Scala Teresa

Teresa Scala

Nata il 13.11.1919 a Verona

Intervista del: 06.07.2000 a Torino realizzata da
Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n. 151 – durata: 45′ circa

Arresto: agosto 1944

Carcerazione: Le Nuove – Torino, S. Vittore – Milano

Deportazione: Bolzano

Liberazione: 28-29 aprile 1945 a Bolzano

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Organizzazione materiali ed inserimento dati: Elisabetta Mascarello, Elena Pollastri

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sono Teresa Scala, comunemente chiamata Marisa Scala, da tutti, fin dalla prima età. Sono nata a Verona il 13 novembre 1919. Ho vissuto a Verona con la mia famiglia fino all’età di 15, 16 anni. Dopodiché lasciammo la città perché mio padre, dipendente della Cassa di Risparmio di Verona, dovette lasciare il lavoro perché non iscritto al partito fascista. Andammo in provincia, fra Padova e Vicenza, dove c’era un fratello di mio padre che era un grosso agricoltore. E lì vivemmo qualche anno coi miei fratelli, mia madre e mio padre.

Nel ’39 venni a Torino perché c’era una cugina di mia madre, che avevo conosciuto, vedova qui con due figlie. Venni a Torino per vedere Torino. Fui sua ospite per qualche giorno e invece mi fermai, quasi per sempre. Conosciute le figlie riuscii a trovare dei piccoli lavori perché la cugina era vedova, viveva di una piccola pensione con le figlie, per aiutarla in casa. Nel frattempo avevo cercato la famiglia Scala che sapevo essere a Torino e con cui non avevamo rapporti; mio padre non aveva rapporti non so per quale ragione. Rintracciai l’ingegner Giancarlo Scala, fratello di Luigi Scala che era in prigione da parecchi anni come appartenente e Giustizia e Libertà“, condannato dal Tribunale Speciale di Mussolini. Riallacciammo l’amicizia, la parentela in un certo senso e, con il fratello Remo, che spesso veniva a trovarmi a Torino ed era un giovane studente, fummo ospitati da Giancarlo in piazza Vittorio 13.

Non fui iniziata, diciamo così, alla vita politica, ero giovane, anche se mio padre per ragioni politiche aveva dovuto lasciare il lavoro, ma non ci aveva educato in quel modo. Mio padre era un uomo molto chiuso, molto silenzioso, aveva combattuto una sua guerra. Però un giorno avevo conosciuto un anarchico, un ciabattino anarchico in via della Rocca, mi pare, o in via fratelli Calandra a Torino; avevo portato un paio di scarpe a risuolare e l’avevo pregato di farlo in fretta perché a quei tempi, in tempo di guerra, non si aveva le quaranta paia che si hanno oggi.

E lui mi disse: “Ah, signorina si fermi, gliele faccio subito, gliele faccio”. E cominciammo a parlare. Mi disse che era un anarchico; e il termine di anarchico per me voleva dire rivoluzionario, assassino, quelli che ammazzavano di nascosto.

Vedevo quest’uomo mite, anziano, ciabattino, col suo piccolo desco e, non lo so, qualche cosa in me scattò. Cominciai a pregarlo di raccontarmi, di dirmi. Ricordo che mi disse una cosa: “Sono molto più importanti, avendogli detto di Luigi Scala, quelli che sono in carcere a soffrire che non i fuoriusciti, perché la voce dei carcerati è molto più potente del fuoriuscito”. Io non faccio commenti, non so cosa volesse dire, non capii e forse anche oggi non capisco bene. Comunque non parlai mai con Giancarlo di questo anarchico, forse qualche cosa mi tratteneva.

Nel frattempo attraverso Giancarlo conobbi persone di “Giustizia e Libertà”, fra cui Ada Gobetti, sua carissima amica, e altri. Così entrai un po’ in un circolo, ma sempre non con militanza politica o cultura politica; sempre, confesso, molto da ignorante, insomma. C’era in me la ribellione al fascismo ma era quella ribellione così, che una parte di italiani avevano. Io poi ero un po’ prepotente e quindi quello che era prepotente con me si scontrava. Comunque col tempo capii qualcosa di più.

Il mio impatto tremendo è stato nel dicembre ’42 quando, accompagnando Giancarlo a Castelfranco Emilia a trovare il fratello, glielo permettevano una volta all’anno, nella bassa di Castelfranco Emilia, tutta nebbia: questa fortezza, una fortezza mi pareva, e passando per la sorella di Luigi, siccome stesso cognome eccetera, le guardie mi fecero anche vedere Luigi, perché il fratello solo aveva il permesso, io non avevo il permesso.

Vidi un uomo lungo lungo, magro magro. Vidi gli occhi di Luigi, due occhi lucidi, splendidi che parlavano e lui chiese: “Chi è?”, rivolto a me, e allora il fratello gli spiegò chi ero. Io li lasciai subito perché sentivo che dovevano parlarsi loro due, il colloquio durò pochissimo. Uscii e quel ricordo mi rimane ancora oggi, ecco gli occhi di Luigi.

Passò del tempo e nel frattempo entrai più addentro in quello che era il movimento antifascista. Feci molte cose. Nel ’43 Luigi arrivò a casa in piazza Vittorio, inaspettato, liberato da Badoglio. Sentimmo suonare il campanello e vedemmo questa figura ieratica, così strana, e dice: “Sono a casa”.

Era Luigi Scala che tornava a casa, era in carcere dal ’36 ma era stato già in carcere nel ’31, per due anni o tre anni e poi liberato, riprocessato nel ’36 assieme con il gruppo famoso “Giustizia e Libertà”: Vittorio Foà, Franco Venturi, Mario Cugini e tutto il gruppo, e condannato a 20 anni o 30, qualcosa del genere.

La prima cosa che ci colpì fu la sua salute malmessa. Lo portammo a Cuneo dove viveva la madre. La madre viveva quasi sempre a Cuneo, in provincia di Cuneo, un paesino vicino, una frazione dove avevano una piccola bella proprietà terriera. Lo portammo lì e l’incontro fra madre e figlio, erano anni che non si vedevano, era dal ’36 che non si vedevano, fu una cosa commovente quanto mai. Per prima cosa le baciò la mano, ma non era un gesto borghese, era un gesto così, a cui era abituato da bambino. Poi la madre lo abbracciò e stettero così un quarto d’ora stretti.

Ricordo il primo pranzo a tavola, pranzammo assieme. Finito il pranzo venne servita la frutta e dico questo perché non sono ricordi borghesi, sono ricordi che toccano secondo me. Finita la frutta Luigi prese in mano una pesca e continuava a tenere la pesca in mano e poi sua madre disse: “Fallo”. Voleva tagliare la pesca nel vino come era abitudine in Piemonte, cosa che non si faceva a tavola, non si poteva fare.

Un uomo che aveva fatto anni di carcere chiedeva alla madre se poteva tagliare la pesca nel vino, ecco, chiuso. L’8 settembre dovevano portare via Luigi da Cuneo perché già la IV Armata dilagava nelle montagne.

A Cuneo gli Scala erano molto conosciuti, conosciutissimi a Torino ma a Cuneo in particolare Luigi Scala. Già a Torino avevano già avvisato le persone, Ada Gobetti e altri. Mi fermai qualche giorno ancora a Cuneo perché, nel frattempo, c’era questo dilagare pauroso della IV Armata, che scendeva dalle montagne e si riversava su Cuneo; Cuneo era già in mano ai tedeschi. Io con altri, disperatamente, cercavamo di convogliare i poveri disgraziati militari, vestiti da preti, vestiti da suore, vestiti in tutti i modi, verso non la stazione di Cuneo ma la stazione della Saluzzo-Cuneo, che nessuno conosceva, le piccole stazioni locali dove i tedeschi non c’erano, forse non le conoscevano neppure loro.

Io ho visto prendere dei giovani di vent’anni alla stazione di Cuneo così inermi, ecco in un modo tremendo, asserragliati sui camion. Dopo qualche giorno riuscimmo a portare con la Saluzzo-Cuneo Luigi a Torino. Abbiamo peccato di un’enorme ingenuità.

Era molto malato, malato di tubercolosi, è chiaro, e quindi abbiamo pensato che un uomo in quelle condizioni, inerme, non potesse dar fastidio a nessuno. Dovevamo spostarlo in Svizzera ma non poteva essere spostato attraverso le vie ufficiali, dovevamo spostarlo attraverso le montagne, non era in condizioni, doveva essere portato in barella. Le montagne erano già piene di neve e non si poteva andare. Siamo rimasti a Torino. Il 1 o il 2 novembre il fratello era a Saluzzo per ragioni di partigianato e sentimmo bussare dalla porta di servizio del numero 15 le “tre famose bussate più due” che era un po’ il segnale degli amici.

Luigi aprì la porta e ci trovammo davanti le SS italiane che dissero: “Luigi Scala”. Dice: “Sono io”. “E lei chi è?”, “Marisa Scala”. “Venite con noi”.

Ci portarono al commissariato di Via Verdi; a dire il vero il commissario finge di non sapere niente, e che doveva essere stato chiamato improvvisamente via, voleva lavarsene le mani, voleva fare qualcosa, ma di fronte alle SS!

D: Che anno era quello Marisa?

R: Il 1943, ai primi di novembre, non so bene il giorno. A mezzanotte sempre queste SS italiane ci portarono a piedi da Via Verdi a Torino all’Albergo Nazionale che era in Via Roma, Piazza S. Carlo, che era il comando delle SS tedesche. Addirittura dovemmo aspettare un quarto d’ora perché non ci volevano aprire.

Finalmente ci consegnarono alle SS tedesche, andammo nella solita camera con la faccia appoggiata al muro e aspettammo il mattino. Al mattino venne un maresciallo austriaco, Schumann. L’ho davanti agli occhi perfettamente, un uomo bonario sui quaranta anni, ci portò in ufficio per interrogarci.

Io con la mia solita prepotenza dissi: “Ma cosa vuole? Guardi che è molto malato, è molto malato quindi non è un partigiano; sì, è uscito dal carcere perché è un antifascista ma è molto ammalato. Io poi ero a casa con lui perché gli facevo un po’ da infermiera, gli preparavo da mangiare”, le solite cose che si raccontano.

Poco dopo entrò Schmidt, il comandante delle SS, e io di nuovo, in italiano, parlavo in italiano a Schmidt, dissi: “Ma è molto malato, è il dottor Scala, in carcere fascista, è molto malato ai polmoni!” e Schmidt guardò Luigi e disse, battendosi con le mani la fronte, “No paura, partigian, paura teste”. Fui interrogata varie volte. Vidi Luigi una sola volta in attesa di un interrogatorio ma lo interrogarono, mi disse, due o tre volte; non avevano niente da chiedergli. Nel frattempo mi dissero che Luigi l’avevano mandato in un convalescenziario per militari e io ci credetti, in un certo senso.

Io rimasi in carcere per tutto il mese di dicembre. Perché? Perché speravano che qualcuno si facesse vivo, di prendere qualcuno. Ripeto, quello che mi rovinava era il cognome Scala, che era abbinato a tante cose. Poco prima di Natale mi liberarono e mi dissero chiaro e tondo che dovevo abitare in Piazza Vittorio 13, non muovermi di lì, andare tutte le mattine dalle SS in Piazza S. Carlo perché speravano che sarebbe arrivato Giancarlo, che sarebbe arrivato qualcuno e di poterli prendere. E io vissi lì per parecchi giorni.

Era un alloggio enorme, con due entrate, dal 13 e dal 15; le stanze di allora, i vecchi palazzi di Torino, cinque metri di altezza, freddo da morire, eccetera. Dopo pochi giorni, intanto incontravo Giancarlo al Cottolengo.

Il Cottolengo è stato per noi, per lo meno per me personalmente, un buon rifugio perché entrare al Cottolengo anche per i tedeschi non era una cosa facile; cioè entravano, ma il Cottolengo era una città nella città e quindi era molto difficile.

Lì avemmo molti colloqui. A un certo momento dissi che io saltavo il fosso, non ce la facevo più. E da quel momento, naturalmente, saltai il fosso; venni via di lì, ebbi documenti falsi e cominciai a fare la mia vita di partigiana, collegamenti fra l’uno, l’altro, eccetera. Cambiavamo spesso case, indirizzi.

Nel frattempo mio fratello era in montagna, nel Cuneese, e io avevo notizie, non le avevo. Con la battaglia di Pasqua lo persi di vista perché so che erano stati ammazzati quasi tutti e invece poi lo ritrovai. E nel frattempo mio fratello venne a Torino e cominciò anche lui il lavoro di coordinamento con noi. Ai primi di luglio, mentre rientravamo a casa – rientravo a casa a mezzogiorno in via Piffetti – ho visto mio fratello che mostrava la pistola a tre persone: erano gli agenti del commissariato vicino. Io arrivai vicino a casa, però entrai nel portone. Lui mi vede, mi ride e disse: “Beh, andiamo in commissariato, voi lì telefonate e vedrete che ho ragione io, che sono un agente regolare”. Io entrai in portineria e chiesi al portinaio, che non mi conosceva, abitavamo lì da otto giorni: “Ha una pistola? Ha una pistola? Ha una pistola?” e quello mi guardò come una pazza.

Vidi portare via Remo, non potevo fare niente, però il mio terrore era che Giancarlo rientrasse anche lui per mangiare, ed era il comandante militare GL della piazza di Torino, quindi un pezzo grosso. Allora salii in casa e cercai di arraffare quanto più possibile perché pensavo che poi sarebbero ritornati. Nel frattempo arrivò Giancarlo Scala e io dissi: “Dobbiamo scappare, dobbiamo scappare; come? Usciamo dalla porta”. Abitavamo al quarto piano mi pare, abbiamo visto gli agenti che salivano da sopra, erano in sette o otto addirittura, che salivano la scala. Noi, dal quarto salimmo al quinto piano, suonando a tutti i campanelli, nessun rispondeva; in tempo di guerra erano tutti sfollati. Mentre gli agenti arrivavano alla nostra porta e cominciavano a suonare e battere, uno tira fuori la pistola. Noi intravedevamo da sopra, Giancarlo vide una scala legata alla tromba delle scale; era la scala che portava nelle soffitte perché c’era una botola. Riuscimmo a slegare la scala, aprire la botola, salire su. Mentre Giancarlo saliva cominciarono a sparare perché si erano accorti del rumore. Siamo riusciti, nelle soffitte, trascinandoci, a passare da una via ad un’altra via, un altro palazzo, poi uscire fuori sui tetti e passare su un balcone.

Io, a dire la verità, ero attaccata, non mi volevo mollare; Giancarlo mi pestò le mani e caddi su questo balcone. Di lì entrammo in un alloggio anch’esso disabitato. Riuscimmo ad aprire, scappammo in Corso Tassoni con le sirene che suonavano. C’era l’Umpa (forse UPI), c’erano le guardie, c’erano tutti perché avevano capito che c’era un covo importante, non per me ma per Giancarlo.

Arrivata in Corso Tassoni io caddi lunga distesa per terra. Ero tutta graffiata, tutta sporca. In una piccola osteria, che ho cercato e che era sparita dopo qualche anno, entrai, c’erano degli operai che mangiavano qualche cosa. Mi presero in braccio, mi portarono dietro, mi diedero un bicchiere di grappa da bere, qualcosa, non mi ricordo più. Io urlavo come una pazza perché sapevo che Remo era stato preso.

Stetti tre giorni nascosta e poi ricominciai la mia vita. Mi dicevano che Remo era in buone mani, che lo stavano aiutando. Avevano trovato in casa, purtroppo, non il denaro che ci era stato paracadutato da distribuire alle bande ma le coordinate del lancio. Difatti Remo non lo disse ma so che passò al controspionaggio in Piazza Callina con i carabinieri, perché era intesa col nemico proprio. Chiuso.

Ad agosto, in un incontro in via fratelli Calandra con Pedro Ferreira, comandante GL della piazza di Aosta, fummo catturati alle 11 del mattino perché una spiata aveva denunciato il fatto. Difatti la casa, questo palazzo, era dalle cantine alle soffitte tutto quanto pieno di agenti. Le Brigate Nere presero Pedro Ferreira e me, e ci portarono in Via Asti, nella caserma di Via Asti, al Comando delle Brigate Nere. Stetti un mese lì con Pedro Ferreira. Poi suoi ragazzi catturarono una decina o venti tedeschi ad Aosta e scambiarono Pedro Ferreira con questi, fecero uno scambio.

Lui, mentre lo liberavano, mi urlava: “Marisa, ne prendo trenta per te!”

Ero in via Asti insieme con Aurelio Peccei, prigioniero di stato di Mussolini, il famoso Peccei della Fiat, ed altri politici.

Ad un certo momento venivo interrogata di notte all’una o alle due da, non ricordo il nome, una bestia nera proprio, lo chiamavano “il macellaio”, della questura di Torino.

Mi veniva a interrogare e mi diceva: “Ho visto tuo fratello piangere disperato perché dice che lo hai accusato, che lui non c’entra niente, poveretto!” Lui sapeva di mio fratello, voleva emozionarmi. Furono interrogatori tremendi, non per l’una o le due di notte in cui il cervello non è tanto limpido, quanto per quello che mi diceva di mio fratello. Poco dopo arrivarono le SS, che nel frattempo avevano saputo che ero stata presa, a prelevarmi e mi portarono in carcere. E lì ricominciò di nuovo l’interrogatorio con le SS.

Dal carcere fui mandata in una caserma di corso Stati Uniti dove ho visto un duecento o trecento persone che nella notte sarebbero partite con me per un convoglio per la Germania probabilmente, a lavorare in Germania. Eravamo nella caserma in un grande stanzone. Ad un certo momento pioveva fuori, io avevo un impermeabile e mi misi un foulard in testa, avevo delle sigarette in tasca dell’impermeabile, e uscii da una porta. Mi incamminai lungo la caserma per l’uscita, mi fermai davanti alla sentinella tedesca SS, mi accesi la sigaretta e la salutai, e uscii fuori, corso Unione Sovietica. In quel momento passava il tram numero 8, era un tram che veniva dalla Fiat, senza porte, un tram degli operai quasi. Corsi davanti al tram che fece una frenata paurosa, salii sul tram e dissi: “Corra, corra, sono scappata, se mi prendono mi ammazzano.” Nessuno parlò, era pieno e nessuno aprì bocca; il tranviere fece due fermate e mezza e fermò il tram fra una fermata e l’altra, fermò. Io saltai giù, attraversai il cavalcavia di via Sacchi e corsi, corsi, corsi fino in piazza San Carlo e mi rifugiai nella farmacia di via Giolitti; sapevo che era uno nostro di GL il proprietario.

Di lì mi portarono al secondo piano dove c’era Gina Lupo, una nostra, una signora anziana che aveva già tenuto alcuni inglesi nascosti. Stetti tre giorni in casa di questa Gina in attesa che mi portassero in qualche posto. Al mattino del terzo giorno, alle 5 del mattino, bussarono alla porta e dissero: “Dateci Marisa Scala”: una seconda spiata.

Queste cose vanno dette perché, purtroppo, sono successi tanti fatti gravi in seguito a elementi che si erano intrufolati. Fui portata in Via Asti di nuovo, tre giorni.

Le SS mi ripresero, mi portarono di nuovo in carcere, alle Nuove. E Schumann mi disse: “Stavolta, mia bella signorina, Lei non scapperà più”. Nel convoglio, mi pare non ricordo più bene, fosse ottobre, fui ammanettata, caricata su un pullman insieme con altri.

Eravamo scortati da Brigate Nere, non SS. Arrivammo a Milano. A Casale ci fermammo. Io dovevo andare alla toilette. Non mi tolsero le manette e un ragazzo di 16 anni mi portò alla toilette, mi tirò giù le mutande e io feci la pipì. Poi me le tirò su.

Arrivammo a Milano e ci portarono nel carcere di S. Vittore fino al pomeriggio; poi ci intrupparono assieme con Vasari, Magini ed altri e partimmo per Bolzano, sempre ammanettata. Viaggiammo tutta la notte, l’indomani mattina arrivammo a Bolzano. Arrivata a Bolzano ricordo Muller o l’altro, non so: mi videro, mi guardarono con occhi un po’ particolari. Questa donna ammanettata! C’erano tanti uomini, donne non ce n’erano, eravamo soltanto in due.

Mi misero da una parte, mi misero. Poi tolsero le manette, mi misero nel blocco delle donne, e lì rimasi fino al gennaio del ’44, nel blocco. Non potevo uscire, andare a lavorare, la mia speranza era di unirmi a dei gruppi perché avevo anche la speranza di scappare.

D: Che anno era questo?

R: ’44, ’45; a cavallo del ’44 e del ’45. Natale ’44 lo feci in blocco.

In seguito ad una partenza, mi pare, di quel gruppo di Milano, di Vasari e altri, io fui convocata al comando insieme con la Margherita Montanelli, la moglie del giornalista, e accusata di aver passato aiuti, siccome il nostro blocco era vicino, attraverso le inferriate. Stiamo tutto il giorno al comando, terrorizzate tutte due perché non era una cosa piacevole; poi la Margherita la rimandarono nel blocco e io fui portata in cella. Non voglio parlare della mia deportazione in Bolzano che ho ripetuto, era una cosa dove si sopravviveva, direi benino, se noi pensiamo.

D: Ti ricordi il tuo numero di Bolzano?

R: Aspetta, ce l’ho qua: 6.678.

D: E il blocco in cui ti hanno messo, te lo ricordi?

R: Era il blocco delle donne. C’era un solo blocco e il capoblocco era una certa “Cicci” di Milano; non so per quale ragione fosse lì, come non seppi mai la ragione per cui tanta gente era in campo di concentramento. C’è stata la gente che si trovava nel posto sbagliato nel momento sbagliato, presa dai tedeschi. Comunque con me in blocco c’era la dottoressa Silvia Pons, socialista di Milano, la Schumacher di Trieste, l’altra dottoressa. Beh. Fui portata nelle celle e furono veramente quaranta giorni di terrore che passai: le celle erano dominio assoluto di due ucraini, due ucraini pervertiti, pervertiti non so se sessualmente, indubbiamente di cervello lo erano.

Non ho visto niente salvo la tortura di un giovane, che lo scambiavo quasi per mio fratello Remo perché gli assomigliava un pochettino. Però ho sentito per quaranta notti le urla e le imprecazioni, i lamenti di gente che veniva torturata, seviziata, stuprata da queste due bestie. Nel campo di Bolzano il vitto era quello che era, ma non si moriva di fame, si sopravviveva; se ci sono stati dei morti è perché sono stati ammazzati. Non morti di sfinimento come nei campi KZ, gente che aveva cercato di scappare, gente che aveva fatto cose che non doveva fare.

Mi risulta che dalle celle la mattina successiva, ogni tanto portavano fuori i morti nei sacchi. Di cosa erano morti? Ci sarà qualcuno che lo saprà. Io posso solo dire che gli urli erano tali che non li ho neanche sentiti nell’Albergo Nazionale dove sentivo lamenti quando interrogavano, a Torino. Dopo quaranta giorni fui rimessa nel blocco, tornai alla mia vita sedentaria lì, fino all’attesa della scarcerazione.

D: Quando eri rinchiusa a Bolzano non sei mai uscita a lavorare dal campo?

R: Mai uscita. Eh, era la mia speranza! Anche perché mesi di inerzia, seduta sul castello, seduta per terra, era già tremendo quello. E verso la fine, un mattino – noi avevamo un recinto dove potevamo uscire – chiusi in questo recinto metallico vidi un gruppetto al di fuori del nostro recinto, cinque o sei uomini vestiti da aviatori, col berretto, giubbotto. Era Edgardo Sogno, Catone, Mario Luino ed altri, che erano stati presi a Milano mentre tentavano di liberare Ferruccio Parri che era stato arrestato. Io ho riconosciuto Edgardo Sogno col quale avevo dei contatti a Torino, ero della Franchi, il servizio inglese di spionaggio. E lo chiamai: “Edgardo, Edgardo sono Marisa”. Lui mi guardò e fa: “Ma sei qua?” “Sì, sono qua” “Ti credevo in Germania” “No, sono qui” “A Torino come va?” “Lo sai cosa è successo?” “No” “Hanno ammazzato Duccio Galimberti”.

E’ stato l’altro grave colpo della mia vita, perché di Duccio Galimberti si dovrebbe parlare molto di più di quanto non si parli. Un uomo meraviglioso, un uomo pieno di vita, un uomo proprio trucidato dalle Brigate Nere di Cuneo per vendicarsi del nobile cuneese, figlio del senatore. Proprio la vendetta bassa, la vendetta animalesca quindi.

Fummo liberati. Rientrai assieme con un gruppo, col professor Meneghetti di Padova poveretto ed altri, col professor Zin, professore universitario di Torino, con Edgardo Sogno e con altri: rientrammo a Torino attraverso la Svizzera. Entrammo: Merano, la Svizzera, e poi ordinaria amministrazione.

Tengo a dire che rientrando a Torino ebbi notizie della mia famiglia, di mia madre che di quattro figli che aveva, uno era in guerra dal ’39 e non si sapeva niente. Mia sorella l’avevano presa, messa in carcere a Verona, agli Scalzi, ma era scappata durante un bombardamento e viveva un po’ nascosta; di mio fratello Remo non sapeva niente e di me pure. Io avevo un peso sullo stomaco, il peso di mio fratello, perché essendo più vecchia di cinque anni ed essendo stata edotta in certe cose più di lui, in fondo l’avevo portato in montagna.

L’avevo portato? Era cosciente di quello che faceva ma insomma ero la sorella più vecchia e avevo un certo qual rimorso. Allora mi buttai a una cosa. Intanto sapevo che a Bolzano c’era la Lancia, che era sfollata da Torino. Difatti per chi scappava dai campi di concentramento l’unica salvezza era di infilarsi alla Lancia dove gli operai non li mettevano nel forno, è chiaro, ma li nascondevano dietro i forni, non so. Andai alla Lancia e dissi: “Io devo andare a Bolzano, so che voi avete…”, “Noi abbiamo i camion che vanno.”

Partii la prima volta da Torino a giugno, su un camion della Lancia, seduta su dei cassoni dietro, Torino-Bolzano. Non cabina. Arrivai a Bolzano e seppi che cominciavano a rientrare i prigionieri della Germania, militari, politici, eccetera.

Ma non vidi dei prigionieri, ebbi notizie. Col primo camion di ritorno tornai a Torino e da quel momento cominciai ad andare alla Fiat da Aurelio Peccei e poi dalla Maria, la mia cara amica, che era la segretaria dell’ufficio stampa della Fiat.

Dissi ad Aurelio Peccei: “Voglio un’autoambulanza, me la devi dare, devo andare a Bolzano”. La Fiat mi prestò la prima autoambulanza con autista, e arrivammo a Bolzano. A Bolzano ci avviarono a delle scuole dove c’era gente per terra, sdraiata, malata, non malata, eccetera. Lì facemmo un primo carico.

Io dicevo: “Torino, Piemonte”, perché mi pareva che prendere un napoletano dovevo portarlo a Torino, speravo che altre regioni portassero i loro insomma. Ormai l’Italia era stata liberata. E infatti feci due viaggi. Il primo con l’autoambulanza della Fiat, il secondo con l’autoambulanza dell’Ordine di Malta per la quale fui accusata dall’Associazione Deportati di essere una monarchica. Cosa che, se lo fossi stata, non c’era niente da vergognarsi perché i due fratelli Valenzano, nipoti di Badoglio, sono stati presi, con le armi in pugno, dai tedeschi e portati a Mauthausen.

La terza volta, che fu ai primi di luglio, andai con un’altra autoambulanza della Fiat.

In una scuola vedevo la gente che si lamentava per terra nel semibuio.

Mentre passavo e dicevo: “Torino, Piemonte, Piemonte, Torino, Cuneo” mi sentii tirare la gonna. Guardai e vidi una persona, subito non capii se era un uomo o una donna perché vidi una cosa per terra nel semibuio. Poi mi sentii chiamare per nome: era Luigi. Di nuovo rividi gli occhi che avevo visto nel ’42 a Castelfranco Emilia.

Voi direte che sono monotona, non sono monotona: Luigi ha parlato con gli occhi e vissuto coi suoi occhi, non coi polmoni, non col suo sistema sanguigno.

Lo presi in braccio ma mi scivolò via, perché pur essendo ridotto pelle e ossa era molto alto. Lo caricammo sull’autoambulanza insieme ad altre cinque persone.

Sull’autoambulanza avevamo delle assi perché ogni tanto c’erano delle buche verso Trento per i bombardamenti e dovevamo mettere le assi per passare. Sul lago di Garda ci fermammo per lavare un po’ il sangue dall’autoambulanza perché eravamo un po’ tutti pieni di sangue.

Arriviamo a Torino, mi pare due giorni, un giorno e mezzo, è stato un viaggio tragico. A Torino ci aspettavano, sapevano già di Luigi, ad una clinica in collina dove fu ricoverato. La prima cosa che disse il professor Penati allora: “Caro amico Luigi sta morendo, non può vivere in queste condizioni”. Era cardiologo ma bastava fosse medico. In quella piccola stanza visse otto, nove giorni e passò tutta Torino, cioè la Torino GL, la Torino comunista. Lui aveva un sorriso e una parola per tutti, però la sua parola era: “Marisa ho visto Torino libera, Torino libera, il sogno della mia vita”. Aveva pagato molto caro il sogno della sua vita.

Andai a prendere la madre che non lo vedeva dal ’43, che lo credeva in un sanatorio in Svizzera e che su un giornale di GL aveva letto: “E’ tornato Luigi da Mauthausen, ma sta morendo”. La Fiat mi dette una macchina, andai a prenderla nella sua piccola proprietà, la portai a Torino. Si chiuse in questa stanza a Torino per un’ora, sola. Dopo un’ora, un’ora e mezza uscì e mi disse: “Mi vorrei riposare un po’, c’è un salotto?” Si riposò un’oretta e poi mi disse: “Mi puoi portare a casa adesso.”

Riprendemmo la macchina e ritornammo a Cuneo, aveva salutato suo figlio.

Luigi moriva dopo due, tre giorni. Tutta la notte lo abbiamo tenuto, io una mano, il fratello l’altra. Ci guardava, sorrideva. Gli demmo l’ossigeno e poi morì.

Vorrei che ricordaste non i funerali perché era ateo per cui è stato portato davanti alla Madre di Dio, ma l’orazione funebre del professor Monti, una cosa toccante; dice: “Ma cosa è servito liberare Roma se non c’è più, ……. non mi ricordo il nome. Cosa è servito liberare Torino se non c’è più Luigi Scala”. Il famoso, quello che ha un nome strano, quella moglie brutta. Amnesie. Comunque l’orazione di Monti è una cosa epica, ve la farò avere, è una cosa meravigliosa.

D: Marisa, la tua Liberazione del campo di Bolzano come te la ricordi?

R: Me la ricordo in modo strano perché noi al mattino aspettavamo che da fuori tirassero il catenaccio per aprire la porta per la conta, la famosa conta, ma quel mattino qualcuno, non so chi forse io forse un altro, appoggiandoci alla porta quasi cademmo perché la porta era aperta. Cominciammo a uscire nel campo.

Però siccome cinque giorni prima, o sei o sette, era arrivato un pullman della Croce Rossa Internazionale in campo e aveva raccolto tutti gli ebrei e li aveva portati via, allora noi politici abbiamo bestemmiato tutto quello che era possibile bestemmiare perché insomma “E noi chi siamo?” Aspettavamo anche noi il camion della Croce Rossa Internazionale.

Nel frattempo sentivamo “radio bugliolo”, noi la chiamavamo, sentivamo bombardamenti giorno e notte, i treni non passavano più.

Quel mattino siamo usciti, qualche donna è uscita, poi abbiamo visto degli uomini pure uscire. Ci guardavamo interrogandoci e guardavamo anche nelle torrette: nelle torrette non c’era più nessuno. Allora poi ci siamo fatti coraggio naturalmente, ci siamo incolonnati e siamo usciti da quel famoso cancello che esiste ancora adesso a Bolzano, con l’entrata.

D: Questo quando era?

R: Il 28 o 29 aprile, prima di maggio.

D: E una volta uscita dal campo cosa hai fatto?

R: Una volta uscita dal campo, siccome il campo allora era in campagna, c’erano delle piante da frutta. C’era della gente ed era il Comitato di Liberazione di Bolzano, esisteva e ci chiamavano: “Venite, venite, venite”. Noi eravamo titubanti perché insomma avevamo sempre paura di una mitragliatrice, di qualcosa.

Poi ci siamo incamminati. Nel frattempo Edgardo Sogno fa: “No, no, siamo liberi, siamo liberi”, ha parlato con uno e in un gruppetto di venticinque persone ci hanno portato a mangiare in un palazzo a Bolzano, non so dove, non so da chi, comunque era uno dei nostri insomma che ci dette da mangiare e ci disse che appunto si era procurato questo mezzo e che saremmo partiti per Merano.

Il tragico era che arrivati al confine fra Merano e la Svizzera, non so come si chiami, c’era ancora la postazione tedesca che non aveva avuto l’ordine di lasciare mentre a Bolzano non esisteva più nessuno. Lì ci fermarono, non volevano farci scappare. Per fortuna un socialista, mi pare il conte Soleri di Venezia, aveva conosciuto a suo tempo il capitano che comandava questa postazione, tedesco. Si avvicinò, avendolo riconosciuto, in tedesco gli disse: “Ma noi siamo stati liberati dal campo di concentramento di Bolzano, non esistono più i tedeschi né a Bolzano né a Merano, in nessun posto, voi cosa fate ancora qui?”. Questo ci guardò sconsolato e fece alzare le sbarre; di là c’erano gli svizzeri che ci chiamavano. Naturalmente gli svizzerotti, da bravi svizzerotti, siccome Edgardo Sogno si mise subito in contatto con il comando inglese a Berna, ci risparmiarono la quarantena. Però ci fecero salire su camion militari svizzeri, scortati, senza mai scendere, tutto il Parco Nazionale svizzero in braghette di tela, un freddo boia.

Rientrammo in Italia attraverso la Valtellina, dico bene? Non mi ricordo più.

Lì c’erano al confine altri che avevano saputo nel frattempo e che ci raccoglievano, ci portavano a Milano. Vi dico una cosa che ci tengo a dire.

Io andai nella casa del giornalista Angiolillo, amico di Montanelli, assieme con la moglie. Siamo stati invitati al pomeriggio alle 7 ad un ricevimento a Milano.

Dunque, voglio che capiate cosa voglio dire. Eravamo rientrati da un campo di concentramento, a Milano si davano già i ricevimenti, e noi siamo stati invitati al ricevimento.