Fioravante Fiorio

Fiorio Fioravante

Nato il 06.05.1915 a Nogara (Verona)

Intervista del: 24.05.2000 a Dossobuono (Verona) realizzata da
Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari
TDL: n. 91 – durata: 37′

Arresto: novembre Presso ZUC DI BONFERRATO (VR)
Carcerazione: Isola della Scala, San Giovanni Lupatoto (caserma dei Carabinieri), Verona a Forte Broccolo (in attesa di fucilazione)
Deportazione: Bolzano
Liberazione: 25.26.27 aprile a SARENTINO non ci ha liberato nessuno. Se ne sono andati via tutti.

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Nota sulla trascrizione della testimonianza:
L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Fiorio Fioravante, sono nato a Nogara il 6.05.1915.

Fui arrestato per attività partigiana alle Zucche di Bonferraro in provincia di Verona un giorno di novembre (1944). C’era tanta neve, mi hanno portato lungo la strada a Isola della Scala. Le Brigate Nere che mi avevano arrestato volevano fucilarmi perché sui manifesti c’era scritto: “Prenderlo vivo o morto”. E mentre ero sceso con loro ammanettato in una siepe arrivò un tedesco in bicicletta il quale mi salvò la vita dicendo che non bisognava fucilare.
Allora mi portarono a Isola della Scala in un edificio che adesso non ricordo, non penso che sia il municipio. Poi fui portato a S. Giovanni Lupatoto nella Caserma dei carabinieri dove però non c’erano i carabinieri perché erano sostituiti dalle Brigate Nere. Lì rimasi due notti; lì fu ucciso un mio amico che si chiamava Gino Dusi ed era a capo delle nostre formazioni.
Poi mi portarono a Verona al Forte Broccolo in attesa di fucilazione.
La mia cattura fu mossa da mio zio. Io non andavo mai dai parenti, andavo dagli amici, lontano dai parenti, perché sapevo che le Brigate Nere sarebbero andate dai parenti. Così mio zio venne a Verona al Palazzo delle Assicurazioni che era dominato dai tedeschi e gli dissero che mi avevano fucilato la sera precedente, ma non era vero. Per questo mio zio stette male 10 giorni in letto.
Al Forte Broccolo incontrai il professor Perotti attraverso un buco fatto nel muro. Avevamo fatto un buco nel muro perché il Forte Broccolo era diviso in stanze. Perotti, siccome avevamo avuto delle riunioni a San Giovanni Lupatoto con lui e il colonnello Mercandino, sempre per questioni partigiane, mi disse: “Ecco, lì vedo Dante”. Questo è scritto anche su un libro del professor Perotti che si chiama “Inferriate”.
In marzo (1945) fui portato a Bolzano su un camioncino assieme a Perotti. Lungo la strada gli aeroplani tentarono di colpire con le mitraglie il camioncino ma non lo colpirono e così il viaggio continuò fino a Bolzano. Ci misero nel blocco D, in campo di concentramento. Lì si soffrì molta fame, vidi morire tanta gente per i pidocchi perché non si curavano, non li uccidevano. Poi il giorno 25 febbraio (1945) fummo caricati e portati in stazione, messi su un vagone; eravamo in circa 100/101 su un vagone. E’ successo che i tedeschi hanno caricato anche 3 uomini ammanettati ma le manette erano così strette che gli veniva fuori il sangue dalle braccia. Io ho preso un fil di ferro e ho aperto le manette a questi disgraziati e dico disgraziati perché erano ammanettati. Dopo poco salì un tedesco col mitra e disse: “Chi ha aperto le manette?” e io, perché non uccidessero altri, ho detto: “Sono stato io”. Quelli che erano dietro di me si tirarono via perché avevano paura che le pallottole trapassassero il mio corpo e colpissero anche loro. Il tedesco mi guardò in faccia e disse: “Niente”, è sceso e non mi uccisero lì.
Poi fummo portati nel campo. Quando siamo scesi dal treno parte sono andati a Bolzano e io fui portato in Val Sarentino dove eravamo in circa un centinaio. Si dormiva sui castelli ma si mangiava molto male. Si andava a lavorare per fare delle linee elettriche. Un tedesco venne da me di notte e mi disse: “Senti Batà”, mi chiamava Batà, “tu dovresti fare l’assistente al capocampo” e io gli risposi: “No, io lucidare le scarpe a un tedesco, mai”. Da allora andò un altro a fare l’assistente al capocampo. Da allora io vissi molto bene perché questo tedesco di notte veniva a portarmi dei panini con più bondola dentro e burro perché disse: “Tu sei un uomo forte perché hai rifiutato di stare bene e allora io ti faccio stare bene, però non parlare altrimenti mi fucilano subito”.
Lì siamo rimasti diversi giorni. Poi venne la liberazione.
Eravamo d’accordo in 6 o 7 compagni di andare contro i tedeschi per fermare la mitragliatrice perché dovevano fucilarci tutti. Invece non fucilarono nessuno, solo ci tagliarono i capelli a zero e dissero: “Chi viene trovato ancora domani in Bolzano verrà fucilato”. Allora io non sono rimasto tanto contento di questa liberazione perché speravo in una liberazione in lotta, non così facile.
Andai alla Lancia dove trovai dei compagni di lotta della liberazione. Il giorno in cui, dopo 2 o 3 giorni, festeggiarono la liberazione – e questo me lo ricordo nel cuore – al municipio di Bolzano sulla terrazza c’erano gli americani, c’erano i tedeschi, c’erano tutti, però levarono la bandiera rossa.
Rimasi molto male perché anche noi avevamo lottato anche se eravamo della bandiera rossa, abbiamo rischiato la vita, abbiamo fatto il nostro dovere. Sarebbe stato facile andare nelle Brigate Nere e mangiare e bere a discapito degli altri, ma io ho preferito la lotta. E così venni a casa e trovai la mia casa svuotata di tutto dalle Brigate Nere; avevano portato via tutto. Andai in cerca dei miei genitori che non trovavo più. Io arrivai a S. Giovanni Lupatoto ancora con la divisa a strisce con la croce dietro. E, questo posso dirlo apertamente, chi mi diede un vestito e da mangiare fu un fascista che era impiegato nella banca di S. Giovanni Lupatoto. Io non potei rifiutarmi perché per me era un amico, era uno come un altro, anche se era fascista, non interessa quello, è il cuore che conta, non è il servizio che si faceva. Andai in cerca dei miei genitori a Novara e li trovai. Quando mia madre mi vide continuò a guardarmi e a toccarmi con le mani perché non credeva che fossi vivo; mia madre aveva 5 figli e tutti erano via da casa e non sapeva dove fossero.
Qui finisce la mia storia.

D: Fioravante all’inizio ha parlato di manifesti con il Suo nome?

R: Sì, erano a San Giovanni Lupatoto. Sui manifesti appesi sui muretti c’era scritto: “Prenderlo vivo o morto”. Quei manifesti li avevano messi fuori le Brigate Nere, capito?

D: Erano specificamente per Lei questi manifesti?

R: Per me, sì per me.

D: Perché era così pericoloso?

R: Perché avevano paura, perché loro avevano paura di me.

D: In che formazione partigiana militava?

R: Militavo nella Garibaldi Bandiera Rossa. Io lavoravo per procurare medicinali, cibi e denaro per quelli che erano in montagna. Allora era funzionante il ricamificio automatico di San Giovanni Lupatoto dove erano i tedeschi che comandavano e la maggior parte dei medicinali me li dava questo tedesco. Io li davo ad altri compagni che li mandavano in montagna per curarsi.

D: Ma non ci sono montagne!

R: No, qui non ci sono montagne ma ci sono subito dopo Verona, dopo Verona incominciano subito le montagne.

D: Ci può spiegare cosa vuol dire “mandare medicine in montagna”?

R: Vuol dire aiutare i compagni che lottavano lassù. Ha capito?

D: Ha parlato anche di un Suo amico Dusi Gino ucciso in carcere. Come è successa questa cosa?

R: La cosa è successa nella Caserma dei carabinieri che non erano carabinieri ma erano Brigate Nere. Gino Dusi assistette a un mio interrogatorio e lui mi diceva: “Dante, io non resisto come te” e lui ha preso la rivoltella a un Brigata Nera. Dicono che si è ucciso mentre io sono sicuro che fu la Brigata Nera a ucciderlo perché tentava di rubargli la rivoltella per uccidersi. Allora presero me per i capelli e mi portarono su Dusi, che era per terra dietro a morire e mi sorrise lentamente morendo. Mi dicevano, con la rivoltella nella testa: “Quello che non dice adesso questo perché muore, lo dirai tu”. E lì finì la storia di San Giovanni Lupatoto. Storia che rimase ancora insoluta per me perché loro dicono che è stato lui a liberarsi mentre io sono convinto che è stata la Brigata Nera a ucciderlo.

D: Che cosa volevano sapere da Lei le Brigate Nere?

R: Volevano sapere tutto, tutti i comandanti. Per esempio chi era Perotti, chi era Mercandino che era il colonnello che veniva giù a fare le riunioni nella pineta dell’Adige. Nelle riunioni si stabiliva dove uno era destinato e tutte queste cose; bisognava procurare dei soldi che si chiamavano soldi del Comitato di Liberazione Nazionale. Di questi soldi me ne diede tanti Fedrigoni, quello della cartiera di Verona. Ma mentre io andavo dentro da Fedrigoni veniva fuori uno vestito in Brigata Nera e io feci caso a Fedrigoni: “Guarda, da i soldi a noi altri e ne ha appena dati alle Brigate Nere, bisogna tenere per tutte le parti nella vita per stare in piedi”.

D: In quanti eravate, più o meno, nella vostra Brigata Garibaldi?

R: Uno si è ucciso. Eravamo, nella zona lì di San Giovanni, in 8 o 10, 8 o 9 e poi c’erano quelli che si ritirarono perché la lotta era pericolosa. Io nel mio lavoro feci saltare un ponte, che se lo sanno ancora adesso me lo fanno pagare. Dovevamo andare in due con la barca sotto il ponte che è la ferrovia che va da Nogara a Mantova e bisognava farlo saltare secondo gli ordini. Ma il compagno che doveva venire con me non è venuto, sono andato io solo ad attaccare queste mine e dopo a farle brillare. Però sono sicuro che il comandante tedesco di Nogara sapeva che sono stati i partigiani a far saltare il ponte perché diceva: “Lo scoppio non è venuto dall’alto, è venuto dal basso”. Si vede che era uno che se ne intendeva e fu buono, non fece nessuna rappresaglia, non fece niente. Noi avevamo come degli ovuli di plastica che bisognava gettare dove c’erano dei tedeschi, degli uffici in campagna; loro andavano sempre in campagna a requisire le case e a fare degli uffici e noi bisognava buttare gli ovuli sopra le case. Non appena toccava il tetto l’ovulo si espandeva, faceva fosforescenza. Allora Pippo, che era l’aereo che girava di notte, vedeva dov’era la fosforescenza e bombardava. Era un compito molto difficile perché se ti trovavano con questi ovuli in tasca avevi finito. Se mi g’ho salva la vita è per questione dei tedeschi. Due volte i tedeschi mi salvarono la vita.

D: Ma quando è entrato nel campo di Bolzano che cosa le è stato dato? Un numero di matricola? Un triangolo?

R: Sì, era un triangolo bianco e rosso e il numero di matricola era 9.495 perché non si aveva più il nome. Quando si andava via e si andava nei campi di concentramento nessuno aveva nomi, avevano tutti un numero cui corrispondeva un nome sicché se uno moriva, moriva il numero, non l’individuo.
Io assistetti ad una cosa terribile in campo di concentramento.
Mentre era freddo e pioveva hanno messo fuori tutte le donne nude all’acqua in modo che se prendevano la polmonite e morivano; era una scusa per loro perché dicevano: “E’ morto di polmonite”, mentre invece sono stati loro a far venire la polmonite. Una volta hanno preso uno che dentro era delle Brigate Nere; l’avevano preso perché aveva rubato e l’avevano buttato in campo di concentramento, perché loro facevano così. E noi gli dicevamo: “Quando se liberemo el primo che copem te se ti,” (“Quando ci libereremo il primo che uccideremo sei tu”) e lui: “Ma no, ma no”. Tentò di fuggire perché aveva paura che venisse la liberazione; lo colpirono proprio in fronte con un fucile e ci radunarono nel piazzale di Bolzano davanti alle caserme (blocchi), ci misero in quadrato e su una coperta con lui dentro lo rotolarono e ci dicevano: “Ecco la fine che fa chi tenta di fuggire” e noi tutti insieme: “Bene, avete ucciso un fascista”. I tedeschi si arrabbiarono. Quando ci lasciavano dal blocco D, che era dei pericolosi, ci davano un’ora di aria, l’ultimo ad andare dentro prendeva botte da matti; io mi sedevo sul muretto là fuori aspettando che andassero dentro tutti e dico: “Non mi uccidete?” “No, dice, tu per soffrire devi vivere perché se ti uccidiamo hai finito di soffrire”.

D: Le parlavano in italiano?

R: Sì, parlavano un italiano un po’ stentato, ma parlavano.

D: Ha detto di aver visto delle persone morire nel campo di Bolzano?

R: Sì, nel campo di Bolzano, di notte, e questo sta scritto anche su “Inferriate”, si uccidevano i pidocchi. Quelli che si rilassavano e non volevano vivere, vedere tirare via la cinghia e venir via la carne assieme dai pidocchi che erano, si afflosciavano per terra e morivano lì. E poi li portavano via. Questo sta scritto anche nel libro “Inferriate” che ha scritto Perotti. Io quando uccidevo i pidocchi dicevo: “Questo è Hitler, questo è Mussolini, questo è Ciano”. A ognuno che uccidevo davo un nome dei fascistoni che esistevano in Italia.

D: Ce n’erano tanti di Veronesi nel campo?

R: Sì, ce n’erano tanti ma era transitorio. Venivano, andavano.
Si dormiva nei castelli e si mangiava quel po’ di acqua e pasta che era più vermi e che era roba che per non morire bisognava mangiare. Quando sono tornato a casa ero 36 chili e non ci vedevo più dalla fame che ho sofferto. Mi portavano in bicicletta all’Adige, quando portai a casa i miei genitori che ripresi la vita. Si andava a riposare all’Adige all’ombra e i compagni mi riportavano in bicicletta perché io non camminavo, camminavo poco o niente insomma.

D: Ha visto anche dei sacerdoti nel campo di Bolzano?

R: Mi pare di sì che ci sia stato un prete; forse si ricorda più di me il professor Perotti.

D: Invece Sarentino se lo ricorda? Che posto era? Come era fatto? Quante baracche c’erano?

R: C’erano 2 o 3 baracche, adesso non ricordo bene. So che si dormiva sui castelli dove veniva il tedesco a portarmi il panino tutte le notti. Se sono salvo è grazie a quello perché sennò si finiva per morire.

D: A Sarentino ha visto montagne o qualche edificio?

R: C’era una vallata dove ti facevano lavorare a fare delle linee, non so se di corrente o telefoniche, adesso mi non so spiegare. So che si tiravano su dei paloni che io sabotavo, muravo il fil e il palon el cascava per terra. Il tedesco mi vedeva e mi diceva: “Finché ti vedo io, Bata, tutto va ben ma se ti vede un altro te copa all’istante, non fare quelle robe lì se vuoi vivere”.

D: A Sarentino quanti potevate essere più o meno?

R: Penso un centinaio, forse più, anche adesso non so in quanti di preciso erano. Sul treno so che eravamo in 100/101, lo so. Non siamo mai andati tutti in Val Sarentino, tanti come Perotti sono tornati in campo di concentramento a Bolzano per esempio, mentre noialtri ci han portati a Sarentino.

D: Dal campo di Sarentino vedeva un castello? Qualcosa di particolare o solo montagne?

R: No, solo la vallata.

D: Per andare a lavorare andavate a piedi o vi portavano?

R: A piedi, non si andava mica tanto lontano, un chilometro un chilometro e mezzo; ogni volta si andava un po’ più lontano perché bisognava mettere i paloni, raddrizzare i paloni e dopo c’erano quelli che mettevano i fili.

D: Per quello che riguarda il comando di Sarentino erano SS? Parlavano italiano?

R: Parlavano italiano ma erano SS, insomma tedeschi. Per conto mio quello che mi voleva bene era austriaco, perché ho rifiutato di andare a fare l’assistente del campo di concentramento del campo di Sarentino.

D: A Sarentino facevate l’appello?

R: Sì, quando si ritornava avveniva la “conta” per vedere se c’eravamo tutti o no. Era impossibile fuggire perché era una vallata, non era una pianura dove ci si poteva nascondere fuggendo. Era impossibile e poi c’erano tante guardie coi mitra, coi moschetti, coi sciopi (fucili).

D: Intorno al campo di Sarentino c’era filo spinato? Cosa ricorda?

R: No, niente filo spinato. Non mi ricordo quello. Non so se era più avanti. Quello non me lo ricordo.

D: Fioravante, quando eri nel campo di Bolzano ricordi se potevi scrivere a casa o ricevere lettere o pacchi?

R: No, non c’era neanche l’acqua da lavarsi, né penna, né carta, non c’era niente, non c’era niente, non c’era niente, solo un’ora di aria al giorno e basta.

D: Sempre nel campo di Bolzano ti ricordi il blocco celle?

R: No, mi ricordo il blocco di dove ero con Perotti che era il blocco D, dei pericolosi.

D: I due ucraini tu te li ricordi?

R: No, no.

D: Neanche la “Tigre” ti ricordi?

R: No, mi ricordo solo Perotti, mi ricordo quello che era sindaco di Milano, Virgilio Ferrari, e qualche altro compagno con cui poi ci siamo persi di vista o fu mandato a casa perché era giovane. Dopo lì ci si perde perché un po’ per la delusione, un po’ per tutto quello che è successo. Allora la vita è fatta così e dopo una certa età non mi ricordo tanto.

D: Ricordi se all’interno del campo di Bolzano c’era un gruppo di resistenti?

R: Come resistenti?

D: Cioè che lavoravano per la resistenza all’interno del campo?

R: No, io mi ricordo solo che al campo di concentramento di Bolzano c’era un amico mio che veniva a buttarmi dalla rete dei sassi con attaccato delle pastiglie per salvare i denti; fu preso ma non aveva niente addosso perché aveva buttato a me il sasso con le pastiglie con gli elastichini in modo che non si perdessero nel volo. Queste pastiglie bisognava prenderle per salvarsi i denti perché adesso io sono senza i denti ma allora li avevo forti, allora.

D: Al campo di Sarentino dove c’erano le baracche vicine c’erano anche delle case di civili?

R: No, non mi ricordo.

D: Non hai mai incontrato civili?

R: Civili ne abbiamo incontrati andando a lavorare. Si passava davanti a una casa e lì avevano buttato fuori le bucce delle patate che noi si raccoglieva per mangiare. Ho preso una botta sulla testa perché raccoglievo queste bucce di patate, solo quello ricordo di Sarentino.

D: A Sarentino lavoravate tutti sulle linee elettriche o c’erano altri lavori?

R: Non tutti, perché eravamo una trentina che andavamo a lavorare a tirar su questi paloni, gli altri non so dove andassero a lavorare e se andavano a lavorare oppure avevano scelto noi per lavorare.

D: Eravate solo uomini a Sarentino o c’erano anche donne?

R: No, solo uomini. A Bolzano c’erano donne tra cui un’amica mia che lavorava con me nella lotta di liberazione. Adesso è morta, si chiamava Rossini Maria ed è morta che sarà circa un anno, neanche.

D: A Sarentino ha mai assistito ad episodi di violenza?

R: No, solo quella del Pani e basta. Sennò violenze ce n’è dappertutto, la vita lì è violenta perché bisognava mangiare quello che ti davano, bisognava stare zitti, non bisognava parlare, non bisognava essere in gruppi più di 5, non bisognava radunarsi più di 5.

D: Quante ore durava il turno di lavoro a Sarentino?

R: Si andava via, si prendeva su un panino, ci davano un panino più secco che, si andava via la mattina verso le 8 e mezzo, 9 e si tornava la sera verso le 4 e mezza, 5 e lì veniva la “conta”.

D: Si ricorda come avveniva la “conta”?

R: La conta avveniva così: ci mettevano in fila e ci contavano, non ci chiamavano per nome perché non avevamo più un nome avevamo 9.495 io e gli altri avevano altri numeri e ci chiamavano i numeri e non i nomi; ci mettevano in fila e ognuno che chiamavano passava dall’altra parte e andava dentro nelle baracche.

D: In quanti erano i tedeschi a fare l’operazione della “conta”?

R: Erano 5 o 6 tedeschi armati e 2 o 3 assistevano quelli che andavano nella baracca e gli altri quelli che dovevano ancora essere chiamati.

D: Dopo Sarentino tu sei stato riportato a Bolzano?

R: No, io sono stato liberato a Sarentino. Libero a Sarentino dove tutti gli altri esultavano dalla gioia di essere liberi mentre io se non ho pianto è perché avevo del coraggio. Io da Sarentino andai a piedi alla Lancia di Bolzano dove sapevo che c’era una formazione di liberazione nazionale. Rimasi alla Lancia 6 o 7 giorni, finché avvenne il fatto che mi ricordo sempre e che ho nel cuore della terrazza del Comune (non lo so se c’è ancora perché io a Bolzano ci sono stato poco dopo), dove levarono la bandiera del mio cuore.

D: Chi vi ha liberato a Sarentino?

R: Nessuno. Sono andati via loro. Ci hanno lasciati liberi, ci hanno tagliati i capelli a zero e ci hanno detto: “Chi viene trovato domani in Bolzano sarà fucilato”.

D: Ti ricordi la data? Quando?

R: Penso il 26, 25, 26 aprile, non so se il 27, ma il 26 ormai la guerra era finita e quindi era inutile stare lì a tenerci prigionieri, perché anche loro dovevano scappare via e andare in Germania, se era possibile raggiungere.

D: E’ mai più tornato a Sarentino a vedere dove era il campo?

R: No, non sono più tornato perché mi viene la pelle d’oca a nominarlo adesso.