che in famiglia uno solo li combattesse perché tutti gli altri componenti della stessa famiglia fossero colpevoli. Gli avvenimenti susseguitisi al mio arresto sono simili a quelli subiti da tutti coloro che hanno vissuto la mia esperienza: la prigione prima a La Spezia, a Villa Andreini, poi a Genova, a Marassi, indi al campo di smistamento di Bolzano in attesa di un ulteriore trasferimento in Germania. Tutti questi trasferimenti avvenivano nel più assoluto segreto. Dal giorno dell’arresto non abbiamo mai saputo quello che ci sarebbe accaduto e dove ci avrebbero portato. Il primo, ma non ultimo, trauma subito è stata la prigione. In cella in isolamento sino alla fine degli interrogatori da parte delle SS tedesche; il pagliericcio infestato da cimici, il bugliolo sono stati il primo impatto con la nuova realtà. Eravamo però solo agli inizi e non era il peggio.

La destinazione finale di questo calvario è stato per me Ravensbrück. Il viaggio da Bolzano a Ravensbrück in carro bestiame sigillati, insieme ad una sessantina di compagne, durato sei giorni e sei notti, mi ha fatto rimpiangere la prigione. Ignare di quello che sarebbe accaduto, ignare della destinazione, spaventate, confuse, parliamo poco, non sappiamo niente ma abbiamo paura. Nel nostro subconscio avvertiamo che i giorni a venire saranno difficili, la realtà però andrà ben oltre ogni più fervida immaginazione.

Ravensbrück era un campo di concentramento a ottanta km da Berlino, verso la Polonia. Popolato solo da donne e bambini. Questo è forse il motivo per il quale non  è molto citato. Al nostro arrivo vediamo mura, filo spinato e le torrette di controllo presidiate da soldati armati. Il Lager si presenta grigio, tetro, silenzioso. Si odono solo comandi secchi in tedesco e il latrato dei cani che insieme ai soldati ci circondano.

Sulla piazza del Lager notiamo una colonna di donne: sono le deportate che ci hanno precedute. Sono magre, sembrano affaticate, sono visibilmente sporche e molte sono rapate.

Hanno poco l’aspetto di donne, indossano una divisa a righe e ai piedi hanno gli zoccoli. Tutte però han ben visibile sul vestito un numero e un triangolo di colore diverso che le contraddistingue, le qualifica.

Il mio triangolo come politica è rosso e il mio numero è il 77415. Per la logica nazista il primo compito delle ausiliarie tedesche consiste nel rieducare la deportata. E per questo motivo la disciplina deve essere dura e duro deve essere il lavoro. Non è ammessa nessuna trasgressione, tantomeno qualsiasi forma di ribellione. Le botte, il frustino, il bastone, la cella di punizione servono a rendere chiaro questo concetto.

Questa forma di “rieducazione”, dico rieducazione fra virgolette, non è fine a se stessa: l’industria tedesca ha bisogno di manodopera e i deportati, anche se stremati dalla fame, dal freddo e dal lavoro servono allo scopo. Poco importa se non vivranno a lungo, qualcosa potranno fare lo stesso per aiutare la macchina bellica. Ad un costo minimo per l’industria. Per arrivare a questo, però non basta togliere ogni resistenza fisica, bisogna annientare psicologicamente la dignità, la personalità del deportato. Tutto mira a questo: il duro lavoro, la fame, il freddo, la sporcizia, i pidocchi, le botte, le umiliazioni, la paura del dopo. La paura del dopo: questa è una sensazione che non si può descrivere, non posso dire quello che provavo, non sono in grado di trasmettere a chi mi ascolta l’ansia, il terrore che sentivo dentro di me di fronte all’ignoto.

Il tutto acuito dal fatto che non conoscendo il tedesco e nessuna delle altre decine di lingue europee che sentivo intorno a me, ogni fatto assumeva proporzioni enorme. Tra l’altro essere italiana costituiva di per sé un aggravio: eravamo mal viste sia dalle tedesche che dalle francesi, dalle russe, dalle polacche; non veniva preso in considerazione che se eravamo state deportate era per i loro stessi motivi; per loro eravamo lo stesso fasciste. Solo dopo lunghi mesi questo atteggiamento mutò. Ho vissuto tutto il periodo concetrazionario con le sofferenze e le paure che tutti i deportati hanno provato e sono sicura che se ho potuto sopravvivere è stato proprio perché avevo accanto mia madre. La sua forza ha fatto sì che non abbandonassi mai il desiderio e la speranza di tornare a casa insieme a lei. Insieme a lei mi è stata di grande aiuto Bianca Paganini con la quale, sin dalla prigione di La Spezia ho vissuto questa tragica esperienza. Devo dire che mia madre è stata sì un aiuto psicologico, ma nello stesso tempo motivo di grande sofferenza. Non riuscivo a sopportare, quando anche per motivi più banali, dovevamo stare nude in fila davanti ai soldati e vederla vergognosa della sua nudità, cercare di coprirsi con le mani facendosi piccola piccola. Ed ora io dovrei parlare di tanti piccoli particolari, ma preferisco che mi vengano rivolte delle domande.

D: Grazie Mirella. Partiamo dall’inizio, vi hanno arrestate e sono entrati in casa le SS a Spezia e hanno preso te e mamma. Vi hanno accusato di qualcosa in particolare?

R: Più che accuse volevano sapere da noi… perché io avevo finito da poco 16 anni, non è che potessi dire di aver fatto chissà che cosa per il movimento partigiano, direi proprio di no, se non aiutare mio fratello nella distribuzione di qualche piccolo manifesto, ma veramente poca cosa. Quindi loro volevano sapere quello che stava succedendo in casa mia. Se conoscevo questo, se conoscevo quell’altro. Io ricordo che sul tavolo delle SS c’era una mia fotografia. Tra l’altro io non sapevo neanche da dove venisse questa, poi ho capito che era stato mio fratello che per giustificare la presenza in casa mia di un altro partigiano, gli aveva dato la mia fotografia dicendo che era il mio fidanzato. Quindi mi hanno chiesto questo. Naturalmente sono rimasta un attimo così, perché è logico, poi non ero in grado in quel momento di essere molto pronta nelle risposte, comunque ora non ricordo esattamente le domande … ma mi hanno … più o meno… le conoscenze, chi veniva, chi non veniva, che faceva, e io poi alla fine ho detto “io non so niente”. E lo stesso è stato per mia madre, più o meno le stesse domande, anzi dirò di più, mia madre è stata interrogata più volte, forse hanno preso in considerazione la mia giovane età, hanno capito che io più di tanto non potevo dirgli, ma comunque neanche mia madre poteva dire tanto.

Io sono stata due mesi nella prigione di La Spezia, a Villa Andreini, dove, il primo impatto l’ho detto, è stato tremendo, perché a parte che naturalmente non conoscevo nessuna cella, le celle di allora erano molto diverse da quelle che ora vediamo, non facciamoci illusioni, la mia era una piccola, piccola cella, molto sporca, con solo un pagliericcio e solo il bugliolo non avevo altro.

D: Ed eri da sola in cella o con mamma?

R: Ero sola in cella, perché dovevamo stare in isolamento fino a quando gli interrogatori non finivano. Dopo di che ci hanno unito.

D: Ti hanno immatricolata a Villa Andreini?

R: Sì, ma non so il numero. Non so niente, mi hanno preso anche le impronte digitali.

D: E gli interrogatori sono sempre stati condotti dalle SS?

R: Sempre, io non ho mai visto un fascista. Mai.

D: Presenza di italiani?

R: Mai, io ho solo visto le SS tedesche. Brigate nere non le ho mai incontrate.

D: E dopo due mesi?

R: Dopo due mesi ci hanno condotto a Genova. Ci hanno portato con un camioncino, anzi a metà del tragitto i partigiani hanno cercato di assalire il camion per liberarci, ma non ce l’hanno fatta, perché i tedeschi hanno fermato il camion e si sono messi tutti in cerchio con i mitra, non erano mitra non mi ricordo come li chiamavano allora Maschinenpistole forse… Quindi è stato un attimo di speranza svanito subito nel nulla. Voglio dire una cosa. A La Spezia c’erano le suore, che dopo il primo momento di incertezza, perché naturalmente chi entra in carcere in genere si presuppone chissà cosa abbia commesso, hanno capito invece dopo che eravamo lì per motivi politici e che eravamo delle brave persone. Questo invece non è successo a Genova a Marassi. Io ho un ricordo tremendo di queste suore, perché ci hanno trattato come trattavano le prostitute, le ladre e le assassine; ci hanno messo in una cella insieme a loro. Quindi un ambiente tremendo, c’era anche la Bianca con me, con la mamma e la sorella. Non hanno mai avuto, non dico una parola buona, ma un atteggiamento buono, non hanno mai fatto distinzione tra noi e le altre, perché eravamo diverse, se non altro i motivi erano diversi. Ho visto una volta sola la madre superiora in carcere; è venuta, e per consolarci ci ha dato un libro: “L’ultimo giorno di un condannato a morte”.. “Così potete leggere”. Ci siamo un po’ guardate, non potevamo fare nessuno commento perché era inutile.

Da Genova, sempre con dei camion, ci hanno trasferito a Bolzano.

D: A Genova, siete state nuovamente interrogate?

R: No, basta. Interrogazioni non ne ho più avuto.

D: E quanto tempo siete rimaste nelle carceri di Genova?

R: Noi a Genova siamo stati poco, meno di un mese, per fortuna; dico per fortuna perché non sapevo ancora quello che mi sarebbe successo.

D: Poi da lì, dicevi il trasferimento al campo di Bolzano.

R: Al campo di Bolzano, di cui ho quasi un bel ricordo confronto a tutto il resto, nel senso che ci davano delle zuppe di orzo discrete, ci trattavano anche non male direi. Ci facevano lavorare, mettevamo dei bottoni nelle tende da campo. E lì siamo stati un mesetto circa, ora le date non me lo ricordo bene.

D: Il percorso da Genova a Bolzano come l’avete fatto? Ed eravate solamente un gruppo di donne o c’erano anche uomini?

R: No, nel mio camion eravamo solo donne. Io ricordo solo donne e ricordo che ci hanno fatto fare una sosta proprio in Piazza del Duomo a Milano e chi ha potuto ha buttato dei bigliettini dicendo “avvisate” ecc. ecc. Abbiamo avuto per un attimo la speranza che la cittadinanza ci aiutasse in qualche modo, ma era molto difficile.

Di quel viaggio io ho un ricordo abbastanza triste e sconvolgente, almeno per me. E’ evidente che essendo su un camion ad un certo punto si doveva soddisfare i nostri bisogni fisiologici. Quindi ci hanno fermato in un campo, c’erano anche dei soldati italiani in questo trasporto che ci hanno accompagnato. Erano della milizia precisamente. Allora ci hanno fatto scendere in questo campo, ci hanno messo tutti, hanno fatto un circolo loro col mitra spianato, col viso rivolto verso di noi e ci hanno fatto mettere tutti in mezzo. Secondo loro in quel modo noi avremmo dovuto soddisfare i nostri bisogni. Tra l’altro questi, e mi dispiace dirlo perché erano italiani questi, sghignazzavano; questa è una cosa che veramente non riesco a perdonargli.

Poi il resto del viaggio è proseguito più o meno normalmente.

D: Ti ricordi più o meno in quante donne eravate in questo transport?

R: No. Il camion era pieno di donne, quindi ne potrà contenere, una trentina; eravamo una addosso all’altra quindi, ma non mi ricordo perché… a parte che sono passati tanti anni, a parte che ho cercato di rimuovere, anche perché io sono stata zitta per parecchio, per quasi cinquanta anni a dire il vero, non volevo parlare di queste cose. E dirò poi perché. In quel momento non è che si guardava tanto, si contava, eravamo veramente spaventate e frastornate.

D: Come ti ricordi l’ingresso nel campo di Bolzano?

R: Ricordo che ci hanno fatto andare subito alle docce, ci hanno spogliato, ci hanno … A Bolzano non rapavano nessuno, almeno che mi risulti. Ed è la prima volta che mi sono trovata insieme a tante donne nude. Io ogni tanto casco nella storia del nudo, perché io parlo di avvenimenti avvenuti più di cinquanta anni fa; allora il nudismo non era di moda. Il fatto anche di vedere un’altra donna nuda a me personalmente dava fastidio, non solo vederla ma farmi vedere, avevo un certo pudore. E quello era ancora il meno, perché poi la cosa naturalmente si è aggravata. Ci hanno dato delle tute, pulite devo dire la verità. Non ricordo di avere un numero, non lo ricordo assolutamente.

D: E il blocco te lo ricordi?

R: Sì, il blocco me lo ricordo vagamente. Neanche il numero mi ricordo, no quello di Bolzano l’ho quasi cancellato, perché era una cosa che, per mangiare …

D: Per mangiare dicevi cosa ti davano?

R: Era discreto diciamo, venendo dalla prigione; ad un certo punto una zuppa di orzo era ancora accettabile.

D: Ti sei mai chiesta il fatto, allora La Spezia Villa Andreini, poi carcere di Marassi, poi Bolzano, lo sradicamento dal tuo territorio da casa tua, dalle tue amiche, dai tuoi amici, mentre eri in viaggio, mentre eri su, se te lo ricordi. La separazione forzata diciamo…

R: La separazione forzata era soprattutto quella con mio padre, mio fratello, non sapevo cos’era successo di loro; non ho mai saputo niente di loro fino al mio ritorno. Non solo ma noi abbiamo lasciato la casa aperta, il nostro appartamento è rimasto aperto e quindi è stata fatta un po’ man bassa; non so se devo ringraziare i tedeschi o gli italiani, ma comunque qualcuno devo ringraziare di questo.

D: Quando eravate a Bolzano avete potuto comunicare con l’esterno?

R: Mai, mai potuto comunicare. L’unico momento in cui abbiamo potuto far questo è stato a La Spezia, nelle carceri, perché i miei familiari – io avevo zii, la nonna ecc. -, quando hanno saputo del nostro arresto si sono informati dove eravamo, quindi hanno preso contatto con le suore e anche per questo forse c’era un trattamento anche benevolo nei nostri confronti, in quanto nel limite del possibile portavano anche qualcosa alle suore, parliamo di cibo insomma, perché allora era quello che serviva.

D: Scusa Mirella, a Bolzano ti ricordi se hai visto dei religiosi?

R: No, mai visti. Io non ho mai incontrato religiosi, mai, almeno non si è mai qualificato nessuno come religioso.

D: Parlavi prima di lasciare la casa aperta. Cosa significa concretamente? Che non avevate chiuso niente?

R: Io sono uscita per prima dall’appartamento, mi ha seguito mia madre, la porta è rimasta aperta. Non chiudeva nessuno.

D: Quindi religiosi non ne hai mai visti. E di bambini, di ragazzetti a Bolzano?

R: A Bolzano i ragazzi no, li ho visti durante il trasporto per Ravensbrück; e una volta arrivati a Ravensbrück c’è stata la divisione tra noi donne e i bambini, dopo di che io non li ho più visti.

D: Ma questi bambini sono partiti da Bolzano con voi per andare a Ravensbrück?

R: Sì, per forza, perché sono arrivati con noi, perché c’erano delle mamme che avevano dei bambini; non erano nel mio blocco però, erano in altri blocchi. Deve essere stato uno degli ultimi che è partito per la Germania.

D: E c’erano, se ti ricordi, anche degli ebrei a Bolzano che potevi capire che fossero ebrei, o che qualcuno ti ha detto?

R: No, perché noi, non so se abbiamo fatto bene o no, in un certo qual modo forse sì, è servito a noi, abbiamo fatto come un gruppo ben unito: io, mia madre, la Bianca, la Bice, eravamo sempre insieme, ci sostenevamo a vicenda. Quindi, sì le altre le ho conosciute ma non come queste che ho appena citato.

D: Poi un giorno vi hanno chiamato, a Bolzano?

R: E ci hanno messo sul treno.

D: Dal campo dove vi hanno portato e come vi hanno portato? Per prendere questo, per mettervi sul transport, se ti ricordi naturalmente…

R: Molto probabilmente con un altro camion, giuro che in questo momento questo non me lo ricordo.

Io mi ricordo il carro bestiame, quello me lo ricordo molto bene.

D: Ma vi hanno fatto salire in una stazione, in uno scalo?

R: Sì sì, penso quella di Bolzano. Penso perché eravamo lì, e quindi…

D: Vi hanno dato del cibo per il viaggio, vi hanno dato qualcosa?

R: No, io non ricordo questa storia del cibo. Sì, ci hanno dato qualcosa durante il viaggio, forse un pezzo di pane, però giuro che non me la ricordo bene questa storia. So che qualcuno aveva fatto anche un buco nel vagone, perché c’erano i bisogni fisiologici da soddisfare. Eravamo ammassati, eravamo una sessantina.

D: E ti ricordi più o meno il viaggio quanti giorni è durato?

R: Sei giorni e sei notti, con intervallo a Linz sotto bombardamento. E’ stato lungo il viaggio, è stato molto lungo.

D: E poi il treno si è fermato dove? L’ultima stazione, chiamiamola così

R: A Fürstenberg. Quando siamo scese ci siamo guardate intorno e abbiamo visto un posto diciamo delizioso: c’è il laghetto, le villette, quasi quasi ci siamo sollevate, dice: “Be’ insomma non è che ci hanno portato …”. Non ci eravamo accorte che accanto al laghetto c’era il Lager. Però entrati nel Lager, a piedi siamo andati quel pezzetto, lì è l’unica volta che ho visto un gruppetto di uomini dall’altra sponda del lago, saranno stati una ventina, non di più, con la divisa. Quindi è questo che ce li ha fatti riconoscere come deportati. Dopo di che uomini non ne ho mai visti. Ho saputo che c’era qualche cosa anche per gli uomini, perché io parlo di Ravensbrück come di un campo di sole donne e bambini ma evidentemente c’era un distaccamento; perché io sono stata a Spello a una manifestazione, una signora mi si è avvicinata e mi ha detto: “Signora mio marito è stato anche a Ravensbrück”. Il che mi ha lasciato un po’ sorpresa, perché a parte quel gruppetto di uomini io non avevo mai visto, non sapevo neanche che esistesse; quindi non so dire, ma probabilmente era un piccolo Lager perché come uomini ce n’erano pochi.

D: L’ingresso di Ravensbrück come te lo ricordi, il giorno che siete arrivati?

R: L’ingresso l’ho detto un po’ prima, è stata una cosa come una mazzata sulla testa. Perché vedere i block, tutti uguali, vedere solo soldati, cani, questo grigio, questa cosa stretta, fili spinati, che poi ho saputo dove passava la corrente elettrica. La piazza del Lager dove siamo stati in quarantena per un giorno e una notte, non sapendo che cosa sarebbe successo, e ogni tanto quando poteva qualche detenuta si avvicinava e ci chiedeva se avevamo l’oro … noi non riuscivamo a capire perché questa storia dell’oro. Dopo l’abbiamo capito, evidentemente serviva come baratto per avere qualcosa, che c’era un certo traffico anche lì; è logico soprattutto da parte di coloro che c’erano da parecchi anni, quindi erano ben smaliziate, quelle che avevano i posti di comando tra le stesse deportate e che erano le peggiori tra l’altro.

Dopo alla mattina siamo andati alla cosiddetta visita. In fila indiana entriamo, la prima cosa che ci fanno, naturalmente nude, ah no prima ci portano alle docce. Non sapevamo che esisteva la faccenda della doccia l’abbiamo saputo dopo per fortuna; ci danno un asciugamano così quello che usiamo per il bidet, con un pezzettino di sapone, per lavarci. Però non potevamo asciugarci con un asciugamano così, comunque l’abbiamo fatto lo stesso.

Siamo andati alla visita e la prima cosa che hanno fatto è stata la visita ginecologica … anche quella è una cosa che non si può; mia madre era così terrorizzata che diceva: “Mia figlia è signorina non me la rovinate”. Va be’. La visita ginecologica cercavano l’oro, era questo lo scopo. Poi ci hanno guardato se avevamo i pidocchi, noi non avevamo i pidocchi, mentre aspettavamo fuori ogni tanto vedevamo uscire una donna rapata e la cosa ci aveva alquanto sconvolto perché evidentemente non rapavano tutti. Era un altro modo così di demolirci, perché non si sapeva quello che ci sarebbe successo. A me non mi hanno rapato; poi ci hanno dato non più la divisa, perché erano finite, quando sono arrivata io, parliamo della fine di settembre, quindi ormai le divise si vede non arrivano più. A me hanno dato una gonnellina di seta marrone, con una camicetta marrone sempre di seta con le maniche corte, questa camicetta ricordo, marrone con dei fiorellini bianchi e questo basta.

Tutto quello che avevo di mio me l’hanno requisito.

D: Biancheria intima?

R: Niente, niente. Io avevo quelle che avevano loro, della roba che noi lasciavamo della nostra, poi buttavano tutto da una parte, e poi la davano a quelle che venivano dopo, quindi magari venivi con una scarpa di un tipo e la scarpa dell’altro, però un buon paio di scarpacce ce l’avevo, ma quello che non avevo era il sopra.

Per quanto riguarda la biancheria intima forse è bene che si sappia che fino a che livello di cattiveria: tempo addietro, ogni tanto naturalmente ci penso, mi sono detta, ma la biancheria non me l’hanno data, “Ma come mi cambiavo?”. Allora ho pensato a lungo, ma non è possibile che io per tutto quel periodo sia stata con le stesse mutandine, perché è assurdo pensare a questa cosa. Allora incontrando la Bianca, le ho detto: “Bianca tu mi devi togliere una soddisfazione: come abbiamo fatto?” La risposta è stata: “Abbiamo fatto”. E questa è un’altra cosa…

D: Vi hanno tolto tutto?

R: Tutto, non avevamo niente. Hanno pensato bene di toglierci pure le mestruazioni e quindi secondo loro biancheria non ne avevamo più bisogno tra l’altro. Subito appena entrate in campo immediatamente a tutte noi si è fermato tutto, non so che cosa; qualcuno parlava di bromuro, non lo so cosa mettevano nel famoso Kaffee; dicono che mettevano qualche cosa lì. Uscite poi dal campo, dopo la liberazione, tutte abbiamo ripreso; quindi evidentemente veniva dato qualcosa che bloccava, però le iniezioni non ce le hanno fatte; per me mettevano qualcosa nel cibo, chiamiamolo così cibo per essere bravi.

D: L’immatricolazione quando ve l’hanno fatta?

R: Subito all’ingresso del campo. Ci hanno chiesto nome, cognome professione, chi era studente naturalmente almeno così mi ha dato l’impressione … una volta vestite ci hanno consegnato una pala. Io non avevo mai visto una pala; io vengo da una città di mare e non capivo che cosa dovevo farci con questa pala. Ci hanno portate fuori dal campo, dove dovevamo secondo loro spianare una collinetta di sabbia in circolo. La cosa avveniva in questo modo: io una palata la passavo alla vicina e si tornava sempre in tondo, senza senso la cosa. Questo per dodici ore sotto la pioggia, sotto il vento, sotto il freddo. Vestita poi come ho detto prima, il primo giorno con questa pala in mano ci siamo guardate tutte negli occhi, tutte intendo il mio gruppo e abbiamo visto dei lacrimoni che scendevano giù. Tra l’altro io avevo accanto a me una russa che evidentemente era una contadina, perché lei questa spalata la prendeva bella colma e mi rimproverava, mi chiamava “Mussolini” perché io non ero svelta a fare queste cose.

Per fortuna non è durato molto questo tipo di lavoro.

D: Scusa, oltre al numero e al triangolo vi hanno fatto per caso una foto?

R: No, a me non risulta.

D: Quando declinavi le tue generalità riempivano una scheda?

R: Tutto, i tedeschi sono precisissimi. Riempivano una scheda, tanto è vero che quando io per il vitalizio che c’è stato concesso chiesi … perché non avevamo niente in mano, mica avevamo il libretto di lavoro; sì potevamo testimoniare una con l’altra, ma concretamente fogli non ne avevamo. Allora ho scritto alla Croce Rossa Internazionale di Bad Arolsen, la quale mi ha risposto dicendo che non risultava niente perché in effetti quando il campo è stato evacuato, i tedeschi hanno tentato di bruciare tutti gli archivi. Però pare che non ci siano riusciti completamente, perché dopo alcuni mesi Bad Arolsen mi ha scritto che avevano trovato qualche cosa che si riferiva a me e mia madre, però solo nome e cognome, numero di matricola e la qualifica politica. Basta non hanno trovato altro. Comunque a me bastava per lo scopo che serviva.

D: Il blocco di quarantena.

R: Il blocco di quarantena mi sembra il 17. Non sono sicura, perché ne abbiamo cambiati due: nel primo blocco dove c’erano le francesi, queste ci hanno fatto una specie di rivolta, non ci volevano. Quindi ci hanno sbattuto in un altro blocco dove c’erano invece le tedesche con il triangolo nero, triangolo verde ecc.; quindi non erano politiche erano tutta un’altra razza.

D: Dopo questi primi lavori diciamo inutili

R: E gravosi …

D: E gravosi, mamma era sempre con te?

R: Sempre non ci siamo mai separate. Soltanto una volta, pare quando eravamo all’appello. “Voi sapete cosa è l’appello?” Questa triste cosa che poteva durare dalle due alle tre ore, sempre alle quattro del mattino, vestita come ero vestita. Tanto è vero che dopo un po’ di tempo l’ausiliaria tedesca, si vede in un momento di  follia, ha provato pietà per me e mi ha chiamato e mi ha fatto dare un vestito, con le maniche corte, ma non era di seta, perché, fra l’altro quella gonna di seta, e le donne lo sanno questo, la seta quando è sporca si trincia, e mi si era trinciata tutta in senso verticale; quindi avevo il gonnellino un po’ alla Josephine Baker, quindi lasciamo perdere… Allora mi ha dato questo vestito; no, anzi mi ha dato una divisa che io ho passato a mia madre perché mia madre aveva un vestito anche lei con le maniche corte, ma un po’ più pesante del mio, dopo, non so in che modo misterioso, sono riuscita a trovare una specie di cappotto, in questi mucchi di cose perché c’è qualcuno che maneggiava e che me l’ha fatto avere. Questo cappotto era nero, abbastanza lungo, deforme logicamente, però non avevo le calze; allora, io ho tolto le fodere della manica del cappotto e mi sono fatta le calze con quella e con quella io sono rimasta fino alla fine.

Dicevo prima che l’appello era una cosa … bisogna provarla per sapere cosa significa, perché alle quattro del mattino, sotto il mar del Nord, con quella temperatura stare ore e ore in piedi immobili perché non era permesso fare un piccolo movimento; c’erano i cani lupi che ci circondavano e chi ci controllava, a parte i soldati. Questa conta non tornava mai e si ricominciava, quindi poteva durare due, tre, quattro ore. Era una cosa veramente allucinante, due volte al giorno: all’inizio e alla fine del lavoro.

D: A proposito di lavoro dopo vi hanno mandato a lavorare?

R: Sì dopo. Dicevo prima che una volta ho rischiato di dividermi da mia madre, e pare, così mi è stato detto, perché io le lingue non le sapevo, però il francese quello scolastico un po’ lo conoscevo,  aveva una Stubova che era una prostituta francese, che in fondo era buona quella, e pare che così mi è stato detto… quando venivano effettuati i famosi trasporti, passaggi da un campo all’altro, lei ha visto che c’era il mio numero e quello di mia madre, perché quello di mia madre precedeva, era il 77414 e ha capito che ora non ricordo se era lei o se ero io che era, e allora ha fatto in modo di mettere al posto di mia madre o mio non ricordo… un’altra persona che era sola. Ecco, l’unica volta, poi per il resto siamo stati sempre assieme.

Dopo questo periodo nel Lager grande siamo andati nel sottocampo di Ravensbrück, dove c’erano dei blocchi adibiti alla lavorazione di manometri per la Siemens. Anche lì il lavoro era dodici ore di giorno e dodici ore di notte; non era particolarmente gravoso, perché eravamo sedute, dovevamo equilibrare questi manometri, eravamo al chiuso non lavoravamo all’aperto e già questo era un vantaggio; quindi da questo lato sono stata anche abbastanza fortunata… però in quelle condizioni fisiche, denutrite in quel modo, dodici ore di lavoro … poi io dovevo fare in parte anche quello di mia madre, perché mia madre non ci riusciva. E  fare tutta la notte era una cosa, perché poi quando tornavi al block non è che ti facevano dormire tranquillamente: tra l’appello, tra che ti chiamavano  perché dovevo fare qualche servizio nel campo, portare bidoni o che so io, caricare carbone ecc. queste cose qua, il riposo era minimo.

Premetto che questi manometri non so quanti, erano delicati, bastava poco che saltava la spirale non si poteva più usare; e allora dovevamo cercare il modo di buttarlo via senza che se ne accorgesse. Avevamo una sorvegliante belga che ti aiutava in questo senso.

Un giorno, a Natale, i dirigenti della Siemens o chi per loro ci hanno chiamato e volevano darci un regalo, un regalo! Volevano, io ricordo, un sacchetto di sale come regalo e invece mi si dice che era un marco, due marchi non mi ricordo che doveva servire sempre per il sale; ci siamo messi in fila e davanti a questi, abbiamo detto tutti “Nein” non abbiamo accettato niente. Era il minimo questo. Le polacche e le russe lo hanno preso.

Siamo stati lì nel sottocampo fino quasi alla fine, siamo rientrati circa un mese prima della liberazione. Nel Lager grande, dove abbiamo trovato una situazione molto peggiore di quella che avevamo lasciato. A parte il fatto che ormai essendo la guerra agli sgoccioli non arrivava più niente, quindi se prima ci davano un pezzetto di pane, che doveva durare tutto il giorno, una fetta così, la zuppa di rape… all’inizio può darsi che c’era qualche patata io non l’ho mai vista perché ci pensavano le capoblocco prima a prendersele e a distribuirle; comunque, qualche volta trovavo qualche buccia di patata. E il “Kaffee” la mattina e poi basta non avevamo niente.

Nel Lager grande gli ultimi tempi è stata una cosa tremenda, perché non c’era neanche più questo: c’era una brodaglia nera con dei filetti che sembrava erba, una cosa stomachevole, comunque la mangiavamo.

Lì è successo, eravamo sempre tutte unite, che ad un certo punto ci hanno diviso: la Bianca e la sorella sono finite in un altro piccolo sottocampo, io e mia madre e altre siamo rimaste lì. Non si sa perché, io dico sempre per ulteriore forma di cattiveria, il mio gruppo viene fatto evacuare, le altre rimangono in campo. Perchè l’idea era quella di ammazzarci tutte così non rimanevano testimoni, comunque a noi ci fanno evacuare. Io premetto che avevo sulla schiena sedici ascessi, sedici lo dico perché me li hanno contati, purulenti, dovuti al fatto che le mestruazioni, l’organismo cominciava a reagire, quindi io li ho avuti tutti sulla schiena. C’era chi li aveva sulle gambe, sulle braccia, sul viso; naturalmente questi ascessi purulenti, erano così e così rimanevano. All’uscita del campo per la prima volta mi viene consegnato un pacchetto della Croce Rossa, uno a me uno a mia madre; dopodichè ci mettono in fila, ci troviamo in una colonna composta da noi, dai soldati tedeschi in fuga e dalla cittadinanza tedesca in fuga. Si diceva che la destinazione era Amburgo. I tedeschi scappavano perché i russi ormai erano alle porte, loro sapevano che i russi avevano il dentino avvelenato nei loro confronti, quindi avevano una paura matta. Camminiamo per due giorni e due notti, in quelle condizioni, io poi portavo anche questa cosa di mia madre. Allora a me sembrava molto vecchia mia madre, ma in realtà poi non era così vecchia perché aveva 44-45 anni; quindi cercavo di alleviarle … poi in effetti non era ridotta molto bene.

Questa evacuazione è stata una cosa tremenda perché eravamo sfinite, gli unici riposi erano quando arrivava l’aereo russo, che ci mitragliava, allora ci facevano sdraiare per terra, nelle cunette, lungo la strada no? E questo abbiamo fatto, ormai eravamo in condizioni … mia madre tra l’altro aveva perso una scarpa e non si sapeva come fare; alla fine non so per quale misterioso motivo ne ha trovata una che si vede era stata abbandonata, e allora ha messo questa scarpa e mi pare che non fosse neppure quella giusta … non ti potevi fermare durante la colonna manifestare la stanchezza, perché se cadevi per terra ti sparavano. Questo, davanti a me è successo questo: una donna è caduta l’SS è arrivato o soldato, ha sparato, aveva una copertina questa non so come l’aveva trovata, in quel momento tu non guardi bene, “Ma che sto facendo?”. Io ho preso istintivamente questa copertina, perché capivo che mi poteva servire. Dopo due giorni o due notti ho detto “Sentite, c’ero io, mia madre e una bambina ebrea che proveniva da Auschwitz ed era rimasta sola, aveva dieci, undici anni circa, perché i suoi erano stati tutti ammazzati e lei siccome era di Rodi e parlava italiano, ha sentito parlare noi in italiano, si è avvicinata, ed è stata sempre con noi negli ultimi tempi. C’era una signora milanese, c’era un’altra signora di La Spezia. Ho detto: “Sentite qui moriamo”, perché non c’è possibilità che si riesca  ad arrivare dove loro pensano di farci arrivare. A quel punto se dobbiamo morire, moriamo sedute. Allora quando durante un bombardamento ci siamo messe in questa cunetta, dove c’era vicino una casetta, quando ha fischiato il soldato, non ci siamo alzate non ci potevano puntare in quel momento di grande confusione, la colonna è partita e siamo rimaste lì.

E lì è cominciata la grossa avventura, sole in un paese in quelle condizioni, perché raccontare delle evacuazioni ci vorrebbe un romanzo perché è una cosa allucinante anche quella, con la croce sulle spalle, perché sul mio cappotto c’era una grossa croce, perché doveva essere riconoscibile facilmente, cosa potevamo fare? A un certo momento passano degli italiani, ex militari internati, sentono che parliamo italiano, ci chiedono, rispondiamo ecc. vi cerchiamo noi dei vestiti; vanno e cercano dei vestiti, stanno con noi. Un giorno, ci mettiamo in cammino, dietro la colonna, dice “Voi state zitte, in modo che non si capisca che voi siete prigioniere”; la mattina dopo ci svegliamo e i nostri pacchi della Croce Rossa, non aperti, erano partiti e così erano partiti gli italiani. Non ho avuto neanche la soddisfazione di aprirlo, a parte il fatto che non avrei potuto neanche mangiare perché succedeva un guaio grosso, però pezzettino per pezzettino … e lì io ora finisco perché credo di capire che ormai … è cominciata la grande avventura per venti giorni, venticinque giorni in su e giù per la Germania dell’Est non sapendo dove si stava andando non si capiva niente, avevamo trovato un carretto con un cavallino che poi è stato requisito dai russi, ah perché la mia liberazione è avvenuta in questo modo: io dormivo in un fienile, ad un certo punto apro gli occhi e mi vedo davanti un soldato russo, lì ho capito che era finita la guerra, perché lì ancora non sapevo che era finita. Mi offre della vodka, dopodichè se ne va; poi ho visto un manifesto per la strada dove si diceva che l’8 maggio era stata firmata la pace. Però noi eravamo lo stesso ancora sbandate, ci dicevano che dovevamo verso Lodz. Arrivati, un ufficiale russo ci ha fermato e ci dice: “Ma voi siete italiane? Dovete andare verso Lemperg”. Quindi abbiamo fatto dietrofront, sembra quasi una barzelletta, viverlo è stata una cosa, finchè poi dopo ci hanno fermato definitivamente. Era una grossa confusione, era una massa di persone che stava girando per la Germania, uno di qua, uno di là, chi andava in Russia, chi andava in Polonia, chi andava in Francia … Ci hanno bloccato e ci hanno messo in un campo di raccolta insieme ai militari italiani in attesa del rientro che per me è venuto il 25 ottobre, quindi è stata lunga, sono rientrata il 25 luglio…

D: Cioè, sei rientrata il 25 ottobre perché è venuto qualche rappresentante dello Stato italiano?

R: Troppo lusso vedere un rappresentante dello Stato italiano. Poi in ottobre, forse qualcuno all’inizio si è fatto vivo, con il risultato che, e questo è bene che io lo dica … beh da Bolzano poi mi hanno messo sul treno, sono arrivata a Genova, dove avevo la zia, l’ho fatta chiamare, quando la zia ci ha viste vestite in quel modo, ha fatto un falò … perché è evidente eravamo … pidocchi dopo non li avevamo più perché io e mia madre ce li toglievamo a vicenda e poi siamo arrivate a Spezia dove, ho saputo da mia zia che i miei erano vivi. Ho avuto la fortuna non solo di ritrovare i miei vivi, ma la casa non bombardata, perché c’era anche questo da aspettarci.

E lì è ricominciata la mia vita chiamiamola normale, ho ricominciato a studiare. Ma una cosa, ecco perché io sono stata zitta per cinquanta anni, nessuno neanche i miei compagni di scuola, nessuno mi ha domandato “Ma che cosa ti è successo?”. Nessuno. Non solo, e questo mi aveva colpito, non perché io volessi raccontare, non avevo nessuna voglia, pensavo che ci fosse un certo interesse a capire, a sapere … qualche cosa, era così fresca la cosa. Ancora qualcuno non lo sa che io sono stata in campo di concentramento, perché siamo arrivati agli estremi di provare quasi un senso di vergogna a dire “Sono stata in un Lager tedesco”. Tutto questo accentuato dal fatto che ero donna quindi “Perché non sei rimasta a casa? Chi te l’ha fatto fare e che cosa avrai fatto, eh! Sia con i tedeschi che con i russi.” Io ho visto solo i russi, gli americani li ho visti a Monaco quando sono rientrata … Allora di fronte a questo uno dice “Ma no, non vale neanche la pena che io sprechi la mia parola per queste persone; mi dispiace mettere nel mucchio tutti gli italiani, ma devo dire che è così. Qualcuno probabilmente invece lo farà proprio perché non vuole spingermi a parlare, pensando che mi faccia molto male, è vero questo, però si capisce se a una di queste persone non gliene importa niente o addirittura mi giudica una prostituta.

D: Ancora un salto a Ravensbrück. Era un campo esclusivamente per donne, eravate tantissime..

R: Se pensi che io avevo il 77415 significa che prima di me ne erano arrivate 77 mila.

D: Di sicuro c’erano anche donne in stato interessante, le hai viste tu?

R: Certo, certo. Le ho viste prima, dopo non ho visto più niente.

D: Anche i bambini?

R: Anche i bambini perché venivano messi in blocchi separati, quindi i bambini io non li ho più visti. Non so quanti di questi ne siano sopravvissuti.

D: Ti ricordi del forno crematorio

R: Sì, mi ricordo, l’ho visto. Per fortuna non mi ci sono avvicinata, ci si sentiva sempre l’odore acre, tra l’altro mi è stato detto che le ceneri sono state tutte buttate nel lago di Fürsternberg. C’erano le cornacchie, sopra, ho detto tutto.

D: Il caffè .. ma in realtà..

R: Il caffè non era caffè, insomma era una brodaglia nera che veniva data al mattino al risveglio perché entrava aprendo la porta, questa urlando “Kaffee”.

E in quella gamella dove facevamo tutto lì, veniva messo …

D: In fabbrica, c’erano anche dei civili?

R: No, io non l’ho visti dei civili perché i tedeschi avevano, probabilmente lo erano, perché avevano un camice bianco i capi, può darsi che erano civili, può darsi, perché erano gli emittenti della Siemens.

D: Un’altra cosa sul lavoro, era un turno di dodici ore…però tu accennavi che eravate sedute, al coperto quindi non esposte alle intemperie. Ma c’era un controllo fisico psicologico durante il momento del lavoro?

R: Certo, certo. Non ci potevamo muovere, non era possibile, anche nel campo. Mia madre un giorno aveva la febbre a quaranta, avevamo una piccola infermeria, è stata ricoverata, per fare che cosa non lo so, perché non avevano niente, ma comunque è stata ricoverata. Io non sapevo niente di mia madre, allora un giorno di nascosto, perché non si poteva fare questo, sono arrivata al Revier e ho cercato di vedere dalla finestrella se vedevo mia madre. E questi blocchi avevano intorno, dire aiole è un po’ troppo … i tedeschi sono molto molto “poetici”, infatti dentro al blocco dovevamo entrare senza scarpe sennò lo sporcavamo. Io ho messo naturalmente un piede su questa terra e non mi sono accorta che avevo dietro di me un comandante del campo; mia madre non l’ho vista, però a un certo punto ho visto lui, il quale ha cominciato a urlare come un pazzo in tedesco, quindi non ho capito niente, fra l’altro la lingua tedesca, voi lo sapete è una lingua dura, rabbiosa, poi se sono alterati ancora peggio; si è accorto che ero italiana, perché mi ha chiesto chi ero, ho detto che ero una italiana, ha urlato come un pazzo, alla fine mi ha fatto segno di tornare nel mio blocco. Io sono tornata nel mio blocco, non so descrivere il terrore di quel momento, perché io non avevo capito cosa questo mi voleva fare; sapevo che avevo fatto una cosa contraria al regolamento, quindi mi dovevo aspettare qualunque cosa, perché lì se commettevi qualcosa non era strano che ti mettessero all’ingresso del campo con un cartello, in piedi tutto un giorno dicendo quello che avevi commesso. Ora io non potevo capire e sapere che valutazione dava a questo mio atto, quindi sono andata dentro al mio block, perché era un giorno che facevo il turno di notte, per quello ero libera di giorno; mi sono sdraiata sul letto, sul giaciglio, i castelli tremando come una foglia, a questo punto la mia vescica non ha retto dalla paura, quindi che è successo che ho bagnato la compagna di sotto che me ne ha dette di tutti i colori. E io ero raggomitolata in questo pagliericcio aspettando da un momento all’altro che mi venisse qualcuno a prendere, perché mi ha dato le botte, non è solo che mi ha urlato, prima mi ha dato le botte, poi ha urlato come un matto, invece dopo non è successo niente. Però io credo … un’ora, due ore, quanto è stato … non so se potrò mai provare quello che ho provato in quel momento, il fatto di non capire le lingue era tremendo, veramente peggiorava tutto.

D: Hai mai assistito ad atti di violenza nei confronti di altre deportate?

R: No, in modo particolare no. Se no, con il frustino queste cose, lì erano piccole cose in confronto.

D: In confronto a cosa?

R: In confronto a quello che ti potevano fare, perché c’era anche la cella di punizione, di isolamento, dove non si sapeva bene quello che veniva fatto lì; insomma i sistemi di punizione erano tantissimi. E poi chi mi diceva che non mi potevano … è vero che io ero giovane e quindi potevo essere ancora valida come mano d’opera, ma mi potevano anche mandare al forno.

D: Selezioni non ne hai mai subite?

R: No, l’unica selezione se così si può chiamare è questa del ritorno dal campo: quando sceglievano le più giovani per mandare, e a me non hanno scelto, non sembravo tanto giovane.

D: Hai detto che quando sei tornata a casa…

R: Mezza vuota; i mobili c’erano quasi tutti, a parte quelli che allora si usavano col grammofono, quello penso è partito subito, la biancheria e poi come si chiamano i gingilli che si adoperano a casa, quelle cose più preziose se le sono prese.

Baroncini Nella

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Baroncini Nella, sono nata a Bologna il 26 agosto del ‘25. Ho sempre abitato a Bologna. Tutta la mia famiglia è stata arrestata il 24 febbraio del ’44. Siamo stati arrestati dalle direttamente SS. Prelevarono nostro padre dall’officina dove lavorava, vennero a casa nostra. Abitavo a Bologna, non dico la via. Ci trovarono tutti a casa: eravamo tre sorelle, la mamma e il babbo che è stato prelevato all’officina. Quel giorno lì eravamo tutte a casa perché mia sorella era stata licenziata: eravamo in tempo di guerra, quindi una sorella era a casa licenziata, un’altra sorella lavorava in una fabbrica fuori Bologna; e quella mattina era a casa, io stavo andando in ufficio, ero ancora a casa che stavo mangiando il caffelatte. Ci trovarono tutti a casa e ci prelevarono tutti quanti.

D: Perché vi hanno arrestato?

R: Naturalmente deve essere stata una spiata. Abitavamo in una casa popolare, avevamo una macchina da scrivere in casa, facevamo un lavoro di stampa: stampavamo, i ciclostili per l’Unità, per la Lotta – un giornale locale bolognese – per il movimento delle donne, adesso mi ricordo come si chiamava esattamente allora … il movimento di liberazione della donna mi sembra. Praticamente noi eravamo tre sorelle e sapevamo tutte e tre scrivere a macchina; eravamo impegnate a fare questo perchè pensavamo fosse utile per la Resistenza. Noi eravamo solo ragazze, però abbiamo pensato che non ci sembrava giusto non fare niente. Non abbiamo fatto molto perché come ho detto il 24 febbraio del ‘44 eravamo ancora in principio della Resistenza, ci presero.

Ed è cominciata l’odissea della nostra famiglia, che è stata una tragedia nella tragedia.

Era una mattina, aveva nevicato tutto il giorno prima; io ricordo che non poterono neanche venire sotto casa, ci dovettero portare in mezzo alla strada perché c’era la neve alta. Ci portarono direttamente al comando delle SS, allora era in viale Risorgimento. Ci han tenuto lì fino a sera, ci hanno diviso, hanno trattenuto mia sorella, che si era presa la responsabilità del lavoro che facevamo in casa. Quindi trattennero mia sorella e mio padre lì al comando delle SS; noi ci portarono al carcere di Bologna, San Giovanni in Monte: io, una sorella e la mamma.

Mia sorella e mio padre sono stati torturati, sono stati interrogati per un mese, sono stati nel sotterraneo delle SS, hanno subito tutto quello che era possibile subire, e dopo un mese vennero portati anche loro a San Giovanni Monte, dove siamo rimasti fino ai primi di maggio, quando siamo stati trasferiti a Fossoli, nel campo di Fossoli. Siamo stati lì altri tre mesi, nel periodo in cui fucilarono i settanta  di Fossoli.

A Fossoli tutto sommato non stavamo neanche male, anche perché a Fossoli c’eravamo riuniti, eravamo assieme anche a nostro padre …  non sapevamo più niente di lui. Tutto sommato a Fossoli eravamo ancora in Italia, ci sembrava di stare male ma in confronto a quello che abbiamo passato dopo, pensando a Fossoli non si stava male del tutto. Però ci fu quella fucilazione dei settanta, poi c’erano parecchi compagni che conoscevamo, parecchie persone.

E quella fu una cosa abbastanza tragica.

Verso la fine di luglio partì l’ultimo scaglione di uomini, fra cui c’era nostro padre, non sapevamo per dove, poi dopo ho saputo …

D: A Fossoli vi hanno immatricolato?

R: Sì, ci hanno immatricolato, però non ricordo il numero di matricola di Fossoli.

D: Neanche la baracca ti ricordi?

R: In un primo tempo ci misero in una baracca insieme a tutti gli altri. Poi dopo ci hanno diviso nelle baracche delle donne, che erano quelle lungo la strada. Sì difatti è l’unico di cui n’è rimasto un pezzo, delle due baracche delle donne. Lungo la strada c’erano le baracche degli ebrei, poi c’era una suddivisione e c’erano le due baracche delle donne. Da lì noi facevamo anche un po’ le staffette lì dentro: perché c’era, parlavo col sindaco di Carpi, una casa di contadini lì di fronte e noi facevamo un po’, sapete i parenti che venivano si fermavano in questa casa e noi attraverso la strada ci facevamo dire il nome di chi cercavamo, li andavamo a cercare nel campo, e li portavamo. Facevamo praticamente un po’ il lavoro di staffette anche lì dentro. Lì a Fossoli siamo stati tre mesi. Poi ci si parlava, parlavano del trasporto in Germania e tutto quanto, ma non sapevamo che cosa volesse dire naturalmente. Noi siamo state l’ultimo gruppo di donne che sono partite; anzi pensavo che fossimo state l’ultimo gruppo invece ho saputo da Varini che erano rimaste lì un gruppo di cinque-sei ammalate che partirono dopo di noi.

D: Siete partiti prima voi o prima il vostro babbo?

R: Papà è partito verso la fine di luglio; noi siamo partiti i primi di agosto, mi sembra il 2 di agosto, dovrebbe essere il 2 di agosto. Praticamente siamo state l’ultimo gruppo, eravamo in quarantacinque: un po’ politiche e una parte di ebree. Ci caricarono, abbiamo passato il Po con il barcone, ricordo, ci siamo fermati a Verona una notte. Lì cominciarono a fare la separazione specialmente per quanto riguardava gli ebrei e il mattino dopo ci hanno messo sul carro bestiame, da Verona. Io ricordo che naturalmente il carro bestiame.. era proprio un carro bestiame, eravamo peggio delle bestie, stretti, senza poter tossire, senza poterci sdraiare. Mi ricordo che quando passò la notte, la mattina quando aprii gli occhi e vidi scritto stazione di Bressanone … allora non sapevo neanche, comunque ho capito che eravamo al confine, verso la Germania, verso l’Austria.

D: A Verona dov’è che vi hanno sistemati?

R: Non so esattamente, penso che fossero delle caserme. Ricordo un cortile in cui ci radunarono la mattina dopo; mi ricordo un camerone che stemmo lì sdraiati in terra tutta la notte, però esattamente non ti so dire che cos’era, penso che fosse una caserma.

D: E con te c’era la Iole

R: Eravamo tre sorelle e la mamma; la Iole, la Lina, io e la mamma.

D: Mentre invece appunto il tuo babbo?

R: Era partito prima non sapevamo più niente, non sapevamo che cosa fosse …

D: Mamma come si chiamava?

R: Benini Teresa

D: A Bressanone poi cosa è successo? Il cognome della mamma scusa?

R: Benini Teresa.

A Bressanone niente, il treno è proseguito. E poi ricordo, non è che avessimo dei gran finestrini, c’era il finestrino dei cavalli, con naturalmente le sbarre, quindi guardavamo un po’ fuori dove potevamo; e ricordo, perché siamo stati quattro giorni, perché siamo arrivati a destinazione il giorno 6 agosto. Ricordo, queste erano foreste, capivamo che andavamo verso il nord della Germania, anche se non è che fossimo molto pratiche dell’estero perché non avevo mai viaggiato molto. Poi ci fermavano un po’ alla sera, qualche volta, non mi ricordo forse ci facevano scendere. Però so che era un macello quattro giorni in questo carro bestiame, naturalmente puoi immaginare, non ricordo neanche quanti eravamo. So che da Fossoli eravamo partiti in quarantacinque, ma dopo sul carro credo che fossimo anche di più perché a Verona avevano caricato altra gente.

Quando finalmente siamo arrivati a destinazione abbiamo visto Ravensbrück, naturalmente non sapevamo né che cosa era né che cosa significasse. Ci hanno fatto scendere, a spintoni, a calci; ci hanno fatto mettere per cinque, abbiamo attraversato un bellissimo boschetto, con delle belle villettine con dei gerani alla finestra, che in un primo tempo ci si è un po’ allargato il cuore, perché abbiamo detto: “Be’ insomma se è così non è poi neanche male del tutto”. Poi allora avevo diciotto, diciannove anni, quindi c’è una gran fiducia, c’è una gran voglia di credere, non si vuol pensare troppo male. Quando invece siamo arrivati all’entrata del campo, lo scenario, naturalmente, è cambiato completamente.

Lì abbiamo cominciato a vedere che cosa voleva dire un campo.

D: Il treno non si è mai fermato?

R: Sì. Si fermava qualche volta. Mi sembra che si è fermato qualche volta alla sera, non mi ricordo se scendevamo se dovevamo andare a vuotare questa specie .. o quello che era. Ricordo solo che non ci si poteva né sedere né sdraiare, bisogna fare i turni per metterci un po’ a sedere perché eravamo talmente stretti … ricordo i disagi: essere chiusi in un carro bestiame senza poter uscire, senza poter bere; da mangiare avevamo qualche cosa di rifornimento che ci avevano dato a Fossoli, avevamo con noi mi sembra del formaggio, della roba, però non c’era da bere e soprattutto erano i bisogni corporali … era una cosa bestiale, non eravamo ancora abituati. Dopo purtroppo abbiamo dovuto anche abituarci anche a quello, però allora venivano ancora dall’Italia.

D: L’ingresso del  campo di Ravensbrück come te lo ricordi?

R: Mi ricordo questo: come siamo entrati ci hanno messo dentro delle docce che erano a destra dell’entrata. Ci hanno messo lì e c’erano con noi delle ebree, noi pensavamo che fossero delle esaltate, che ci dissero: “Non aprite l’acqua, non aprite il rubinetto perché viene fuori il gas. Noi naturalmente ci siamo messe a ridere, non pensavamo neanche lontanamente che potesse esistere qualcosa del genere. Finché dopo qualcuno ha provato ad aprire, invece quella volta venne fuori l’acqua sul serio. Siamo stati lì tutta una notte e il giorno dopo. Il giorno dopo ci portarono una specie di zuppa di cavoli, impastata con dell’orzo, con qualche cosa, che dopo sarebbe diventata una cosa buona, ma quella volta lì naturalmente ci siamo rifiutate proprio di mangiare perché avevamo ancora qualche cosa dal campo di Fossoli. Solo che quello che ci ha spaventato è vedere quel poco che riuscivamo a vedere del campo: questa gente che sembravano tutti degli alienati, gente che andava a rimescolare dentro i rifiuti per esempio. E quello che riusciva a venire vicino alla baracca, ci diceva di dare tutto quello che avevamo perché tanto ci avrebbero preso tutto. Noi sempre in buona fede, naturalmente non ci credevamo; però nel vedere questa gente che sembrava di un altro mondo, pensavamo che fosse gente che si fosse lasciata andare; non pensavamo che dopo poco saremmo state ridotte così anche noi. Ci ha fatto un certo effetto, non riuscivamo ancora a renderci conto di quello che poteva essere il campo. E poi quando è finito, il giorno dopo, abbiamo fatto la nostra doccia e tutto quanto, ci han fatto spogliare tutti quanti nudi; naturalmente dopo ci abbiamo fatto l’abitudine, ma le prime volte, specialmente pensare alla mamma che … Allora pensavo che avesse una certa età, aveva cinquant’anni, non era così vecchia; però allora, a quell’epoca noi, nostra madre non l’avevamo mai vista neanche in sottabito. Quindi pensare a doversi spogliare nuda di fronte a tutti per lei .. oltre all’umiliazione nostra, noi ci potevamo anche rassegnare, è che stavamo male a pensare, a vedere la mamma …

Ci hanno spogliato tutte; ci hanno fatto tutte le visite del caso; alcune le hanno rapate a zero, magari quelle che avevano i capelli migliori; e poi ci hanno dato due stracci, un paio di mutande, mi ricordo che erano sempre grandi, una specie di sottabito e un vestito. Allora eravamo in agosto, era un vestito che aveva le maniche corte, aveva due croci di stoffe diverse che erano praticamente il segnale del campo. Era un lusso avere la divisa. E ci diedero questo vestito, roba che abbiamo tenuto per dieci mesi praticamente. Ricordo che quando dovevamo lavarlo dovevamo girare con la roba in mano finché non si era asciugato perché non potevi appoggiare niente, perché se appoggiavi qualche cosa spariva.

Questo è stato l’arrivo al campo. Abbiamo fatto per venti giorni la quarantena, così chiamata, non si andava a lavorare, si andava fuori all’appello alla mattina. Abbiamo cominciato a capire un po’ l’andamento del campo: alle 4 della mattina c’era la sveglia, a urla e spintoni bisognava andar fuori, si stava fuori fino alle 7 e mezza, cioè due o tre ore in piedi, ma lì eravamo ancora in agosto in principio andavamo ancora bene. Poi nel periodo di quarantena c’erano le visite. Finito l’appello ci mettevano davanti al Revier, a questa specie di ambulatorio dove dovevamo fare le visite, nude naturalmente; dovevamo stare lì tutta la mattina nude. Ricordo che una volta la mamma poverina sempre a tenere le mutande, passò un tedesco gli diede due sberle perché naturalmente aveva le mutande. E lì alla fine ci fecero varie visite, io avevo solo diciannove anni, allora eravamo anche ingenue e tutto quanto, compresa una visita ginecologica naturalmente che fu una cosa tragica quasi. Magari ci tenevano lì tutta la mattina e poi alla fine ci guardavano in bocca, forse volevano vedere se qualcuno aveva dei denti d’oro. E questi furono i primi venti giorni di quarantena, ed eravamo ancora tutti assieme, tutte le italiane assieme.

D: L’immatricolazione quando ve l’hanno data?

R: Quella ce la diedero nella spoliazione: ci diedero questi due stracci e ci diedero il triangolo rosso e il numero di matricola. Il mio numero di matricola era 49.553: c’era mia sorella Angelina, era la prima, poi c’era la Iole, io quindi ero il 51, 52, 53, la mamma non mi ricordo se era il 54, se era subito dietro di noi dato che era Benini anziché Baroncini. Non ricordo esattamente se il numero della mamma era in seguito al nostro o forse era uno di più perché in mezzo a noi. Dopo c’era anche un’altra, era una di Savona mi ricordo, che era un pochino più anziana della mamma, che dopo rimase assieme a noi al nostro gruppo.. Dopo i venti giorni di quarantena una mattina, dopo l’appello ci misero in fila per andare a lavorare, ci dettero un badile … Era il 26 agosto, è il giorno del mio compleanno tra l’altro.. pensai che mi facevano il regalo di compleanno. Con noi, nel nostro gruppo c’erano le due della vicenda di Cuneo, c’erano delle intellettuali di Milano, c’era Maria Montuoro. C’erano parecchie persone, nessuno naturalmente sapeva tenere un badile in mano. Ricordo che ci mandarono a caricare sabbia con quei carrellini: dovevamo caricarli, trasportarli, vuotare da un’altra parte. Penso che non fosse molto utile come lavoro ma dovevamo farlo e quello era il lavoro che ci facevano fare in un primo tempo. E abbiamo fatto per qualche giorno quel lavoro lì.

D: Anche mamma?

R: No. La mamma era riuscita a stare in baracca; doveva fare però il lavoro a maglia. In baracca erano in due sedute su un panchetto, una davanti e una di dietro, e poi dovevano lavorare. Io sono sempre riuscita a non farla venire almeno fuori all’aperto a lavorare. E’ sempre stato un lavoro continuo. E poi, dopo, naturalmente abbiamo cominciato a sentire la fame: i primo giorno abbiamo rifiutato sì di mangiare i cavoli, dopo erano rape che erano ancora più tristi dei cavoli; il pane il primo giorno non ci piaceva, però dopo era diventato l’unica cosa mangiabile, era un pane nero, credo che fosse fatto appositamente per i deportati, quindi non so che cosa ci fosse in mezzo. Ad ogni modo era l’unica cosa che si mangiava, perché le rape nonostante la fame erano proprio tristi, si faceva proprio fatica a mangiarle perché erano dure, legnose, proprio senza niente, non c’era proprio niente, niente.

Ad ogni modo quella era la nostra razione di mangiare, era quasi sempre quella lì che mi ricordo io. La sera invece delle rape c’erano delle patate, solo che, finita la quarantena ci cambiarono anche di baracca: noi quattro, assieme a una di Savona, mi ricordo che era più anziana della mamma, andammo in una baracca; tutte le altre italiane rimasero in una baracca diversa. Eravamo proprio sperdute lì in mezzo, tanto è vero che provai ad andare a letto ricordo che suonò l’allarme: fecero un appello di sera, che non avevano mai fatto. Quando tornammo dentro c’erano le luci spente, provai ad andare su questo letto ma mi presero a pugni e a calci finché ho dovuto venire giù. Mi sono messa lì, per la mamma non c’era il posto l’avevano messa con un pagliericcio lì in terra sotto la finestra, io sono andata lì con lei. E ricordo che lì dopo succedeva questo: provavamo ad aprire un po’ la finestra, cominciammo a litigare, allora venne la capo blocco, capì che non avevo il posto per andare a letto, mi presero per un braccio e mi misero su dei castelli dove erano già in quattro. L’han già spiegato in tanti: erano castelli di legno, pagliericci che non avevano più la paglia, ci stavi in due, una dalla testa e una dai piedi; quindi lì dove mi portarono c’erano già in quattro su due di queste piazze, quindi io dovevo fare la quinta, su due piazze praticamente ero proprio completamente in più. Per fortuna erano italiane, non hanno avuto il coraggio di prendermi a pugni e di mandarmi giù; ho dovuto stare lì per un pezzo, ho dovuto stare lì con loro.

La vita del campo è indescrivibile quella che poteva essere la vita del campo.

D: La vita del campo, cosa ci puoi dire della vita del campo?

R: Cosa si può dire della vita del campo? Era una cosa che non so come si possa descrivere, perché per quanto si descriva una cosa brutta, non si può arrivare a capire quello. Intanto la cosa che ti colpiva di più era la gente che vedevi intorno. Praticamente ti trovavi vicino dei cadaveri, insomma tu vedevi dei cadaveri con la pelle, vedevi solo la pelle della gente, gli occhi aperti. Io ricordo che una volta, non so come, mi trovai seduta vicino alla baracca, si vede che era un giorno che non si lavorava. Non so, mi trovai vicino quelle fotografie che si vedono nelle mostre, nelle cose; io vidi una di quelle lì che aveva la bocca aperta, gli occhi aperti … ancora adesso non so se era viva o se era morta. Tu vedevi solo della gente di quel genere lì.

Nel campo di Ravensbrück tra l’altro c’erano parecchi zingari, quindi c’erano anche dei bambini. La prima volta che li vidi, mi sono venuti in mente i documentari che facevano a quell’epoca: i fascisti naturalmente facevano vedere i bambini della Russia, come si vedono anche adesso purtroppo, come degli scheletri. Come ho visto mi è venuto subito in mente quel fatto lì, l’ho messo subito in relazione: venivano a prendere i bambini per questi documentari.

Quello che ricordo questa gente, gente che non era gente, eravamo … Lì, ad un dato momento cosa fai? A diciannove anni, non pensi di dover finire in quel modo lì, quindi hai sempre un po’ di speranza. Allora in principio abbiamo cominciato a parlare naturalmente soprattutto di ricette. Allora ognuno faceva l’invito, compresa l’Enrichetta, che viveva in montagna, e ricorderò sempre che alla fine quando si parlava di ricette diceva: “Io che ricetta vi posso dare? Io l’unica ricetta che posso darvi è la polenta di fagioli”. Ricordo quel particolare lì, che si prendevano degli appunti, adesso non mi ricordo, perché non avevamo mica niente, qualche pezzo di matita che ero riuscita a trovare, si facevano anche delle punte, c’è chi ha portato a casa anche delle ricette addirittura.

Ma l’unico pensiero era quello lì: il mangiare, il ritorno.

E poi passò settembre, era passata l’uva. Passò l’ottobre erano passate le castagne. Arrivammo a Natale abbiamo detto: “Qui non si torna più a casa”. Quindi quando siamo arrivate a Natale abbiamo smesso di sperare di arrivare a casa naturalmente, perché eravamo già messe piuttosto male. Noi della mia famiglia eravamo in quattro: abbiamo cominciato a fare i turni nelle infermerie, siamo riuscite finalmente a trovare due cucce per stare tutte e quattro insieme, però non riuscivamo perché una o l’altra era sempre in infermeria. Cominciò prima mia sorella Lina con il tifo; addirittura andò nella baracca del tifo che fece una vita, naturalmente lì si trovava la gente morta nel castello. Dopo andai io in infermeria, poi andò la Iole. Insomma abbiamo fatto sempre un po’ il turno ad andare in infermeria, tanto è vero che dopo ci lasciavano soltanto due letti perché tanto in quattro non c’eravamo mai.

Dopo cercavamo di scegliere i lavori. Per un pezzo mi ricordo che ci misero a fare … dunque il pavimento era tutto sabbia a Ravensbrück; la pavimentazione era fatta con il carbone e mi ricordo che c’è stato un periodo che andavamo a scaricare questi vagoni dietro dal campo, non molto lontano, col carbone, li dovevamo caricare su delle carriole piene naturalmente e trasportare su questa sabbia che dovevamo mandare avanti. E poi c’era chi faceva la pavimentazione, dopo dovevamo passare con il rullo: c’era il famoso rullo presente in quasi tutti i campi, è rimasto il simbolo anche di Ravensbrück naturalmente; e poi c’era un gran tubo lungo che doveva bagnare, bagnare con l’acqua. Quello era anche un lavoro abbastanza leggero, però far venire l’ora del rancio della sera era abbastanza lungo.

Quello è uno dei primi lavori, dopo i carrelli della sabbia e poi dopo cercavamo di andare; quando restavamo, cercavamo di scappare, in baracca non ci si poteva stare. Ti mettevano in fila in mezzo al campo, dovevi aspettare di andare a trasportare i bidoni del rancio, quindi non era una gran bella soddisfazione neanche quella: mi ricorderò sempre che una volta eravamo lì in fila, passò un tedesco, disse qualche parola in tedesco naturalmente, qualcuno, non so se era proprio l’Enrichetta o se era la Giovanna, gli scappò detto “Nicht verstehen” perché era l’unica cosa che capivamo in tedesco, prese un fracco di botte naturalmente perché quello non si poteva dire, si doveva capire lo stesso anche se non si capiva.

Allora dopo imparai che c’erano le colonne dove si andava a segare gli alberi alla foresta, davano un piccolo supplemento di pane, ma una fettina trasparente .. in confronto al lavoro che si faceva naturalmente non è che fosse gran che, però … E poi davano la divisa, davano il vestito a righe, che era già un successo avere quello lì. Quindi mi ricordo che andai là in fila, mi feci dare il vestito, mi diedero anche un paio di calze di lana; eravamo già ottobre novembre, cominciava già a far freddo. Mi diedero un paio di zoccoli col fondo di legno, era il numero quarantadue … con le scarpe sono sempre state anche abbastanza handicappata perché il primo giorno me le feci portar via subito. La prima sera … il castello era nel terzo piano, non sapevo che le scarpe dovevano servire da cuscino sul vestito, io lasciai le scarpe naturalmente sotto il castello, roba neanche da pensare. Quindi la mattina neanche a pensare che trovassi le scarpe. Provai ad andare dalla capo blocco, provai a spiegare che non avevo le scarpe, mi fece segno che c’erano un paio di zoccoli olandesi di quelli di legno che erano lì sopra, mi fece segno di prendere quelli, come tentai di toccarli mi sentii un mucchio di botte, era la padrona probabilmente degli zoccoli. Era un paio di scarpe da soldato, senza fondo naturalmente, per un pezzo io sono andata con queste scarpe da soldato che non riuscivo, facevo fatica anche a camminare. Quindi quando decisi di andare alla colonna della foresta a segare gli alberi mi diedero questo paio di zoccoli che in novembre, dicembre non è che facessero molto caldo, comunque erano il numero quarantadue.

Poi andai a questa colonna, non mi trovavo male, a parte il fatto che naturalmente non è che sapessi segare alberi. Quindi partivamo la mattina con il segone e tutte le misure di queste seghe. Un bel posto avevamo, erano tre rimorchi con un macinino che andava, so che c’era il  camino che fumava. So che una volta, eravamo già in inverno c’era il ghiaccio nel paese, c’era una piccola salita e non andava avanti: dovemmo scendere per spingere e naturalmente lì ci tiravano dietro i sassi addirittura i bambini del paese. Non so erano istruiti, non so se sapevano in paese che cos’era il campo di sterminio, però forse vedevano il camino fumare perché era a pochi chilometri il paese. Quindi ricordo quel particolare lì, a lavorare là alla foresta, dovevamo segare alberi, se ti fermavi ti buttavano dietro i cani. Naturalmente nessuno era molto pratico di questo lavoro. Ci davano questa specie di supplemento e poi quando arrivava, tutto quello che avevi era sempre legato in cintura, avevamo la scodella legata in cintura, quella specie di cucchiaio dentro le asole del vestito ecc. Quando arrivava il rancio a mezzogiorno, le solite rape, era abbastanza lontano dal campo … come mettevano questo mescolo di rape dentro alle gamelle naturalmente si gelava addirittura perché eravamo arrivati anche sotto i venti gradi sotto zero. E lì anche se era triste comunque le mangiavamo lo stesso.

Mi ricordo che c’è stato un periodo che eravamo in una foresta, facevano la carbonella con la legna, c’era una gran cisterna con il fuoco e noi di nascosto naturalmente andavamo a rubare dei pezzettini di questa carbonella perché faceva bene per la dissenteria; la dissenteria è stata la nostra compagnia dal principio fino alla fine. Alla notte ti dovevi alzare anche cinque volte naturalmente, prendere pugni e calci perché dovevi pestare la faccia a quella sotto e finché potevamo, cercavamo di stare più in alto possibile.

D: Le mestruazioni

R: Quelle lì, io ho litigato un po’ con tutti i ginecologi di Bologna. Le mestruazioni … dunque lì c’era chi le aveva, per esempio mia sorella ha avuto la disgrazia che le aveva sul carro bestiame nell’andare là; però dopo quindici giorni sono venute a tutte. A tutto il gruppo sono venute le mestruazioni e poi non sono più venute a nessuno. Allora qualche giornalino ha scritto che era per la mancanza degli uomini e qualche ginecologo ha detto che era la debolezza. E io continuavo a dire: “Guarda che lì in quella porcheria che ci davano da mangiare c’era qualche cosa per forza in mezzo, perché non si può in quarantacinque donne tutte quante fermarsi all’improvviso e tornare due mesi dopo la liberazione, dopo cioè che hai smesso di mangiare quella roba che ti davano loro”. Anzi un ginecologo addirittura ha detto che è impossibile perché ci fosse stato qualcosa del genere, cioè da poter fermare le mestruazioni quando si voleva si sarebbe saputo. E mi ha portato l’esempio di Auschwitz: c’erano stati dei casi di donne rimaste in stato interessante, dato che ad Auschwitz c’erano anche uomini e donne. Ma in un primo tempo penso che a tutte si fermassero le mestruazioni, almeno a quello che risulta a me. Anche perché per fortuna ad un dato momento, a parte tutti i disturbi che ti poteva dare fisicamente, ma con la mancanza di igiene che c’era, se c’era anche quella faccenda lì non so come si sarebbe fatto, anche perché ci avevano portato via tutto. Quindi lo sapevano di partenza che dopo un mese noi non avevamo più niente.

D: Tu non sei mai uscita con le tue sorelle a lavorare in una fabbrica?

R: Lì c’era chi usciva ad andare a lavorare alla Siemens, oppure alla sartoria, non è che stessero molto meglio perché dovevano andare fuori dal campo e lavoravano al coperto, ed era una gran bella cosa. Noi eravamo in quattro ad andare lì, la mamma non potevamo certamente portarla via; quindi abbiamo sempre evitato per riuscire a stare tutte assieme. Poi, come dicevo, qualcuno era sempre in infermeria, quindi avremmo dovuto separarci, cosa che abbiamo cercato di non fare, anche se dopo alla fine ci siamo riuscite lo stesso, purtroppo. Dopo siamo arrivati a Natale facendo un po’ i turni nelle infermerie un po’ come si poteva, a Natale eravamo già messe piuttosto male, mi ricordo che il giorno di Natale addirittura ero in infermeria. In infermeria poi è una parola, un eufemismo perché era il Revier che era tutta un’altra cosa, dire in infermeria si pensa che ci siano dei dottori e degli infermieri. Comunque lì c’erano delle dottoresse che provavano a far quel che potevano, però non si poteva far niente.

La mamma cominciava già a stare piuttosto male; la Iole era già in infermeria e noi facevamo un po’ il turno. Mi ricordo nel mese di gennaio finalmente siamo riuscite a ricoverare la mamma che stava male: non stava più in piedi, era sfinita praticamente, solo che quando marcava visita non potevano ricoverarla, perché non aveva la febbre a più di 39. Io la prima volta che marcai visita mi ricordo erano tre giorni che stavo male, non avevo il coraggio, perché specialmente noi italiane, in infermeria non trovavi nessuno che potesse capirti.

Ho detto quello che, … altre cose, comunque non ne ho delle altre cose da raccontare. La vita del campo che ormai è stata raccontata e raccontata.

In gennaio siamo riusciti a ricoverare la mamma. E’ stata una decina di giorni ma poi si è consumata completamente, siamo riusciti a vederla fino all’ultimo: a rischio però riuscivamo, l’abbiamo vista l’ultima sera, l’abbiamo vista la mattina nel letto che non l’avevano ancora portata nel mucchio dei cadaveri della notte, perché facevano l’ammucchio nei Waschräume, nei lavandini.

Lì, la mamma è finita così. Rimanemmo io e le mie sorelle che eravamo ancora in piedi; la mamma è morta verso il 21 di gennaio.

Lì cominciavano a parlare che avanzavano da una parte, al radio-campo si sentiva un po’ delle notizie ma non è che si sapesse molto. I primi di febbraio ho cominciato a star poco bene io, avevo la tosse, avevo la febbre, non volevo marcare visita perché avevo paura che ci separassimo anche io e mia sorella, quelle che eravamo rimaste in piedi. La Iole era già in infermeria da un pezzo, e poi ho tirato finché ho potuto poi dopo alla fine ho dovuto marcar visita e sono andata in infermeria che era il 12 di febbraio. Era un lunedì. Al giovedì 15 febbraio partirono tutte le italiane che erano nel campo, in mezzo ci cascò mia sorella, l’unica rimasta in piedi. Quindi rimanemmo lì, io ero alla baracca n. 7, un supplemento dell’infermeria perché era provvisoria, e la Iole che era rimasta nella baracca 10, sempre chiamata l’anticamera della morte. Comunque mia sorella stava benino, non stava male, però, non so se era una forma tubercolare, quello che avevamo un po’ tutti naturalmente. E lì siamo rimaste per quindici giorni: ci siamo scambiate qualche biglietto, lei scriveva dei biglietti facendo coraggio a me, non le avevamo detto che era morta la mamma, abbiamo cercato di non dirglielo; lei mi scriveva, parlava della mamma, parlava di tutti noi, parlava che tornavamo a casa, che eravamo giovani, che ci saremmo riprese presto, che la mamma e il papà non dovevano più lavorare. E poi l’ultimo bigliettino me l’ha scritto gli ultimi giorni di febbraio, i primi di marzo: il giorno 4 marzo partirono un gran trasporto da tutte le infermerie del campo, ne chiamarono parecchie anche da dove ero io e imparai che mia sorella partì con quel trasporto in cui tutti finirono nei forni del crematorio dello “Jungerlager”. E quella è la fine. Non c’ho creduto per un pezzo però la fine che hanno fatto era quella lì. Lì sono partite dal campo già selezionate per i forni crematori, non sono andate là per la selezione come si faceva di solito, li presero dall’infermeria già decise. Anche perché le infermerie, queste specie di infermerie erano sovraffollate quindi avevano bisogno di posto, perciò nessuno era più utile per il Grande Reich, perciò dovevano finire tutte nei forni crematori.

Lì dopo rimasi da sola. Mi ero trovata con una compagna jugoslava, la famosa Julkee. Julkee era stata arrestata in Italia, lavorava per la Resistenza italiana; è stata arrestata con una di Bologna che ci conosceva di nome, conoscevamo bene suo fratello, non lei. E quando partirono tutte, lei arrivò lì al campo col trasporto di settembre-ottobre che veniva da Bolzano. Lei fu arrestata che era in stato interessante, quindi rimase lì al campo dove partorì. Dopo l’abbiamo persa un po’ di vista a dir la verità, perché noi eravamo di un’altra baracca; ho saputo che ha partorito verso Natale ed è stata molto assistita dalle jugoslave; c’erano parecchie dottoresse, sono state bravissime, han fatto di tutto, l’han salvata, addirittura mi han detto che hanno perfino fatto una trasfusione di sangue … dirlo così sembra una cosa da ridere ma pensare ad una trasfusione di sangue nella situazione in cui eravamo, perché anche le dottoresse potevano forse riuscire a stare un pochino meglio di noi dato che erano in una posizione migliore, però la fame era per tutti.

Mi sono ritrovata appunto con Julke quando sono stata in infermeria, nella baracca n. 7. Mentre ero lì, comunicarono che era nata una bimba a cui mise il nome Julopodeski, mi ricordo che vuol dire, non so se si dica proprio così comunque so che voleva dire “libera”, la traduzione in italiano. La bambina morì naturalmente dopo due mesi, era una di quelle che stava bene: una notte mancò l’infermiera quella che ci teneva dietro, era malata; non so cosa fecero, lasciarono accesa una stufa, quelle che stavano meglio che erano di sopra morirono, quindi in mezzo ci capitò anche lei. Quando andai per farle coraggio lei mi guardò e mi disse: “Cosa vuoi far coraggio te a me?”. Eravamo tutte e due in una situazione. Comunque eravamo un po’ alla baracca n. 7 provvisoria e poi ci perdemmo anche da lì perché la mandarono pochi giorni prima di quella famosa chiamata del 4 marzo. Lei era in quella lista lì, perché era di quelle che stava abbastanza male però la mandarono fuori dall’infermeria appositamente appunto perché non cascasse in quella lista. E dopo quando cambiai baracca, che andai alla baracca n. 8, la ritrovai, e dopo siamo sempre state insieme fino alla liberazione, finché abbiamo potuto.

Praticamente era un’altra sorella per me, aveva l’età della Iole e parlava molto bene l’italiano; era praticamente incinta di un compagno italiano, poi siamo arrivati alla liberazione, riuscì a scrivere qui in Italia ma capiva che non ce la faceva a tornare. E poi dopo siamo state assieme per un pezzo fino dopo la liberazione. Io sono stata liberata, adesso torno indietro un momento, sono stata liberata il 30 aprile del ’45.

D: Dov’eri?

R: Sempre a Ravensbrück, non mi sono mai spostata da Ravensbrück. Sono stata penso una delle poche che ha fatto tutto il campo di Ravensbrück. Non so io mi sono salvata, penso anche Julke e le dottoresse slave difatti ce l’han detto che più di una volta ci han tirato fuori dalle liste. Mi ricordo che una volta quando eravamo lì alla baracca n. 8 che doveva venire il controllo, perché ci facevano ogni tanto le visite di controllo, mi dissero, se mi chiedevano qualcosa, di dire che avevano male alle giunture, che ero lì da dieci giorni, mentre invece erano già due mesi che ero lì in infermeria. E dopo la liberazione ce l’han detto: se io sono qui lo debbo alle slave, adesso non so se erano della Boemia o della Slovenia, erano jugoslave e posso dire che mi hanno salvato. Se sono qui lo devo soltanto a loro, perché secondo me quando parlano della solidarietà nel campo, io non ho mai trovato solidarietà; nel senso che tra italiane eravamo così in poche, non sapevamo la lingua, eravamo anche abbastanza separate, non è che abbiamo mai potuto fare. Ma fra i grossi gruppi c’era della solidarietà effettivamente, perché fra le francesi che erano molto numerose c’era solidarietà. Mi ricordo il giorno di Natale che ero appunto in infermeria … il giorno di natale non si andava a lavorare, ricordo questi gruppi di francesi che facevano il giro, facevano un po’ di raccolta, portavano addirittura la tartina, il sabato alle volte ci davano un po’ di burro; regalare una fettina di pane voleva dire tirarselo fuori dalla bocca un po’ tutte quante. E ricordo che c’era questa solidarietà fra le polacche. E’ una cosa che mi ricordo e che ogni tanto ancora adesso mi viene in mente. Alla sera quando, magari fino all’ultimo momento sentivi litigare in tutte le lingue naturalmente; poi spegnevano la luce, dopo un po’ si sentiva qualcuna che diceva “Bonne nuit” in francese, dopo un po’ quell’altra rispondeva “dobra noc” che erano le polacche, cioè in tutte le lingue. E questo ti dava una certa emozione perché col buio, pensavi alla casa e quella era l’unica nota gentile che ho trovato nel campo.

D: La Liberazione come te la ricordi?

R: Tutto il mese di aprile mi ricordo che avevamo fatto una specie di calendario, io e Julke, perché non riuscivamo ad avere la cognizione del tempo. E poi ci sbagliavamo anche addirittura coi giorni. Eravamo molto intontite e messe male. Il giorno della liberazione mi ricordo che stavo dormendo, sognavo che invece delle rape distribuivano dei porri, che erano un pochino meglio delle altre, bolliti, comunque erano meglio delle rape. Sognavo qualche cosa del genere, sentivo del trambusto, poi mi sono svegliata e ho visto tutta questa gran confusione.

Ormai alla liberazione eravamo rimaste soltanto quelle dell’infermeria perché gli ultimi giorni avevano fatto partire tanti di quei trasporti, il camino del forno crematorio che non si poteva tenere aperta la finestra dalla puzza che c’era. Alcune di queste cecoslovacche mettevano fuori degli stracci rossi, non so come avessero fatto a procurarseli, tutto quanto, e ho capito che dicevano che c’erano i russi alla porta, che c’era la liberazione. Il primo istinto naturalmente è venir giù dal letto, ho fatto due passi e sono caduta lunga distesa, perché proprio non ce la facevo più a stare in piedi. Mi ricordo che passò la dottoressa che disse: “Ma non importa, tanto ormai sono qui sta tranquilla che adesso arrivano qui”.

E mi ricordo appunto, naturalmente pensavo che era finita, che eravamo arrivati a quel punto lì, poi ricordo … E’ un’immagine che non me la so spiegare però me la ricordo così bene: quelle che riuscivano ancora a girare, andarono alla porta e trovarono un russo, mi ricordo che aveva due gran baffoni, con qualcosa in mano non so perché, aveva proprio il tipo del mugik e poi lo fece girare per queste baracche. Io ricordo questa faccia con due lacrimoni che gli venivano giù che ci guardava in faccia e che scuoteva la testa, perché eravamo ridotte, come dico eravamo tutte lì quelle messe peggio, che non dovevamo essere lì naturalmente dovevamo essere già tutte crepate.

Poi dopo in un momento ci siamo guardate in faccia, siamo state liberate. E poi alla fine ho pensato “Poi adesso?”. Siamo partiti in cinque, ero lì da sola, la mamma non sapevano che era morta, la Iole, non volevo credere che fine avesse fatto però lo sapevo, papà non pensavo neanche che potesse essersi salvato, visto la fine che avevamo fatto noi, era già messo male a Fossoli dopo tutto quello che aveva passato agli interrogatori. Mia sorella non sapevo dov’era, quell’altra non sapevo che fine avesse fatto, ero l’unica che ci speravo naturalmente e poi niente.

E poi ho aspettato, ho aspettato sei mesi, perché io sono rimpatriata in ottobre del ’45. Dopo da lì, dopo due o tre giorni ci hanno comunicato che ci avrebbero dato da mangiare tre volte al giorno. Questa era una gran notizia per noi, lì ci fu un po’ di confusione che ricordo un po’ vagamente. Ad ogni modo gli ultimi giorni del campo arrivò la Croce Rossa, riuscì a mandar dentro dei pacchi della Croce Rossa Internazionale, che ci distribuirono. Cosa succedeva? Che la maggioranza moriva coi crauti, in questi pacchi c’erano dei crauti, della carne di maiale, delle sigarette Camel, c’era tutta roba… quindi una gran parte morivano addirittura col crauto in bocca, coi wurstel. Quindi quando arrivano i russi ci ritirarono questi pacchi, cosa che naturalmente a molti non era piaciuta. Però cominciarono poi a darci delle pappine dolci, mi ricordo che mi prendevo delle gonfiate perché andavo a raccogliere tutto, Julke poverina mangiava poco quindi mangiavo la mia e la sua parte. Poi se ne trovavo delle altre mangiavo anche quelle. Mi ricordo che cominciammo a fare l’analisi e tutto quello che ci davano da mangiare. Un giorno ci diedero del riso, abbiamo pensato a fare l’analisi, ma sai quante vitamine ha il riso, noi ci sentivamo già molto, così, sono state quelle cose, pian piano come dico diciannove anni digerisco tante cose. Sei incosciente.

Io il ricordo dell’ultimo mese, del mese di aprile era che l’unica cosa che pensavo era quella di riuscire ad arrivare a casa; non è che pensassi cosa potevo fare una volta a casa, però solo quello di arrivare a casa mi sembrava una cosa impossibile da poter fare. Difatti sono arrivata a casa, però penso è tutto quello che ho potuto fare, non ho potuto fare molto di più. A casa, pensa dopo la liberazione è stata lunga perché poi da lì ci hanno spostato, ci avevano ripulito, ci hanno curato, perché ci hanno fatto parecchie … Poi sono stata sei mesi in attesa del rimpatrio e siamo rimpatriati in ottobre del ’45.

D: Dove hai trascorso questi sei mesi?

R: Questi sei mesi li abbiamo trascorsi, in un primo tempo ci portarono a questo Jungerlager che l’avevano ripulito, si stava abbastanza bene. Dopo lì mi ricordo che un giorno venne una delegazione italiana a cercare se c’erano delle italiane. Mi parlarono che erano in caserme un po’ lontano dal campo e mi parlarono di molti nomi di quelli che erano partiti con mia sorella. Allora io provai a chiedere se c’era mia sorella ma non mi seppe dire; naturalmente da una parte mi dispiaceva perché dovevo lasciare la Julke, lei non poteva poi venire in Italia anche se era stata arrestata qui in Italia, lei sarebbe dovuta tornare in Jugoslavia. E mi dispiaceva perché, sì stava abbastanza male, però non credevo che stesse così male. Ci han portato in questo campo italiano, ho trovato parecchie del nostro gruppo che eravamo partite assieme da Fossoli: c’era appunto l’Enrichetta, c’era la Giovanna, c’era la Maria Montuoro. E poi niente, poi ci hanno spostato due o tre volte però eravamo nel nord della Germania, quindi dovevamo aspettare che ricostruissero le ferrovie. Poi un bel giorno, siamo arrivati fino a ottobre, ci hanno caricato su questo carri bestiame, io ero su uno in cui c’era la Croce Rossa sopra, perché ero una di quelle che stava peggio; era sempre un carro bestiame, un pochino più largo di quando siamo partiti. E poi niente, comunque anche quando siamo passati dalla parte americana non è che siamo stati molto meglio. Quando siamo arrivati naturalmente alla frontiera ci hanno accolto dicendo che in Italia comandavano i comunisti e i partigiani. Mi dispiace dire questo, non so se faccio bene a dirlo, però è così, quando siamo rimpatriati alla frontiera ci hanno un po’ spaventato dicendo che saremmo stati qui, che in Italia c’era del caos, della confusione. Però non ho avuto il coraggio di venire fino a Bologna, tra l’altro io ero fra quelli più ammalati; mi han fermato a Merano, da Merano ho provato a scrivere, non sapevo chi ci poteva essere a casa, ero sola, non sapevo niente, e per un pezzo, credo quindici giorni sono venuti a prendermi dall’officina dove lavorava nostro padre e seppi che era tornata a casa mia sorella, la Lina. Lei aveva avuto tutta la sua peripezia, era stata portata lontano dal campo, liberata dagli americani ed era tornata però in settembre; il suo ritorno è stato ancor peggio del mio perché lei non ha trovato nessuno addirittura, io almeno ho trovato una sorella, lei non ha trovato nessuno e non sapeva chi sarebbe tornato. Però poi siamo tornate noi due. Del resto dopo …

D: E il babbo, Nella?

R: Il babbo ho imparato poi da loro che era morto; abbiamo trovato dei compagni che conoscevamo da Fossoli, c’era un certo Carenini che era molto affezionato a noi e a nostra sorella soprattutto. Ci raccontò appunto che un giorno, partito con quella che chiamavano la “corriera blu”, a Mauthausen, abbiamo imparato di Mauthausen perché non sapevamo niente, non sapevamo neanche che esistesse ad un certo momento. Dopo piano piano abbiamo imparato.

D: Il babbo era stato portato a Mauthausen?

R: Sì, sapevamo che era stato portato a Mauthausen.

D: E poi da Mauthausen con le corriere blu

R: Non so se era stato portato all’infermeria o alle cose, quello che ho saputo da quel nostro compagno Carenini; poi dopo abbiamo ritrovato altri compagni che ci hanno aiutato molto.

D: Quindi della tua famiglia sei tornata te e tua sorella…

R: Eravamo le due più giovani, mia sorella ha patito molto più di me perché lei ha subito quegli interrogatori che sono state la cosa più bestiale che qualcuno possa subire.

D: I fascisti, i nazisti che hanno interrogato tua sorella sono stati …

R: Sì, più che altro quelli che hanno fatto la spia, poi dopo … Io poi ho fatto tre anni di ospedale, comunque non hanno avuto gran che.

D: Sono in libera circolazione

R: Sì sì. Sì, adesso non so neanche poi se sono al mondo.

D: Della tua amica Julke sai più niente?

R: E’ morta dopo poco tempo che sono partita, da quando ci siamo separate … perché dopo la liberazione avevano concentrato le varie nazionalità, italiane con italiane; lei, allora dopo trovai il gruppo delle slave, che era poco distante da noi, a noi ci avevano messo nelle caserme, trovai qualcuno che conoscevo e chiesi appunto di Julke, mi disse che era morta una decina di giorni dopo che ero partita. Dopo mi è sempre rimasto lo scrupolo perché da una parte ci tenevo a partire per avere notizie, perché speravo di avere notizie di mia sorella, che invece nessuno mi ha potuto dare; dall’altra parte mi dispiaceva lasciare lì Julke, però non mi rendevo conto che fosse proprio così alla fine, ero convinta che riuscisse almeno a tornare. Invece forse lo sapeva lei.

Marostica Aldo

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Aldo Marostica, sono nato a Castagnaro in provincia di Verona, il 3.11.1925. Mi hanno arrestato il 27 marzo 1944. Il motivo dell’arresto è lo sciopero, come tutti gli scioperanti del 1° di marzo. Però, prima di essere arrestato contribuivo a portare le armi ai partigiani con la motocarrozzetta della FALCK, andavo a Macugnaga in provincia di Domodossola. Io avevo due denunce, uno per lo sciopero e una per le armi ai partigiani.

D: Scusa Aldo, perché tu dove abitavi allora?

R: Abitavo a Sesto San Giovanni.

D: E lavoravi?

R: Alla FALCK, Acciaierie Lombarde FALCK.

D: Chi ti ha arrestato?

R: Mi hanno arrestato, quelli dell’OVRA, i fascisti. Mi ricordo che erano in nove. Sono venuti in piena notte, hanno cominciato a battere la porta. Noi non aprivamo perché non sapevamo chi era, avevamo un po’ di paura; dopo a furia di picchiare, picchiare ci siamo accorti che eravamo obbligati ad aprirla. Abbiamo aperto e hanno chiesto di me, hanno detto a mia madre “Guardi che suo figlio lo portiamo al Commissariato, vedrà che domani mattina ritorna senza problemi”. Mi sono avviato e siamo andati al Commissariato. Strada facendo ne hanno presi altri due o tre in viale Marelli sempre a Sesto San Giovanni; lo comandava il Commissario Di Spirito; e ci siamo trovati in una quarantina di arrestati in quella notte. Erano quasi tutti della FALCK, qualcuno della Breda e della Pirelli e ci hanno portato nel carcere di San Fedele, sempre nella notte. San Fedele era un carcere vicino al Duomo. Siamo stati due giorni o tre. Erano i primi momenti che erano ricominciati i bombardamenti degli alleati e avevamo anche paura perché si vedevano fiamme dappertutto attraverso la finestra, ma andava ancora bene. Dopo due o tre giorni ci hanno portato al carcere di San Vittore, al 5° Raggio; entrati nel carcere ci hanno messo con la faccia al muro e girati per vedere se avevamo delle armi, dei coltelli, ci hanno perquisiti poi ci hanno mandato in una cella del 5° Raggio. Siamo stati lì due o tre giorni ed ogni mattina ci mandavano giù alle dieci a prendere un po’ d’aria e poi ci mandavano su. Eravamo in quattro in quel carcere, di quei quattro sono tornato solo. Da San Vittore ci hanno portato a Bergamo, non ricordo se in via Colleoni o alla caserma Colleoni… mi sembra che la caserma era il 5° Fanteria. Dopo Bergamo siamo stati lì qualche giorno e nel frattempo sono arrivati altri deportati da Fossoli.  Hanno fatto un carico unico di treno e siamo partiti da Bergamo il 5 aprile.

D: Scusa Aldo, questa caserma era gestita da chi?R: Dalle SS. C’erano i tedeschi ma delle SS. Infatti da San Vittore ci ha portato lì quel famoso Franz, quel SS. tremendo, e siamo andati in mano alle SS. Mi ricordo che lì erano sei o sette di SS.

D: Era gestito da loro?

R: Non erano i militari, era la caserma dei militari; però durante la deportazione ne sono passati tanti di deportati, sempre da quella caserma lì.

D: Scusa, da San Fedele e da San Vittore, tu non sei mai stato interrogato?

R: A San Vittore sì, a San Fedele no. A San Vittore siamo stati interrogati in quattro. Ho preso un po’ di ceffoni; io dicevo che non sapevo niente, cascavo dal mondo delle nuvole, e dato ero giovane avevo diciotto anni e mezzo, non so se ci avevano creduto; di ceffoni ne ho presi un bel po’, ma non è che mi hanno fatto questo male tremendo come certi interrogatori, quando uno usciva malandato. Volevano sapere veramente se era vero che portavo su le armi e io dicevo “No, prendevo la motocarrozzetta qualche volta e facevo un giro al lago”, perché per andare a Macugnaga bisognava passare dal Lago Maggiore e si passava da Gravellona e poi si andava a finire prima di Domodossola. Io ho sempre negato, non so se l’hanno bevuta… però l’interrogatorio a San Vittore me lo hanno fatto.

D: Ti hanno accusato di cosa?

R: Volevano sapere se era vero che portavo su le armi. Io invece ho sempre negato e basta. Volevano saperlo, non era un’accusa diretta “…Tu portavi su qua… è vero che facevi questo, è vero che facevi l’altro?”; mi hanno fatto un interrogatorio un po’ benevolo, non di quegli interrogatori che ho saputo che hanno fatto ad altri.

D: Poi a Bergamo, dicevi, sei rimasto alcuni giorni…

R: Alcuni giorni fino al 5 aprile. Hanno fatto questo treno di carri bestiame e siamo partiti da Bergamo per Mauthausen.

D: Scusami, dalla caserma alla stazione, come ti hanno portato?

R: A piedi. Erano le cinque del pomeriggio, insieme a tutta la gente che piangeva, però siamo passati a piedi.

D: Ti hanno caricato sul carro bestiame…

R: Sul carro bestiame. Durante il tragitto sul carro bestiame .. Forse potrei dire ancora prima ancora alla FALCK … Prima di essere arrestato, nel ’43 a metà febbraio facevo il meccanico; insieme ad altri eravamo andati su una gru a cambiare un riduttore – allora non c’erano le guarnizioni da mettere ma si metteva la vernice -, e un bel momento mi sono messo a fare “falce e martello”. C’era ancora Mussolini allora, perché Mussolini l’hanno combattuto il 25 luglio. E da quella volta lì ero già un indiziato perché con me lavorava uno che era un confinato sull’isola di Ponza, un politico e mi diceva “Guarda che se ti chiamano, ti fanno così…”, perché quando ho fatto la falce e il martello è venuta la polizia fascista a fare tutte le indagini, a sapere chi l’ha fatto. L’altro che ha saputo subito la faccenda dice “Guarda che se ti chiamano, dal momento che l’hai fatta te, che me l’hai detto, digli che non sai niente, però non negare che hai adoperato la vernice, di’ che la vernice l’hai adoperata però il barattolo l’hai lasciato su”. Siccome là andavano altri meccanici, elettricisti e falegnami, non si poteva dare la colpa ad uno se non eri preciso. Comunque dopo, ero già un indiziato, poi è venuta la faccenda e tutto si collegava.Tornando al discorso della partenza del treno, nel viaggio da Bergamo a Mauthausen, prima di partire sono venuti mio padre e mia madre a portare tutta la roba perché tutti pensavamo che si andava a lavorare là; però ho sempre pensato – nel mio piccolo, nella mia giovinezza -, che se andavamo là a lavorare: “Perché ci dovevano portare via di notte? Perché ci portavano nelle carceri?” E non ho mai creduto che andassimo a lavorare là; pensavo sì, di non andare a lavorare, ma non di finire in un posto così. E quando sono venuti mio padre e mia madre a portare questo sacco di roba, gliel’ho fatto portare indietro. Sono l’unico fra tutti i deportati che ha fatto portare via la roba perché immaginavo che si andava a finire male, non come siamo finiti però. Dal viaggio in treno io e Mancini, che era un amico di mio padre, Mancini Antonio, volevamo scappare; però quelli del vagone non volevano perché dicevamo “Poi vanno a prendere i nostri, poi c’è la ritorsione”, e c’era specialmente uno che diceva “…mia moglie, mia moglie”, “ma che mi frega di tua moglie, tua moglie è a letto che dorme nelle lenzuola belle e pulite e te nel carro bestiame in mezzo alla paglia”. Cerchiamo di scappare, non facciamo arrivare il treno, però nessuno ci ha creduti. Allora, avevamo una bottiglia di acqua piena. Questo Mancini mi ha tenuto su di peso in piena notte quando dormivano tutti, perché andava talmente adagio il treno verso Tarvisio che si poteva scappare fin che si voleva. Allora lui mi alza e io comincio con la bottiglia… c’erano due pezzi di legno inchiodati dall’esterno e dall’interno ho cominciato a picchiare; nella premura di picchiare mi si è spaccata la bottiglia che ha fatto baccano, è venuta giù l’acqua che ha bagnato gli altri e la fuga non si è fatta. La SS. passava sempre a vedere nei finestrini, fortuna che quando non siamo riusciti ad andare, abbiamo ripreso questi legni e li abbiamo ritirati, in modo che non se ne accorgessero. Siamo arrivati a Mauthausen, nel campo, poi tutti dicevano “Avevano ragione Mancini e Marostica, dentro là lo dicevano, ma nessuno l’aveva pensato prima”.

D: Scusa Aldo, perché tu dici che siete passati dal Tarvisio?

R: Perché il treno è passato a Tarvisio.

D: Non dal Brennero.

R: No, dal Brennero no. Il nostro trasporto è passato da Tarvisio.

D: Ti ricordi in quanti eravate più o meno?

R: Mi sembra che fossimo quattrocentoquaranta, però in certe liste che vedo c’è scritto duecentottanta; a me sembrava fossimo di più e tra noi c’erano anche quaranta donne delle quali due donne di Cinisello che si sono salvate. Non so se se ne sono salvate delle altre in qualche altro posto. E mi ricordo che arrivati a Mauthausen, ci hanno fatto scendere alla svelta: con dei calci, ci hanno incolonnato per mandarci sul campo; c’erano degli anziani che non ce la facevano a portare su tutta quella roba, io davo una mano a un paio di persone, ma più di tanto non potevo fare.  Nel frattempo sul treno c’erano quelli che avevano le valigie piene di mangiare; c’erano dei deportati che venivano da Fossoli, avevano una fame peggio della mia perché là già mangiavano poco, arrivando a Bergamo si è visto poco o niente; mio padre mi aveva portato un pezzo di pancetta e l’ho divisa con loro. Quando siamo arrivati nel campo, questi hanno aperto delle scatole di tonno, mi viene da ridere ma anche da piangere. Uno di questi di Fossoli, ha preso la scatola e gliel’ha messa in testa, tanto per dire “Potevi darmela prima, non venirmela a dare adesso perché non sai che fine fa”.

D: Scusami Aldo, ma questi di Fossoli erano dei politici come voi?

R: Politici, venivano dal campo di Fossoli.

D: Non erano ebrei?!

R: No, non erano ebrei, di ebrei non ce n’erano con noi in quel trasporto. Venivano di là. Ci hanno raccontato che a Fossoli forse era peggio che a Bolzano. Nei campi in Italia non avevano quella rigidità, come in Austria e in Germania, cioè i familiari potevano avvicinarsi, potevano dare qualcosa. Siamo arrivati a Mauthausen per andare su, la fatica che abbiamo fatto e piano piano siamo arrivati. Quello che mi ha fatto più impressione è quella specie di infermeria, che poi era più anticamera della morte che infermeria; prima di entrare nel campo si è fatto quel pezzo fianco al campo, ora c’è una distesa con un bel prato, ma allora abbiamo visto queste torrette, con le luci, e abbiamo detto “che cosa sarà quella roba lì?”. Poi abbiamo fatto il giro e siamo entrati nel portone principale. Nel portone principale, appena entrati, abbiamo già cominciato a prendere delle botte; entrando nella porta principale abbiamo girato subito a destra e poi a sinistra, a destra era quel famoso muro del pianto che adesso è pieno di fotografie. Siamo entrati lì e poi a destra e ci hanno incolonnati. Abbiamo già cominciato a prendere lì le cose. Al primo imbrunire che si cominciava a vedere c’erano degli aguzzini che ci guardavano continuamente e dicevano “se avete questo, se avete l’altro”, perché tra l’altro uno dei nostri deportati parlava tedesco, ma nessuno si fidava ad ascoltare quello che dicevano. Poi sono arrivate la SS. e hanno cominciato a gridare di mettersi in fila tutti. C’era un vecchietto che non si metteva in fila bene, mi ricordo che era cinquecento di matricola ma non ricordo gli altri numeri, era uno dei primi deportati lì a Mauthausen; gli hanno dato una sberla, a fianco lì c’era uno che si chiamava Chiona, non ho mai dimenticato il suo nome, un giovanottone che era sposato, con due bambini, e non sapendo cosa era questo campo, ha preso l’aguzzino e l’ha picchiato. Questo si è messo a gridare, ha chiamato le SS., che hanno portato fuori questo Chiona e davanti all’entrata prima delle docce, gli ha fatto smozzicare tutte le gambe dal cane … le urla che faceva questo. “Ma chi si muoveva per andare a difenderlo? Era impossibile”. Poi l’hanno rimandato sempre nella fila.

Dopo un po’ hanno portato dei sacchi di carta, ognuno doveva mettere il suo vestiario e tutto quello che aveva con l’ordine di non nascondere niente, specialmente l’oro, i soldi, questo avevano detto. Io non avevo niente. E invece questo mio amico che lavorava con mio padre, questo Mancini, aveva un orologio, un Tavanes, ricordo anche il nome, dice “piuttosto di lasciarlo a loro…” l’ha schiacciato, e poi l’ha messo dentro. Poi cinquanta per volta, come aveva detto Antonio, siamo andati nella doccia, però i primi ad entrare sono state le donne, perché loro le hanno fatte spogliare giù nel lavatoio. E quando sono tornate con i vestiti a strisce e tutte pelate, siamo rimasti sbalorditi, “Ma cosa hanno fatto?”. Poi anche noi, cinquanta per volta, abbiamo fatto la stessa faccenda e siamo andati nelle docce. Non ero nella prima fila, nella seconda fila e la seconda doccia, ogni volta che vado la vado sempre a vedere, sono andato quarantasei volte dalla fine della guerra a Mauthausen… Dopo fatta la doccia ci hanno depilato i capelli e tutte le parti del corpo; siamo tornati nell’anticamera delle docce e lì c’erano i vestiari e ci hanno dato una camicia e un paio di mutande con degli zoccoli olandesi, ma erano talmente mal fatti che mettendo il piede dentro, se non era la tua  misura ci stava male, però bisognava metterli per forza. Nel frattempo ci hanno dato anche un lamierino con il numero di matricola; l’hanno attaccato loro, l’hanno fissato con un pezzo di fil di ferro e da questo momento quello che lo metteva diceva “Guarda che tu non ti chiami più col tuo nome ma sei questo numero. Quando ti chiamano ricordati il numero”. Ma chi sapeva il tedesco?

D: Aldo, il tuo numero.

R: 61685.

D: Te lo ricordi in tedesco?

R: Se lo ricordo! Poi via di lì ci hanno mandato di corsa nei famosi blocchi di quarantena.

D: Aldo, se hai voglia ce lo dici in tedesco il tuo numero?

R: Ein­und­sechzig­tausend­sechs­hundert­fünf­und­achtzig… più o meno un affare così!

D: Scusa Aldo, insieme al tuo numero ti hanno dato qualche altra cosa?

R: Niente.

D: Il triangolo te l’hanno dato?

R: No, il triangolo non l’hanno dato a nessuno. Il triangolo non c’era, il triangolo non te lo danno. Siamo andati nel blocco di quarantena, nel blocco 18. Dal cinque  aprile siamo arrivati all’otto, era la vigilia di Pasqua; e dall’otto siamo andati via da Mauthausen a Gusen il giorno 28, 29 di aprile; mi pare il 29 di aprile.

D: Nel blocco di quarantena eravate chiusi tutto il giorno?

R: Non eravamo chiusi nel blocco. Eravamo nel blocco e nel cortiletto del blocco, non ci si poteva muovere per niente, dal blocco 18 al blocco 19. Nel 19 era pieno di francesi – non c’era il muro che c’è adesso all’aprile del ’44, l’hanno messo dopo per i falsari, per le sterline false che dovevano fare lì -. In questi venti giorni che siamo rimasti lì di quarantena, nel campo due di quarantena in cui eravamo noi, per fare il campo tre, ci hanno mandato giù in cava a portare dei massi; eravamo quattro, cinquemila, una biscia che non finiva più, diretti verso la cava a portare le pietre per finire il campo terzo; infatti adesso c’è il muro. Mi ricordo che in quel muro lì c’era un nostro amico che ho portato con noi che si chiamava Bivari, dato che lui era muratore era in cima a questo muro a mettere a posto queste pietre. Siamo andati in cava perché difficilmente quelli che erano in quarantena andavano in cava a lavorare, erano mandati in altri campi, ma al momento dato che servivano queste pietre, siamo andati. Lì ci siamo spaventati perché abbiamo visto qualcosa di incredibile, a parte la scala, a parte la strada ad andare su, che è ancora la strada, tutta malfatta, siamo andati e ci hanno mandati per non intralciare quelli di qu; in fondo alla scala per fare il giro per non intralciare quelli che venivano giù, e ognuno raccoglieva la sua pietra e se la metteva in spalla. Bisognava prenderla grossa, perché se la prendevi piccola erano fior di legnate e basta. Però per andare giù c’era al blocco 18 uno spagnolo che mi diceva “Dato che tu sei giovane, l’ha detto a due o tre giovani di noi, mettetevi sempre nella fila dei cinque, perché quando si fa la scala, difficilmente picchiano il terzo, picchiano prima il secondo, ma non rompono la fila per picchiare; e difatti mi sono messo in mezzo e non ho preso neanche una legnata, una batosta, però andando giù nella cava, facendo il giro abbiamo visto la compagnia di disciplina. Il modo in cui trattavano i prigionieri praticamente erano i famosi votati alla morte: gli facevano prendere dei massi tremendi, poi quando li avevano messi in spalla ributtarli giù e rimetterli su di nuovo e questo picchiare continuo, e urlava questa gente. Ma nel momento in cui ci passi davanti e li vedi, se dobbiamo fare quella fine lì non torniamo più a casa. Siamo rimasti sempre con lo spavento fino a quando siamo partiti per Gusen. Il giorno che siamo partiti per Gusen ci hanno dato la giacca e i pantaloni; nella giacca e nei pantaloni c’era un pezzo di stoffa che non hanno dato a noi, era già cucito col nostro numero. Sia qua che lì e siamo partiti sempre con questo numero, però a noi non hanno dato niente, alla doccia ci hanno dato solamente la targhetta e basta.

D: Scusa Aldo, parlaci della cava un attimo. Giù in cava c’erano dei macchinari?

R: No, in cava io non ho visto macchinari. C’erano scalpellini e poi c’erano dei giovani che squadravano le pietre per mandarle a Vienna; la DEST, era quella che comandava tutte queste cose delle cave e anche delle gallerie; la DEST e un’altra, due ditte; dopo nelle gallerie entrava la Messerschmitt e la Steyr, che entravano quando le gallerie erano già ultimate. Dunque nella costruzione delle gallerie non so se chi lavorava alla Steyr o alla Messerschmit potrebbe dire “Noi siamo quelli che abbiamo costruito le gallerie per quella ditta”, mentre noi della Gusen 2 costruivamo le gallerie e siamo compresi in questa costruzione.

D: Ti chiedevo della cava per sapere…

R: Non c’era niente nella cava di Mauthausen. I macchinari non li ho visti, ho visto gli scalpellini e dei carri grossi dove mettevano su le pietre e basta; non ho visto nient’altro.

D: Non c’erano treni?

R: No, non c’erano treni nella cava; neanche fuori perché li portavano con i camion. I treni c’erano a Gusen ma ci sono stato due giorni in quella cava lì. Arrivo il 29 di aprile, e ci fanno venire a Gusen 1. Qui ci hanno mandati al blocco 32, dopo di noi è diventato un blocco di convalescenza dell’infermeria. C’era un criminale polacco che picchiava anche lui; quando lo hanno mandato in infermeria in un secondo tempo era bravo come il sole però gliel’ho detto, “Tu due mesi fa picchiavi come un accidente”; si sono meravigliati tutti quelli che hanno sentito, lui non si aspettava che qualcuno glielo dicesse. Mi voleva un bene da matti questo (poi l’ho visto a fine guerra a Sankt Georgen, gli ho detto “Ti ricordi?” dice “Sì, ma poi ti ho fatto del bene”, quello è vero ma non la prima volta. Arriviamo a questo blocco 32: il giorno bisognava andare a lavorare a Sankt Georgen e bisognava prendere il treno che partiva da Gusen 1. Hanno fatto una conta, dato che eravamo sette o otto in più di deportati, hanno fatto una cifra unica e li hanno mandati a lavorare a Gusen 1 e noi in baracca tutto il santo giorno lì, pioveva un accidenti. Era l’ultimo di aprile, primo giorno di lavoro, 1° maggio, tutti a lavorare a Sankt Georgen, ma quelli che hanno lavorato il giorno prima mi hanno detto “Non torniamo più a casa perché quella bolgia infernale che c’è a Sankt Georgen è impossibile poter vivere”.

E io mi sono spaventato, finché uno non vede non si rende conto.

Primo maggio ’44, si sale tutti e si va a Sankt Georgen. Mi mettono con un kapo polacco, una delle belve peggiori di Gusen, Mauthausen, e tutti insieme. Si chiamava Iane ed era un tatuato e comandava quaranta persone alla stazione, loro lo chiamavano il “Banof”, il comando era Banof Ausladen; però delle quaranta persone non mandava tutti lì alla stazione, quindici li mandava lì, una decina li mandava là per fare le baracche di nuovo, altri sette, otto o dieci li mandava a portare i sacchi di cemento; erano suddivisi e quindi lui non era sempre in un punto per guardare tutti noi, un po’ era lì, un po’ era lì. Un bel momento siamo lì che lavoriamo, pioveva, c’era tanto di quel fango che con quei zoccoli olandesi mal messi … mentre lavoravamo è passato lui, passavano anche la SS., lui ha cominciato a picchiare, lui picchiava sempre, io mi sono sentito una botta nella schiena e dico “Ma perché mi devi picchiare?”. Mi giro e gli dò una pacca. E’ andato giù; tutti gli altri deportati cecoslovacchi, francesi, mi hanno fatto segno e parlavano… mi ricordo la parola “mort in crematorio”, poi uno spagnolo mi ha detto che il crematorio è per i morti; insomma lui è andato giù, si è alzato e non mi ha detto niente, tutti si sono meravigliati; abbiamo ricominciato a fare il nostro lavoro e se ne è andato. Dopo venticinque minuti è tornato ma non l’ho visto, perché se lo vedevo dietro di me con la pala lo uccidevo. Ma non l’ho visto e vedevo che tutti si fermavano di lavorare, ho pensato “Ma se il capo vi vede che non fate niente, che fate i pelandroni in quel modo lì ve ne suona tante…”, come dico così ho sentito una sventola poi sono svenuto, caduto, e ho preso una fila di botte, mi ha rotto la pelle, ci ho messo tre anni prima di guarire, e anche a Loano si ricordano… Me ne ha suonate talmente tante che ero tutto malandato, perdevo sangue dappertutto e lui pensava forse di avermi fatto fuori, perché rivolgersi ad un capo vuol dire morte sicura, a quello lì poi… Lui se ne va, mi hanno tirato su pian piano, sono rinvenuto, ma mi faceva un male, avevo tutta la carne indolenzita; piano piano mi alzo, e me la sono cavata così.

Nel frattempo lui non è più tornato lì, ha mandato il secondo Kapò dopo di lui e io ho fatto finta di lavorare; stavo in mezzo ai francesi perché mi hanno aiutato, e mi ha aiutato da matti un certo spagnolo che si chiamava Cardona, quello non lo dimentico mai. Mi hanno aiutato e siamo andati in baracca la sera, fortuna che il capò non mi ha più visto. Torniamo alla baracca numero 1 e c’è lo scrivano, che poi era antinazista, a cui lo spagnolo racconta la faccenda e dice “Domani e dopodomani non vai a lavorare, stai in baracca, fai finta di far qualcosa e via”. Passati i sette giorni ero tutto rotto ma mi ero un po’ ripreso, mi hanno mandato di nuovo a Sankt Georgen a lavorare, dove ho visto di nuovo quel capò lì; ho visto che è rimasto di stucco, mi guarda ancora però gli mando la pala dell’altro, allora caricavamo i vagoni, avendo la pala in mano non si è più azzardato a venire avanti. Mi ha visto parecchie volte e non mi ha detto più niente. Alla fine della guerra, parlando mentre eravamo liberi, tutti dicevano “Sei l’unico secondo noi che sei sopravvissuto essendosi ribellato a un kapò”.

Comunque si torna al lavoro; c’era da portare dei tronchi d’albero dalla stazione ai vagoni, per poi portare questi carri all’entrata delle gallerie dove c’erano dei falegnami che tagliavano queste piante in base ai pali che servivano per fare le gallerie. Perché per fare il cemento occorrevano le impalcature, queste impalcature erano tronchi così grossi, sette-otto metri con dei legni sopra adatti per mettere questo cemento. Solo che pioveva dalla mattina alla sera, essendo il mese di maggio c’era il nevischio, c’era vento, tutti bagnati fradici e andava l’acqua dappertutto. Ti fermavi quella mezz’ora per quel poco di acqua e rape, tornavi alla sera e ti stringevi tutto il vestito; mettevi sotto la testa, la mattina ti svegliavi eri metà gelato perché dormivi sul bagnato. E’ andata avanti per una quindicina di giorni. Praticamente mi sono un po’ ammalato, ma tiravo sempre avanti perché non volevo andare in infermeria: dicevano che chi va in infermeria con una puntura di benzina moriva, e invece non era vero.

Un bel giorno ero talmente malandato che dovevo andare in infermeria. Allora lo scrivano mi dice “Va bene, domani quando vengo a Gusen 1 ti porto…” e infatti mi ha portato; ma se non avevi 39 di febbre non eri adatto ad entrare infermeria, io ne avevo 39… Mi ha fatto fare la doccia, misurato la febbre e poi mi hanno portato al blocco 27. Al blocco 27 c’erano due dottori: uno si chiamava Dr. Antoni Gościński [1] e l’altro si chiamava Dr. Feliks Kamiński; e poi c’era uno spagnolo, di cui  non ricordo il nome e un aiutante paramedico, che si chiamava Stefan Malost [2]. Mi hanno operato, e sono andato avanti un po’ di giorni, sono stati bravi, erano tre polacchi e uno spagnolo. Nel frattempo lì ho conosciuto Signorelli di Sesto San Giovanni e anche il Prof. Carpi, quel famoso che faceva le pitture.

Dato che io ero talmente malandato, alla sera passava una SS che prendeva i numeri, controllava se eravamo tutti; lui si chiamava Giovannacci, parlava l’italiano e mi ha messo al vitto K, era un vitto speciale; sembrava un sogno mangiare in quel modo lì, si mangiava meglio che a casa nostra. E’ durato una settimana, ma io con la febbre che avevo non riuscivo a mangiare, e allora lo davo un po’ a questo Carpi, un po’ a uno che faceva il parrucchiere, insomma la dividevo un po’. Quando poi mi è venuta la fame, mi hanno levato dal vitto K.

In infermeria ho passato un po’ di tempo, e tra il blocco 27 e il blocco 29 che era la medicazione, poi sono passato al blocco 30 e abbiamo visto il 31. Dal 32 non si vedeva il blocco dalla parte dove buttavano giù i cadaveri poichè c’era la cameretta della dissenteria.

Dal blocco 30 vedevi tutto quello che capitava, in fondo al blocco 31 c’era una cameretta, non so quanto era lunga, dove andavano i dissenterici, chi entrava lì non usciva più perché moriva, e si vedeva che li buttavano fuori giorno e notte, quando la notte pioveva e venivano puliti come fossero raspati. Ho visto anche quell’esperienza lì che poi, in un secondo tempo, a Gusen 1, verso la fine della guerra, il blocco 31 l’hanno fatta camera a gas e lì  ne sono morti parecchi.

Via di lì torno a Gusen 2, rivado al blocco Sankt Georgen, ma ero talmente malandato che dopo pochi giorni, a causa dello stesso lavoro bestiale, non ce la facevo più. Allora mi hanno messo fuori a pulire i giardini, eravamo circa duecento deportati, ci guardavano solo le SS, trascinavamo i piedi .. “Dove vuoi andare oltre di lì?”.

Caso vuole che fuori, nel pulire i giardini, in quella baracca lì passa un generale delle SS, che poi l’ho saputo alla fine della guerra chi era, l’ho saputo in Francia a Clermont Ferrand, era niente di meno che Oswald Pohl, uno dei quattro che comandava lì: c’era Hitler, Himmler, Kaltenbrunner e Oswald Pohl. E quando veniva lui però ordinava sempre decimazioni dei più malandati, si vuotava un bel po’ il campo.

Non gli partiva più la macchina, io mi sono offerto di fargliela partire, gliel’ho fatta andare, e allora mi ha raccomandato a questi criminali che comandavano il blocco; e difatti ho fatto un mese e mezzo, quasi due che mangiavo tre-quattro volte più degli altri, ero in baracca, non prendevo freddo, né acqua, né niente, e non prendevo botte. Mi ero ripreso abbastanza bene data l’età che avevo.

Ma cosa capita? Dato che a Sankt Georgen, ebrei, non ebrei, chi a Mauthausen aveva ancora i denti d’oro, che venivano mandati a Gusen, questi criminali impiccavano questa gente e poi portavano via i denti che tenevano loro, senza darli alle SS, e giocavano a carte tra loro. Quella notte erano venticinque, ventisei nel giocare, uno ha truffato l’altro e si sono ammazzati tra loro. La mattina la SS l’ha saputo e cosa ha fatto? Pur essendo criminali che uccidevano i deportati, li hanno presi e impiccati tutti, anche quelli a cui io ero raccomandato. La SS li aveva impiccati perché non dovevano tenersi l’oro, ma darlo alla SS Questo era il motivo, e hanno dato l’esempio; da allora non si è visto più nessuno impiccato nelle gallerie.

Impiccati questi, sono arrivati altri criminali a Mauthausen, e il capo blocco, quello nuovo dice “Ma questo qua cosa fa lì?”. Io non sapevo spiegarmi bene e allora dice domani va anche lui a Sankt Georgen a lavorare. Dico: “Se mi mandano a Sankt Georgen non torno più a casa”. Caso vuole che questo scrivano mi mette in una squadra di un capò tedesco, non sapevo che era antinazista quello lì, ho visto che era politico perché i politici avevano il triangolo rosso, mi hanno messo con loro perché il giorno prima era morto uno della Lettonia, e so che hanno parlato tra loro. In quel comando, eravamo in dieci e dovevamo estrarre, dato che nelle gallerie c’erano delle gomme larghe lunghe tre o quattrocento metri; erano le gomme sopra che poi passavano anche sotto, però le gomme sopra erano con le pale e i deportati caricavano tutta questa sabbia delle gallerie che scavavano e la portavano fuori sui vagoni per poi portarli fuori davanti alla stazione. E allora quei rulli che erano ingranati bisognava sostituirli e mettere quelli che giravano perché poi consumavano anche la gomma. Era un lavoro abbastanza… che fortuna che ho avuto… però i primi tempi, non sapendo lui che ero io, i primi tempi qualche ceffone, qualche calcio lo prendevo però non mi faceva tanto male. Allora, lo stesso spagnolo, questo Cardona, dice a questo Kapò “Guarda, questo è quello che si è ribellato con Iane”, perché ne parlava mezzo campo di quella ribellione. E allora lui sapendo chi ero, faceva come con gli altri nove deportati: non mi ha più toccato e non solo, mi ha anche insegnato come dovevo buttarmi giù quando lui faceva finta di picchiarmi. Allora quando passava la SS, lui con quella voce tremenda che aveva, cominciava a darmi uno sberlone, ma te lo dava nella spalla e non nel collo, e allora tu dovevi urlare e buttarti giù; quando eri giù sembrava che coi piedi venisse lì a sfondarti la pancia come faceva con gli altri, invece lui passava sempre sopra al corpo, però diceva “Dovete aiutarmi a rotolarvi, che io faccio finta”, insomma mi ha insegnato per una settimana. Eravamo talmente perfetti a picchiare così, che abbiamo imparato tutti, quando capitava si vedeva questa cosa. Difatti quello era antinazista, deportato, di quattromila assassini che c’erano in giro ce n’erano undici antinazisti come lui; si chiamava Alvin Muller, che non ho mai saputo dov’è; l’ho cercato per mare e per terra, l’ho detto ai tedeschi, ai congressi, mai saputo dove è andato a finire. Comunque ci ha salvato tutti e dieci e tramite lui abbiamo tirato fino alla fine della guerra, perché senza lui, se era un Kapò come gli altri era impossibile.

So che una volta un SS aveva picchiato un deportato, mi pare un cecoslovacco, lui è andato dalla SS, gli ha dato una spinta sulla spalla, tra me e me ho detto “Quello è matto, se viene un altro Kapò che fine facciamo noi?” E si è messo ad urlare per dire “Tu fai le SS ma non fai il capo, il capo lo faccio io, se c’è una punizione da dare lo dici a me e poi la dò io al deportato, tu no”, urlando con le mani così, e quello sembrava che fosse spaventato. E’ andato ancora bene, tanto per dire chi era questo: ha fatto un rischio, ci siamo spaventati tutti in quel momento.

Sempre nel tragitto, perché ci sarebbe da raccontare di quello che avveniva nelle gallerie, tra i peggiori Kapò c’era uno che si chiamava Ermann che era uno grosso, era un Oberkapò, poi c’era un altro polacco che era un Oberkapò anche lui, cioè il capo dei capi. Poi una volta per trasportare la macchina che trascinava le gomme di trecento metri, sono macchine grosse, ci volevano 50-60 deportati a spostarle, eravamo in duecento nell’incrocio delle gallerie perché c’era una galleria che era da finire di scavare per mettere tutto il materiale nelle gomme. Un giorno siamo lì e lavoriamo un po’ tutti per tirare su questa roba, poi un bel momento ci scappa di andare al gabinetto, lo diciamo al nostro capo; il nostro capo non stava mai lì con noi, andava, girava, quando è passato ho detto “Senti, mi capita così e così”, dice andate. Abbiamo aspettato due o tre minuti per finire di tirare questa macchina che eravamo in tanti, prendiamo e andiamo lontano 30 metri, crolla tutta la galleria: sono rimasti sotto i duecento deportati, i due SS i loro cani, se fossimo stati mezzo minuto non saremmo qua a parlare. Il bello è venuto dopo: venendo gli altri deportati con gli altri SS e controllare, piano piano si cercava di tirare via con queste pale più terra che si poteva e non infierire, quando invece capitava ai russi e la SS non c’era, che poi sono venute a galla le teste degli SS, gli hanno portato via le due rivoltelle. Le SS non vedendo queste rivoltelle dove erano hanno voluto sapere dov’erano e nessuno parlava. Alla fine siamo andati in baracca alla sera, c’erano tutti i deportati nel piazzale  e venne il capo del campo e disse “Se non escono quelli che hanno preso le rivoltelle, bruciamo mezzo campo”. E difatti c’erano fuori delle autoblinde piccole con i lanciafiamme; invece hanno detto “No, non bruciamo mezzo campo, facciamo  così: facciamo una eliminazione, ogni dieci file fuori cinque”. Dico ma senti un po’, per capitare quella faccenda lì io devo…” ho preso il mio capo che era del comitato internazionale e sapeva le cose, sapeva anche chi rappresentavano questi russi qua, l’ho conosciuto dopo la fine della guerra perché prima  non sapevi chi erano, e gliel’ho detto al mio capo  e disse “Se sei  sicuro chi sono è meglio che ne crepi due che a crepare a centinaia a centinaia”. Difatti è finita così, questi due sono saltati fuori, hanno consegnato le rivoltelle e li hanno impiccati ed è finita lì, ma è stato uno spavento anche lì. Ma fra le tante cose da raccontare, dopodomani saremmo ancora qua a dirle tutte.

Dopo questa faccenda avviene la disinfezione del mese di gennaio, un freddo tremendo; so che c’erano certi ebrei che morivano in piedi gelati; c’è stata una eliminazione che il campo si è quasi svuotato. Dove siano finiti tutti quei morti non si sa perché noi eravamo chiusi in baracca. Il mio capo dice che questi morti sono stati portati al di là del campo e nei vagoni e poi portati via, può darsi, solo che nel campo anche se vivevi lì non potevi mica sapere cosa capitava di là! Era difficile, bisognava girare ma non potevi perché eri obbligato lì.

Abbiamo visto anche questa faccenda della disinfezione: so che sono morti a migliaia, dal cinque al dieci di gennaio. Era un freddo tremendo ma solo che ci facevano andare a piedi scalzi perché la neve era alta mezzo metro ma il ghiaccio era venti centimetri perché i deportati schiacciavano la neve. Per una mezz’ora dovevi andare a lavarti e alle volte non veniva nemmeno l’acqua, dovevi far finta di esserti lavato ed uscire. Ma cose che uno non può neanche immaginare. E dopo tutti questi morti siamo arrivati al giorno 24 di aprile. Dato che arrivavano gli altri deportati dagli altri campi, e precisamente sono arrivati anche molti ebrei da Budapest, quattrocentomila ebrei, la maggioranza sono finiti a Mauthausen, Evens e Gusen, sono finiti lì. Arriva il 24 di notte, la sera come siamo arrivati dal lavoro abbiamo visto sei, settecento deportati tutti magri, denutriti con la coperta in spalla senza vestiti e niente, e durante la sera li hanno fatti uscire. Prima hanno chiuso tutte le baracche, tutto chiuso, che non si poteva vedere niente o sentire niente, li hanno fatti uscire e li hanno portati nel campo delle patate, tra Gusen 1 e Gusen 2; non c’era un chilometro e mezzo di distanza, c’era mezzo chilometro di distanza difatti se uno va adesso lo vede che non fa un chilometro e mezzo, li portano lì… perché a Gusen 1 c’era il muro, invece a Gusen 2 non c’era il muro, c’erano i reticolati, non avevamo neanche la corrente tra l’altro, invece a Gusen 1 sì. Li hanno portati là e uccisi a colpi di ascia e a bastonate, hanno fatto una carneficina… sentivamo le urla ma le sentivi leggere perché tutto era chiuso. Quando hanno finito il mio capo mi dice “Hanno ammazzato tutti quelli che erano lì e adesso li portano via”.  Ma dove li hanno portati non si sa. E’ stata l’ultima carneficina che si è vista a Gusen 2.

Quando ci si andava a lavare al Waschräume c’era sempre la camera dei morti là; era sempre piena, perché le fatiche a Gusen 2 erano ben diverse di quelle di Gusen 1. A Gusen 1 avevi il tuo tornio ed eri lì, eri riparato dall’acqua, dal vento, dal sole, dal freddo, invece a Gusen 2 se lavoravi fuori te la prendevi tutta, invece noi lavorando in galleria, eravamo riparati e siamo venuti alla fine della guerra per questo, perché altrimenti per pura forza fisica… mi fanno ridere quelli che dicono “Io ho avuto la volontà, sono venuto a casa”; non c’è la volontà lì, quando facevi tre mesi  a Gusen 2 alla stazione la tua volontà te la mettevi in tasca, te lo dico io.

Nel frattempo lì ho conosciuto anche un sacerdote, don Narciso Sordo e disse “Sto qua con la mia gente, non vado a Dachau”… come facesse a saperlo non si sa, perché nel novembre del ’44 hanno raccolto tutti i sacerdoti di tutti i campi e li hanno mandati tutti a Dachau a fare i lavoretti leggeri. Tra essi, Don Gaggero mi pare che anche lui fosse lì. Comunque chi è rimasto a Gusen 2 c’era questo e basta, però anche lui con il lavoro massacrante che era non poteva durare tanto, e infatti è morto anche lui. Tra tante conoscenze lì, ricordo Vallardi che verso la fine della guerra l’hanno levato dall’infermeria di Mauthausen e l’hanno mandato a Gusen 2 perché avevano fatto tre baracche per l’infermeria fuori, che poi la chiamavano infermeria ma entravi lì ad aspettare di andartene di là.

Tra le tante cose che ho visto una volta, i primi giorni prima che aprissero Gusen 2, l’hanno aperto il 14 di maggio del ’44, l’apertura ufficiale. In quei giorni mi hanno mandato alla cava di Gusen, era tremenda, non c’era la compagnia di disciplina che io ho visto lì, ma era bestiale, sotto l’acqua, il freddo e il vento a portare pesi, e lì c’erano i vagoncini che portavano al frantoio, il frantoio di Gusen 1 c’era e c’è ancora adesso. Infatti l’ho visto poco tempo fa. Portavano queste pietre e le portavano lì, ma erano i Kapò che erano tremendi, che picchiavano continuamente, urlavano sempre; era la vita balorda di loro, perché oltre l’acqua, il freddo e il vento erano sempre loro che massacravano tutti.

Un mese prima di finire la guerra, il mio capo, visto che io ero bravo anche a cambiare non solo i rulli ma i cuscinetti dei rulli, mi disse “Sei capace di mettere a posto una rivoltella?” dico “Io sì, se me la dai”, ne avevo messe a posto tante prima di essere arrestato”. Me ne dà una fasulla, tutta smontata. La guardo,  mi ha portato in una baracchetta nel piazzale di Sankt Georgen, uno guardava fuori, lui, e io l’ho rimessa a posto. E’ rimasto di stucco. Mi ha fatto una prova, cinque giorni prima Himmler aveva dato l’ordine di ammazzare tutti nelle gallerie. E allora lui dice: “Io ho tre rivoltelle, una a te, una a me e una ai cecoslovacchi”; dei polacchi non si fidava, perché più criminali dei polacchi non c’è stata nessuna nazione nel campo, erano peggio dei tedeschi e degli austriaci, non tutti intendiamoci, ma la maggioranza. Dice noi dobbiamo premunirci per fare una cosa: quando verrà il momento che saremmo incolonnati per entrare nelle gallerie, a duecento metri prima di entrare, al primo sparo, se sentite uno sparo anche prima dei 200 metri non importa, al primo sparo che sentite tutti addosso alle SS, però tu, disse a me, e tu cecoslovacco, non dovete stare vicino a quelli della Vehrmacht, perché c’era Vehrmacht SS, dovete stare in fila vicino alle  SS che avevano le pistol-machine, invece la Verm aveva i fucili,  e abbiamo detto “Abbiamo capito benissimo”, ci ha istruiti in un modo… dice “Non occorre tanti colpi, quando c’è la pistola carica, con quattro cinque o colpi, più di lì non riesci ad andare se riesci a stare in vita, però cedendo quello lì tutti gli altri addosso a questi qua, sarebbe troppo stupido crepare tutti noi e loro salvarsi, è meglio che crepiamo metà di noi e tutti loro” e difatti così è partita la faccenda. Arriva la notte tra il 2 e il 3 di maggio e il mio capo mi dice “Dammi la rivoltella che non serve più”, e mi prende e mi porta fuori, in piena notte, non c’erano più le SS, ma c’erano quelli dei pompieri di Vienna, chiamiamoli così, non ci ammazza più nessuno. E’ la volontà. Allora mi è venuto in mente di dire “Ma dove le hai prese?”, dice “Tu non devi sapere niente”. Ma come faceva lui ad avere tre rivoltelle dentro nel campo? O gliele ha date i civili o c’era qualche militare, comunque le aveva, l’ha volute di nuovo.

Arriva il cinque maggio di sabato, le cinque della sera e sono passati questi americani della Croce rossa con una bandiera bianca e lì è successo il finimondo, nel senso della gioia di essere liberi. Però come qualcuno scrive di Gusen 2, a Gusen 2 non c’è stato quel linciaggio di Kapò come c’è stato a Gusen 1 e a Mauthausen, perché lì non c’erano le mura da saltare, c’erano i reticolati senza corrente, (vbabe’ che la corrente non c’era nemmeno in altri posti), e i Kapò i più svelti, erano più vicino all’uscita, perché loro erano ben tenuti e non malandati come gli altri, e ne ho visto uno solo di capò, quello che mi ha picchiato la prima volta, ma quello è stato preso il giorno 6. Il giorno dopo, nella baracca degli indumenti dei deportati, è stato preso e l’hanno inchiodato in terra e dalla parte del piccone gli hanno messo tutta la punta intera nello stomaco, un russo alto due metri, a cavalcioni, l’ha pestato. Erano le otto, otto e mezza, nove del mattino e non crepò mai, ha respirato fino alle cinque del pomeriggio, tanto che bestia che era. Ecco, l’unico che ho visto è quello lì a Gusen 2. Ho fatto il giro sempre al giorno dopo, c’era pieno di cadaveri e tutto, ma di Kapò distesi per terra… perché se uno ammazzava un Kapò lo lasciava a Gusen 1, però lì sono scappati tutti, se poi ne hanno presi qualcuno fuori… Però ho letto dei libri che hanno scritto lì,  specialmente Corazza di Bologna che ha detto “Abbiamo preso le SS…” ma come avete fatto a prendere le SS che sono andate via il giorno prima?”.

Finalmente è venuta la liberazione, ci hanno disinfettati e siamo andati tutti a Gusen 1; dopo una decina di giorni gli americani hanno bruciato Gusen 2 perché era pieno di pidocchi, cimici, era indescrivibile, e infatti mentre bruciava il campo di Gusen 2 io ero sulla strada a vedere. Mi piacerebbe trovare qualcuno di quegli americani che avesse una foto, una che brucia la mia baracca, di Gusen 1, ce l’ho su un libro che ha messo il Comune di Sankt Georgen, ma trovassi qualcuno che ne avesse, guai. Non c’è più nemmeno la pianta, però dalle fotografie dall’alto che hanno preso gli americani il 15 di aprile, ce n’ho una dall’alto che si vede bene questo campo. E’ stato bruciato e poi siamo stati a Gusen 1, siamo stati lì un bel po’. Ci hanno disinfettati con DDT e tutto e dopo un po’ ci hanno portato a Mauthausen, e dopo Mauthausen siamo partiti verso il 23, 24 e con i camion ci hanno portato a Linz, dove abbiamo preso il treno e ci hanno portati a Salisburgo, da Salisburgo ci hanno portato a Innsbruck. Da Salisburgo ad Innsbruck passavano gli altri treni e il nostro no perché si è guastata la macchina; per fortuna che su quel treno lì c’era uno che si chiamava Zerbinati di Sesto San Giovanni ed è andato a casa a dirglielo ai miei. Poi ci hanno portato a Innsbruck in un campo fuori lì, avevamo tanta fame perché siamo rimasti fermi due giorni. Siamo andati in questo campo dove  c’erano dei militari italiani, poi siamo ripartiti di nuovo da Innsbruck e siamo venuti col treno a Bolzano. A Bolzano trovo i miei amici che lavorano in garage con me alle acciaierie FALCK, e poi ci hanno portato a casa. E lì finalmente è finita.

D: Aldo, alcune cose: Da Gusen 2 a Sankt Georgen vi mettevano sul trenino?

R: Sul treno normale. In un primo tempo si doveva uscire dal campo e andare sulla linea che da Gusen 1 portava a Sankt Georgen. In un secondo tempo hanno fatto il treno che proprio parte da Gusen 2 che si collegava con la ferrovia di Gusen 1. I primi tempi era brutto perché non c’era la rampa come c’era prima che salivi normale, dovevi salire su quel gradino lì, essere in tanti e salire lì metteva un po’ male… è durata poco quella faccenda però è durata un bel po’. Poi l’hanno fatta a Gusen 2 e il treno di lì passava sotto il ponte e si collegava con la ferrovia di Gusen 1 e andavamo a Sankt Georgen a lavorare. A Sankt Georgen c’era sempre una curva e c’era una steccata, un parquet, e mentre il treno passava scendevamo di corsa; facevamo una strada e passavamo davanti una casa di una che in un primo tempo quando noi abbiamo lavorato due o tre giorni fuori dalle gallerie, lei dalla finestra buttava giù qualche pezzo di pane. Si chiamava Bürger quella donna lì… qualche pezzo di pane con la marmellata, quello che capitava, ma si doveva guardare in giro, è stata l’unica che ci ha dato qualcosa… non perché era stata l’unica, ma perché suo padre era ex deportato a Dachau. Dopo la guerra mi ha fatto vedere i documenti di ex deportato. Ecco perché lei buttava qualcosa per i deportati, perché altrimenti gli altri… Dal tragitto da Mauthausen a venire a Gusen c’erano dei bambini che gli davano di quelle bacchettate, allora dico “I bambini non c’entrano niente, ma se uno non ha il cuore cattivo anche se è un bambino non da le bacchettate agli altri”. Erano istigati dalle SS, tanto per dire che anche i bambini picchiavano anche loro.

D: Aldo, tu parlavi delle gallerie di Gusen 2, cioè di Sankt Georgen, ma erano molto grandi?

R: Non erano molto grandi come immensità, come altezza erano più basse di quelle di Ebensee, però non erano così; ho le fotografie a casa..

D: Ma a cosa servivano queste gallerie?

R: Le gallerie servivano a mettere Maschinenpistole …. Non dimentichiamoci che il primo aereo a reazione è stato fatto a Sankt Georgen, lì è stato fatto; è stato costruito a Sankt Georgen. E al di là del fiume c’erano ancora le gallerie di prova degli aerei.


[1] Detto anche “Toni” o “Dr. Toni”.

[2] Come studente di medicina faceva parte personale dell’infermeria di Gusen.

Arnaldi Antonio

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sono Arnaldi Antonio, nato a Finale Ligure Marina il 15.1.1925. Arrestato il primo marzo del ’44 in base a quello sciopero generale in tutta l’Italia. Arrestato dai carabinieri di Finale Ligure il primo marzo del ’44. Portato subito all’ospizio Cremasco insieme agli altri deportati della provincia di Savona.

D: Scusa Antonio, tu lavoravi dove?

R: Alla Piaggio.

D: Alla Piaggio di dove?

R: Finale Ligure.

D: Ti hanno arrestato sul posto di lavoro?

R: A casa, di notte.

D: Ti hanno arrestato da solo?

R: Io da solo, poi portato in caserma. In tutta la notte ne han presi ventisei.

D: Lì ti hanno fatto degli interrogatori?

R: No. Mi han preso, mi han buttato in una cella dove c’era già qualcheduno; poi han fatto arrivare una camionetta imbarcati otto per volta, ammanettati uno con l’altro e portati all’Ospizio Merello.

D: Che cosa era l’ospizio Merello?

R: E’ una colonia.

D: Era gestita da chi?

R: Non so da chi. A un bel momento lì ci siamo trovati in centosessanta, tra Finale Ligure e tutte le fabbrica che c’erano in Liguria, lì, nella provincia di Savona.

D: E lì quanto sei rimasto?

R: Una notte e mezza giornata. Poi sono arrivate un treno di tradotte, caricate su due-tre vagoni e portati a  Genova alla Villa di Negro. Era una villa di un ebreo; là c’era tutto il comando tedesco con le impiegate, i dottori e tutto. Hanno fatto una selezione: cento li hanno spediti all’indomani a Sesto San Giovanni come lavoratori liberi in Germania e gli altri sessanta, ci hanno tenuto lì a far delle visite perché dicevano che eravamo malati; in Germania i malati non li vogliono. Poi invece un bel giorno ci hanno preso e ci hanno portato a San Vittore.

D: A San Vittore dove scusa?

R: In carcere.

D: A Milano?

R: Milano sì.

D: E lì cosa è successo?

R: Lì siamo stati tre notti e tre giorni. Poi hanno aperto le carceri e ci hanno mandato a Bergamo, alla caserma Colleoni. Lì siamo stati cinque o sei giorni a dormire nella paglia, con poco mangiare, finché un bel giorno sono arrivati quelli di Milano e quelli di Torino. E’ arrivato un treno alla stazione di Bergamo, caricati sui carri bestiame: destinazione Germania.

D: Scusa un attimo Antonio, il viaggio da Genova a Bergamo

R: Da Genova a Milano.

D: Da Genova a Milano, scusa, come l’avete fatto?

R: Col treno.

D: Eravate ammanettati?

R: No, non eravamo ammanettati. C’era la scorta dei carabinieri; non eravamo ammanettati perché secondo quello che avevano detto, dovevamo andare a casa.

D: Ma tu non sei mai stato interrogato?

R: No, non siamo stati interrogati; nessuno.

D: Cioè ti hanno arrestato perché avevi partecipato allo sciopero..

R: Poi a Genova dicevano che ci mandavano come lavoratori; allora “te dove vuoi andare a lavorare, in Germania?” In Germania ci sono troppi bombardamenti; abbiamo scelto di andare a Vienna, in Austria. Allora eravamo quattro del paese, ci siamo messi d’accordo tutti e quattro per fare i montatori aeronautici. Ti mettevi d’accordo con un gruppo per essere insieme a lavorare e invece cento li han mandati via e sessanta siamo andati a finire lì.

D: Antonio cosa vuol dire abbiamo scelto?

R: Abbiamo scelto di andare a lavorare in Austria perché c’erano meno bombardamenti che in Germania.

D: E questa scelta l’hai fatta a Bergamo?

R: No. Quella scelta lì l’abbiamo fatta a Genova, quando c’erano i contratti di lavoro, che poi è stata una truffa: ti dicevano che ti mandavano a lavorare quando invece, una volta che arrivavi a Sesto San Giovanni chissà dove andavi a picchiare.

D: Ma a Genova son venuti dei civili per proporvi questa scelta?

R: A Genova c’erano tutte impiegate dell’esercito tedesco, dottori e i comandanti dell’esercito.

D: Antonio scusa, ma tu hai firmato un contratto?

R: Non sono riuscito a firmare il contratto. Per quello mi hanno messo con i malati: perché se firmavo un contratto, partivo come lavoratore.

D: Poi dopo allora da Bergamo cosa è successo?

R: Poi da Bergamo, dopo tre giorni e tre notti siamo andati a finire.. No a Bergamo siamo stati lì cinque giorni, poi una mattina han portato tutti i prigionieri di San Vittore di Milano, e quelli di Torino, ci han caricato sulle tradotte di un treno, destinazione Germania.

D: Ascolta dalla caserma di Bergamo alla stazione di Bergamo

R: A piedi, scortati dall’esercito tedesco.

D: C’erano anche delle donne con voi?

R: C’erano una ventina di donne e una quindicina di preti.

D: Ti ricordi la provenienza di queste persone?

R: Guarda mi ricordo solo un prete, Don Gaggero.

D: Di dove era Don Gaggero?

R: Non lo so. Ma lo ricorderò per tutta la vita.

D: Ti hanno caricato sul treno…

R: E siamo andati direttamente a Mauthausen

D: In quanti eravate sul tuo transfert?

R: Ecco è quello lì il problema, eravamo settecentottanta o ottocentosettanta, quello non lo so; è un trasloco dei primi di marzo.

D: Ascolta ma perché ti ricordi di Don Gaggero?

R: Perché mi è capitato lì come nome, come tutto, quei due-tre giorni che eravamo lì. Poi che sia rimasto a Gusen  non mi ricordo più, ma penso che era Gusen.

D: Quanto è durato il viaggio?

R: Da Bergamo? Sarà durato due giorni, un giorno e mezzo.

D: Ti avevano dato da mangiare e da bere?

R:Alla frontiera ci hanno dato una minestrina e basta.

D: Ti ricordi più o meno che periodo era?

R:I primi di marzo, cioè i primi dieci giorni di marzo.

D: Di che anno?

R:Del ’44.

D: Siete arrivati alla stazione di Mauthausen, lì cosa è successo?

R: Lì siamo scesi; sono venuti a prenderci le SS, ci hanno messo in fila per cinque, e strada facendo siamo andati su su su, finchè siamo arrivati al campo di concentramento.

D: Come ti ricordi l’ingresso del campo?

R: Siamo entrati schierati con tutte le SS ai due lati, abbiamo fatto il giro della prima baracca e ci siamo fermati dove adesso – chi va a Mauthausen – vede quel muro che sarebbe il muro del pianto. Di lì abbiamo atteso, siamo entrati a Mauthausen verso le nove e mezza, prima delle dieci e abbiamo atteso adagio, adagio che in cinquanta per volte andassimo giù a far le docce; però i primi che sono andati a fare la doccia erano le donne poi i preti.

D: Tu avevi delle cose con te?

R: No, guarda noi di Savona… Sì avevamo il vestiario, è stata una truffa quella quando ti prendevano: mandavano a dirti “scrivi a casa, manda questo che ti portano i vestiari che poi andrai a lavorare civile, uscirai alla sera o alla domenica”; tutti avevamo indumenti, però noi dalla provincia di Savona non avevamo da mangiare, perché era già troppo che giravamo.

D: Antonio tu hai subito la spoliazione?

R: No.

D: Cioè ti hanno fatto spogliare?

R: Quelli tutti. Come entravi giù facevi la doccia, cioè prima di toglievano i capelli, i peli da tutte le parti, poi ti davano il petrolio poi facevi la doccia. Finito di fare la doccia bello nudo passavi da un’altra parte, ti sceglievi una mutanda e una camicia, e poi ti sceglievi un paio di scarpe, zoccoli olandesi, quelli che c’erano, di premura perché loro di aspettare non avevano tempo e picchiavano. E poi ogni cinquanta per volta ci portavano nella baracca.

D: Ti ricordi la tua baracca di quarantena?

R: Non so se deve essere stato il 20, mi sembra il 20, o il 18. Non mi ricordo sai adesso. Era proprio davanti alla strada, cioè alla passeggiata del campo.

D: Cioè vorresti dire alla piazza dell’appello

R: Sì.

D: E lì quanto tempo sei rimasto?

R: Lì siamo rimasti quattro o cinque giorni, forse meno. Poi un bel giorno ci han dato i calzoni e la giacca, il numero da imparare a memoria, subito,

D: Il tuo numero te lo ricordi?

R: 58673.

D: Ma quando all’appello ti chiamavano lo pronunciavano in italiano?

R: No, in tedesco.

D: Te lo ricordi in tedesco?

R: Achtundfünfzigtausendsechshundertdreiundsiebzig.

D: Ma lo hai imparato subito?

R: Per forza, perché altrimenti erano manganellate.

D: Assieme al numero ti hanno dato qualche altra cosa?

R: Ci hanno dato la striscia dove c’era il triangolo rosso e il numero lo mettevi qui, nei calzoni, e una lamiera qui al braccio.

D: E dopo che ti hanno immatricolato cosa è successo?

R: Niente. Poi siamo scesi giù a Gusen, da Mauthausen un pomeriggio ci hanno dato un paletot, un paio di calze, un pezzo di pane e un pezzo di margarina e siamo scesi giù a Gusen 1.

D: Quanto tempo sei rimasto a Mauthausen?

R: Da marzo fino al 5 maggio. Poi dopo ancora di più perché dopo la liberazione non tutti potevano rientrare. Io sono venuto a casa il 28 di giugno.

D: No no, ma prima di andare a Gusen quanto tempo sei rimasto a Mauthausen?

R: Te l’ho detto, cinque o sei giorni.

D: Il percorso da Mauthausen a Gusen, e poi di quale Gusen parli, di Gusen 1?

R: Gusen 1, però ci hanno messo in una baracca fuori in quarantena perché noi dovevamo andare a costruire un altro campo, che sarebbe Gusen 2. Poi terminato di costruire quel campo lì siamo passati a Gusen 1, facevamo già parte di Gusen 1 ma eravamo staccati.

D: A Gusen ti hanno fatto un’altra immatricolazione?

R: No, sempre il medesimo numero.

D: Cosa ci racconti della costruzione di Gusen 2?

R: Cosa vuoi che ti racconti? Fai conto di vedere un posto tutto nudo e di far uscire baracche, strade, tutto completo. In un periodo di quaranta giorni ci abbiamo lasciato quaranta morti. Perché picchiavano dalla mattina alla sera; c’erano persone che non erano capaci a lavorare a pala e piccone, gli intellettuali, quella gente lì; e sai loro picchiavano, e non c’era altro che picchiare lì.

D: Quanto tempo ci avete messo a mettere Gusen 2?

R: Quaranta giorni.

D: Cioè cosa vuol dire costruire Gusen 2?

R: Costruire un paese.

D: In grado di accogliere quante persone?

R: Non lo so quante persone tenevano, non lo so; se teneva diecimila, non lo so. Perché una volta entrato a Gusen 1, io di Gusen 2 non ho mai sentito parlare. Sentivo parlare in questo senso, che a Gusen 2 non avevano né crematorio né infermeria. Quindi i malati alla mattina li portavano a Gusen 2.

D: Che distanza c’è tra Gusen 1 e Gusen 2?

R: Ci sarà un chilometro, un chilometro e mezzo.

D: Una volta che avete finito di costruire Gusen 2 tu sei ritornato..

R: Io son passato dentro a Gusen 1.

D: Ti ricordi il numero del blocco di Gusen 1?

R: Ne ho cambiati tanti di blocchi. Sono andato alla baracca 4, sono andato al 19, sono andato al 21, perché ogni tanto ti cambiavano per le disinfezioni. Quindi in tutto quel periodo lì ne ho cambiati tanti.

D: Quando sei ritornato a Gusen 1 cosa facevi?

R: Mi hanno sistemato alla Steyr.

D: Cos’è la Steyr?

R: La Steyr era una fabbrica dove facevano le rivoltelle, canne da fucile, canne da mitragliatrice, tutto quello lì; si lavorava dodici ore di giorno o dodici ore di notte, sempre continuamente. Poi c’era anche la Messerschmitt, c’era un’altra fabbrica, e poi c’erano quelli che lavoravano nella campagna e nella cava.

D: Nella cava di Gusen?

R: Sì, c’era una cava grossa.

D: Andiamo con ordine un attimo, tu lavori alla Steyr, ma queste officine della Steyr dove si trovavano rispetto al campo?

R: Sopra il campo. In un primo tempo facevamo una strada fuori, in un secondo tempo hanno buttato giù un muraglione, ci hanno costruito una scala e si saliva di lì.

D: E tu lavoravi?

R: Alla baracca n. 2.

D: E cosa facevate voi esattamente?

R: Lì da noi facevano le canne da fucile.

D: C’erano anche dei civili?

R: Venivano i civili dalla Steyr sì. Un primo tempo venivano alla sera andavano a casa, man mano che si andava avanti le facevano dormire lì anche loro.

D: Ci puoi spiegare una giornata dal mattino quando facevi il turno di giorno?

R: Allora la mattina ti svegliavi d’estate alle quattro e mezzo d’inverno alle cinque e mezzo. Ti andavi a lavare al Wäscheräume, ti lavavi la faccia non avevi né sapone né asciugamano, una volta lavato ti mettevi la camicia, perché se non ti lavavi ti vedevano e te le davano già prima. Entravi nella baracca ti davano, se lo volevi, ma più tanti non lo volevano nemmeno, un po’ di caffè che poi era acqua del Danubio scura, quindi era questo. Il kapò ti mandava fuori perché dentro davi fastidio, prima delle sei c’era l’appello; se tutto il numero era giusto l’appello .. dieci minuti, un quarto d’ora finiva; se mancava qualcheduno finché non lo trovavano dovevi rimanere lì, quando lo trovavano lo portavano lì perché lui era un numero, quindi se eravamo a novantanove lui era cento. Finito l’appello ti mettevi in colonna e andavi a lavorare: quelli che han fatto la notte scendevano, e tu salivi. A mezzogiorno ti davano quel litro di zuppa di rape, continuavi a lavorare e alla sera alle sei scendevi nel campo; ti davano quel po’ di pane diviso in quattro o in sei, in dieci, a seconda com’era, una fettina di margarina, il caffè lo prendevi di nuovo ma non lo prendevi perché ti faceva andare al gabinetto e nient’altro, e poi quando dicevano di andare a dormire andavi a dormire, se non c’era il controllo dei pidocchi. Questa era la giornata.

D: Scusa cosa vuol dire, Antonio, il controllo dei pidocchi?

R: Sì perché ogni tanto ti facevano il controllo dei pidocchi, perché avevano paura del tifo petecchiale. “Ma cosa facevano il controllo dei pidocchi che ne avevamo tanti in corpo?”.

Allora quando dicevano “il controllo dei pidocchi”, il primo che alzava la mano andava a fare il controllo. Andavi là e gli davi la camicia e le mutande, però se avevi una sigaretta e gliela davi loro dicevano che non avevi pidocchi. Era tutto …

D: Voi che lavoravate nelle fabbriche avevate una razione alimentare diversa dagli altri deportati?

R: No, come mangiare uguale. Solo che la Steyr passava le sigarette, secondo la lavorazione. Ogni mese passava il capo del campo, insieme al direttore della Steyr e più il capo della baracca, e dicevano “questo qui fa una lavorazione grossa, questo qui meno, questo qui meno”. A quello più grosso davano due marchi, era un pezzo di carta e lo consegnavi a Schreiber quando entravi nel campo; voleva dire: due marchi, venti sigarette; un marco, dieci; mezzo marco cinque. Quando poi arrivavano le sigarette, chiamavano, ti prendevi la razione. Però di dieci una la voleva già il kapò che era lì che ti aspettava e ne rimanevano nove. Nei primi tempi qualche sigaretta qualcheduno la fumava, poi adagio adagio si tenevano per comprare le zuppe, la margarina, tutte queste cose qui. Allora se ce n’era sigarette il mercato era più debole, se non c’era diventava più alto.

Però poi il kapò un bel momento non ne aveva più, gridava, e tu dovevi dargliene un’altra. In poche parole di dieci te ne rimanevano poche.

D: Questo era il turno di giorno, e il turno di notte poi?

R: Di notte ti alzavi verso.. scendevi da lavorare come gli altri, andavi a dormire; alle tre ti svegliavano, ti davano da mangiare, facevi l’appello e andavi a lavorare fino alla mattina alle sei, sempre dodici ore.

D: Nel blocco con te, tu dormivi in castello con chi?

R: Io ho dormito in castello tanto con Gavazza di Torino, con Barbera, con Magliano no. Magliano era in un altro blocco, sempre con quei due lì.

D: Ma in quanti dormivate per ogni castello?

R: Due, tre.

D: Chi distribuiva le sigarette?

R: Il kapò con Schreiber.

D: Ti ricordi se a Gusen 1 hai trovato dei religiosi?

R: Sì, c’erano i preti con noi. Don Gaggero, poi gli altri adesso i nomi non me li ricordo, sono passati anche tanti anni.

D: Antonio, questi religiosi erano deportati come voi?

R: Come noi vestiti come noi, niente da fare, uguali.

D: Ti ricordi se c’erano anche delle donne?

R: Le donne, ti dico, le abbiamo viste i primi giorni e poi non le abbiamo più viste a Mauthausen.

D: Ti ricordi se c’erano anche dei ragazzini?

R: Ce n’era uno di Savona, il più giovane di tutti: Corrado, aveva 14 anni.

D: E di più piccoli non te li ricordi?

R: No.

D: Prima accennavi che a Gusen 1 c’era anche una cava, tu l’hai vista?

R: Sì, perché era dietro le fabbriche. Poi a mezzogiorno quando davano le mine, mezzogiorno e sera; ci lavoravano due o tremila persone.

D: Ti ricordi se c’era anche un frantoio per macinare le pietre?

R: Non lo so perché non potevamo andarci. Non ti fidavi ad allontanarti dalla baracca. Lì c’erano i binari dei treni, perché si lavorava quasi tutti sui binari, i vagoni per portare via gli scoli, tutte queste cose. Poi con tutte le sentinelle che c’erano, era difficile, io non mi son mai arrischiato di allontanarmi dalla baracca.

D: Prima dicevi che a Gusen 2 non c’era il crematorio né il Revier, perché a Gusen 1 invece c’erano?

R: A Gusen 1 c’era l’infermeria, il Revier e il forno crematorio.

D: Ma tu li hai visti?

R: Sì, avevamo anche l’impiccagione, la fucilazione tutto lì davanti.

D: Cioè, spiega bene.

R: Le ultime baracche che han portato A, B, C, erano proprio le ultime che hanno aumentato il campo, lì di fronte avevamo dove fucilavano la gente, quando c’era l’impiccagione ci portavano nel piazzale a vedere.

D: Tu sei stato testimone di queste cose?

R: Sì. Abbiamo visto l’impiccagione di due tedeschi perché dicevano che avevano sabotato.

D: E fucilazioni ne hai viste?

R: Quando c’era la fucilazione chiudevano le finestre.

D: Cosa facevano, il block …? tutti chiusi nei blocchi?

R: Chiudevano i blocchi, chiudevano le persiane diciamo, le finestre, sentivi sparare poi basta. Poi aprivano. Invece l’impiccagione ti portavano a vedere; ti portavano a vedere quello che era nel campo e quelli che scendevano da lavorare dovevano vedere anche loro.

D: Ti ricordi il Natale del 44 a Gusen 1?

R: Sì.

D: Perché te lo ricordi?

R: Me lo ricordo perché erano già quindici giorni che non si lavorava: i bombardamenti avevano rotto tutte le centrali elettriche, quindi non c’era corrente. E poi perché quelli del ’43 dicevano che allora la Germania avanzava, c’avevano dato un po’ più di pane, un po’ di margarina, e noi avevamo una fame, pensavamo già a Natale. Invece a Natale eravamo a far l’appello, l’albero di Natale nel campo, tutto illuminato, con tutti i morti appesi così, ha suonato l’allarme. Invece di portarci nelle gallerie ci hanno messo nel fossato del campo, tutti lì, tutto intorno lì così. Siamo stati lì quasi fino alle due e mezza. Quando è venuta l’ora di darci da mangiare era verdura cruda e basta.

Alla sera era di notte ho dovuto andare su a lavorare, ma non abbiamo lavorato quella notte lì, abbiamo solo scaldato dei gran pezzi di ferro per sciogliere il ghiaccio nelle macchine. E’ stata quella notte, non solo io, ma diversi dal freddo che ci credevamo di non avere più i piedi, di averli congelati. L’unica notte proprio più terribile di tutte è stata quella lì.

D: Scusa Antonio, tu parlavi di un fossato? Cioè Gusen 1 attorno aveva un fossato?

R: C’era dove passavi; poi c’era un fossato, alto 1.80 x 80; poi c’era il filo spinato, poi c’era come una passeggiata dove viaggiavano le sentinelle, ogni cinquanta metri una sentinella, poi c’era il muro col filo spinato ancora, con i fari, e poi le garritte con i fari e le mitraglie.

D: Prima parlavi di molti binari ferroviari, lì a Gusen 1 che tu hai visto. C’erano molti binari ferroviari?

R: Sì lì nella cava; per viaggiare i vagoni per portare via le pietre.

D: E a proposito di Natale dicevi che nella piazza dell’appello hanno eretto un albero di Natale?

R: C’era un albero di Natale bello grosso. E i morti sotto.

D: Cioè i deportati morti sotto?

R: Sì, i morti che trovavano nei Wäscheräume, in quei posti lì, quando il campo era sgombro diciamo, che la gente andava a lavorare …, passavano quelli addetti, cioè avevano un carro su cui c’era scritto “crema” e c’erano in tre, uno teneva le stanghe nel carretto, e due prendevano i morti e li buttavano sul carro. Quella mattina lì avevamo appena fatto l’appello quando è suonato l’allarme, quindi non l’avevano ancora tolti.

D: Tu quanto tempo sei stato in totale a Gusen?

R: Dalla metà di marzo, fino al 5 maggio.

D: In tutto questo periodo i tuoi vestiti sono stati cambiati?

R: No, io ho sempre avuto la giacca e i calzoni a zebra, quella blu e bianca; una volta solo mi han cambiato, due volte la camicia quando facevano disinfezione. E basta.

D: Hai sempre tenuto quella?

R: Sempre tenuto quella.

D: L’alimentazione ce l’hai già raccontata, cosa vi davano da mangiare. Tu al Revier sei mai stato?

R: Sì ho marcato visita due volte, mi è andata bene, mi hanno mandato di nuovo indietro.

D: In che senso ti è andata bene?

R: Mi è andata bene .. una prima volta avevo come un’epidemia qui sotto. Ho trovato un dottore che mi ha dato della pomata e in poco tempo sono guarito. La seconda volta avevo la febbre alta, il capetto dell’officina mi ha fatto marcare visita, sono andato lì e ho trovato di nuovo fortuna, un dottore, non so se era spagnolo o tedesco, m’ha dato delle pastiglie da prendere, sono andato a lavorare la notte ma m’è passata. Avevo qui che non potevo nemmeno digerire la margarina, alla gola, mi ha dato delle pastiglie e sono riuscito in due giorni a liberarmi.

D: Prima parlavi che quando c’erano gli allarmi, i bombardamenti, ti portavano nelle gallerie. A Gusen 1 c’erano delle gallerie?

R: Noi andavamo lì penso tra Gusen 1 e Gusen 2. In quelle gallerie lì, dopo le ville dei tedeschi, delle SS, andavamo lì nella seconda galleria.

D: Ma che gallerie erano quelle lì?

R: Gallerie che hanno costruito i deportati, e poi dentro c’erano anche i macchinari dove lavoravi.

D: Antonio, come ti ricordi la liberazione di Gusen 1, tu dove eri?

R: Eravamo di domenica, eravamo nel campo. Le SS erano già scappate, erano già partite. Era mezzogiorno, abbiamo sentito un carro armato, poi le voci cominciavano già a circolare perché i fronti erano vicini. Qualcheduno è salito sulla baracca per vedere se era un carro armato, è arrivata ancora una raffica di mitra. Erano gli ultimi che scappavano verso il Tirolo. Allora niente. Al pomeriggio alle cinque facevamo di nuovo l’appello, un bel momento si è aperto il portone del campo, è entrato un carro armato, sulla torretta della fortezza, come a Mauthausen. Lì sopra, è uscito fuori tutto il comando americano, il carro armato ha fatto un giro e poi è partito è andato su a Mauthausen. E di lì è stata la rovina: perché più tanti si son buttati nei magazzini dove c’era il pane, nella margarina, in tutti questi magazzini, i primi che entravano avevano il pane ma non uscivano, perché non so se eravamo quindicimila, ventimila, puoi immaginarti, tutti avevamo fame. Poi però ognuno si è disperso, io con questi quattro Magliano, Gavazza e Barbera siamo usciti fuori dal campo, ci siamo accostati nella baracche dove c’erano le SS. Ce ne siamo fatti dare un pezzo, abbiamo raccolto delle patate e hanno fatto una specie di zuppa da mangiare. Però in un raggio di tre chilometri ci abbiamo lasciato tremila morti, perché avevamo le budella piccole così, a mangiare tanto le allargavi ti prendevi la dissenteria. E così in quel raggio lì del campo ci sono stati tutti questi morti.

D: E dopo il 5 maggio del 45 tu cosa hai fatto?

R: Eravamo sempre lì nel campo.

D: Fino a quando?

R: Ci siamo stati fino ai primi di giugno. Poi ci hanno portato a Mauthausen.

D: E poi?

R: E poi siamo stati lì finché un bel giorno han fatto una autocolonna di carri, di camion e ci hanno portato giù adagio adagio. Abbiamo fatto Linz, Innsbruck, tutti quei posti lì, però ogni campo che entravamo noi ci mettevano da una parte, ci mettevano  da una parte perché per esempio arrivavi a Linz ce n’erano milioni e milioni tra civili, militari; noi deportati eravamo da una parte, ci trattavano proprio bene.

D: Tu sei entrato in Italia quando?

R: Io son venuto a casa il 26 di giugno.

D: Attraverso quale strada?

R: Fino a Linz col camion, poi da Linz con le tradotte, poi scendevi perché le ferrovie non andavano. Poi siamo arrivati a Innsbruck, poi da Innsbruck ci hanno preso, ci hanno portato lì a .. non so se il Lago di Garda o Gardesan. Lì ci hanno messo dove c’erano le suore una notte a dormire lì. Poi ci hanno portati alla stazione ma il treno partiva di lì; arrivavi magari in un posto poi non ce n’era più, poi adagio adagio aspettavi un altro treno, finché siamo arrivati a Genova. Quando sono arrivato a Genova son rimasto solo perché quei pochi alla stazione arrivavano i parenti. E poi da Genova a Savona un po’ a tradotta, un po’ una cosa e l’altra, finché sono arrivato a Savona. A Savona eravamo in due, quello là sono venuti i familiari; io sono rimasto solo, poi son passati dei camion, quelli che andavano a fare la borsa nera, uno mi ha riconosciuto, mi ha preso e mi ha portato a casa col camion.

D: Del tuo trasporto quanti sono sopravvissuti, se ti ricordi?

R: Non lo so perché leggevo nel triangolo rosso ultimamente la matricola 58, 59, sono quasi andati via tutti. Io conosco Signorelli, qualcheduno di quelli lì ma gli altri non ci siamo mai visti, io ero a Finale e loro erano a Milano. Per esempio chi vedo tanto è Maris, perché lui viene a Finale Ligure.

D: Antonio tu in tutti questi anni sei mai stato intervistato?

R: No. Nelle scuole così qualcosa, ma mai intervistato.

D: E tu non hai mai scritto nulla?

R: No. Premetto questo, che tu devi prendere atto che a dieci anni a questa parte che andiamo nelle scuole e tutto, perché fino a prima cosa contraria nessuno ci credeva a queste cose.

Ricci Raimondo

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

D.: Ci dice come si chiama, quando è nato?

R: Io sono Raimondo Ricci, sono nato nell’aprile del 1921; ho compiuto 79 anni e la mia vicenda relativa alla deportazione ha delle origini non immediate rispetto al periodo in cui sono stato deportato: sono entrato nel movimento antifascista, cioè ho preso delle posizioni antifasciste ed ho cominciato quella che allora chiamavamo la “cospirazione” quando ero studente universitario alla scuola normale superiore di Pisa, esattamente nell’anno 1939-1941, cioè da quando ho vinto il concorso nel settembre del 1939 a quando sono stato richiamato sotto le armi. Nella seconda metà del 1941 ho finito il corso di allievo ufficiale all’accademia navale di Livorno e sono stato designato, nominato ufficiale di marina. Come ufficiale di marina ho potuto scegliere la destinazione e l’ho scelta – nel frattempo mio padre, che era magistrato, era morto in Africa – nel comando di Imperia, la mia città di origine e anche già durante il periodo militare ho continuato ad avere rapporti in qualche modo anche progettuali ed organizzativi ma, in una forma ancora abbastanza informe con gli amici che avevo sia a Pisa, Genova e Imperia avevo e che appartenevano al movimento antifascista.

L’8 settembre del 1943, dopo un lungo periodo di servizio militare come ufficiale, allora ero  addetto all’ufficio cifra del mio comando – io ho potuto seguire l’occupazione da parte dei tedeschi del comando marina di Genova; poi il 9 settembre ho visto i tedeschi del comando marina di Genova arrivare ad Imperia perché da Genova sono venuti dalla riviera di ponente per completare l’occupazione. 

Nel frattempo da ponente, diciamo dalla Francia affluivano tutti quanti i militari sbandati dell’esercito italiano, che si era in gran parte dissolto, anche se poi c’erano stati episodi di resistenza di coloro che non avevano voluto cedere le armi, quindi anche qualche scontro a fuoco ma nella grande generalità il motto imperante era, come è noto, “tutti a casa”. Questo anche e soprattutto perché erano mancati gli ordini, era mancata l’organizzazione di una qualsiasi previsione di difesa rispetto alla ben prevedibile occupazione tedesca quando si fosse da parte italiana annunciato l’armistizio; quindi vi fu quella specie di fuga dalle proprie responsabilità del Re, di Badoglio e di tutto quanto lo staff dei militari italiani e di casa Savoia, che è ben noto e consegnato – anche in un modo abbastanza sconcertante – alla storia del nostro Paese.

Fin dai giorni immediatamente successivi al 9 settembre del 1943 io mi sono dedicato a sperimentare la possibilità – naturalmente insieme a tanti altri amici – di organizzare un movimento di resistenza armata all’occupazione tedesca. Il fascismo di Salò non era ancora sorto: cominciò a segnare la propria esistenza nel mese di novembre; il nostro nemico era sostanzialmente il tedesco occupante, il quale faceva già sfoggio dei propri metodi, che del resto i militari italiani avevano conosciuto anche quando avevano combattuto fianco a fianco con i tedeschi. Io insieme ad altri amici, in particolare ad Imperia, dove ho operato, ci siamo impossessati di armi, di qualche mezzo meccanico, l’abbiamo portato in montagna e di lì è nato il primo lavoro molto faticoso: era un lavoro che sembrava promettere una possibilità di organizzazione e poi invece magari deludeva questa prospettiva per poi rialimentare la speranza di riuscirvi, di organizzazione delle prime non ancora formazioni vere e proprie ma chiamiamole “bande” – così del resto si chiamavano nel gergo comune –“bande armate della Resistenza”. 

A metà dicembre del 1943, praticamente tre mesi dopo circa l’inizio di questa attività e dopo l’armistizio io ebbi l’incarico, dato che avevo anche assunto una responsabilità di commissario in una banda partigiana, di recarmi a Genova per prendere dei contatti con il Comitato di Liberazione Nazionale della Liguria che, a sua volta, era via via in fase di organizzazione.  

Stetti a Genova, cercai di partire in treno il più riservatamente possibile e tuttavia fui segnalato da qualcuno che riferì di questo mio spostamento – la mia presenza in montagna era ormai nota. Mi fu fatta la posta per tre giorni, tre giorni mi fermai a Genova e la sera del terzo giorno quando dalla stazione ferroviaria di Imperia e porto Maurizio, di sera inoltrata mi recavo in bicicletta, verso l’interno per ritornare in montagna, fui fermato da militari armati – chiamiamoli così – dell’UPI, cioè ufficio politico investigativo della Guardia Nazionale Repubblicana, che nel frattempo si era costituita. Venni arrestato insieme a mia sorella, che mi era venuta a prendere alla stazione, mia sorella fu detenuta per tre, quattro giorni e poi lasciata libera. Io invece venni sottoposto a pressanti interrogatori perché si voleva sapere da me evidentemente l’organizzazione armata a che punto era e così via. Per fortuna – dico per fortuna per me – non c’erano ancora stati scontri particolarmente accesi e c’erano state però molte azioni d’impossessamento di armi, vettovaglie e tutto quanto serviva all’organizzazione logistica delle formazioni che andavano costituendosi; fui pestato a sangue e non torturato perché c’è una bella differenza tra l’essere picchiato e l’essere torturato e fui detenuto ad Imperia abbastanza a lungo, cioè fino al febbraio del 1944; quindi stetti ad Imperia quasi due mesi e nel frattempo il movimento partigiano, che io avevo lasciato forzatamente a seguito del mio arresto andava avanti, si organizzava.

La provincia di Imperia è stata la provincia che ha partecipato fortemente alla lotta di Resistenza: vi furono i primi morti, vi furono i primi combattimenti e nel febbraio del 1944 avemmo la notizia del combattimento di Alto, sopra Albenga, in cui fu coinvolto uno dei nostri più bravi, più valorosi e prestigiosi comandanti, Felice Cascione, che diede poi il nome ad una divisione garibaldina, la divisione Cascione. Ebbi notizia in carcere di questo combattimento con i tedeschi appoggiati  da armati appartenenti alla Repubblica di Salò e dell’uccisione di Felice Cascione, un giovane medico di qualche anno più vecchio di me, ma un giovane particolarmente prestigioso, grande sportivo, grande figura anche morale nella Resistenza impierese e nazionale; motivo questo di profonda amarezza e di profondo dolore.

Proprio in quel periodo, subito dopo, i fascisti mi consegnarono alla Gestapo.

Venni trasferito nel carcere di Savona dove stetti  diverso tempo e successivamente fui trasferito ancora nelle mani delle SS; attraversai un lungo periodo di detenzione nelle carceri di Imperia, esattamente nella IV sezione delle carceri di Marassi, che era quella proprio organizzata ed a disposizione delle SS dove comandava il comandante del servizio di polizia di sicurezza nazista di tutta la Liguria, che aveva sede a Genova, cioè quel tenente colonnello delle SS Siegfried Engel, che, con una sentenza abbastanza recente del 15 novembre 1999, quindi pochi mesi fa, è stato condannato all’ergastolo per le responsabilità che ha avuto in quattro grandi eccidi compiuti nei dintorni di Genova.

Venni arrestato, voglio dire trascorsi questo periodo di detenzione nel carcere di Marassi fino a quando agli inizi, nei primi giorni del giugno 1944 fui trasferito insieme ad altri detenuti, a tanti compagni,  tra cui uno dei massimi dirigenti del partito d’azione, l’avvocato Eros Lanfranco, ed altri  amici carissimi come il commercialista di  grande cultura, Franco Antolini, mio amico fraterno anche se di qualche anno più vecchio di me. Insieme a tanti altri venimmo trasferiti in campo di smistamento di  Fossoli di Carpi – il campo di Bolzano non aveva ancora cominciato a funzionare in quell’epoca – e poi successivamente, a metà giugno del 1944 venni in vagone piombato trasferito nel campo di eliminazione di Mauthausen, e di qui cominciò la mia esperienza di deportato.

D.: Le volevo chiedere, si ricorda il suo numero di Fossoli?

R.: No.

D.: Si ricorda se assieme a lei nel campo di Fossoli c’erano anche dei religiosi?

R.: Mi pare di sì. Io a Fossoli non stetti molto, meno di quindici giorni, stetti una decina di giorni. Vi incontrai degli amici di Imperia che erano stati mandati là prima di me perché erano stati in un primo momento arrestati poi liberati poi riacciuffati da parte dei fascisti e dei tedeschi. Lo so che c’erano dei religiosi sicuramente. Uno, di cui divenni poi fraternamente amico, e che condivise l’esperienza della deportazione è stato don Andrea Gaggero. Quindi don Gaggero è stato uno degli uomini che hanno più fortemente testimoniato l’esperienza della deportazione e quindi don Gaggero era con noi. I religiosi furono numerosi.

D.: Il viaggio di trasferimento da Fossoli a Mauthausen come se lo ricorda?

R.: Ma, dunque io questo viaggio di trasferimento lo ricordo come un viaggio estremamente faticoso e l’idea dominante fu quella però di vedere se riuscivamo ad organizzare e realizzare la fuga. Nello stesso vagone dove io mi trovavo vi fu l’organizzazione di un tentativo di fuga che solo in parte riuscì. L’organizzammo nel senso che uno di noi, che io non conoscevo precedentemente, piuttosto magro ma estremamente deciso progettò e poi realizzò nel corso del viaggio d’infilarsi nel piccolo finestrino che era chiuso da filo spinato, diciamo spostando, questo sbarramento di filo spinato, portarsi dalla parte esterna del vagone e poi attaccandosi alle sporgenze del vagone stesso riuscire a ribaltare la chiusura a gancio calante dall’alto che quindi poteva essere ribaltata. Riuscimmo, riuscì con questa manovra lui stesso a gettarsi fuori perché era riuscito ad uscire dal finestrino ma con grandi sforzi e con l’aiuto naturalmente di coloro che erano all’interno e poi ad aprire di un breve spiraglio la porta, appunto operando dall’esterno in modo da consentire a tre di noi di fuggire. Il tentativo di fuga degli altri, io dovevo essere il quinto a prendere il via, non fu più possibile perché il treno arrivò in una stazione; si fermò, le SS si accorsero di ciò che era avvenuto, chiusero ermeticamente il finestrino e si diedero anche alla caccia di coloro che erano fuggiti, per fortuna senza essere riusciti a riprenderli. Comunque si scatenarono anche contro di noi; non vi furono lì per lì delle esecuzioni, ma insomma cominciò quell’operazione di terrore che ha poi accompagnato tutta quanta la nostra vita nei tempi successivi.

Io posso dire che durante questo avvicinamento a Mauthausen, non sapevamo, quale sarebbe stata la nostra sorte poichè ignoravamo tutto, io almeno ignoravo tutto ed anche i miei compagni ignoravano tutto. Ci scherzavamo persino sopra: qual era nei campi il sistema di eliminazione, come i tedeschi, i nazisti l’avessero organizzato e sapevamo che andavamo in una destinazione che il fatto stesso che era ignota apriva la nostra possibilità, il nostro destino ad ogni possibile soluzione ma non eravamo assolutamente informati di ciò che sarebbe avvenuto.

Siamo arrivati a Mauthausen, come normalmente avveniva per i trasporti, di notte. Era una notte calda perché eravamo come ho detto alla metà di giugno e con le nostre povere suppellettili, le nostre valigie con quel poco che eravamo riusciti a trasportare, un po’ di effetti personali, un po’ di cibo, qualche marco tedesco in tasca, che le famiglie erano riuscite a farci avere attraverso il filo spinato di fossili, che non era del tutto impenetrabile. La mia unica sorella – i miei erano morti tutti e due – venne a trovarmi e mi diede un aiuto sia in cibo, perché io avevo ormai cominciato a soffrire la fame durante il carcere, e mi fece avere questi generi di conforto e anche un po’ di marchi tedeschi che avrebbero potuto servire.

La realtà è che arrivati a Mauthausen ci trovammo in un mondo non preventivamente immaginato. Io ho sempre considerato molto difficile raccontare l’esperienza dei campi di eliminazione e quindi anche la mia esperienza personale perché il mondo nel quale venimmo a trovarci era un mondo talmente diverso sotto mille profili da quello che potevamo immaginare o da quello che avevamo vissuto; pur nelle sue privazioni, nelle sue violenze e nelle sue sofferenze, ho sempre pensato che raccontare del campo di eliminazione fosse come raccontare l’esperienza di Marte agli abitanti della terra: siccome gli abitanti della terra non hanno mai conosciuto né potuto immaginare quale fosse l’ambiente di Marte era difficile riuscire a realizzare una comunicazione ed una comprensione reale della situazione in cui venimmo a trovarci.  Posso tentare di dare qualche elemento.

Noi arrivammo di notte, fummo concentrati nella parte del lager che era destinata proprio ai trasporti in arrivo, era la prima parte della notte e progressivamente con il passare delle ore venimmo privati via via di tutto. Ci vennero portate via progressivamente le valigie, quelli di noi che le avevano, gli abiti, ci fu ordinato di toglierci gli abiti e poi via via, tutto quanto avevamo. Questa progressiva spoliazione, che veniva fatta su ordini delle SS un po’ da lontano, ma soprattutto dei kapò o di altri internati,  i quali erano delegati a questa funzione, continuò fino al momento in cui si realizzò il solito rituale di accoglimento – che è diventato il solito quando lo abbiamo poi conosciuto – che era un rituale attraverso cui il sistema concentrazionario nazista dei campi di eliminazione ed anche di sterminio tendeva ad annullare completamente la personalità degli  individui. Insomma l’attacco, io ho sempre pensato che il sistema era studiato scientificamente perché poi questo rituale era uguale per tutti i campi. I campi che furono installati in Germania, soprattutto nel corso della guerra, furono ben 1.200 circa, forse più perché alcuni vennero distrutti e se ne persero le tracce. Quindi un numero enorme. L’obiettivo era quello di ottenere prima l’annullamento della personalità degli individui cioè degli etfling, cioè dei prigionieri, degli internati che non erano prigionieri di guerra, che non erano detenuti – diciamo come uno normalmente detenuto per aver commesso un crimine – erano soltanto dei segregati destinati all’eliminazione. Se appartenenti poi a determinate categorie, per esempio alla razza ebraica, addirittura allo sterminio programmato. Possiamo interrompere un attimo?

Quando possiamo riprendere me lo dice.

Prego.

E questo rituale consisteva nella spoliazione completa, anche di tutti gli indumenti anche più intimi, quindi nella nudità assoluta; eravamo tutti uomini, nel transport di cui facevo parte non c’erano donne. Ma il trattamento che veniva riserbato alle donne, che venne riservato anche a Mauthausen. Mauthausen fu un campo nel quale le donne affluirono solo nella fase finale perché fu uno degli ultimi campi, se non l’ultimo campo, ad essere liberato. Il trattamento anche per le donne era lo stesso. Quindi denudati completamente e poi avviati alle docce; per noi furono effettivamente docce di acqua caldissima, di acqua bollente prima e di acqua fredda dopo e alla depilazione completa di ogni parte del corpo, quindi dei capelli, della testa, del pube e di tutto quanto il corpo. Quando uscivamo da queste docce, voi sapete bene che nell’ esperienza dei campi soprattutto, ma anche a Mauthausen c’erano le camere a gas; ma soprattutto di quelli che furono costituiti appositamente per lo sterminio degli ebrei e degli altri oppositori e quindi quelli in cui lo sterminio aveva dimensioni più massicce e di quelle che furono realizzate nei campi organizzati in una prima fase, a cui Mauthausen apparteneva.

Ma la questione non era tanto metodologica quanto quantitativa: c’erano delle grandi stanze che sembravano delle docce ed invece erano delle camere a gas, e dai tubi usciva il gas venefico anziché l’acqua come nel caso nostro. Anche a Mauthausen c’era questa situazione che però non era di normale funzionamento nei confronti dei trasporti ma perché venisse realizzato dovevano esserci determinate condizioni che poi per molti internati si verificarono anche a Mauthausen.

Dopo tutto questo noi eravamo praticamente come dei vermi. Naturalmente questo trattamento era particolarmente scioccante perché la spoliazione completa, questo trattamento di depilazione assoluta, queste docce calde e fredde, la  distribuzione di indumenti che erano dei pantaloni e camicie a strisce bianche e blu verticali che venivano distribuite assolutamente in  modo casuale senza alcun riferimento alle dimensioni di ciascun individuo, per cui qualche aggiustamento si poteva fare soltanto  tra di noi scambiandocele quando un indumento troppo stretto era capitato ad una persona troppo alta, troppo grassa, troppo grande o viceversa e  tutto questo creava una situazione di sgomento, era come un gran pugno nello stomaco dal quale non era facile riaversi. Noi abbiamo cercato, direi un po’ tutti di tenerci alto il morale l’uno con l’altro, eravamo italiani per fortuna tutti insieme almeno in quella prima fase. Però questo era la prima accoglienza alla quale si univa lo spettacolo, in particolare a Mauthausen: lo spettacolo era a sua volta molto scioccante perché Mauthausen ha l’aspetto di una grande fortezza medioevale. Occorre ricordare ma noi non lo sapevamo allora, io stesso queste cose le ho sapute dopo la liberazione; ecco perché la nostra memoria deve anche essere elaborata successivamente al momento in cui noi abbiamo vissuto determinate esperienze.

Mauthausen era sorto, sulla collina sulla quale era stato edificato a tre, quattro chilometri dal paesino di Mauthausen appunto, perché lì c’era una grande cava di pietre, di pietra particolarmente pregiata, molto dura e consistente di pietra scura che era divenuta per acquisto fatto proprio di proprietà delle SS.

Le SS erano un’organizzazione, è nota come la milizia al servizio totale e indiscutibile del Fuhrer – di Hitler – comandata dal reich Fuhrer delle SS, Himmler; fin dalla nascita legata però da un patto di morte con il Fuhrer della Germania, del popolo tedesco, cioè Adolph Hitler. Questa milizia, legata da questo patto cadaverico al suo conduttore ed al capo del popolo divenne ad un certo momento un vero Stato nello Stato, uno Stato dentro il Terzo Reich, uno Stato che aveva poteri assoluti su tutti i cittadini tedeschi, non parliamo poi sugli abitanti degli altri paesi che venivano via via invasi dalla Germania e quindi un potere di vita e di morte. Io arrivo a dire questo che non si può capire l’essenza, e le SS erano la quinta essenza del sistema nazista come sistema di potere, non si può capire se non si acquisisce questa consapevolezza: il nazismo concepiva il proprio potere come un poter assoluto e indiscutibile di cui a nessuno si sarebbe dovuto rendere conto sulla vita degli altri; il potere assoluto di vita e di morte. E le SS, gli appartenenti alle SS erano i depositari di questo potere a assoluto che discendeva loro direttamente dal loro grande capo, il Fuhrer della Germania e del popolo tedesco.

Il sistema concentrazionario al quale Mauthausen apparteneva era una delle espressioni dirette di questo sistema di potere che avrebbe dovuto essere il modello attraverso cui si esprimevano i grandi privilegi della razza superiore, la razza ariana, come ben sappiamo; e nella razza ariana il popolo tedesco come popolo destinato a dominare il mondo. Una concezione che aveva anche quella base ideologica che via via fu creata dagli  ideologi del Terzo Reich perché c’era questa concezione che sapeva anche di tradizione barbarica, come è noto; e difatti confluiscono tutti questi elementi nel progetto di dominio fondato su una superiorità di razza e sul diritto di eliminazione delle razze  ritenute inferiori o dannose, come gli ebrei, rispetto ai grandi destini del popolo tedesco o delle altre razze che erano destinate comunque ad essere ridotte in  schiavitù o soggiogate dal potere della razza dominante. Questa era la concezione di cui i campi di eliminazione tra cui Mauthausen, erano non gli unici ma fondamentali strumenti di attuazione.

D.: Senatore, si ricorda quando è stato immatricolato lei a Mauthausen?

R: Certo, noi fummo immatricolati, io non mi ricordo nemmeno la matricola 41 mila e tanti, ma i numeri di matricola erano assegnati riassegnandoci i numeri dei morti insomma, quindi diciamo il numero di matricola in sè.. Io ho i documenti a casa con il numero di matricola però adesso in questo momento a memoria non lo ricordo. L’immatricolazione avvenne immediatamente. Ci fu assegnato un numero che dovevamo poi portare sulla nostra cosa, non ci venne a Mauthausen tatuato come in altri campi avvenne sulle braccia o sulle mani però l’immatricolazione avvenne il giorno successivo a quello del nostro arrivo, quando cioè fummo destinati al blocco di quarantena. Io fui destinato alla baracca 17; adesso nel campo di Mauthausen la baracca 17 non esiste più perché è stata demolita; sono state conservate soltanto alcune baracche esempio nel campo di Mauthausen, del così detto campo di quarantena.

Perché Mauthausen era una grande centrale di un sistema di circa 40 campi dipendenti, campi satelliti per così dire. Quindi Mauthausen, significa non il solo campo di Mauthausen, ma significa altri 40 campi. Lo stesso sistema vale per Dachau, vale per Buchenwald vale per tutti gli altri campi che vennero via via costituiti successivamente. Ecco perché la dilatazione enorme del numero dei campi alcuni dei quali avevano molti prigionieri, altri erano fatti anche da piccole unità di prigionieri.

Il sistema della quarantena, dunque anche durante la quarantena fummo destinati a lavorare. Io lavorai per giorni e giorni di seguito alla cava di pietra, un luogo terrificante di morte: era il luogo nel quale, quando si volevano eliminare un certo  numero di individui, questi venivano mandati sotto le scudisciate delle SS e di kapò su per i centottantasei gradini della scala con dei carichi di pietra sulle  spalle, carichi che potevamo scegliere noi quando non eravamo destinati all’eliminazione; ma se qualcuno un gruppo era destinato all’eliminazione, venivano scelti dagli aguzzini, chiamiamoli così, dai capi, i quali caricavano i prigionieri anche in rapporto alle loro forze di carichi superiori a quelli che avrebbero potuto portare sulle proprie spalle per centottantasei gradini. Allora i prigionieri naturalmente non ce la facevano, cadevano, venivano colpiti dagli aguzzini con i bastoni di gomma, con gli scudisci, venivano colpiti con i calci dei fucili delle SS che seguivano e poi venivano uccisi; e questa scala fu un luogo nel quale venne uccisa moltissima gente.

Io ricordo che nel luglio del 1944, prima di andare in trasporto in un campo dipendente, come adesso dirò tra un attimo, vidi lungo quella scala che veniva  proprio percorsa dagli ex ufficiali, dagli ufficiali e sottoufficiali tedeschi che erano stati coinvolti nell’attentato a Hitler nel luglio ’44 in cui Hitler rischiò di perdere la vita ed invece gli furono bruciati solo i pantaloni, quello che avvenne nel suo bunker sul fronte orientale, vennero in gran parte inviati nel campo di Mauthausen ed erano  proprio in un blocco vicino al nostro, vicino al blocco 17 dove io ero ristretto. Costoro dovevano essere destinati all’eliminazione ed io li vidi lungo quella scala caricati di quelle pietre e poi mitragliati dall’alto con fotografie che mostravano tentativi di fuga perché i tedeschi avevano anche cura di cercare di operare le messe in scena nelle quali erano maestri. Avevano già fatto la messa in scena dell’aggressione alla Polonia fingendo un attacco dei polacchi nei confronti delle loro postazioni di confine, avevano fatto la grande mistificazione dell’incendio del Terzo Reich attribuito ai dirigenti e sindacalisti socialdemocratici e comunisti nel 1933 e quindi erano maestri di mistificazioni di questo tipo.

E anche lì si tentò di rappresentare la fuga di questi poveri, diciamo valorosi militari che avevano avuto il coraggio di ribellarsi ad Hitler e di organizzare il tentativo di sbarrare la sua strada verso la distruzione del mondo e della stessa Germania. Comunque questa cava fu un luogo di tortura e badate qui c’è una contraddizione terribile alla quale io ho sempre pensato, che in qualche modo non ho risolto. Era un luogo nel quale si sono eliminate decine e decine di migliaia di persone ma in genere il campo di Mauthausen e la cava in particolare ancor più che la camera a gas, era un luogo in cui veniva tratto dalle SS un ritorno  economico perché le pietre che venivano tratte da questa cava furono quelle che servirono per edificare questo campo sulla collina e dargli quell’aspetto di fortezza medioevale sulla quale campeggiava il famoso motto “Arbeit macht frei” “il lavoro rende liberi” e poi per esportare e per inviare questo materiale. Questa pietra sezionata a Berlino per essere utilizzata in quelle costruzioni, in quei progetti architettonici che erano uno dei sogni di grandezza di Hitler: Hitler si occupò sempre molto di architettura e pensò sempre ad un’architettura che tramandasse il suo grande disegno che avrebbe dovuto avere durata millenaria nel tempo consegnarlo anche i grandi edifici e le grandi realizzazioni simboliche che dovevano configurare architettonicamente la stessa faccia del Terzo Reich.

Ad un certo punto del luglio del 1944 venni inviato in un campo dipendente a Großramming vi arrivai con un gruppo che era di circa duecento, trecento e tanti italiani – con me vi erano l’avvocato Elio Lanfranco, di cui ho parlato prima, vi erano il povero Mino Steiner di Milano, vi erano altri amici della deportazione – e venimmo trasferiti in questo campo di Großramming dove fummo adibiti alla costruzione di una centrale idroelettrica. Quindi lavoro all’aperto, lavoro molto duro sotto il sole per quel primo periodo; il campo era un campo relativamente piccolo, meno di 1.500 internati. Facile era la previsione del nostro destino se fossimo rimasti a lavorare in questo campo anch’esso governato secondo gli stessi sistemi che venivano attuati in tutti i campi di eliminazione. Poco cibo, un cibo assolutamente inadeguato a contrastare la fame e la fame acuta diventava fame endemica, cioè una fame non più saziabile perché derivante da un assoluto deperimento organico e non dalla mancanza di cibo per uno o più giorni o anche da più settimane ma proprio da un  decadimento dell’intero fisico; i prigionieri che via via diventavano larve,  diventavano esseri che molto spesso perdevano anche il dominio dei propri istinti e questo era uno degli scopi a cui tendeva il sistema concentrazionario e quindi anche dal punto di vista lavorativo rendevano anche molto poco.

Ecco la contraddizione. Da un alto si volevano realizzare grandi progetti come quello della cava di pietra, come quello della centrale idroelettrica, come quello di tanti altri lavori attraverso lo sfruttamento del lavoro di questa massa di schiavi. E dall’altro lato si aveva nei confronti di questi schiavi che eravamo noi un trattamento tale da non consentirci neanche di conservare quelle forze che avrebbero reso il nostro lavoro più redditivo, e trattati in un modo tale per cui il nostro destino era inevitabilmente quello della morte, cioè quello della malattia, della consunzione, della morte per deperimento, la morte per i mille accidenti che possono capitare in una situazione di questo genere quando la situazione dominante è quella del terrore, dovuto alle mille insidie della nostra vita. Un terrore che a poco a poco nel tempo si affievolisce e poi la fame e il terrore, la fame e il terrore.

Noi vivevamo tra l’assillo della  fame da un lato e le urla dei comandi che ci veniva gettati addosso in tedesco dall’altro lato ed i contatti che riuscivamo ad avere tra di noi, quel tanto di solidarietà che ci stringeva, che fu anche solidarietà molto intensa in alcuni momenti ma che non sempre era solidarietà, è inutile nasconderlo: le condizioni estreme nelle quali noi conservavamo la vita hanno fatto anche sì che nei campi molto spesso si verificarono anche delle situazioni non di solidarietà ma di contrasto, quando un pezzo di pane ed una gamella di zuppa potevano rappresentare un elemento di sopravvivenza. Rubare il pezzo di pane o impossessarsi della gamella diventava un qualche cosa che era direttamente connesso con la possibilità di sopravvivere.

Io non so se dire qualcosa della mia esperienza diretta, sono sopravvissuto perché a Großramming il campo è stato smantellato ed è stato smantellato per fortuna il primo di settembre del 1944; quindi tutto il comando, tutto il gruppo di prigionieri di quel campo ritornò a Mauthausen, perché nei piani economici tedeschi la costruzione di quella centrale fu ritenuto un lavoro non prioritario rispetto alle necessità dell’economia bellica.

Questa fu una fortuna per noi perché se così non fosse avvenuto, ai primi freddi sicuramente la massima parte degli italiani … io stesso sarei stato tra quelli perché molto malconcio, nonostante avessi allora ventidue anni e quindi una certa capacità di resistere, quando si è così giovani; la nostra fine sarebbe stata inevitabile. Intanto perché le nazionalità arrivate per ultime non avevano trovato il loro incasellamento e quindi in qualche modo erano le più esposte alla decimazione per così dire, e quindi saremmo sicuramente morti nella grandissima maggioranza.

Il campo fu smantellato ai primi di settembre, non era ancora arrivato l’inverno; rimpatriammo a Mauthausen ed io da allora feci tutto quello che potei, quel poco che mi era possibile per andare ancora una volta in transport perché mi resi conto che un grande campo di trenta, quarantamila internati, come era Mauthausen, c’erano maggiori possibilità di sopravvivenza.

Io vidi tutto a Mauthausen, subii tutto, tutto: le torture, i pestaggi, il lavoro, vidi nella parte finale della mia esperienza le fosse dei cadaveri, che venivano riempite quando i forni crematori non erano più adeguati a bruciare i morti, nel senso che le morti si succedevano con un ritmo eccessivo.

 Fui in qualche modo spettatore se non testimone diretto della rivolta del blocco 20, dove gli internati che ivi avevano un trattamento particolarmente offensivo e vessatorio, tentarono la rivolta e riuscirono a fuggire in seicento morendo al 99%, se ne salvarono 5 o 6, non di più. Vidi, subii tutto. Dovetti anche trasportare i cadaveri ma ebbi anche alcuni elementi di fortuna, come appunto può accadere in un grande campo.

Conosco bene lo spagnolo, per metà del mio sangue sono di origine sudamericana, mia madre era argentina ed ho avuto modo di conoscere degli spagnoli, soprattutto due fratelli, che mi hanno aiutato a salvarmi la vita. Nel senso che gli spagnoli erano una delle prime nazionalità che prima della guerra, o perlomeno all’inizio della guerra, non prima, furono concentrati a Mauthausen perché catturati nel cerchio di Dunquerque; “Perché?: una rapida spiegazione”.

Questi spagnoli erano reduci della guerra di Spagna, espatriati dalla Catalogna quando la Repubblica spagnola venne definitivamente sconfitta in Francia, dai francesi internati in campi di concentramento che si trovavano vicino alla costa atlantica. Quella parte della costa dove fu poi accerchiato l’esercito inglese, che si trovava presente nel territorio francese. Ecco perché rimasero, furono praticamente, caddero nelle mani dei tedeschi quando i tedeschi spinsero a mare gli inglesi e la vicenda di Dunquerque è nota.

Questi ex combattenti della guerra di Spagna, combattenti per la repubblica, per la libertà della Spagna, vennero offerti da Hitler a Franco e Franco non li volle. E allora Hitler li concentrò in vari campi ed in buonissima parte nel campo di Mauthausen.

Vi arrivarono e si dedicarono alla costruzione e all’ampliamento del campo, buona parte del campo fu costruita da loro. Subirono le loro perdite poi, via via che il campo si dilatò, nelle loro mani si trovarono tutti i servizi essenziali del campo: le lavanderie, le cucine, i servizi di barberia, quelli stessi che vennero a rasarci con i rasoi, a toglierci i peli dalla testa, dal pube, dalle ascelle, dappertutto, dal petto chi li aveva, erano spagnoli. Quindi i servizi del campo erano in mano loro e naturalmente questo possesso dei servizi consentiva loro di avere delle inevitabili posizioni di privilegio.

Devo dire la verità, tra loro c’era una fortissima solidarietà e gli spagnoli non si prestarono mai anche perché erano tutti combattenti della stessa guerra e quindi un grande spirito di fraternità ed anche di comunanza ideale li univa e quindi erano, molto forti. Nessuno di loro si prestò a quelle funzioni repressive e vessatorie che furono invece le funzioni attribuite ai kapò, che erano quelli che dominavano i blocchi, cioè le baracche, quelli che conducevano i gruppi al lavoro, che nella grandissima maggioranza erano dei triangoli verdi, cioè dei criminali comuni, criminali della peggiore specie che proprio per la loro capacità criminale governavano gli altri.

Ecco quando io ho parlato di Marte rispetto all’esperienza della terra, io non dico che in una situazione normale nel mondo in cui viviamo i migliori siano sempre al vertice ma perlomeno c’è una sorta di riconoscimento di ciò che dovrebbe essere il meglio al vertice, insomma, cioè si agisce sempre in nome di fini di carattere superiore o comunque la selezione dovrebbe, ed in molti casi lo è stato, una selezione positiva. Il mondo era completamente ribaltato cioè la selezione che consentiva di porre con assoluta potestà di dominio degli uomini a governare gli altri, ad ucciderli sempre naturalmente come emissari e longa manus delle SS, quindi su mandato delle SS, erano i peggiori.

Erano i criminali, erano coloro che avevano capacità di continuare a commettere crimini. Questa specie di ribaltamento di quello che dovrebbe essere l’ordine naturale delle cose è un qualcosa che bisogna vederlo, bisogna sperimentarlo per rendersi conto di cosa significhi. Il mondo alla rovescia per così dire.

Ecco perché la realtà dei campi non è facilmente comprensibile nella sua estrinsecazione e poi nella vita di ogni giorno. Questa è l’esperienza attraverso la quale sono passato. Ho avuto anche la fortuna di qualche italiano. Ho avuto un amico fin dal periodo di Imperia, un architetto, l’architetto Alberto Todros di Torino, quasi mio coetaneo, uno o due anni più di me, con il quale fummo deportati insieme; era un giovane molto aitante, molto simpatico, conosceva un po’ il tedesco, quando fu censito ed immatricolato gli si chiese cosa faceva e lui, non so esattamente cosa disse, ma insomma un’attività di carattere pratico ed allora venne destinato a dei lavori, a delle attività – perché tutti dovevano lavorare nel campo – che in qualche modo creava qualche situazione di maggiore possibilità di sopravvivenza.

Noi che eravamo studenti, io, per esempio, studente in legge, in giurisprudenza, ero fatalmente destinato come tanti altri giovani alla pala ed al piccone, quindi ai lavori di assoluta manovalanza, che erano quelli in cui si rischiava la propria esistenza.

Questo mio giovane amico ebbe la fortuna di entrare nelle grazie di un capo tedesco esclusivamente – di un capo di un comando importante – esclusivamente perché si era dimostrato capace, su sua richiesta, di tracciare determinate linee su di un quaderno dove questo capo, essendo a capo di un grande comando, il Baukommando, doveva scrivere le statistiche del lavoro giornaliero. Tramite questo amico Alberto, io ebbi tutta una serie di facilitazioni sia pure episodiche, sia pure momento per momento, che certamente mi aiutarono ad uscire vivo da questo inferno, anche se poi però la mia vita, proprio per il fatto di essere passato attraverso esperienze di ogni tipo fu molto condizionata dal caso, molto affidata alle circostanze casuali per le quali uno può vivere e morire proprio come getta i dadi su un tavolo verde.

D.: Senatore prima parlava di due fratelli spagnoli che l’hanno aiutata. In che modo?

R.: Dandomi qualche zuppa in più. In particolare in questo modo, e facendomi avere dei piatti di zuppa aggiuntivi rispetto a quella di rape del tutto acquosa e quindi assolutamente inconsistente, in cui si trovava qualche pezzo di carne in più. Essenzialmente in questo modo.

D.: Come si ricorda la liberazione di Mauthausen?

R.: Mauthausen venne liberata in due fasi successive. La liberazione ufficiale avvenne il 5 maggio del 1945, perché questa è la data in cui arrivarono gli americani in forze con le loro autoblinde, i loro carri armati al campo. Però le SS fin dal 2 maggio se ne erano andate ed avevano lasciato il campo nelle mani della polizia di Vienna. Quindi in un regime già meno vessatorio anche se la gente moriva ancor più di prima perché la denutrizione galoppava ed il campo, essendo diventato il punto dove erano affluiti dai campi circostanti o anche lontani, molti internati; erano arrivati ed anche grossi contingenti femminili, pullulava di gente in cerca di cibo.

Quindi la fame galoppava. I morti erano tanti ed aleggiava un’aria di decomposizione e di morte sopra questi campi. Noi ad un certo momento, dopo che le SS se ne andarono, riuscimmo a liberare il campo, a disattivare cioè il circuito elettrico, ad alta tensione nel filo spinato che circondava il campo e a impossessarci delle armi che erano all’armeria delle SS e poi anche in un’altra armeria, a distribuirle a coloro che erano in grado di cooperare con il comitato di liberazione del campo.

Perché lì c’era un comitato clandestino, che aveva funzionato anche nei periodi più bui, naturalmente estremamente segreto, che tuttavia era riuscito ad avere diciamo dei momenti organizzativi. Il fratello di Gian Carlo Pajetta, Giuliano Pajettta, faceva parte di questo comitato clandestino, quindi aveva una funzione, anche perché veniva riconosciuto a livello internazionale perchè nel campo c’erano – vi ho parlato degli spagnoli, ma c’erano anche molti superstiti, reduci, della guerra di Spagna e lui era uno di quelli.

Quindi il Comitato di Liberazione armò dei gruppi, delle squadre, alcune delle quali si posero in condizione di difendere il campo, perché c’era sempre il ritorno delle SS. I nazisti avevano il progetto di distruggere tutti i campi e questo progetto lo attuarono in molti casi, alcune volte li evacuarono, altre li distrussero.

Io credo che di molti campi si siano perse le tracce perché furono completamente distrutti. Naturalmente a Mauthausen non riuscì perché per uccidere decine e decine di migliaia di persone ci vuole tempo ed organizzazione e naturalmente mancavano il tempo e mancava l’organizzazione in questa fase convulsa del finale della guerra per fare un’operazione di queste dimensioni.

C’era in più anche da parte loro, finalmente, il bisogno di cercare di salvarsi e c’era anche e quindi si realizzò una situazione di questo tipo.

Feci parte di uno di questi gruppi ed il compito che mi venne assegnato, con il fucile a tracolla, o in mano o in braccio era quello di fare la guardia, anche di notte alle cucine, perché nel campo c’era ormai una torma di persone ridotte ad una vita puramente istintiva, quella condizione alla quale avrebbero voluto condurci i nazisti, proprio come uno dei loro elementi programmatici, il cui fine era quello di trovare cibo ad ogni costo.

Quindi se le cucine non fossero state presidiate sarebbero state invase e saccheggiate e questo avrebbe provocato ulteriori guai in una situazione nella quale il problema dell’alimentazione era diventato un problema drammatico. Quindi io feci armato la guardia alle cucine del campo di Mauthausen per impedirne il saccheggio.

Questo è il mio ricordo della liberazione del campo. Furono catturati alcuni dei capi nei dintorni da questi gruppi che si erano resi responsabili. Io ne vidi linciare sulla piazza alcuni. Io mi sono sempre rifiutato; nonostante tutto quello che ho subito avevo conservato tanta coscienza di me e senso di responsabilità per riuscire a comprendere nonostante tutte le sofferenze e tutta la fame che la via della ritorsione violenta era proprio quello che dovevamo cercare di evitare. Li vidi linciare, e quindi compresi le ragioni del linciaggio; era la naturale vendetta di chi aveva subito cose inenarrabili da parte di queste persone; molti riuscirono a farsi rendere prigionieri, non so bene quale sia stata la loro sorte. Quindi questo è il mio ricordo della liberazione del campo; so che subito dopo il comitato di liberazione del campo fu sottoposto anche a me; emanò un proclama a livello internazionale; perché vedete noi oggi parliamo tanto di Europa ma questi campi erano una riproduzione di unità europea perché c’erano tutte le nazionalità dell’Europa in cui il dominio nazista si era esteso; quindi in tutta Europa, direi fino al Caucaso o fino a Mosca e alla Norvegia; tutte queste nazionalità erano presenti nel campo. Direi che questa esperienza di unità europea nella sofferenza dell’annientamento e dell’eliminazione ha una grande (importanza).