Alessandro Canestrari
Nato nel 1915 a Udine
Intervista del: 26.05.2000 a Verona realizzata da
Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari
TDL: n. 6 – durata: 41′
Arresto: 20 dicembre 1944 a Tregnago (VR)
Carcerazione: a Verona, nel Carcere fascista allestito nelle Scuole Sanmicheli
Deportazione: Bolzano
Liberazione: 1 maggio 1945 a Bolzano
Autore della fotografia: Giuseppe Paleari
Nota sulla trascrizione della testimonianza:
L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.
Mi chiamo Alessandro Canestrari, sono nato a Marano Lagunare, provincia di Udine, il 10 agosto 1915.
D: Quando sei stato arrestato e perché?
R: Mi hanno arrestato il 20 dicembre del 1944 perché ero il comandante del battaglione “Tregnago”, che io stesso fondai. Avevano il sospetto che io fossi l’artefice dell’atto di sabotaggio nei confronti del municipio di Tregnago, in quanto con un gruppo di altri partigiani lo avevamo bruciato per evitare il bombardamento aereo sullo stabilimento Italcementi. Il motivo di questo atto di sabotaggio, che mi fu richiesto dalla RYE, di cui facevo parte, consisteva nel fatto che nei pressi c’era un gruppo di una grossa divisione tedesca: sopra Finetti stavano facendo delle fortificazioni per arrestare l’avanzata degli alleati. Allora gli inglesi chiesero, tramite la RYE, di bombardare lo stabilimento dell’Italcementi di Tregnago.
Io convocai i pochi partigiani – erano pochissimi durante la lotta, diventarono tanti al 25 aprile del 1945 …
Pur essendo giovani di età, ci opponemmo al bombardamento dello stabilimento perché gli operai sarebbero rimasti senza lavoro, ed erano 225. Inoltre il bombardamento avrebbe provocato delle vittime civili. Siccome la RYE esigeva un atto di sabotaggio a motivo della presenza dei tedeschi nel paese, approfittai della situazione e dissi: “Bruciamo l’anagrafe con i documenti ed accontentiamo il comando della RYE!” Una notte, di cui non ricordo più la data, con le corde siamo saliti nella sala consiliare; io avevo in mano una latta di benzina, la buttai nell’ufficio anagrafe, naturalmente il fuoco si propagò, per fortuna arrivarono i pompieri e l’incendio fu domato: però tutti i documenti vennero bruciati.
Allora le Brigate Nere, ma soprattutto l’UPI, l’Ufficio Politico Investigativo, la cui sede era presso l’ex caserma del Teatro Romano dove pure fui prigioniero, ebbero sentore che il comandante dei partigiani fossi io. Naturalmente fui avvisato; approfittai di un fratello missionario comboniano che per un paio di giorni mi nascose nella casa madre di Verona dei Padri Comboniani. Sennonché quando vennero a casa, le Brigate Nere, non trovandomi, misero in prigione mia sorella Costanza, che era staffetta partigiana. Mia sorella aveva una gamba rigida a causa di un’operazione subita a 4 anni; quando seppi che mia sorella era stata arrestata al mio posto non vi dico il mio stato d’animo! Avevo rimorso; mio padre, pur essendo antifascista, mi accusava, della faccenda della sorella. Vagai un po’, nascosto a Verona, poi una certa sera, preso dalla nostalgia di mia moglie e del nostro bambino, tornai a casa.
La seconda notte, alle due del mattino, buttarono giù la porta e mi arrestarono. Mia madre uscì, aveva le trecce, i capelli lunghi, uscì in camicia da notte, gridando: “Siete voi la rovina dell’Italia!”; la risposta di un certo Pollastri fu: “Queste parole le pagherà suo figlio”; infatti mi diedero una bella dose di bastonature.
Mi portarono alla sede delle Brigate Nere nella scuola Sanmicheli di Verona, ed il giorno dopo nell’altra sede del Giardino Giusti, dove c’era quel famoso criminale, il capitano Gradenigo delle Brigate Nere. Ero al Giardino Giusti il giorno 23 dicembre del 1944; Gradenigo mi disse: “Questo è il più bel regalo di Natale” e mi diede una dose di bastonate. Non sentii alcun dolore, pur avendo la schiena striata di nero e di rosso e sanguinante. Ne chiesi il motivo ad un medico dopo la liberazione: mi disse che era la tensione nervosa. Volevano sapere i nomi dei miei partigiani; sapevo che bastava un nome perché tutti venissero arrestati. Allora accusai i partigiani morti della “Pasubio” dell’incendio del municipio. Ringraziando Dio, avevo una lingua discreta, e mi aiutò la divina provvidenza, tanto è vero che sono decorato di medaglia di bronzo al valor militare per non aver rivelato niente di importante alle Brigate Nere.
Da lì mi portarono alla sede dell’UPI, dove subii un altro interrogatorio. Lì seppi che avevano ucciso il colonnello Giovanni Fincato, poi medaglia d’oro al valor militare. Dall’UPI finii al Forte San Leonardo, dove rimasi per 15 giorni circa. Dal Forte San Leonardo mi richiesero le SS e finii al palazzo dell’INA. L’interrogatorio delle SS fu pesante; avvenne mi pare al quarto piano. L’interprete tedesca, trovandomi con la lingua sciolta, mi chiese un sacco di cose; dissi di essere stato ufficiale di collegamento col maresciallo Rommel in Africa. In parte era vero ed in parte non era vero, perché allora ero solo sergente maggiore; la mia divisione, la “Trento”, era in contatto con la divisione tedesca; vedevamo spesso il maresciallo Rommel che portava sempre i guanti grigi anche in Africa, rispettato da noi perché era un grosso generale. Dissi che mentre il Re tradiva e scappava, dimenticando che centinaia di migliaia di soldati erano morti al grido di “Avanti Savoia!”, io facevo il partigiano soprattutto perché quando fui promosso ufficiale in Grecia davanti alla bandiera giurai fedeltà alla Casa Savoia. Questo fu il motivo per cui io, ancora il 9 settembre del 1943, andai alla ricerca di armi e cominciai ad organizzare Tregnago, Illasi, Selva di Progno, Badia Calavena, Calmiere, cioè la mia zona. Poi diventai il presidente del CLN mandamentale.
L’interrogatorio durò sette ore; inavvertitamente, parlando misi le mani sulla scrivania, e il tenente tedesco mi diede un colpo con la stecca e mi disse: “Educationen, educationen!”
Morale della favola, mi condannarono a morte. Immaginarsi, avevo le mascelle che battevano da sole! Ero giovane, avevo una moglie di 20 anni con un bambino di otto mesi. Andai in cella, eravamo 16 / 17 persone; c’era un frate, padre Corrado Toffano, morto nel 1996 in odore di santità, sorrideva sempre. Ricordo un episodio che lo riguarda: un mattino, quando ero in campo di concentramento, le SS furono con noi particolarmente dure. Dissi a padre Corrado: “Padre Corrado, c’è un salmo nel breviario di cui non ricordo il numero in cui si maledice il padre ed il padre del padre”. “Date le maledizion alle SS! – rispose padre Corrado, che parlava sempre dialetto – un prete benedice sempre, non maledice mai”; mi colpì, lo ricordo con immenso affetto.
D: Che cos’era la RYE?
R: Informazione militare, comandata da militari, formata quasi tutta da militari; il comandante a Verona era il dottor Carlo Perucci, allora capitano. Si fece paracadutare sulle linee dei partigiani. Alla Liberazione lo accusarono di aver abbandonato i suoi aderenti, di aver fatto il professore. Alcuni anche lo accusavano, ma questo io non lo so, del fatto che non arrivavano mai i lanci ai partigiani. La RYE però, più che atti di sabotaggio, era incaricata di fare spionaggio. Quindi io parecchie volte ho dato al dottor Bonamini, che faceva parte della RYE, elenchi di armi che i tedeschi avevano in Tregnago, in particolare quel tipo di mitragliatore che chiamavano “la lingua di Hitler”.
Poi nel CLN fui istruito dal dottor Gianfranco De Bosio, che rappresentava il partito della Democrazia Cristiana. Andato nel campo di concentramento, ebbi la ventura e la gioia di conoscere il professor Perotti che sapeva parlare di politica; noi non sapevamo niente. Ci parlò per la prima volta di marxismo, alla sera quando ci chiudevano nei blocchi. Girava il libro “Il Capitale” di Carlo Marx, che io lessi proprio in campo di concentramento. Ricordo che quando mi fermai sulle parole secondo cui la religione era l’oppio dei popoli, siccome io provenivo dall’Azione Cattolica, dissi a Perotti, che il comunismo non faceva per me.
Proprio alla fine, verso i primi di aprile (1945), si formò il CLN del campo. Siccome il partito della DC era già ricoperto dal professor Baroncilli, ma era libero il posto del Partito d’Azione, io immediatamente volli rappresentarlo.
D: Ritornando ancora alla RYE, chi la sosteneva? chi dava gli ordini?
R: Il capitano Perucci era il capo, poi c’erano dei colonnelli, tra i quali il colonnello Andreani, che finì in campo di concentramento con me, medaglia d’oro al valor militare.
D: Prima hai parlato del giardino Giusti: cosa c’era al giardino Giusti?
R: Lì fui interrogato dal capitano delle Brigate Nere Gradenigo; lì si picchiavano i partigiani. L’interrogatorio non avveniva alle scuole Sanmicheli; alle scuole Sanmicheli c’era il carcere al piano sotto, e al piano sopra c’erano le Brigate Nere, tra cui bambini di 11 / 12 anni che dallo spioncino della porta puntavano la pistola contro i prigionieri e dicevano: “Partigiano, domani sarai morto!”. Lì c’erano anche le ausiliarie e il cappellano delle Brigate Nere don Calcagno, o padre Eusebio.
Siccome era Natale, mi pare padre Eusebio chiese chi volesse confessarsi. Nessuno di noi andò a confessarsi perché sapevamo che era il cappellano delle Brigate Nere, anche se il prete ha il segreto confessionale e non c’era motivo di avere dubbi, ma nessuno di noi si confessò.
Direi che sono stato trattato con maggior dignità dai tedeschi che non dai fascisti.
Le SS in campo a Bolzano picchiavano. Seppi da amici comunisti del campo che vi entravano armi. Io ero caposquadra cavi telefonici e un giorno ci fecero la perquisizione al nostro rientro dal lavoro. Il maresciallo Haage prese il mio portafoglio, che era un regalo molto bello di mia moglie da fidanzata, ne tolse la fotografia di noi due a Venezia coi colombi in mano, sulle spalle; dietro la foto avevo scritto “due colombi fra i colombi” e la data. Eravamo andati in viaggio di nozze a Venezia nel 1942, in piena guerra; ero venuto su dalla Grecia per sposarmi. Il maresciallo mi disse “Venise, ja Venise”, ed inspiegabilmente mi arrivò un gran sacco di pane, pane biscotto, con speck, uova sode, tanto è vero che entrai nel blocco G e dissi: “Putei, se magna!”, e distribuii. Probabilmente avrà avuto un ricordo di avventure veneziane, insomma mi trattò col massimo rispetto, al punto che alla fine di aprile arrivò a Bolzano mia suocera, che era di Trento, e quando alla guardia disse che cercava il prigioniero Alessandro Canestrari, la guardia lesse gli elenchi e disse: “Grande capo”: mi ritenevano un grande capo, invece ero un capetto, cosa da poco, avevo fatto il mio dovere e basta.
D: Con cosa ti hanno portato da Verona a Bolzano per raggiungere il campo?
R: Col camion.
D: Uno solo?
R: Un solo camion, pieno, stipatissimo. C’era anche il professor Perotti, tre SS sedute dietro e due avanti col mitra puntato verso di noi. Lì c’è stato un episodio che racconto perché sono cattolico: quando passai sotto la Madonna della Corona, guardai su e mi raccomandai alla Madonna: “Se ritorno vivo, una volta l’anno verrò a trovarti”. Difatti adesso vado alla Madonna della Corona ad adempiere al mio giuramento, perché sono ritornato e perché mi ritengo miracolato.
D: E quando siete arrivati nel campo di Bolzano cosa accadde?
R: Quando arrivammo al campo di Bolzano ci fecero denudare. Eravamo pieni di parassiti, scherzando dicevo che c’erano pidocchi di varie qualità, alcuni avevano i baffi bianchi, altri i baffi rossi, altri i baffi neri … Ci portarono via tutti i vestiti e ci diedero una tuta bianca. Non avevamo la tuta a strisce dei campi di concentramento nazisti, bensì una tuta bianca col triangolo rosso e il numero di matricola.
Il mio numero era 9586. Penso che prima di morire ringrazierò il padreterno e poi dirò “matricola 9586”.
Perché? Perché non ti chiamavano più con il cognome ma col numero di matricola, e quando non rispondevi ti colpivano col calcio del moschetto alle reni.
Ricordo un episodio che capitò ancora a Verona al palazzo delle assicurazioni INA, presente anche l’amico Perotti, che potete leggere nel suo libro “Inferriate”. Una SS con una bottiglia vuota colpiva sulla testa un partigiano, giù nelle celle. Io gridai “Vigliacco!” alla SS: era roba dell’altro mondo! Ecco perché sono un miracolato. La guardia si fermò, era una SS italiana, disse: “Chi è stato?”; io avrei dovuto tacere ma ero un vecchio soldato e dissi: “Io”. Andai fuori, mi diede una botta in testa col calcio del fucile, andai a sbattere contro il muro. Non ero svenuto del tutto, e vidi il calcio alzato a darmi la seconda botta che mi avrebbe ucciso. Alla fine avevo sulla testa un bernoccolo talmente alto che un colpo di vento mi portò via il berretto.
Un altro episodio è narrato dal professor Perotti nel libro citato. Andando a lavorare a Gries presso Bolzano, sentii un bolzanino dire: “Centoventi divisioni sovietiche sulla Vistola”. Allora entrai nel campo e dissi: “Putei, hanno perso la guerra! 120 divisioni sulla Vistola!”
D: Sei entrato subito al blocco G?
R: Sì.
D: Nel periodo in cui siete rimasti nel Lager di Bolzano, c’erano con voi anche dei religiosi deportati?
R: C’era frate Corrado del convento di via Baranna che è da ricordare, perché il suo arresto è avvenuto in conseguenza dell’asilo dato ad ebrei e partigiani; i frati assistevano gli antifascisti, e ne deportarono 5 / 6 con lui; ora ricordo padre Corrado perché era con me alle carceri di Verona.
D: Ricordi altri religiosi?
R: C’erano dei preti nel Lager; di uno, di cui non ricordo il nome, so che era stato arrestato perché non rivelava il segreto confessionale. Mi pare che fosse di Rovereto.
D: Donne ne avete viste nel Lager?
R: Tantissime, ce n’erano di bellissime. Credo che fossero 2/300 dietro i fili spinati.
D: Nel periodo in cui sei rimasto a Bolzano, hai avuto la possibilità di scrivere a casa o di ricevere posta da casa?
R: No, mai ricevuto niente e mai scritto niente. Solo al Forte San Leonardo abbiamo dato un biglietto al cappellano del carcere; era il parroco della chiesa dei 12 Apostoli di Verona. A lui abbiamo dato un biglietto, che però non arrivò a destinazione.
D: Nel campo, a Bolzano, hai visto se c’erano anche dei ragazzi?
R: C’erano alcuni ragazzetti ebrei, presi a calci dalle SS, gettati a due metri di distanza, li ho visti con i miei occhi. Poi c’erano quelli che venivano da Fossoli.
Ad un certo momento arrivò la casa di tolleranza di Bologna, arrestarono tutti gli ultimi giorni, e c’era la curiosità di veder entrare le donne della casa di tolleranza, invece poi non le abbiamo viste.
D: In fondo al campo …
R: … c’erano le celle della morte, e da lì uscivano le grida dei torturati. Direi che ogni giorno abbiamo sentito gridare di dolore e di disperazione qualche amico; tra di essi c’era l’onorevole Arnaldo Coleselli, che fu deputato con me e senatore e parlamentare europeo, purtroppo ora deceduto. L’ho visto là un paio di volte quando usciva mezz’ora per cambiare aria. Nel 1958 quando andai a Roma come deputato lo incontrai nel transatlantico e gli dissi: “Tu sei stato in galera con me!”. Non sapevo come si chiamasse, me ne sono ricordato dopo anni e anni. Era l’onorevole professor Arnaldo Coleselli, deputato con me per 4 legislature, che poi passò una legislatura al Senato e divenne parlamentare europeo.
D: A proposito di nomi, il cognome “Signorato” ti ricorda qualcosa?
R: Era proprio monsignor Signorato il parroco della chiesa dei 12 Apostoli, di cui parlavo poc’anzi.
D: Cosa avvenne durante la Pasqua del 1945 nel Lager di Bolzano?
R: Venne monsignor Piola, che celebrò la messa, e lì fummo assolti in articulo mortis e facemmo la comunione; ho portato il santino come ricordo.
D: Chi era monsignor Piola?
R: Monsignor Piola è quello che ha intimato la resa ai tedeschi il primo maggio (1945); ci disse che c’era l’ordine di Hitler di uccidere i prigionieri politici. Ma lui, almeno così disse, intimò la resa e volle gli elenchi di tutti i prigionieri. Alla Liberazione partimmo talmente in fretta – eravamo circa 4.000 persone – da sfondare la sbarra di legno del campo.
Il primo che incontrammo fu un maresciallo dei carabinieri, allora in dialetto dissi: “Putei, gh’è un carabiniere, semo liberi, semo in Italia!”
D: Sei rimasto tutto il periodo della tua deportazione nel lager di Bolzano?
R: No, sono stato a Gries per 15 giorni. Vicino a Castelnovale dove presi la febbre tifoide perché l’acqua, dove si defecava dentro, era inquinata. Gli ultimi 3-4 giorni con l’avanzata degli alleati ci riportarono al campo di concentramento di Bolzano, dove entrai cantando Va’ Pensiero.
D: Ti ricordi, quando eri fuori dal lager di Bolzano se vedevi un castello?
R: Si, era il castello di Castelnovale e lì vicino c’erano gallerie dove andavano per fare dei proiettili.
D: Quindi nella galleria era installata una officina?
R: Sì, nella galleria c’erano le officine per fare i proiettili.
D: Hai anche lavorato agli scavi per la posa di cavi con la tua squadra?
R: Direi che tutto il periodo l’ho passato zappando per le vie di Bolzano vecchia e Bolzano nuova.
A Bolzano nuova c’erano gli italiani. Andavamo anche a collocare le rotaie dei treni, dopo i bombardamenti, con quel tenaglione famoso con cui ognuno di noi doveva alzare 50 / 60 chili.
D: Nel campo che hai descritto c’erano delle baracche?
R: Sì
D: E quanti eravate voi più o meno?
R: Lì ricordo un maresciallo molto umano; credo che fossimo circa 150 / 200 persone.
D: C’erano anche dei civili?
R: Sì, fuori dalle baracche c’erano le case dei civili.
D: Lavoravate assieme a dei civili?
R: No, andavamo a lavorare nella galleria.
D: Cosa ricordi della Liberazione?
R: La Liberazione ci trovò nel campo di concentramento di Bolzano, dove fui liberato il primo maggio (1945). Ricordo che nessuno voleva prendere il documento di rilascio per la fretta, ma io, che ero un vecchio funzionario dello Stato, sapevo che ci volevano i documenti, e così mi fecero il documento di uscita dal campo di concentramento.
D: Venne distribuito a tutti?
R: A chi lo voleva; quel documento ci servì perché sulla strada trovammo delle SS in fuga e così esibendolo, non subii nessuna reazione da parte loro.
D: Hai accennato a Haage.
R: Ricordo che il maresciallo Haage era sempre elegante, anzi elegantissimo.
D: E i due ucraini li ricordi?
R: Ricordo che gli ucraini avevano sempre in mano il nerbo di bue ma non ho mai avuto nessun contatto. Mentre il tenente Titho, che era il comandante del campo, direi che l’ho visto un paio di volte.
D: E la donna che chiamavano “la Tigre”?
R: La ricordo: era una SS alta, con stivaloni e con pistola al fianco; aveva il cane che aizzava contro i prigionieri, era il terrore nostro.
D: Durante la tua deportazione nel Lager di Bolzano sei stato testimone di atti di violenza?
R: No. Però calci e parolacce erano all’ordine del giorno, intendiamoci: ci avevamo fatto il callo.
Invece devo dire che quando sono tornato a casa mia moglie non mi riconobbe perché ero calato a 48 / 50 chili. Mangiavamo i famosi “cingoli”, cioè verdura secca buttata in acqua bollente senza sale. Era una cosa nauseabonda, ci si chiudevano le narici per trangugiarla. Qualcuno nel mio blocco inspiegabilmente era riuscito ad avere alcuni dadi, e quindi nell’acqua buttavamo un pezzetto di dado salato, ma era una cosa rara.
D: Dal campo uscivano delle squadre per andare a lavorare?
R: Sì, le squadre di lavoratori. Io ero capo della squadra cavi, avevo un segno rosso al braccio sinistro.
D: E la tuta bianca?
R: La tuta bianca, il numero di matricola e, il comandante, un grado come soldato scelto italiano. Perché mi avevano scelto? Perché ero un ex ufficiale, quindi meritavo, ma dovevo dare l’esempio. C’erano le guardie altoatesine, più cattive direi dei tedeschi, tutte tranne un vecchio maresciallo. Mi ricordo un episodio: questo maresciallo mangiava un bel pezzo di speck, io ero lì che picconavo e guardavo questo speck; lui si girò per vedere se lo guardavo, mi tagliò un pezzetto di speck, lo buttò per terra, io lo presi e lo misi in bocca, in due secondi lo trangugiai. Era un maresciallo altoatesino piccoletto, vecchio.
D: A proposito di cibo: è vero che nel campo avevate dei soldi?
R: Sì ma non li ho mai presi, non si potevano neanche spendere, non c’era niente da comprare.
D: Quale fu l’attività del CLN all’interno del campo?
R: Non abbiamo fatto nessuna attività perché il CLN si costituì gli ultimi giorni in caso di sollevazione del campo. Ci conoscevamo noi cinque, nessuno sapeva niente, tenevamo il segreto.
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