Appia Anna

Anna Appia

Nata il 18 gennaio 1921 a San Giovanni al Natisone (UD)

Intervista del: 25.06.2000 A S. Giovanni al Natisone (UD) realizzata da
Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n. 87 – durata: 33′ circa

Arresto: 31.07.1944 a casa

Carcerazione: a Gorizia

Deportazione: Auschwitz, Leitmeritz

Liberazione: 9 maggio 1945

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Organizzazione materiali ed inserimento dati: Elisabetta Mascarello, Elena Pollastri

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

D: Come vi chiamate?

R: Appia Anna.

D: E siete nata, quando?

R: Il 18 gennaio 1921.

D: Dove, Anna?

R: A San Giovanni al Natisone.

D: Provincia?

R: Di Udine.

D: Anna, quando vi hanno arrestato?

R: Il 31 luglio del 1944.

D: Chi vi ha arrestato?

R: Le SS tedesche.

D: Perché?

R: Eh perché, per attività partigiana, per quelle cose lì.

D: Vi hanno arrestato dove, in casa?

R: In casa alle 4.00 del mattino sono venuti, hanno circondato tutto e hanno fatto il rastrellamento, ci hanno portati via tutti, tutta la famiglia, e ci hanno portato via tutto quello che avevamo: biancheria, coperte, tutto, ci hanno pulito la casa e mi hanno portato a Gorizia, prima a Cormons, poi a Gorizia, nelle carceri di Gorizia.

D: Tutta la vostra famiglia?

R: La mia famiglia dopo un po’ l’hanno mandata casa e la mia mamma l’hanno portata con me; per quaranta giorni è rimasta fino a che lei l’hanno mandata a casa e noi siamo partite.

D: Vi hanno fatto qualche interrogatorio?

R: Sì, come no, tutti gli interrogatori. Io avevo il fidanzato, è stato quello il motivo più grande: lui era venuto a casa l’8 settembre da militare e non sapeva con chi stare, doveva pur lavorare. Lui lavorava però era attivo con gli altri, non con i tedeschi, come devo dire? Con i partigiani. Ma lavorava però, era in attività con loro. E allora è stato tutto lì.

Loro volevano sapere da me qualcosa, ma io non ho mai detto niente perché non sapevo neanche niente, noi ci vedevamo poco: c’era il coprifuoco di notte, di giorno si lavorava e non si poteva incontrarsi mai. Come posso sapere io che cosa fa un uomo? Non ero mica sposata per sapere cosa faceva l’uomo. Allora io ho detto proprio quelle parole lì. Io le cose di un uomo non posso saperle. Volevano sapere di quello, dell’altro, di tutti, della gente. Che ne so? Io non ho mai detto niente perché uno non sapevo e anche se avessi saputo non sarei andata a dirlo a loro.

D: E dopo cosa è successo?

R: L’8 settembre ci hanno messo in trasporto. Siamo partite con la tradotta, con il treno merci. In quaranta di noi dentro in un vagone, senza bere, senza mangiare per sei, sette giorni, fino a che siamo arrivate a destinazione, senza sapere dove si andava, senza potere fare i bisogni corporali, perché era quello che era. Per sei, sette giorni siamo state ammucchiate in quaranta di noi sdraiate a terra in un vagone. E non si sapeva dove si andava. Siamo arrivate ad Auschwitz.

D:Siete entrate col treno?

R: Siamo entrate sulla ferrovia, col treno e poi siamo scese, ci hanno fatto camminare, portare tutta la roba che avevamo. Cammina, cammina, cammina, non si sapeva niente; era di sera, poi ci hanno fatto stare in piedi tutto il tempo e siamo arrivate in un capannone. Lì ci hanno preso tutto, ci hanno spogliate del tutto, proprio spogliate, nude e poi ci hanno fatto il numero sul braccio.

D: E il vostro numero, Anna, qual è?

R: 88.651. E poi ci hanno tagliato i capelli, tutte quelle cose lì. Dopo ci hanno fatto la doccia, ci hanno messe sotto la doccia fredda senza niente, senza asciugarci perché non avevamo più niente. Poi ci hanno dato uno straccio di vestito bagnato e l’abbiamo messo su. Mi ricordo queste cose che non dimentico mai. Siamo state tutta la notte in piedi, quella notte. Tutta la notte in piedi perché si vede che non avevano posto dove metterci: tutta la notte, senza mangiare, senza bere, dopo sei giorni. Poi ci hanno accompagnate nella baracca, avevamo un metro di posto per dormire in sette di noi. Un metro, non era di più, in sette, otto di noi. La mattina ci alzavamo che era notte, verso le 4.00 di mattina al buio e ci facevano stare in piedi fino a che veniva giorno. Cinque, sei ore in piedi nel freddo e col freddo che era; era paludoso il terreno. Era tutta argilla, fango, e stare in piedi tutte quelle ore fino a che passavano a fare l’appello… Dopo si andava a lavarsi la faccia, non c’era neanche l’acqua, tutto il giorno così. La sera uguale.

Siamo state lì dall’8 settembre, siamo arrivate verso il 12, 13 settembre, e siamo rimaste fino alla fine di ottobre.

D: Lì non lavoravate?

R: No, solo tutti i giorni ci spogliavano, ci visitavano, ci facevano fare i bagni con le docce per lavarci i vestiti, per disinfettarli, e poi ogni altro giorno ci facevano visite per vedere chi fosse sana, buona, brava, bella, tutte le belle presenze, eravamo giovani. Fino che ci hanno mandato in trasporto.

D: Ti ricordi il numero della tua baracca.?

R: Era il numero 13. Mi ricordo sì, come no.

D: Di Auschwitz?

R: Era tutto attaccato lì.

D: Quello grande, grande.

R: Sì. Poi quello che si vedeva, tutti i camini che fumavano. Quell’odore acre di grasso bruciato. Era terribile, non si può descrivere quello che abbiamo visto lì noi perché uno che non ha provato, non ha visto, non può capire neanche lontanamente: solo noi, chi ha visto e provato, sa. E’ come raccontare una storia.

D: E da mangiare cosa vi davano?

R: Un po’ di brodo di carote, di rape e una fetta di pane e basta.

D: Dopo è venuto il trasporto. Come vi hanno scelto, ti hanno chiamata?

R: Sì, ci sceglievano. Quelle che erano belle, sane e giovani le mandavano a lavorare e ci hanno scelte. Mi hanno scelta e siamo partite un’altra volta con la tradotta; anche lì siamo state due o tre giorni senza mangiare prima di arrivare a destinazione perché siamo venute in Germania poi a lavorare in Bassa Sassonia. Siamo arrivate in una città che si chiamava….e lì abbiamo lavorato tutto l’inverno in una fabbrica di armi. Ci facevano lavorare dodici ore al giorno, o di giorno o di notte, perché c’era turno continuo, la macchina non si fermava mai, dodici ore di giorno e dodici di notte, una settimana per sorte. Siamo state lì fino a che sono venuti i bombardamenti che hanno distrutto tutto. Una notte hanno distrutto la fabbrica; era una grande cosa perché quella notte lì mancava la luce, c’era stato il bombardamento di mattina e noi eravamo lì a dormire. La sera mancava la luce. Siamo andate a lavorare ma non ci hanno fatto lavorare, ci hanno fatto tornare indietro perché non c’era la luce. Quella notte lì è andata giù la fabbrica perché hanno bombardato, hanno bombardato tutta la notte. É andata già tutta la città quella notte.

Dove dormivamo noi siamo rimaste tutte salve e dopo era tutto rotto, non c’era acqua, non c’era da mangiare, non potevano fare, ci mandavano a pulire le macerie nelle case, nelle fabbriche dove c’era bisogno. Siamo state lì a fare quel lavoro fino al 13 aprile.

D: Anna, quando eravate in questo campo ti hanno dato un nuovo numero?

R: Numero di che cosa?

D: Numero di immatricolazione; o avevi sempre quello?

R: Sempre quello. Eravamo sempre sotto la protezione di Auschwitz noi, era sempre quel comando anche se eravamo nella fabbrica.

D: Il campo era vicino alla fabbrica o era fuori dalla fabbrica?

R: Era fuori; non era un campo, era una grande fabbrica anche quella dove eravamo a dormire. Sotto era fabbrica e sopra dormivamo noi. La fabbrica dove lavoravamo io e lei era fuori nella città. Allora ci trasportavano a piedi, andavamo in fila, ci portavano e ci tornavano a portare qua perché erano le donne militari che facevano…

D: Quindi vedevate i civili?

R: No, perché si andava via che era notte, si tornava che era notte e poi come si faceva a vedere i civili, anche se li si vedeva? Avevamo le guardie, non si poteva mica. Andavamo in fila noi.

D: Eravate solo donne?

R: Sì.

D: Non c’erano uomini?

R: Dove, a lavorare? C’erano i maestri solo, i capi.

D: Erano militari i capi?

R: No, erano vecchi, si vede che erano della fabbrica, i capifabbrica e noi si lavorava, loro ci insegnavano. Sa come fanno i capi.

D: Lì cosa costruivate?

R: Armi. Ognuno aveva il suo lavoro. Io ero su una macchina in piedi alta così, ero abbastanza grande, stavo in piedi tutto il giorno.

D: E cosa facevi Anna?

R: Avevo un ferro che era un otturatore di moschetti, facevo i buchi coi trapani, sulla macchina lavoravo.

D: E lì sei rimasta fino a quando?

R: Fino a che hanno bombardato la fabbrica: era il 5 marzo e poi ci hanno fatto lavorare ancora, perché ci mandavano a pulire macerie. Si vede che non sapevano dove mandarci. Dopo il 13 aprile ci hanno trasferite a piedi. Siamo andate in un campo che si chiamava Leitmeritz e siamo state una settimana. Lì non abbiamo né lavorato né niente.

Poi ancora a piedi siamo arrivate in Cecoslovacchia; c’era una polveriera, non so come si chiamasse quel posto, non saprei dire; abbiamo lavorato quindici giorni fino alla fine, si facevano le bombe per i carri armati col tritolo. Riempivamo i cosi di tritolo e poi si metteva il detonatore.

D: E la fabbrica era sempre vicino al campo o era più distante?

R: Era tutto vicino lì. Lì siamo stati fino alla fine.

D: E anche lì non vi hanno cambiato il numero.

R: No. Perché il numero lo hanno fatto solo ad Auschwitz.

D: E basta?

R: Ci chiamavano sempre con quel numero perché eravamo un numero, non un nome.

D: E ti ricordi il tuo numero in tedesco?

R: No, me lo ricordo in polacco ma non in tedesco.

D: E in polacco com’era?

R: Perché erano le polacche che al blocco comandavano!

D: E a chi non capiva cosa succedeva?

R: Ormai si capiva, si doveva capire, sennò era meglio tacere.

D: Hai mai ricevuto punizioni tu?

R: Qualche schiaffo ogni tanto ma non grandi cose, perché ho sempre lavorato.

D: Al Revier sei mai andata?

R: Cos’era?

D: L’infermeria.

R: Sì, perché avevo male ad un orecchio. Avevo un ascesso, mi era venuto come un grande raffreddore, mi era venuto l’ascesso all’orecchio; c’era una dottoressa polacca e mi ha curato. Mi ha pulito, avevo paura ad andare. Non avevo voglia di andare. C’era una slovena che mi ha detto: “Andiamo, andiamo che io so parlare, vieni che non ti fanno niente.” Ma sai com’è. Allora sono andata, mi ha curata. Quello sì.

D: La Liberazione come te la ricordi?

R: La Liberazione? Fino all’8 maggio abbiamo lavorato. Una sera abbiamo caricato un grande camion di quelle bombe poi siamo andate a dormire e abbiamo visto la luce fuori nel campo, era illuminato. Abbiamo detto: chissà che cos’è? Perché non era mai accesa la luce e si vede che loro intanto erano scappati e noi la mattina ci siamo trovate sole: era il momento in cui arrivavano i russi. E’ venuta una polacca e ha detto: “Finita la guerra!”.

Allora noi eravamo contente, felici. Senza mangiare, non importava. Siamo state tutte riunite insieme e abbiamo detto: “Cosa dobbiamo fare?” Aspettare i russi non si poteva perché non si sapeva quando arrivavano e poi eravamo solo ragazze. Allora abbiamo detto: “Mettiamoci a camminare, andiamo avanti e troveremo qualcosa”. Non si sapeva dove andare, non si sapeva parlare e ci siamo riunite tutte le italiane e ci siamo messe a camminare sotto il fronte, perché i tedeschi si ritiravano e i russi stavano arrivando.

Gli aeroplani mitragliavano le truppe che si ritiravano e noi si camminava sull’orlo della strada, sul margine della strada, l’una dietro l’altra, in fila.

Pensare che mitragliavano e noi si andava nel fosso per ripararsi! Però nessuna si è ferita. Potevano ucciderci tutte per strada i tedeschi che erano tutti armati coi fucili, invece nessuno ci ha fatto niente. Abbiamo camminato tutto il giorno, era il 9 maggio, il giorno che è finita la guerra. Loro si ritiravano tutto il giorno e noi sempre a camminare. Via, avanti fino a che è venuta sera, senza bere e senza mangiare. Però eravamo libere almeno di camminare. Quando è venuta sera siamo arrivate in un paese e lì sono arrivati i russi, i primi carri armati russi e noi tutte sulla strada che si alzava le braccia. Si vede che loro hanno visto chi eravamo perché avevamo lo Straf dietro la schiena: hanno cominciato a buttarci giù pane, roba da mangiare. Lei non può capire quel momento lì cos’era. Nessuno lo può capire. Uno piangeva, uno pregava, uno cantava. Non si sapeva cosa fare. Vedere roba da mangiare, affamate! ci siamo inginocchiate e non sapevamo cosa dire.

Abbiamo messo giù una coperta, abbiamo raccolto tutta la roba e abbiamo cominciato a mangiare e via, e così è finita la giornata.

D: Poi cosa avete fatto?

R: Poi si andava a dormire dove si poteva: in una stalla, in una stanza, in una casa, dove si poteva. Siamo state lì due giorni e dopo abbiamo trovato uomini italiani che tornavano come noi, soldati militari. Abbiamo cominciato a parlare e loro hanno detto: “Se volete ci facciamo compagnia, andiamo avanti da qualche parte”. Non si sapeva, eravamo in Cecoslovacchia. Allora hanno detto i ragazzi: “Andiamo avanti perché è meglio che andiamo avanti per non stare coi russi”, perché avevamo paura che ci trattenessero anche loro. Non si sapeva come comportarsi. Allora noi abbiamo detto: “Sì, almeno ci sono anche uomini che ci guidano”. Eravamo sole, senza guida e senza niente.

Siamo andati avanti camminando e siamo arrivati a Praga e siamo stati a dormire nella Casa d’Italia, in una grande sala tutti insieme là. Dopo abbiamo cominciato un’altra volta a camminare, ad andare avanti, fino che siamo arrivati in Austria, fino a Linz. Abbiamo camminato per quindici giorni così. Di sera si trovava qualche fienile oppure anche nei prati si dormiva, senza niente. Fino che siamo arrivati a Linz e a Linz c’erano gli americani. Poi ci hanno radunati tutti in un altro campo che era libero e ci hanno tenuti lì un mese in attesa di rimpatrio.

In giugno siamo partiti e siamo arrivati a Bolzano. Da Bolzano sono venuti da Udine a prenderci con una corriera che veniva ogni giorno a prendere i prigionieri. Allora ci hanno portati giù a Udine e dopo sono venuta a casa, il 25 giugno sono arrivata a casa.

D: Come oggi.

R: Come oggi, di mattina.

D: 55 anni fa.

R: 55 anni fa, sì, sono tanti, no?

D: Come hai trovato la tua casa?

R: Ho trovato la casa tutta rotta, senza niente perché c’era stata la guerra anche lì. C’era un ponte vicino a casa mia, avevano buttato giù il ponte, bombardato, era rotto. E poi ci avevano portato via tutto. Abbiamo dovuto cominciare a lavorare e tornare ad aiutarci come si poteva, ma nessuno mi ha aiutato però. E’ la prima volta che qualcuno si interessa a me dopo cinquantacinque anni. Mai nessuno si è interessato a me, mai.

D: Anna, a Bolzano ti ricordi dove ti hanno portato?

R: Era un bel posto, eravamo in tanti lì, non so cosa fosse, qualche scuola, qualche posto. Siamo stati un giorno.

D: Cos’era un ospedale, una caserma?

R: Deve essere stata una cosa di quelle perché c’era tanta gente.

D: Ti hanno rilasciato un certificato a Bolzano?

R: No.

D: Vi hanno dato da mangiare?

R: Sì, da mangiare sì. Arrivavano lì, si vede che era un posto apposta per ricevere la gente.

D: Anna, ritorniamo ad Auschwitz un attimo. Nel periodo in cui sei rimasta ad Auschwitz non hai mai lavorato nel campo?

R: No, non abbiamo lavorato là.

D: Potevi scrivere?

R: No.

D: C’era qualcuno che riceveva dei pacchi?

R: Che abbia visto io no. Da dove? Chi sapeva dov’eravamo? Neanche parlarne. Pacchi? No. Può chiedere quello che vuole, io Le dico.

D: Non hai mai visto neanche persone della Croce Rossa?

R: No.

D: Nemmeno negli altri campi?

R: No, io no.

D: Quando eri ad Auschwitz o negli altri campi hai visto per caso se c’erano anche delle ragazzine?

R: C’erano anche bambini ad Auschwitz, ho visto bambini che giocavano e anche bambine piccole, ragazzine, di tutte le qualità, sì. Abbiamo visto anche scendere dal treno quei poveri vecchi di ebrei, tanta gente che scendeva dai treni.

D: Nel campo della polveriera, come si chiamava?

R: Era un altro posto che non saprei cosa fosse, non abbiamo saputo che cos’era.

D: C’erano anche degli uomini?

R: C’era qualche uomo, devono essere stati militari mi pare, ma che abbia conosciuto io, no, io non ho avuto a che fare.

D: E quanto tempo sei rimasta in quella polveriera?

R: Gli ultimi quindici giorni.

D: Anna, tu non sei più ritornata a ….?

R: No, non voglio neanche andarci. E’ abbastanza una volta, poi guai, non potrei tornare a vedere quei posti. Non mi sento.

D: Ti ricordi altri episodi di quando eri ad Auschwitz o in altri campi che ci siamo dimenticati adesso?

R: Cosa vuole, episodi!!

D: Per esempio, quando parlavi degli abiti che ti hanno dato, vi hanno dato della biancheria?

R: No, che biancheria? Un abito, uno straccio di abito e basta, con gli zoccoli di legno. Io avevo i piedi piccoli, erano così, li trascinavo. Con quel fango non si poteva camminare. Che vuole?

D: Delle tue compagne che sono partite con te in trasporto quante sono ritornate?

R: Siamo tornate tutte quelle che conoscevo. Però una è morta a casa. Noi siamo tornate.

D: Ti ricordi qualche nome?

R: I nomi. Una si chiamava Bruna, povera che è morta. Ines che è viva è a Cividale, Elvia e io. Poi ce n’era un’altra che si chiamava Antonietta, è morta anche quella e poi ce n’erano di Gorizia, di Trieste, ce n’erano tante, siamo tornate in tante di quelle che conoscevo io. Quelle che eravamo a lavorare siamo tornate. Però non so perché si sono anche ammalate per la strada. Quelle non so se sono tornate o no. Come ad Elvia, le è venuto male quando eravamo a Praga e hanno dovuto portarla all’ospedale, lei è tornata dopo, in settembre. E’ guarita ed è tornata dopo di me, a settembre ottobre.