Marchesich Iolanda

Iolanda Marchesich

Nata il 12.02.1924 a Pinguente (Croazia)

Intervista del: 21.06.2000 a Muggia (TS) realizzata da
Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n. 108 – durata: 35′ circa

Arresto: 06.06.1944 a casa

Carcerazione: a Portole (Croazia), a Trieste al Coroneo

Deportazione: Auschwitz Birkenau, Mauthausen

Liberazione : 5 maggio 1945 a Mauthausen

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Organizzazione materiali ed inserimento dati: Elisabetta Mascarello, Elena Pollastri

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

R: Io mi chiamo Marchesich Iolanda, sono nata a Tregara nel Comune del Pinguente il giorno 12.02.1924, il 6 giugno del 1944 sono venuti a prelevarmi i fascisti di Portole.

Il motivo è stato questo, una mia cara amica, lei era della lista che la cercavano i fascisti con altre cinque persone del paese, e lei domenica sera il 5 giugno è andata in un altro paese perché era il presidio dei fascisti tedeschi ed allora lei si è tirata fuori e ha messo dentro me.

Però questo io non lo sapevo. Alla mattina quando sono venuti i fascisti in paese ed hanno bussato alla porta, sono entrati in casa, mia madre è andata ad aprire, sono venuti direttamente su in camera ed hanno chiesto a mio padre Come ti chiami?” “Marchesich Matteo”, “Alzati e vieni con noi”, hanno detto subito. Mio padre si è alzato, si è vestito ed è andato giù.

Vengono da me “Tu come ti chiami?” “Marchesich Iolanda”, “Alzati vestiti e vieni giù”, poi hanno chiesto a mia sorella “Tu come ti chiami?” “Marchesich Maria”, per fortuna, perché lei si chiama Amalia. Siccome una Amalia era già nella lista e lei era a Trieste, allora è stata una grande fortuna, perché mio fratello, Oscar Marchesich è stato arrestato in maggio, mi pare il 17 maggio, è stato arrestato a Pinguente, lo hanno portato a Pisino, e poi è venuto anche lui a Trieste e di lì è andato a … ed io e mio padre abbiamo fatto un mese nelle carceri del presidio a Portole, io avevo ogni giorno, ogni secondo, come gli veniva a loro, interrogatori, sempre. Mi chiedevano dove sono questi che erano in lista, che cosa fanno. Io non sapevo mai niente, non ho mai saputo niente. Questo era, posso dire, non ogni giorno, ma ogni settimana due volte, anche tre.

L’ultimo interrogatorio era un capitano dei fascisti e ancora non era delle SS, erano sempre loro che mi interrogavano. Mi hanno interrogato, ed io ho dato sempre la stessa risposta, che non sapevo niente. Hanno aperto la porta dell’ufficio, era un pianerottolo, c’erano dei gradini, mi hanno dato una spinta e sono andata giù per le scale. Ho fatto così e con la testa così, ma non mi sono fatta niente. Sono tornata su.

Poche ore dopo è venuta la colonna dei tedeschi, ci hanno prelevato e ci hanno portato al Coroneo, dove siamo arrivati il 3 luglio del 1944.

Quando entriamo al Coroneo, mio padre è andato da una parte ed io in quell’altra, non ci siamo più visti.

Nella stessa sera, c’era l’allarme e ci hanno portato in un rifugio e lì ho trovato l’amica Eva e Wilma, e da quella volta siamo state sempre assieme, adesso non ricordo la data che siamo partiti da Trieste.

D: Scusa Iole, ma di cosa ti hanno accusato?

R: Che collaboravo con i partigiani. Perché questi che erano in lista collaboravano. Ma noi non avevamo mai collaborato, la mia famiglia è sempre stata rispettata. Ma questa mia amica lei si è tirata fuori perché? Perché un sacerdote del paese con altre due persone sono andate nel presidio ed hanno cancellato la sua e mi hanno messo dentro. La stessa mattina quando io ero fuori dalla porta vedo entrare questa mia amica in paese ed io non sapevo niente. E come la vedo, mi è venuta una stretta al cuore, adesso la prendono.

Quando arriviamo a Portole, dentro nel presidio dove c’erano i fascisti, il primo giorno hanno prelevato non so quanti ragazzi del paese. Ventiquattro, venticinque, ventisei, quella gioventù. La prima cosa che mi hanno detto “Guarda tu sei qui, ma questa persona è a casa perché ti ha messo te invece che lei”. Io ho fatto un mese a Portole insieme a mio padre, siamo partiti insieme per Trieste, io non ho mai più detto niente. I tedeschi ormai mi hanno detto “Kaputt”, l’ultimo interrogatorio che mi hanno fatto hanno detto “Kaputt”.

D: Scusa Iole, il Coroneo qui a Trieste che cos’era?

R: Il carcere di Trieste, il carcere di Trieste si chiama Coroneo. Ecco. E lì si aspettava, cimici a tonnellate, terrore, paura e fame e tutto assieme. Poi avevo un ascesso sotto l’ascella, mi portava in infermeria la suora ed un quattro giorni, cinque, mi portava in infermeria, mi metteva l’ittiolo e l’ultimo giorno mi porta in infermeria mi mettono su una barella con tre tedeschi in bianco, uno con una bacinella, ed uno prende come un coltello, infila dentro nell’ascesso e mi fa così e così e ne è venuta una bacinella piena di quella materia, fuori.

Poi siamo partiti, anzi mi hanno chiesto se volevo partire mercoledì, lo stesso giorno che sono andata a fare l’intervento su, ho visto mio padre che erano pronti per partire, ho chiesto la suora se mi lasciava vederlo, “Fai alla svelta, perché non devo lasciarti”, ho parlato con mio papà “Cosa fai?” “Partiamo giovedì”.

Allora quando mi hanno chiesto nelle celle, di partire giovedì, allora siamo partiti giovedì con il convoglio per Trieste, così c’era anche mio padre. L’ultima volta ci siamo visti a Villaco.

D: Vi hanno caricato sui treni. Dove?

R: In stazione centrale. Sui treni vagone, bestiame. Stivati come le bestie. Il finestrino, sa come sono i vagoni delle bestie e lì abbiamo fatto un otto giorni, non mi ricordo in modoesatto.

D: Non ti ricordi quando sei partita?

R: Da Trieste? Proprio esattamente no.

D: Sul trasporto con te, nel tuo vagone, eravate in tante?

R: Pieno. Stivati come le bestie. Non ci si poteva muovere.

D: Anche ragazzine c’erano?

R: Giovani? Sì, erano giovani, qualche donna più anziani, ma più gioventù era. Anche uomini c’erano, lo stesso dentro. Infatti hanno caricato degli ebrei, ed io ricordo che uno aveva una ciocca di capelli bianchi davanti e lo abbiamo visto anche ad Auschwitz, fino là siamo arrivati. Poi gli hanno tagliato i capelli e non si sapeva più niente.

D: Quanto è durato il viaggio?

R: Io penso un otto, nove giorni, non mi ricordo esattamente. Mi pare di sì.

D: Ascolta, durante il viaggio vi siete mai fermate?

R: Sì ci saremmo fermate, ma non mi ricordo. Purtroppo il terrore, la paura, la fame, il pensiero delle famiglie era tutto.

D: Quando sei scesa dal treno dove eri?

R: La prima volta siamo scesi dal treno a Villaco. Ci hanno dato un pezzo di pane nero, quello loro. Anzi io avevo cinque lire, che mi portavo da casa, un pezzo di cioccolata ed un pezzo di pane l’ho dato a mio padre. Perché poi di lì lui è andato a Salisburgo e noi abbiamo proseguito per Auschwitz.

D: Sei arrivata ad Auschwitz 1? O ad Auschwitz Birkenau?

R: Direttamente a Birkenau, direttamente. E lì ci hanno sbarcato, eravamo in un altro mondo. Che noi non sapevano niente, siamo caduti dal cielo. Abbiamo visto gente, questi prigionieri, ma non sapevano niente.

D: Ma con il treno sei arrivata dentro nel campo?

R: Sì, dentro.

D: Poi li che cosa è successo? Raccontaci che cosa è successo.

R: Lì è successo che ci hanno sbarcati dal treno come le bestie e ci hanno portato, adesso non mi ricordo, ma non nelle baracche, sa che non mi ricordo. Mi ricordo che ci hanno portato in un grande salone, c’era un bancone grande e lì ci hanno portato via tutto l’oro, vestiti e tutto, ci hanno denudato, ci hanno dato una coperta e lì stavamo fino a che hanno finito, poi ci hanno messo in un altro grande casermone, per terra, senza acqua e senza niente e poi ci hanno messo nelle baracche. Tirati via i capelli, tutti, io avevo un dito, ci hanno rasato tutto.

D: Ti hanno immatricolato?

R: Ci hanno fatto il numero e nello stesso giorno che loro mi hanno fatto il numero che eravamo lì, mi hanno messo un velo di fascia, non garza, lo hanno messo dentro la ferita e tutti i giorni durante il viaggio, senza disinfezione, senza niente, quando eravamo su per fare il numero, mi tiravo pezzettini di fascia fuori. Una puzza.

D: Iole, ti ricordi il tuo numero?

R: 82954, non me lo dimenticherò mai. Anche se non lo avessi sulla mano, non lo dimenticherò mai.

D: Assieme al numero ti hanno dato qualche altra cosa?

R: Hanno messo un triangolo sulla giacca, no, sul vestito. No, no, sì hanno messo sul vestito borghese una stelletta con il numero.

D: Il triangolo di che colore era?

R: Rosso, un triangolo rosso.

D: Perché rosso?

R: Perché il triangolo rosso era per i politici e con la “I” di italiano.

D: Poi che cosa è successo? Dove ti hanno messo?

R: Nelle baracche, ed eravamo in quattro o cinque che dormivamo assieme, con zoccoli di legno, vestiti di tutti i colori, senza calze e senza tutto il resto che mancava.

D: Ti ricordi in che blocco ti hanno messo?

R: Adesso sono due, o nel 12 o nel 24, ma nel 24 mi pare, non mi ricordo esattamente. Non mi ricordo esattamente o 12 o 24.

D: Ascolta a Birkenau quanto tempo sei rimasta?

R: Lì siamo rimasti fino a dicembre, mi pare. Abbiamo fatto il Natale a Hirtenberg, allora fino a novembre.

D: Ascolta Iole.

D: Ancora un momento. Perché quando ad Auschwitz un giorno sono andata in svenimento e mi sono ritrovata nel Revier. Mi sono ritrovata e lì c’era la paura di non ritornare mai più fuori. Ecco. Io ho conosciuto una russa, un’infermiera giovane e poi anche la dissenteria ci ha colpito, anche quella e mi portava delle pastiglie e nello stesso tempo mi diceva, “Non prenderle”, sotto voce. “Che queste ti faranno morire”, ma non si doveva parlare con nessuno e niente, lei sottovoce come mi dava le pastiglie mi diceva “Iole non prenderle” e di fatto non le prendevo ed ho fatto otto giorni in riviera, se non di più.

Poi mi hanno lasciato, sono tornata nel blocco e mi pare che il secondo o il terzo giorno, adesso non mi ricordo esattamente, sono venuti a prelevare quattrocento prigioniere per portarci a lavorare, poi la mattina nel campo alle quattro, alle cinque ci si alzava alla svelta, a pelo, anche due ore all’appello, sull’attenti fino a che facevano. Un freddo, paura. Bastonate e tutto.

Poi ci hanno trasportato a Hirtenberg con il treno, siamo arrivati là, era una piccola filiale e là ci hanno portato a lavorare nelle fabbriche delle munizioni, turni di dodici ore.

D: Quando eri ancora a Birkenau tu sei stata sottoposta a qualche selezione?

R: No, io no.

D: Hai visto altre tue compagne sottoposte a selezione?

R: No, io non ho visto, ma ritornando a casa, qualche anno fa parlando con un’amica nostra con Draga che a lei hanno fatto degli esperimenti sull’utero.

D: Io dicevo le selezioni per andare a lavorare.

R: Per andare a lavorare ci prendevano e andavamo a lavorare fuori del campo con l’orchestra, con l’orchestrina fuori del campo per contare la fila, andavamo per cinque, e come suonavano noi dovevamo andare a passo della musica e lì era il controllo ed andavamo 8 chilometri fuori dal campo, mi pare, vicino ad un fiume a tagliare, non so come dire, delle frasche, lì ti tormentavano, portavano il pranzo e fino alla sera, al pomeriggio si stava lì poi si rientrava nel campo sempre in fila, con l’orchestra, entrando dentro, sempre.

D: Ma questo a Birkenau?

R: Sì a Birkenau.

D: Anche voi cantavate?

R: No, no, solo l’orchestra suonava e noi a passo dell’orchestra dovevamo camminare. Per il conteggio e loro contavano se non mancava nessuno.

D: Invece in questo sottocampo, in questa fabbrica?

R: In questa fabbrica la mattina all’orario dovevamo andare in fabbrica a lavorare, erano due o tre chilometri via del campo, non ricordo esattamente. Erano delle baracche nel bosco, lì lavoravamo sulle capsule delle pallottole, eravamo in sei in fila e le macchine lavoravano e lì abbiamo fatto i turni di dodici ore.

D: Avevi ancora il tuo stesso numero o ti hanno dato un numero nuovo?

R: Sempre 260, ci hanno dato il numero 260 e quello scritto sulla divisa, il nostro numero era questo sulla mano.

D: Lì in fabbrica c’erano anche dei civili?

R: Sì erano delle civili controllore, erano delle civili, e per quanto riguarda la fila dove ero io, anche abbastanza coccole. Abbastanza, come dovrei dire, ci portava del filo, dell’ago, non si poteva parlare con nessuno, assolutamente, neanche tra noi, tutto zitto. Non si doveva aprire bocca con nessuno.

Noi non sapevamo niente di cosa succedeva. Noi di Auschwitz abbiamo visto il fumo ed il crematorio, qualcuno forse si immaginava, forse qualcuno sapeva, ma noi, non dovevamo parlare né niente. Dovevamo stare zitti.

D: Ascolta in questo sottocampo, in questa fabbrica di munizioni eravate solo donne?

R: Solo donne, solo donne, mi pare in quattrocento ci hanno prelevato ad Auschwitz, per portarci in questa fabbrica.

D: Ascolta lì facevate i due turni, giorno e notte. L’alimentazione ad Auschwitz come era?

R: Triste. Zuppa, che non si poteva neanche mangiarla. Era lotta quando si aspettava in fila, perché fame era, loro facevano quello che volevano, amici o conoscenti che c’erano prendevano sempre qualche cosa meglio di noi. Capitava che prendevi solo l’acqua, solo il liquido, e dovevamo andare avanti. La sera era un pezzettino di margarina, un pezzo di pane. Alla mattina ci davano caffè, c’era una rottamaia. Siamo sopravvissuti non so come. Guardi noi a Hirtenberg lavoravamo in fabbrica; a pranzo restava tutto il mangiare sul tavolo, non si poteva mangiare. Non andava giù. Tanti giorni lei vedeva tutte le trenette che davano loro rimaste sul tavolo piene perché non si poteva mangiare.

D: Quando tu dici che vi hanno selezionato in quattrocento per mandarvi in questo campo in questa fabbrica di munizioni, c’erano altre donne di altri Lager?

R: No, no, solo noi di Auschwitz. Solo noi di Auschwitz, perché sono venuti lì ed hanno prelevato quattrocento ad Auschwitz. Erano slave, croate, polacche, russe, francesi, io ero con una cecoslovacca.

D: Visto che eravate tutte donne, quando sei stata nel campo, il problema delle mestruazioni?

R: Non c’era. Non c’era. Siamo arrivati su e lì è finito. Siamo tornati a casa, siamo tornati a casa in giugno e fino a settembre niente. Hanno bloccato, non so cosa mettevano dentro. Non so, bromuro o qualche cosa, non mi ricordo, cosa mettevano nel mangiare che hanno spento tutto.

Quando io sono ritornata a casa, è venuta una commissione di medici anche per questo a casa, per vedere una via, e poi hanno detto che non ci sono problemi, di fatto, dopo un anno, siamo arrivati come prima, il ciclo regolare.

D: Iole, a fianco a te, c’è una casacca. Una giacca.

R: Scusatemi. Questa era la nostra divisa con un’ostrichetta bianca con il triangolo rosso italiano. Questo è un nostro ricordo triste.

D: Iole la Liberazione come è avvenuta?

R: La liberazione è stata il 2 aprile del 1945, il fronte russo era vicino. E allora i tedeschi per non lasciarci nelle mani dei russi ci hanno trasferito ed abbiamo fatto tredici giorni per arrivare a Mauthausen, portando tutti gli attrezzi, cucina, munizioni, viveri, tutto a mano, tutto a mano, 30 chilometri al giorno per tredici giorni. Siamo arrivati a Mauthausen sfiniti poi ci hanno messo in un grande salone giù di 186 scalini, ci hanno portato in un grande casamento, però tutto aperto, per terra, dormivamo come le sardelle per terra, sul cemento. Lì non c’era, aspettare perché non si faceva niente. Se non aspettare. Poi il 3 o 4 maggio, hanno cominciato a mancare le sentinelle, ed allora si capiva che qualche cosa doveva essere successo, infatti il giorno 5 maggio del 1945 abbiamo visto entrare i primi americani nel portone centrale, da dove stavamo noi giù, abbiamo visto come sono entrati, con una bandiera bianca, lì ci ha sollevato. Ci ha sollevato, che qua non si credeva, ma nello stesso tempo, non vedendo le SS attorno a noi, avevamo una piccola speranza.

Poi lì abbiamo fatto non so quanti giorni e poi ci hanno portato su nel campo, fuori dove c’erano le baracche dei tedeschi ed eravamo lì dentro fino alla partenza.

Siccome c’era anche mio padre, ma non sapevo dove, allora ho chiesto ad una nostra collega guida, se per caso, perché per entrare nel campo dovevamo avere un lasciapassare, lei ci ha fatto questo permesso, sono andata su a vedere e domandare se mio padre era lì, ma non sapevano niente. Io non sapevo niente, non esisteva niente, nessuna roba, fino a che non sono ritornata a casa.

Mio padre lavorava a Salisburgo in una ditta di calzolai privati, sempre sotto il controllo delle SS, lui sapeva parlare il tedesco, ha chiesto ai capi, ma nessuno sapeva niente.

Lui è tornato a casa il 9 maggio del 1945 a piedi da Salisburgo a casa.

D: Invece tu?

R: Noi siamo partiti il giorno 29 maggio da Mauthausen e siamo arrivati il giorno 6 a Trieste, 6 giugno.

Abbiamo fatto sosta a Vienna, a Lubiana, e poi Trieste. Quando siamo arrivati a Trieste alla stazione, siamo scesi tutti e dicevano che dovevamo fare la quarantena, ma siccome a noi ci hanno fermato a Maribor, ed hanno fatto le visite, ci hanno rilasciato un documento che diceva che non avevamo malattie contagiose. Però io, Emma ed un’altra amica nostra è stata la fortuna, ho trovato il militare che era la guardia di servizio che non si doveva neanche andargli vicino a quello, pian piano gli hanno chiesto, ha detto “Non si può”, poi mi ha detto “Guarda che noi veniamo così, così e così”, infatti, è stato, ha detto ” Quando io passo giù, voi filate di qua” e così abbiamo fatto. Siamo andate noi tre, fuori dalla stazione abbiamo preso il tram n. 1, non avevamo soldi, viene il bigliettaio, e chiede i biglietti, e noi abbiamo detto che non abbiamo soldi perché veniamo da così così e così e lui si è opposto e ci ha fatto pagare i biglietti. Poi c’era della gente che se poteva lo linciavano. “Come hai il coraggio di chiederle? Non vedi in che condizioni sono ?” Una è scesa ed è andata sopra la Galleria che aveva una zia, ed io ed Emma siamo partite verso Sant’Anna e qua per andare a Viscosa che io avevo una zia che stava lì, lei ha proseguito avanti ed io mi sono fermata da questa zia. Quando arrivo da questa mia zia, erano tutti giù in corte, erano pieni di partigiani e militari quella volta, pieni, quando arrivo giù, avevo uno zainetto, lo butto là per terra e mi sono bloccata. Questa mia zia mi guarda e mi chiede cosa volessi, io al momento non potevo risponderle perché ero completamente bloccata, guardavo e poi “Zia, ma non mi conosci?” “No, chi sei tu? “Sono Iolanda”, “No, Iolanda è morta”, diceva mia zia. “No, zia sono io, così e così”, poi pian piano si è resa conto.

Quando siamo a Sant’Anna fuori dal tram, ho visto delle mie paesane, ho mandato a dire a casa mia, perché per il telefono non c’erano possibilità, ho detto di avvisare la mia famiglia di venirmi a prendere dalla zia, ma questa signora, rimasta anche lei scioccata, non mi conosceva, l’ho chiamata tre volte, poi mi ha promesso “Io vado a casa domani mattina o questa sera ed avviserò”, il secondo giorno la gioventù del paese aveva una conferenza a Capo d’Istria. Quella volta io ero da mia zia, avevo le gambe gonfie così, non mi sono più potuta muovere, allora questa signora è andata a casa, subito quella stessa sera, ha detto alla figlia, “Domani mattina andate a Capo d’Istria ed avvisa Amalia”, perché ci conoscevamo tutti.

Quando sono arrivate in questa sala riunioni la segretaria chiama “Chi è di Pregara?”, allora mia sorella ha detto “Sono io”, allora questo presidente gli ha detto: “Vai a casa e andate a prendere tua sorella a Trieste dalla zia Maria”. Mia sorella è rimasta con la bocca aperta. Gli hanno detto “Vai subito a casa”, altre due amiche l’hanno accompagnata a casa, sono venute a casa nostra, e mia mamma è rimasta. “Amalia che cosa è successo che sei già qui?” Mia sorella piangendo, “Iolanda è da zia Maria, andiamola a prendere”, “Ma viva o morta?” “Viva, viva”.

Infatti la stessa sera mio padre è andato, perché non c’erano mezzi, qualche cavallo, due famiglie li avevano e sono venuti il giovedì mattina, il giorno 8 giugno, sono venuti da mia zia a prendermi con il cavallo e con il carro, per portarmi a casa. Mi hanno messo sul carro e lì sono rimasta come un pezzo di legno.

Prima di venire in casa in paese, mi ha aspettato tutta la gioventù con le bandiere, tutti, ma due chilometri e mezzo fuori dal paese.

Quando siamo alle porte del paese erano tutti i bambini con le bandiere, tutti. Chi poteva camminare. Mi hanno aspettato, sono venuta a casa, mi hanno messo giù dal carro, sono andata in casa, mi sono seduta sulla panchina grande in cucina, e c’era gente che andavano uno sulle spalle all’altro per vedermi. Perché non si rendevano conto che non ero più io. E mio papà è venuto prima, lui mi ha dato un po’ di forza.

Di mio fratello non sapevamo niente. Io ho pensato “Non ritornerà più”, perché avevamo visto che cosa era. Invece loro sono stati liberati dai russi e lui è venuto a casa appena in agosto. Ma lui è venuto a casa ben nutrito, tutto sistemato bene. E così. Ma io pesavo 36 chili quando sono arrivata a casa.

Io andavo a dormire la sera in letto, perché non c’erano materassi di lana, né permaflex purtroppo, i paioni con le foglie del granoturco, e si dormiva. Io di notte mi alzavo e andavo per terra a dormire, mia madre due o tre volte la notte si alzava e mi metteva in letto. Ed io facevo così. Fino a che pian piano mi sono sistemata.

Poi andavo fuori dalla porta e cadevo per terra perché non avevo forza nelle gambe, era un calvario. Poi pian piano mi sono ripresa e poi sono venuti da Capo d’Istria le Commissioni della polizia, perché loro sapevano tutto, sapevano la storia, chi mi ha fatto andare e tutto. Mi portavano il verbale, basta firmare per farla sparire, ed io ho detto “Mi sono fatto una promessa, di non fargli del male a nessuno” e infatti non gli ho fatto del male, non ho voluto denunciarla, è viva ancora oggi. Però non ci vediamo. Non poco, niente. Gli anni indietro, se poteva mi schivava, ma non mi interessa.

Ed io pensavo che nessuno sapeva niente di queste cose, invece in marzo quest’anno sono stata da un mio parente e mi ha detto “Sai Iolanda tutti sapevamo. Tutti subito. Come è stato, chi è andato. Cosa ti hanno fatto. Ma hai avuto la fortuna che sei ritornata ed hai riportato a casa la tua pelle. Questo forse è un grande smacco per chi ti ha fatto questo” e infatti, guardi.