Thaler Franz

Franz Thaler

Nato il 06.03.1925

Intervista del: 25.07.2000 a Bolzano/Bozen realizzata da
Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari
TDL: n. 35 – durata: 58′

Arrestato/Verhaftet: Belluno
Incarcerato/Inhaftiert: Silandro/Schlanders (BZ)
Deportato/deportee: Dachau; Hersbruck; Dachau
Liberato/befreit: 19.08.1945 Francia/Frankreich

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Nota sulla trascrizione della testimonianza:
L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Franz Thaler, sono nato il 6 marzo 1925. Negli anni Trenta, dal 1931 al 1939, ho frequentato la scuola italiana. Poi quando avevo 14 anni. Mio padre… Ci sono state le opzioni. Mio padre ha scelto di rimanere, ha scelto l’Italia. Dunque io ero italiano.
E poi la gente un pochino… “Tu sei un italiano!” (Walscher!, dispregiativo). Sono stato messo in disparte. Erano tempi brutti. Erano pochi quelli che avevano scelto di restare e sono stati un poco angariati. Dicevano: “L’italiano!” (“Der Walsche!”)
Poi è arrivato un maestro tedesco che doveva insegnare il tedesco ai ragazzi e ai bambini. Una domenica siamo andati tutti a scuola. Il maestro si scriveva i nomi e quando è stato il mio turno anch’io volevo dirgli il mio nome. Però sono intervenuti alcuni ragazzi che hanno urlato “Lui è un Walscher!”
Allora questo maestro mi ha guardato per un po’ e poi mi ha detto che dovevo andarmene, lui voleva insegnare solo ai bambini tedeschi. Questo è stato, per dire, il primo colpo. È andata avanti così. Avevo dei bravi compagni. Se qualche volta non andavamo d’accordo allora mi dicevano “maiale italiano!”.

D: In che paese abitava Lei all’epoca?

R: A Valdurna. È una frazione di Sarentino, proprio in fondo alla valle. Poi vennero tempi in cui molti dei tedeschi dovettero arruolarsi, anche degli italiani. Poi presto si cominciò a sentire che dei soldati erano caduti in guerra. E allora il grande entusiasmo per la Germania cominciò a scemare. C’erano quelli che imprecavano contro Hitler e che prima avevano gridato “Heil Hitler!”. Avevano visto che non andava bene.
Nel 1943 ci fu la capitolazione di Mussolini. Da lì in poi Hitler ha avuto tutto il potere su di noi. Si sono gettati su di noi. Abbiamo dovuto fare la visita di leva, tutti insieme, gente dai 16 ai 50 anni. Ovviamente la maggior parte era abile all’arruolamento. E anch’io lo ero.
Poi ho pensato che presto avrei dovuto arruolarmi. Sono scappato. Poi un accanito nazista del nostro paese ha detto a mio padre: “Se il Franz non si presenta, verranno messi in carcere suo padre e sua madre”. Allora mio padre mi ha cercato. Sapeva più o meno dove mi nascondevo. Stavo in montagna, non potevo farmi vedere da nessuno.
Quando volevo prendere qualcosa da mangiare dovevo muovermi di notte, senza luce. Avevo un fratello dall’altra parte (della montagna), andavo da lui. Mi dava burro e formaggio, lassù faceva il malgaro … la notte potevo andare a prendere qualcosa. C’erano anche un paio di altri compagni, da cui potevo andare.
Così la vita è andata avanti. Era estate. Mi sembrava di essere un animale selvatico. Appena sentivo un rumore mi spaventavo molto, volevo scappare
Un giorno passavo per il bosco, ho visto due uomini dietro un albero e volevo già scappare. Poi uno mi ha chiamato: “Fermati Franz! Non ti facciamo nulla!” Allora ho subito riconosciuto la voce. Era un collega di Vilandro. Ci conoscevamo da tanto tempo. Mi sono fermato, mi sono avvicinato un po’ a loro, abbiamo parlato e poi loro sono andati per la loro strada. Non è successo nulla..
Dovevo spostare continuamente il campo. Una volta sono stato forse tre settimane in una distilleria di pino mugo, ma me ne sono dovuto andare. Sono stato in un fienile, forse per due-tre settimane, e poi di nuovo in un altro fienile. Avevo tre fienili e la distilleria. Lì trascorrevo le notti.
Non era bello, tuttavia più bello di quello che è venuto dopo. Poi mio padre mi ha cercato e mi ha pregato: “Ti prego Franz, consegnati, altrimenti rinchiudono me e la mamma”. E tu cosa fai, allora? Volevo risparmiare un dolore ai miei genitori e mi sono consegnato. Sembrava che se mi fossi consegnato non sarebbe successo niente a me e ai miei genitori.
Io non ci credevo, ma la sera sono andato a casa. Poi è arrivato il comandante del posto (Ortsleiter), il nazista, e ha detto: “È bello, Franz, che tu adesso ti arruoli. Aiuti a combattere per Hitler.” Il giorno dopo sarei dovuto andare a Bolzano. Poi hanno chiesto un po’ e quindi mi hanno dato un foglio, una convocazione a Silandro per il servizio militare.
Sono arrivato là. C’erano molti conoscenti delle mie parti. “Come mai sei venuto qui?” Ho raccontato loro come era andata. Ho fatto due mesi di addestramento.

D: Quando sono stati questi due mesi?

R: Dal 21 settembre fino a due mesi dopo, in novembre. Terminato l’addestramento gli altri sono stati mandati giù in Italia, a Belluno ed io sono stato messo in prigione. Sono dovuto andare dal comandante del battaglione e lui mi ha letto una lettera: “Dovevi arruolarti a giugno e sei rimasto a gironzolare in montagna”. Mi ha chiesto se era vero. Ho pensato che ormai non potevo più negare.
Poi mi ha detto: “Domani andrai a Bolzano al Tribunale di Guerra!”. Il sergente (Wachtmeister) della mia compagnia mi ha portato a Bolzano. Sono entrato in una grande sala. C’era un tavolo. Dietro al tavolo sedevano otto/dieci SS. Erano i giudici. Uno di loro ha letto un foglio, il codice penale: “Per coloro che rifiutano il servizio militare c’è la pena di morte”. Ho pensato “In nome di Dio, qui mi fucilano.”
Le cose sono andate in modo diverso. Hanno guardato un po’. Pensavano che sarei svenuto, ma non l’ho fatto. Ho sorriso loro. Poi un SS ha preso un altro foglio e ha letto la sentenza: “Poiché l’imputato è minorenne”, perché allora si diventava maggiorenni a 21 anni ed io ne avevo solo diciannove, “e poiché si è presentato volontariamente, egli non viene condannato a morte, ma a 10 anni nel campo di concentramento di Dachau“.
In un primo momento ho pensato che mi fosse andata di nuovo bene, visto che non venivo fucilato. La parola Dachau non mi diceva nulla, non l’avevo mai sentita prima.
Sono rimasto altre tre settimane in prigione a Silandro. Quindi mi hanno portato a Dachau. Già il viaggio è stato un po’ duro, in viaggio verso Dachau, ho visto e vissuto tante cose. Quando siamo arrivati a Dachau un gruppo di lavoratori usciva proprio in quel momento dal portone, tutti magri, pallidi. Ho pensato a cosa si dovesse vivere in quel posto per avere quell’aspetto. L’ho capito più tardi.
Mi sono dovuto togliere i vestiti. Mi hanno chiesto perché ero lì, qual era la mia pena e la mia religione. Io ho detto: “Sono cattolico!” L’uomo delle SS allora mi ha risposto: “Qui da noi imparerà a pregare in modo diverso”.
Sono stato fotografato da tutti i lati. Ho ricevuto una camicia logora e un paio di mutande. Poi un SS mi ha portato nel bunker. È un edificio lungo, a destra e sinistra lungo il corridoio si aprono le celle, l’SS ha aperto una porta nel mezzo, mi ha dato uno spintone e buttato dentro. Mi sono guardato intorno. In alto c’era una finestra a bilico. Era stata verniciata di bianco, poi un castello, due letti. Non c’erano letti, solo… Non c’erano coperte, non c’era proprio niente.
Volevo sedermi. Era pressoché impossibile. Mi sono seduto sul coperchio del gabinetto e ho pensato: “Cosa mi succederà adesso?”. Erano già un paio di giorni che non mangiavo nulla. Mi sembrava che mi succedesse quello che accadeva alle bestie dei contadini, forse ai maiali, anche i maiali non venivano più nutriti al mattino. Mi sembrava di essere così: Oggi mi affamano e domani mi fanno fuori. Poi ho sentito dei passi nel corridoio. Ho sentito che veniva aperta la cella accanto alla mia e ho sentito urlare: “Fuori subito”. Ho sentito un uomo che usciva in corridoio. Poi è stata aperto la mia cella: “Fuori subito!”. Abbiamo dovuto pulire il lungo corridoio. All’ingresso c’era un lavatoio. Dovevamo prendere le pezze, un secchio con l’acqua, la paletta e la scopa. Ho pensato che la cosa più semplice era lavorare con la scopa e la paletta.
Allora l’uomo delle SS mi ha subito urlato addosso: “Fannullone! Imparerà con cosa si inizia!”, perché si doveva sempre iniziare dalle cose più pesanti, poi si passava a quelle più leggere. Quando vedevano che tu iniziavi dalle cose più facili, per loro eri il fannullone che voleva cavarsela.

Mi ha preso a ceffoni. Io avevo la paletta e la scopa, l’altro un secchio con l’acqua e le pezze. Mi sono dovuto accucciare e ho dovuto dare la paletta e la scopa all’altro. Poi mi ha dato una scopa. Accucciato ho dovuto saltellare due volte su e giù per tutto il corridoio. Alla fine ero stremato. E poi pulire in fretta il corridoio. Tutto doveva avvenire a passo di corsa.
Finito il lavoro abbiamo riportato indietro le cose e siamo rientrati nelle celle. Ho avuto tempo di pensare a quello che avevo fatto di sbagliato. È andata avanti così. Per cena mi hanno versato in una ciotola di alluminio un po’ di zuppa di cavolo. Sulla porta della cella c’era uno sportello che si poteva aprire e formava una specie di tavolino. Lì bisognava appoggiare la ciotola che veniva riempita. Ho mangiato quello che mi hanno dato, ma era troppo poco. Col dito ho pulito bene tutto.
Era ora di dormire. Non sapevo dove mettermi. Sulla cosa di legno, che era lunga ma nel mezzo aveva una trave, non ci si poteva quasi sdraiare. Quando hanno spento la luce mi sono messo sul pavimento. C’era un termosifone con due elementi ma sicuramente non scaldava. Io gelavo.
Al mattino presto ho sentivo che veniva distribuito il caffè. Si è aperto lo sportello, ci ho messo la ciotola e ho pensato: Mi daranno ben del pane. Sono rimasto così. Allora l’altro mi ha chiesto urlando che cosa aspettavo, mica il pane, vero? Io ho detto “Si.” “No, non c’è pane”. Allora ho bevuto il caffè, era solo acqua sporca. Sono rimasto tre giorni nella cella.
Una volta, finito di pulire il corridoio, dovevamo consegnare le cose e abbiamo sentito urla provenire dal bunker. Poi si è aperta la porta e sono entrate 8-10 persone, rasate a zero, in camicia e mutande. Abbiamo sentito: “Mamma mia!” e abbiamo capito che erano italiani. Li hanno rinchiusi tutti insieme nella stessa cella.
E di nuovo si doveva pulire il corridoio. Sono passati davanti alla mia cella e hanno aperto quella dopo. E l’SS ha urlato “Due uomini subito fuori!”, ma loro non capivano che cosa aveva detto. Così l’SS è entrato nella cella, ha buttato due ragazzi in corridoio e li ha picchiati duramente. Loro hanno dovuto pulire il corridoio.
Da quel giorno la pulizia del corridoio la facevano gli italiani. Dopo tre giorni ho ricevuto dei vestiti. Non era un abito a righe, era un’uniforme dell’esercito italiano. Mi hanno messo in una baracca. C’erano quattro/cinque diversi …Come si dice? Francesi, svizzeri, russi, appunto diversi.
È arrivato il Natale. Abbiamo detto, forse potevamo suonare qualcosa per Natale. Abbiamo persino fatto un alberello con appesi un paio di pezzi di carta colorata.

D: Ha ricevuto un numero di matricola a Dachau?

R: No. Eravamo un pochino separati dal campo principale. Per noi era previsto che andassimo in un campo esterno e avevamo “Frontbewährung”, cioè se avevano bisogno di noi potevano mandarci al fronte. Noi non abbiamo ricevuto l’abito a righe.

D: La sua baracca aveva un numero?

R: No, era separata, ma annessa all’edificio del bunker

D: Accanto al grande muro del campo di concentramento?

R: Ben dentro, dietro il muro. Ho visto come era fatta la recinzione. Prima c’era un fossato con l’acqua dentro. Poi c’era il filo spinato, in rotoli. Poi c’era anche il muro, con filo spinato sulla sommità. Tutto aveva la corrente ad alta tensione, perché non si poteva scappare, non c’era possibilità.
Ci hanno detto che il 27 saremmo andati in un campo esterno, a Hersbruck. Al mattino presto ci hanno detto “Preparate tutto per il trasporto“. Non avevamo tanto da preparare: la ciotola e il cucchiaio e una coperta, no, nessuna coperta. Poi ci hanno stipati in un carro bestiame, hanno chiuso le porte. Sulla parte alta c’era una finestrella con una grata.
Siamo partiti. Quando c’era l’allarme aereo il treno si fermava. In qualche modo ci mettevano al riparo. Stavamo fermi anche una mezza giornata, una mezza nottata o una notte intera. Poi si proseguiva. Penso che ci abbiamo messo due giorni ed una notte per arrivare a Hersbruck. Siamo arrivati di sera. Nevicava.
Le SS ci stavano aspettando. Siamo scesi dal treno. In fila per tre ci siamo avviati per un sentiero ripido e dovevamo camminare svelti, le SS ci davano addosso con i manganelli ed i calci dei fucili. Abbiamo camminato un bel po’ sotto la pioggia e la neve. Eravamo stremati. La notte non avevamo dormito e non avevamo mangiato. Ci avevano dato un pochino di rancio, che ognuno di noi aveva divorato subito. Abbiamo continuato la salita. Abbiamo visto delle luci. Allora era lì che saremmo andati? E invece no, siamo passati oltre. Poi siamo arrivati in un avvallamento. C’era un grande edificio. C’era un torrente. Abbiamo attraversato un ponte. Poi hanno distribuito delle fettine di pane che dovevano essere suddivise tra quattro persone: dovevamo stare attenti a dove andava l’uomo che aveva ricevuto il pane, altrimenti saremmo rimasti senza… Siamo arrivati.
Nel grande edificio, mi hanno mandato al secondo piano. Erano già passate le tre di notte. Hanno acceso le luci. C’erano dei tavolati a tre piani. Con la luce qualcuno ha guardato giù dalle cuccette e ha urlato. “Franz, sei qui anche tu adesso?” Con lui ero stato in prigione a Silandro. Mi ha fatto piacere trovare persone conosciute.
Mi hanno assegnato un giaciglio e mi sono potuto sdraiare. C’erano un pagliericcio sottilissimo ed una coperta. Ho preso la coperta, mi sono sdraiato, mi sono infilato sotto la coperta, mi sono tolto i vestiti e li ho messi sopra la coperta. Ero così stanco. Mi sono addormentato subito.
Al mattino ci svegliavano i fischietti. Tutti fuori in fretta dalle cuccette per andare a lavarsi. Bisognava togliersi la camicia e scendere al lavatoio al piano di sotto. Era andato tutto bene. Il giorno dopo lo stesso. C’era un italiano, era più giovane di me di un anno, che nella fretta dimenticò di togliersi la camicia. Arrivò al lavatoio con la camicia addosso. Le SS non aspettavano altro che arrivasse qualcuno con la camicia addosso. L’italiano ha dovuto spogliarsi completamente. Con un tubo gli hanno gettato addosso acqua gelata ed un altro con uno spazzolone lo ha spazzolato fino a che non era tutto rosso di sangue. Non lo abbiamo più rivisto. Abbiamo pensato che fosse morto …
Il giorno dopo ancora una visita. Ho dovuto raccontare perché ero lì e per quanto tempo. Poi siamo stati pesati. Pesavo ancora 45 chili. Prima di costituirmi ne pesavo 69.

D: Ho capito bene? Lei è stato pesato a Hersbruck?

R: Si.

D: Dalle SS?

R: Si. No, c’erano anche dei prigionieri. Ho pensato: Più giù di così non può andare. E invece è andato ancora tanto più giù. Per il lavoro pesante, il cibo scadente, al mattino l’acqua sporca senza pane, senza zucchero, a mezzogiorno la zuppa di cavolo o forse una volta la zuppa di piselli o se tutto era andato davvero bene, a Pasqua abbiamo ricevuto due patate lessate, se erano piccole tre patate, se erano grandi due. Non si toglieva la buccia. Si riceveva anche un cucchiaio. Si mangiava tutto insieme. Questo era il cibo buono.
Oggi non riesco più a immaginarmi com’era con quel cibo, quel lavoro. Si faceva il possibile per sopravvivere…
Ero contento che ci fossero tanti italiani con me, italiani, croati, la maggior parte erano però italiani, ho imparato un po’ di italiano. Il mio miglior compagno era uno che veniva dal Trentino. Si chiamava Filzi, credo, Giovanni Filzi.
Più di tanto non potevamo parlare durante il lavoro. Solo quando tornavamo alle baracche avevamo forse una mezz’ora libera. Allora potevamo parlare. Di cosa volete che si parlasse? Di cosa sarebbe successo? Si parlava del cibo. Era sempre il primo pensiero. Avevamo tutti una tale fame.

D: Che lavoro faceva?

R: Ero alla cava.

D: Andava a piedi alla cava?

R: A piedi. Fino alla cava ci si metteva circa 10 minuti. Abbiamo costruito noi un Lager vicino. Era mezzo finito quando siamo arrivati. Dovevamo sistemare le pietre.
Un prigioniero francese con una slitta ed un cavallo trasportava le pietre al Lager. Era un lavoro tremendo senza guanti. Le pietre coperte di neve… Era duro. Avevamo pessime scarpe, senza calze. Stavamo tutto il giorno nella neve.
Era tremendo alzarsi al mattino e infilare i piedi nudi nelle scarpe gelate. Non era piacevole. Così è andata avanti.
Poi mi è venuta la scabbia. È una malattia che comincia tra le dita. A me è venuta su tutto il corpo, ero tutto ulcerato. Se si faceva pressione, dalle ulcerazioni uscivano sangue e pus. Stavo sempre peggio, e la scabbia è una malattia contagiosa. I miei migliori compagni mi evitavano. Questo non l’ho più sopportato.
Ho detto al kapò: “Per favore, domani mi dia malato.” Non ci si dava malati volentieri, perché se si era malati troppo poco la si sarebbe pagata cara. Io non ce la facevo più. C’era anche un italiano, quasi con la stessa malattia. Il giorno dopo ci siamo presentati. Dietro la scrivania sedeva un SS. Ci siamo spogliati. Mi ha guardato. Cosa c’era che non andava? “Guardi lei stesso!”
Allora mi ha guardato da capo a piedi: “Porco! Perché non l’ha detto prima?”. E così sono stato mandato via. Poi si è presentato il prossimo. Gli ha subito gridato addosso. Ci hanno cosparso tutto il corpo con un liquido. Sembrava olio da cucina.
Poi dovevamo tornare al lavoro. Dopo una settimana eravamo quasi guariti. Ho trovato di nuovo il coraggio per vivere ancora. Si andava avanti così. Un mattino avevo brividi tremendi. Ho pensato che non potevo più darmi malato. Poi ho pensato che se avessi ricevuto un caffè caldo e acqua calda mi sarei scaldato. Sono andato al lavoro. Dovevo continuamente andare di corpo. Avevo la dissenteria. Cioè, dovevo andare sempre alla toilette. Lo stomaco, tutto andava fuori.
Il kapò della squadra di lavoro se ne accorse. Dovevo sempre chiedere. Uno delle SS mi ha urlato “Vuoi forse scansare il lavoro?” Il kapò mi ha detto che non dovevo più lavorare, mi potevo sedere. Dovevo comunque svuotarmi continuamente.
A mezzogiorno tornavamo sempre alla baracca per mangiare.
Ho detto al kapò che non c’era niente da fare, doveva darmi malato. Allora qualcuno mi ha portato un termometro. Avevo la febbre ben oltre i 39°. Ero idoneo all’infermeria. Ci sono andato. Nella cuccetta c’erano già tre uomini. Non sapevo se erano ancora vivi o no. Erano pallidi. I vivi si distinguevano dai morti per il respiro e per gli occhi che si muovevano.
Alla sera stavo malissimo. Ci hanno portato una zuppa. Ero talmente debole che non ero neppure in grado di mangiarla. Il mio vicino si era già un pochino ripreso e continuava a guardare la mia zuppa. Ho detto “La puoi mangiare. Io non ce la faccio.”
Era il giorno del mio compleanno, il 6 marzo. Ho pensato che fosse la fine, in nome di Dio, adesso mi addormento e non mi sveglio più. Poi ho perso conoscenza. Il giorno dopo quando mi sono svegliato stavo un pochino meglio. Ho mangiato metà della zuppa. lentamente ho cominciato a stare meglio. È venuta un’infermiera e ci ha dato un cucchiaio pieno di carbone macinato. Questa era la medicina per la dissenteria. Poi ci ha prelevato il sangue, per cosa poi non sono ancora riuscito a capirlo.
La volta dopo è venuta un’infermiera della Croce Rossa. Non so se era un’infermiera della Croce Rossa o meno. Doveva farci un prelievo di sangue. Quattro, cinque volte ha mancato la vena, non l’ha trovata. Allora è andata da un altro. È successa la stessa cosa. È un po’ arrossita e se ne è andata. È tornata allora l’altra infermiera. Era vecchia, non ha detto assolutamente niente. Lei ce l’ha fatta.
Ho dimenticato qualcosa. Abbiamo pregato l’infermiera… Io dovevo ancora svuotarmi. Ho pensato “Come faccio?” Non ero in grado. In quello stesso momento me la sono fatta addosso. Non si poteva chiamare nessuno per fare pulire. Sono rimasto nei miei escrementi.
Il giorno dopo abbiamo chiesto all’altra infermiera se ci portava un vaso da notte. Si, ce l’ha portato. Però non l’abbiamo usato. Dovevamo restare nei nostri escrementi.
Miglioravo. Il terzo giorno al mattino ho visto che due uomini non c’erano più. Ho chiesto al mio vicino cosa fosse loro successo. Non sapeva se erano morti o se li avevano solo portati via, probabilmente erano morti. Siamo rimasti 16 giorni all’infermeria. Poi siamo tornati al lavoro.
Con la coperta sotto il braccio, il cucchiaio e la ciotola in mano… Da una parte tornavamo volentieri dai nostri compagni, dall’altra avevamo già di nuovo paura della vita del Lager, di quanto accadeva. Eravamo così deboli che potevamo stare appena in piedi e fare qualche passo.
Non siamo più andati al lavoro fuori nella cava, nel Lager c’erano diversi lavori da fare. C’erano un francese ed un tedesco. Non avevano alcun interesse a maltrattarci. Se solo avessimo ricevuto cibo a sufficienza ci saremmo ripresi più in fretta. I tempo era bello, il sole splendeva. Eravamo alla fine di marzo.
Se solo avessimo ricevuto cibo a sufficienza ci saremmo ripresi più in fretta, purtroppo il cibo era scadente. Poi ci hanno detto che tornavamo a Dachau. Il fronte si avvicinava sempre più, arrivavano gli americani. Hanno sgomberato il Lager. Non so più con precisione se il 4 o il 5 aprile ci hanno detto: “Prepararsi per il trasporto a Dachau”. Anche quello fu un brutto viaggio.
Arrivavano gli aerei americani a bassa quota. Quando vedevano un treno sparavano. So che una volta dovevamo andare al bagno, abbiamo bussato alla parete. Ci hanno urlato dentro: “Fatela come la fanno tutti i maiali!”. Ognuno l’ha fatta nel posto dove si trovava. C’era una puzza tremenda.
Una volta stavamo mangiando, siamo potuti scendere e abbiamo ricevuto da mangiare. Mentre eravamo fuori sono arrivati gli aerei americani, sono passati oltre ma hanno visto che c’era qualcosa. Allora sono tornati indietro. Su una strada c’erano 5-6 uomini delle SS. Gli hanno sparato…
Due erano feriti in modo grave, abbiamo visto, ed un paio feriti in modo più leggero li hanno caricati nel vagone, noi ci hanno chiusi di nuovo nel carro bestiame. Siamo ripartiti.

D: Purtroppo il tempo passa molto in fretta. Abbiamo ancora cinque minuti. Può raccontarci dove è stato liberato? Quando? Cosa Le accadde dopo la liberazione ufficiale?

R: Giunse il 29 aprile. Avevamo sempre il fronte … sentivamo gli spari e vedevamo tutto. Eravamo contenti che arrivavano gli americani, ma avevamo anche paura, cosa avrebbero fatto di noi prima di lasciarci liberi?
Giunse il 29 aprile. La guardia era un po’ sparita. Abbiamo pensato, io e due della Val Passiria e diversi italiani, adesso guardiamo in cucina. Non c’erano guardie da nessuna parte.
Uno ha detto: “Guardiamo se la porta del Lager è aperta”. Siamo andati e era aperta. Siamo usciti dal Lager e siamo arrivati agli alloggiamenti delle SS. È stato uno sbaglio. Ho pensato di cercare qualcosa da mangiare. Non abbiamo trovato nulla.
Siamo entrati in una baracca. C’erano divise delle SS. Uno ha detto: “Cambiamo le nostre camicie sporche e piene di pidocchi”. Detto fatto. Dopo che ci siamo cambiati sono arrivati due americani e ci hanno fatto segno di seguirli. Siamo andati. Abbiamo sorriso loro. Erano i nostri liberatori! Abbiamo camminato un po’, c’era un grande cortile, un grande portone. Abbiamo visto che avevano fucilato un gran numero di SS, gli americani.
Abbiamo pensato: “Giusto che vi succeda questo!”. Siamo andati avanti ancora per 25 m. Poi ci hanno messo al muro, con la faccia verso il muro e le mani sopra la testa. Abbiamo pensato, adesso fanno a noi quello che abbiamo visto hanno fatto agli altri. Siamo rimasti lì un bel po’.
C’erano due o tre ufficiali americani ed un paio di soldati. Ci hanno detto: “Abbassate le mani e giratevi!” Discutevano su cosa fare di noi. Eravamo vestiti per metà da SS e per metà da prigionieri. Ne siamo usciti vivi. Non ci hanno rimandato nel Lager, bensì con i soldati tedeschi prigionieri. Il sesto giorno abbiamo ricevuto per la prima volta da mangiare.
Ancora una volta mi sono lasciato andare. Avevo perso i miei compagni della Val Passiria. Pioveva e nevicava. “Così” alto era il sudiciume. Non ci si poteva sdraiare. Il quinto giorno ho pensato: non ce la faccio più, mi lascio cadere, mi addormento e non mi sveglio più. Quelli della Val Passiria mi hanno visto, hanno detto: “Franz, alzati! Così muori!” Io ho detto: “Non ce la faccio più”.
Mi hanno aiutato ad alzarmi: “Si, ce la farai!” Ho pensato che a casa sarei tornato volentieri. ma non ci credevo proprio tanto. Gli altri: “Certo. Ce la faremo. Ora siamo pronti”. Poi ci è stato detto che il giorno dopo avremmo ricevuto di sicuro qualcosa da mangiare. Ero contento, forse era vero che avremmo ricevuto qualcosa da mangiare.
Si, è successo. Il giorno dopo abbiamo visto dei furgoni davanti al Lager, era tutto all’aperto, hanno scaricato delle scatole di cartone, hanno cominciato a distribuire, due piccole scatolette. In una c’erano fagioli, un po’ d’olio e nell’altra un paio di biscotti e delle caramelle. Io ero l’ultimo. Guardavo continuamente. Chissà, forse non ce n’era abbastanza anche per me.
E invece ce n’era abbastanza! Mi sono seduto con le gambe incrociate, ho cominciato a mangiare, ho pianto. Poi è andato tutto meglio. Sono rimasto quattro mesi prigioniero degli americani. Ci davano poco da mangiare, ma quello che ci davano era buono.

D: In quali Lager, in quali città ha trascorso questi quattro mesi?

R: Dapprima un mese in Germania in diversi Lager, sempre all’aperto, e poi in Francia, in un grande campo di prigionia. Lì i malati o i deboli avevano una tenda separata… C’erano grandi tende. Io sono finito in una tenda per malati. Poi è andata un pochino meglio.

D: L’ultima domanda. Quando è arrivato finalmente a casa?

R: Il 19 agosto.

D: Di che anno?

R: 1945.

D: Si è pesato?

R: Poco dopo essere uscito dal Lager mi sono pesato. Pesavo poco più di 30 kg, forse 31.

D: Grazie infinite, signor Thaler.

(traduzione dall’originale tedesco dell’Ufficio Traduzioni del Comune di Bolzano)

Ich heiße Franz Thaler, bin geboren am 6. März 1925.
Dann bin ich den 30er Jahren, von 1931 bis 1939 in die italienische Schule gegangen. Da war ich dann 14 Jahre alt. Mein Vater… Da kamen die Wahlen. Mein Vater hat sich für das Hierbleiben, für Italien entschlossen. Dann war ich ein Italiener.
Da haben die Leute dann ein bisschen… “Du bist ein Walscher!” Da war ich auf die Seite geschoben worden. Das waren damals schlimme Zeiten. Es waren wenige, die für das Dableiben gewählt haben und die hat man schon ein bisschen schikaniert. Es hat geheißen: “Der Walsche!”
Dann kam ein deutscher Lehrer in die Ortschaft und er sollte die Jugendlichen und die Kinder Deutsch unterrichten. An einem Sonntag gingen die Jugendlichen und die Kinder alle zur Schule. Der Lehrer hat den Namen aufgeschrieben und als er zu mir kam wollte ich auch meinen Namen sagen. Dann kamen schon welche vor und schrieen: “Das ist ein Walscher!”
Da hat mich dieser Lehrer ein bisschen angeschaut und hat gesagt ich soll gehen er möchte nur deutsche Kinder unterrichten. Es war so zu sagen der erste Schlag. Dann ging es so weiter. Ich hatte gute Kollegen. Wenn wir einmal nicht gut auskamen dann war ich “Der walsche Schwein!”.
FRAGE: In welchem Dorf wohnten Sie zu jener Zeit?
ANTWORT: Durnholz. Das ist eine Fraktion von Sarnthein, ganz hinten drein. Dann kamen die Zeiten, es mussten ziemlich viele einrücken von den Deutschen, auch Italiener. Dann hörte man bald einmal, dass Soldaten gefallen sind. Da war dann die große Begeisterung für Deutschland schon ein bisschen gesunken. Da waren schon manche, die über Hitler geschimpft haben, die vorher “Heil Hitler!” geschrieen haben. Sie haben dann gesehen es geht nicht gut.
Im Jahre 1943 hat Mussolini kapituliert. Dann hat Hitler die Macht gehabt über uns. Dann ging es auf uns los. Da wurden wir gemustert, von 16 Jahre bis 50 Jahre alte Leute, alle zusammen. Natürlich waren die meisten tauglich zum Einrücken. Ich eben auch.
Dann habe ich mir gedacht ich werde müssen bald einmal einrücken. Ich bin geflüchtet. Dann hat ein großer Nazi von unserem Dorf zum Vater gesagt: “Wenn sich der Franz nicht stellt, wird der Vater und die Mutter eingesperrt.” Dann hat mich mein Vater gesucht. Er hat ungefähr gewusst wo ich mich aufhalte. Ich war am Berg droben, durfte mich von niemandem sehen lassen.
Wenn ich etwas zum Essen holen wollte oder so, habe ich immer nachts gehen müssen ohne Licht. Ich hatte einen Bruder auf der anderen Seite, bin zu dem hingegangen. Er hat mich mit Butter und Käse, er war Senner droben… habe ich können nachts hingehen ein bisschen etwas holen. Es waren noch ein paar Kollegen, zu denen ich konnte hingehen.
So ist das Leben weiter gegangen. Es war Sommer. Ich bin mir irgendwie vorgekommen wie ein wildes Tier. Wenn ich ein Geräusch hörte, bin ich immer aufgeschreckt, wollte davonlaufen.
Einmal bin ich durch den Wald gegangen, da sah ich zwei Männer hinter einem Baum stehen und ich wollte schon die Flucht ergreifen. Dann hat mir einer nachgerufen: “Halt Franz! Wir tun dir nichts!” Dann habe ich gleich die Stimme erkannt. Es war ein Kollege aus Villanders. Wir hatten uns vorher schon lange gekannt. Da habe ich gehalten, bin ein bisschen näher zu ihnen gegangen, haben ein bisschen gesprochen und sie sind ihre Wege gegangen, ich meine. Es ist nichts passiert.
Ich musste immer das Lager wechseln. Einmal war ich in einer Latschen Brennerei, war vielleicht drei Wochen, musste wieder gehen. Ich war in einem Heuschuppen, vielleicht zwei-drei Wochen, dann wieder zum nächsten Heuschuppen. Ich hatte drei Heuschuppen und die Latschen Brennerei. Das war mein Nachtlager.
Es war nicht schön, aber trotzdem schöner als nachher. Dann hat mich mein Vater gesucht und hat mich gefunden und hat mich gebeten: “Bitte Franz, stell dich, sonst sperren sie mich und die Mutter ein!” Was machst du dann? Ich wollte den Eltern ein Leid ersparen, dann habe ich mich gestellt. Dann hat es noch geheißen wenn ich mich stelle passiert mir nichts und auch den Eltern nichts.
Geglaubt habe ich es nicht, aber ich bin abends nach Hause. Dann kam der Ortsleiter, der Nazi, hat gesagt: “Das ist schön Franz, dass du jetzt einrückst. Hilf für den Hitler kämpfen.” Am nächsten Tag hätte ich sollen nach Bozen gehen. Da haben sie ein bisschen gefragt und nachher einen Zettel gegeben, eine Einberufung nach Schlanders zum Militär.
Dann bin ich da hingekommen. Da waren viele Bekannte aus meiner Ortschaft. “Wieso kommst du da her?” Ich habe ihnen erzählt wie es gegangen ist. Dann habe ich zwei Monate Ausbildung gemacht.
FRAGE: Wann waren diese zwei Monate?
ANTWORT: Das war vom 21. September, zwei Monate weiter dann war November. Als die Ausbildung fertig war, die anderen kamen in Einsatz in Italien unten, Belluno und mich haben sie ins Gefängnis getan. Da musste ich dann zum Bataillonskommandeur gehen und der hat mir dann einen Brief vorgelesen: “Du solltest im Juni einrücken und hast dich im Berg herumgetrieben.” Er hat gefragt ob das stimmt. Ich habe mir gedacht jetzt kann ich auch nicht mehr leugnen.
Dann sagt er: “Morgen kommst du nach Bozen auf das Kriegsgericht!” Da hat mich dann mein Wachmeister von meiner Kompanie, wo ich vorher war, nach Bozen gebracht. Da kam ich in einen großen Raum hinein. Da war ein Tisch. Dahinter saßen 8-10 SS-Männer. Das waren die Richter. Dann hat einer einen Zettel herunter gelesen, das Strafgesetz: “Für diejenigen, die den Kriegsdienst verweigern ist die Todesstrafe.” Ich habe mir gedacht: “In Gottesnamen, werde ich eben erschossen.”
Da kam es ein bisschen anders. Sie haben ein bisschen geschaut. Sie haben gemeint ich werde in Ohnmacht fallen, aber das bin ich nicht. Ich habe ihnen entgegen gelächelt. Dann hat einer einen anderen Zettel aufgeklaubt, hat das Urteil herunter gelesen. Da hat es geheißen: “Weil der Angeklagte minderjährig ist”, weil damals warst du mit 21 Jahren volljährig und ich war erst 19, “und, weil er sich freiwillig gestellt hat, wird er nicht zum Tode verurteilt, sondern zu 10 Jahren KZ Dachau.”
Im ersten Moment habe ich mir gedacht es ist noch einmal gut gegangen, dass ich nicht erschossen werde. Mit Dachau wusste ich nicht was anfangen, habe ich noch nie gehört davor.
Dann war ich wieder in Schlanders im Gefängnis drei Wochen. Nachher haben sie mich nach Dachau geführt. Das war schon ein bisschen ein harter Weg, schon der Weg nach Dachau, habe ich viel gesehen und erlebt. Als wir in Dachau ankamen, da ging gerade eine Gruppe Arbeiter heraus beim Tor, alle mager, blass. Ich habe mir gedacht was wird man da erleben müssen damit man so aussieht? Das bin ich später draufgekommen.
Ich habe müssen die Kleider ausziehen. Sie haben mich gefragt warum ich hier bin und welche Strafe ich habe, welchen Glauben ich habe. Ich habe gesagt: “Einen katholischen.” Dann sagt der SS-Mann: “Hier bei uns werden Sie einmal anders beten lernen.”
Dann wurde ich fotografiert von allen Seiten. Dann bekam ich so ein abgenutztes Hemd und Unterhose. Dann hat mich ein SS-Mann in den Bunker geführt. Das ist ein ganz langes Gebäude, links und rechts die Zellen und mitten drinnen hat er aufgesperrt und hat mir einen Schubs gegeben und hinein. Ich habe einmal geschaut. Dann war oben ein Klappfenster. Es war mit weiß überstrichen gewesen, dann ein Stockbett, zwei Betten. Es waren keine Betten da, nur… Keine Decke und gar nichts war da.
Dann wollte ich mich niedersetzen. Das war fast nicht möglich. Dann habe ich mich auf den Klosettdeckel hingesetzt und nachgedacht: “Was wird jetzt gehen mit mir?” Ich hatte schon ein paar Tage nichts mehr gegessen gehabt. Ich kam mir vor wie früher beim Bauern, vielleicht ein Schwein, den hat man auch nicht mehr gefüttert am Vormittag. Ich bin mir so vorgekommen: Heute werden sie mich aushungern und morgen wird es drüber gehen.
Dann hörte ich auf dem Gang draußen Tritte. Ich habe gehört neben meiner Zelle hat er aufgesperrt. Dann hat er geschrieen: “Sofort heraus!” Ich habe gehört, dass ein Mann auf den Gang hinausgeht. Dann hat er bei meiner Zelle aufgesperrt: “Sofort heraus!” Dann sollten wir den langen Gang putzen. Beim Eingang war ein Waschraum. Wir sollten Waschlappen, einen Eimer mit Wasser, Kehrschaufel und Besen nehmen. Ich habe mir gedacht leichter ist es mit dem Besen und der Kehrschaufel.
Da schrie mich der SS-Mann an: “Sie Faulpelz! Sie werden schon noch lehren was man zuerst anfängt!”, weil man musste immer auf das Schwerere hingehen, dann kamst du eher auf das Leichtere. Wenn sie sahen, dass du auf das Leichte gehst, bist du der Faulpelz, wolltest dich sträuben.
Dann haut er mir schon links und rechts eine herunter. Ich hatte die Kehrschaufel und den Besen und der andere einen Eimer mit Wasser und einen Waschlappen. Ich musste in die Hocke gehen und den Besen und die Kehrschaufel dem anderen lassen. Dann gab er mir einen Besen. Dann musste ich zweimal den ganzen Gang in der Hocke abhüpfen. Da war ich total fertig. Danach schnell den Gang putzen. Da musste alles im Laufschritt gehen.
Als wir fertig hatten haben wir die Sachen zurückgetragen, dann wieder in die Zelle hinein. Da hatte ich Zeit nachzudenken was ich falsch gemacht hatte. Da ging es so weiter. Zum Essen kam am Abend so eine Aluminiumschale, ein bisschen eine Krautsuppe bekommen. In der Tür war eine Luke aufzuklappen. Sie hat einen Tisch gebildet. Da hat man müssen die Schale hinstellen. Da haben sie reingeschöpft. Ich habe dies gegessen. Es war viel zu wenig. Ich strich mit dem Finger sauber aus.
Dann kam es zum Schlafen. Ich wusste nicht wo hinlegen. Auf der Holzding, der war recht lang, aber inzwischen war ein Balken durchgezogen, dass man fast nicht liegen konnte. Als das Licht ausging, habe ich mich am Boden hingelegt. Da war eine Zentralheizung mit zwei Streifen, aber bestimmt nicht zum Verbrennen. Ich habe gefroren da.
In der Früh habe ich gehört, dass man Kaffee austeilt. Dann ist das Ding aufgegangen, habe die Schale hingestellt und habe mir gedacht: Da wird schon noch ein Brot kommen. Ich stand da. Dann schrie der andere auf was ich warte, etwa nicht auf Brot? Ich habe gesagt: “Ja.” “Nein, da gibt es kein Brot.” Ich habe dann den Kaffee getrunken, es war nur ein trübes Wasser. Dann war ich da drei Tage drein in der Zelle.
Einmal nach dem Putzen des Ganges als wir fertig hatten, haben wir müssen die Sachen abgeben, dann haben wir schreien hören aus dem Bunker. Dann ging die Tür auf. Dann kamen so 8-10 Leute herein, kahl geschoren, Hemd und Unterhose. Dann haben wir gehört: “Mamma mia!” Dann haben wir gewusst es sind Italiener. Die haben sie alle zusammen in der gleichen Zelle hinein getan.
Dann kam wieder das Putzen des Ganges. Dann gingen sie bei meiner Zelle vorbei und in der nächsten aufgesperrt. Dann schrie der SS-Mann: “Sofort zwei Mann heraus!” und die verstanden nicht was er gesagt hatte. Dann ging er hinein, warf zwei Bursche auf den Gang hinaus, hat sie richtig hin- und hergeschlagen. Dann haben sie den Gang putzen müssen.
Von nun an haben dann müssen die Italiener den Gang putzen. Nach drei Tagen habe ich Kleider bekommen. Das wird nicht ein gestreiftes Kleid, sondern ein italienisches Militärgewandt. Dann kam ich in eine Baracke hin. Da waren für vier-fünf verschiedene… Wie sagt man? Franzosen, Schweizer, Russen, eben verschiedene.
Dann kam Weihnachten. Wir haben gesagt ob wir vielleicht etwas spielen für Weihnachten. Ja, da wurde sogar ein kleines Bäumchen aufgestellt und ein paar farbige Papierfetzen drangehängt.
FRAGE: Hatten Sie eine Matrikelnummer bekommen in Dachau?
ANTWORT: Nein. Wir waren vom großen Lager ein bisschen abgeschlossen. Für uns war vorgesehen wir kommen in ein Außenlager und wir hatten Frontbewährung, d.h. wenn es uns braucht kann man uns auch an die Front schicken. Wir bekamen nicht das gestreifte Gewandt.
FRAGE: Hatte Ihre Baracke eine Nummer?
ANTWORT: Nein, das war ganz separat im Bunkerbau angebaut.
FRAGE: Neben der großen Mauer des KZ?
ANTWORT: Schon drinnen, hinter der Mauer. Da sah ich wie die Umzäunung ausgeschaut hat. Zuerst war ein Wassergraben und Wasser drinnen. Dann war ein Stacheldraht, Rollen. Dann ist die Mauer gewesen und mit oben hinauf auch Stacheldraht. Das war mit Starkstrom alles, weil da abhauen das gab es nicht, keine Möglichkeit.
Dann hat es geheißen am 27. kommen wir in ein Außenlager nach Hersbruck. In der Früh hat es geheißen: “Alles packen zum Abtransport.” Wir hatten nicht viel zu packen, die Essschale und den Löffel und eine Decke, nein, keine Decke. Da haben sie uns in einen Viehwagon hinein gepfercht, haben die Türen geschlossen. Auf der Seite oben war ein ganz kleines Fenster vergittert.
Dann fuhren wir los. Wenn einmal Fliegeralarm war hat der Zug gehalten. Uns haben sie irgendwie auf die Seite geschoben. Wir haben manchmal einen halben Tag gewartet, eine halbe Nacht oder eine ganze Nacht. Dann ging es wieder weiter. Ich glaube, wir haben zwei Tage und eine Nacht gebraucht nach Hersbruck zu kommen. Da kamen wir abends an. Es hat geschneit.
Dort haben sie schon auf uns gewartet, die SS-Leute. Wir sind ausgestiegen. In 3er Reihen mussten wir steil über einen Weg hinauf und es sollte immer schnell gehen, die SS-Männer hinter uns mit den Gummiknüppeln oder Gewährkolben. Wir sind eine Zeit lang gegangen, geregnet, geschneit. Wir waren ein bisschen fertig schon. Wir haben eine Nacht nicht mehr geschlafen, kein Essen. Wir haben schon Marschverpflegung bekommen, ganz wenig. Das hat jeder schon gleich aufgegessen. Wir sind hinauf. Dann sahen wir auf der Seite Lichter. Dann werden wir da hinkommen.
Nein, da sind wir vorbei. Dann kamen wir in einen Graben. Da war ein großes Haus. Da war ein kleiner Bach. Wir mussten über eine Brücke gehen. Da hat dann jeder vierte einen kleinen Laib Brot bekommen. Das war zu teilen gewesen für vier Mann. Da hat man müssen aufpassen wo der Mann mit dem Brot hingeht, sonst wärst du leer ausgegangen. Wir sind da hingekommen.
Ich bin dann in dem großen Haus da, mich hat man in den zweiten Stock hinauf. Es war schon nach drei Uhr. Dann haben sie Licht gemacht. Da waren dreistöckige Bridgen. Die anderen, als wieder Licht war, hat der eine und der andere ein bisschen herunter geschaut, und schreit: “Franz, bist du jetzt auch hier?” Ich war mit dem in Schlanders im Gefängnis. Mich hat es gefreut, dass da auch Bekannte sind.
Dann haben sie mir eine Bridge gegeben, habe mich können reinlegen. Es war ein ganz dünner Strohsack und eine Decke zum Übernehmen. Ich habe die Decke genommen, habe mich nieder gelegt, habe die Decke übergenommen, habe das Kleid ausgezogen, auch über die Decke gelegt. Da war ich so müde. Ich habe gleich geschlafen.
In der Früh gingen große Pfeifen. Da musste alles schnell heraus aus den Bridgen zum Abwaschen. Man hat müssen das Hemd ausziehen und in den Waschraum hinunter. Alles gut gegangen. Am nächsten Tag wieder dasselbe. Da war ein Italiener, er war um ein Jahr jünger als ich, der in der Eile vergaß das Hemd auszuziehen. Dann kam er mit dem Hemd im Waschraum unten an. Da haben schon SS-Männer gewartet sollte jemand mit dem Hemd an kommen, dann fehlt es.
Der Italiener hat müssen die Hose und alles ausziehen. Sie haben ihn mit einem Schlauch und eiskaltem Wasser abgespritzt und ein anderer mit einer groben Bürste abgerieben bis er blutig rot war. Dann haben wir den nie mehr gesehen. Wir haben uns gedacht er wird zu Grunde gegangen sein.
Am nächsten Tag wieder einmal Visite. Ich habe müssen erzählen warum ich hier bin und wie lange. Dann wurden wir noch gewogen. Ich hatte noch 45 Kg. Bevor ich mich gestellt habe, habe ich 69 Kg gewogen.
FRAGE: Habe ich richtig verstanden? In Hersbruck wurden Sie gewogen?
ANTWORT: Ja.
FRAGE: Von der SS?
ANTWORT: Ja. Nein, da waren schon auch Häftlinge. Ich habe mir gedacht: Weiter runter kann es nicht mehr gehen. Es ging aber noch viel weiter hinunter. Durch die schwere Arbeit, das schlechte Essen, in der Früh das trübe Wasser ohne Brot, ohne Zucker, zu Mittag Krautsuppe oder vielleicht einmal eine Erbsensuppe oder wenn es ganz gut gegangen ist zu Ostern hat man drei Pellkartoffeln bekommen, wenn es kleinere waren drei, wenn es größere waren zwei. Da hat man nicht die Schale herunter getan. Man bekam noch einen Löffel. Das hat man alles zusammen gegessen. Das war das gute Essen.
Ich kann mir das heute nicht mehr vorstellen mit dem Essen und die Arbeit noch. Man hat getan was möglich war um zu überleben.
Mich hat es gefreut, es waren ziemlich viele Italiener bei mir, Italiener, Kroaten, meistens Italiener, da habe ich ein bisschen Italiener gelernt. Mein bester Kollege war einer von der Trientner Gegend. Er schrieb sich Filz, Filzi, glaube ich, Giovanni Filzi.
Mehrer reden durften wir nicht bei der Arbeit. Nur als wir in das Lager der Baracken kamen, hatten wir vielleicht eine halbe Stunde frei. Da durften wir zusammen reden. Was redest du dann? Wie wird das weiter gehen? Man hat über das Essen gesprochen. Das war das Erste immer. Alle haben so einen Hunger gehabt.
FRAGE: Was für eine Arbeit machten Sie?
ANTWORT: Ich war im Steinbruch.
FRAGE: Kamen Sie zu Fuß zum Steinbruch?
ANTWORT: Zu Fuß. Ungefähr 10 Minuten zu Fuß zum Steinbruch. Da haben wir uns selber ein nahes Lager gebaut. Es war halb fertig als wir da ankamen. Wir mussten die Steine herrichten.
Ein gefangener Franzose hat mit einem Pferd und einem Schlitten die Steine zum Lager hingefahren. Das war eine harte Arbeit ohne Handschuhe. Die schneeigen Steine… Es war hart. Wir hatten schlechte Schuhe, ohne Socken. Man hat den ganzen Tag im Schnee herum müssen.
Ganz schlimm war in der Früh als man aufstand, da musste man in die gefrorenen Schuhe barfuß hineinschlüpfen. Es war kein Vergnügen. So ist es weiter gegangen.
Dann bekam ich die Krätze. Das ist eine Krankheit. Das fängt zwischen den Fingern an. Das habe ich auf dem ganzen Körper bekommen, alles ein Geschwür, der ganze Körper. Wenn man gedrückt hat ging Blut und Eiter heraus. Ich wurde immer schlechter und das war eine ansteckende Krankheit. Da haben mich die besten Kollegen gemieden. Das habe ich dann nicht mehr vertragen.
Ich habe zum Capo gesagt: “Bitte, möchten Sie mich morgen krank melden.” Man hat sich nicht gerne krank gemeldet, weil wenn man zu wenig krank war, der hat drauf gezahlt. Ich habe es nicht mehr ausgehalten. Es war noch ein Italiener, fast mit derselben Krankheit. Wir sind hingekommen am nächsten Tag. Da war ein SS-Mann hinter dem Tisch. Wir haben ausgezogen gehabt. Dann schaut er mich an. Was mir fehlt? “Das sehen Sie doch.”
Dann hat er mich von unten bis oben angeschaut: “Sie Schwein! Warum haben Sie es nicht früher gemeldet?” Dann war ich entlassen. Dann kam der nächste dran. Den hat er gleich angeschrieen. Dann hat man uns mit einer Flüssigkeit bestrichen, den ganzen Körper. Man hat ausgesehen wie ein Kochöl ungefähr.
Wir mussten dann wieder zur Arbeit gehen. Nach einer Woche waren wir fast heil. Da habe ich wieder Mut bekommen zum Weiterleben. Da ging es so weiter. Einmal in der Früh habe ich so einen Schüttelfrost bekommen. Ich habe mir gedacht krank melden kann ich mich nicht. Dann habe ich mir gedacht wenn ich einen warmen Kaffe bekomme und warmes Wasser werde ich schon wieder warm bekommen. Dann bin ich zur Arbeit hin. Ich musste dann immer wieder austreten. Ich hatte die Ruhr. Das ist, eben immer auf die Toilette gehen. Der Magen, ging alles nach außen.
Das hat der Arbeitskapo gesehen. Ich habe immer fragen müssen. Dann war ein SS-Mann, der schrie mich an: “Willst du dich vielleicht von der Arbeit drücken?” Der Capo von der Arbeit hat gesagt ich brauche nicht mehr arbeiten, darf mich hinsetzen. Ich habe trotzdem immer wieder müssen austreten. Zu Mittag haben wir immer zur Baracke zurück müssen um zu essen.
Da habe ich zum Capo gesagt es geht nicht mehr, er soll mich krank melden. Dann brachte mir einer einen Fiebermesser. Ich hatte ein Stück über 39 Grad Fieber. Dann war ich für das Krankenrevier tauglich. Dann kam ich dahin. Es waren schon drei Männer in der Bridge. Ich habe nicht gekannt: Leben sie noch oder nicht mehr. Sie haben ausgeschaut blass. Da hat man nur von Lebenden und Toten den Unterschied gekannt durch das Atmen und die suchenden Augen tief drein.
Dann am Abend war ich ganz schlecht beisammen. Man hat uns eine Suppe gebracht. Ich war so schwach. Ich war nicht mehr im Stande die Suppe zu essen. Mein Nachbar hat es schon ein bisschen überstanden gehabt, hat immer auf meine Suppe geschaut. Ich habe gesagt: “Die kannst du essen. Ich schaffe es nicht.”
Das war mein Geburtstag. Der 6. März. Ich habe mir gedacht jetzt wird es am Ende sein, in Gottesnamen, schlafe ich ein und wache nicht mehr auf. Dann verlor ich das Bewusstsein. Am nächsten Tag als ich aufwachte ging es ein bisschen besser. Dann habe ich die Hälfte von der Suppe gegessen dann. Da ging es langsam aufwärts. Dann kam eine Krankenschwester. Sie hat uns einen Löffel voll gemahlene Kohle gegeben. Das war die Medizin gegen den Durchfall. Dann hat sie uns Blut abgenommen, für was weiß ich heute noch nicht.
Das nächste Mal kam eine andere Schwester vom Roten Kreuz. Ich weiß nicht war es eine Schwester vom Roten Kreuz oder nicht. Sie sollte uns Blut abnehmen. Sie hat vier-, fünfmal die Ader abgefehlt, nicht getroffen. Dann ging sie zum nächsten. Da war dasselbe. Dann bekam sie ein bisschen einen roten Kopf und ging fort. Dann kam wieder die andere. Es war eine alte, die hat überhaupt nicht gesprochen. Die hat es schon gemacht.
Ich habe vorher etwas vergessen. Da haben wir die Krankenschwester gebeten… Ich musste wieder austreten. Ich habe mir gedacht: Wie mache ich das? Ich bin nicht im Stande. In dem Moment ging es schon in die Hose. Man konnte niemanden rufen um vielleicht auszuräumen. Dann lag ich im eigenen Kot.
Am nächsten Tag haben wir die andere Krankenschwester gefragt ob sie uns einen Nachttopf bringt. Ja, hat sie uns gebracht. Wir sind trotzdem nicht raus gegangen. Im eigenen Kot haben wir liegen müssen.
Dann ging es ein bisschen aufwärts. Am dritten Tag in der Früh habe ich gesehen, dass zwei Männer weg sind. Ich habe meinen Nachbar gefragt was mit denen los gewesen ist. Er weiß nicht waren sie tot oder haben sie sie sonst weg, wahrscheinlich waren sie tot. Dann waren wir 16 Tage im Krankenrevier. Dann hat es geheißen wir müssen wieder zu den Arbeitern zurück.
Mit der Decke unter dem Arm, dem Löffel und der Essschale in der Hand sind wir… Einerseits sind wir gerne zu den Kollegen zurück gegangen, aber andererseits hatten wir schon wieder Angst vom normalen Lagerleben was alles passiert ist. Wir waren so schwach, gerade so, dass wir stehen haben können und ein bisschen gehen.
Dann haben wir nicht mehr zur Arbeit gebraucht hinaus in den Steinbruch, aber im Lager waren so verschiedene Arbeiten zu tun. Es war ein Franzose und ein Deutscher. Sie hatten auch kein Interesse uns zu sekkieren. Wenn wir genug zum Essen hätten bekommen, hätten wir uns schneller erholen können. Es war damals schönes Wetter, die Sonne hat geschienen. Es war so Ende März.
Wenn wir genug zu essen bekommen hätten, hätten wir uns können erholen, aber leider war das Essen schlecht. Dann hieß es wir kommen wieder nach Dachau zurück. Da kam die Front immer näher, die Amerikaner. Da haben sie die Lager geräumt. Ich weiß nicht mehr genau, am 4., 5. April hat es geheißen: “Packen zum Abtransport nach Dachau zurück.” Das war auch eine schlimme Fahrt.
Es kamen immer wieder die Tiefflieger, die Amerikaner. Wenn sie einen Zug gesehen haben, haben sie meistens herunter geschossen. Ich weiß einmal, da haben wir austreten müssen, haben an die Wand geklopft. Da haben sie herein geschrieen: “Scheißt hin wie ein normales Schwein!” Jeder wo er gestanden ist hat er hingemacht. Es war ein Gestank.
Einmal waren wir beim Essen, haben wir können aussteigen, haben wir ein Essen bekommen. Während wir raus sind kommen wieder die Tiefflieger, sind sie vorbei gewesen, haben aber gerade gesehen, dass da etwas los ist. Dann haben sie umgedreht und sind die gleiche Richtung her. Da auf einer Straße standen vielleicht 5-6 SS-Männer. Dann haben sie auf die hingeschossen.
Zwei waren schwer verletzt, haben wir gesehen, und ein paar weniger verletzte haben sie in den Wagon hinein getan und wir schnell wieder in den Viehwagon hinein. Dann ging es wieder weiter.
FRAGE: Leider geht die Zeit sehr schnell weg. Wir haben noch fünf Minuten. Können Sie uns erzählen wo Sie befreit wurden? Wann? Was geschah nach der offiziellen Befreiung für Sie?
ANTWORT: Es kam der 29. April. Wir haben schon immer die Front… schießen gehört und alles gesehen. Wir hatten uns gefreut, dass die Amerikaner jetzt kommen, aber wir hatten noch Angst was würden sie mit uns machen bevor sie uns frei lassen?
Da kam der 29. April. Der Wachmann ist ein bisschen verschwunden. Dann haben wir uns gedacht, ich und zwei Passeirer und etliche Italiener, jetzt schauen wir in der Küche. Es war nirgends eine Wache.
Es hat einer geschaut: “Schauen wir ob das Lagertor offen ist.” Wir sind hin, ja es war offen. Wir sind beim Lagertor hinaus, da kamen wir ins SS-Lager hinaus. Das war ganz falsch. Ich denke mir da herum auch etwas zum Essen suchen. Wir haben nichts gefunden.
Da sind wir in eine Baracke hinein. Da war SS-Bekleidung. Da hat einer gesagt: “Tauschen wir unsere verlausten und schmutzigen Hemden aus.” Gesagt getan. Während wir das gemacht haben kamen zwei Amerikaner bei der Tür herein, haben uns gewunken wir sollen mitgehen. Dann sind wir mitgegangen. Wir haben ihnen entgegen gelächelt. Das sind ja unsere Befreier! Wir gingen ein Stück hinaus. Da war ein großer Hof, ein großes Tor. Wir haben gesehen da haben sie eine menge SS-Leute erschossen gehabt, die Amerikaner.
Wir haben uns gedacht: Recht geschieht euch! Dann ging es vielleicht noch 25 Meter weiter. Da haben sie uns an die Mauer hingestellt, mit dem Gesicht zur Mauer, den Händen über dem Kopf zusammen. Wir haben uns gedacht jetzt machen sie es gleich wie wir die anderen vorher gesehen haben. Wir sind eine Zeit lang gestanden.
Da sind zwei-drei amerikanische Offiziere gewesen und ein paar Soldaten. Es hat geheißen: “Hände herunter und umdrehen!” Sie haben beraten was sie mit uns machen. Wir sind halb SS-bekleidet gewesen und halb Sträfling. Wir sind dann davon gekommen mit dem Leben. Dann haben sie uns nicht ins Lager zurück, sondern zu den Gefangenen, den deutschen Soldaten. Da haben wir am sechsten Tag das erste Essen bekommen.
Da habe ich noch einmal aufgegeben. Ich habe meine Kollegen verloren, die Passeirer. Da hat es geregnet und geschneit. “So” tief war Kot gewesen. Man hat sich nicht können hinlegen. Am 5. Tag habe ich mir gedacht ich packe es nicht mehr, ich lasse mich fallen, einschlafen und nicht mehr aufwachen. Die Passeirer haben mich gesehen, haben gesagt: “Franz, steh auf! Da gehst du zu Grund!” Ich habe gesagt: “Es geht nicht mehr.”
Sie haben mir aufgeholfen: “Doch, es wird schon gehen!” Ich habe mir gedacht nach Hause käme ich gern wieder. Ich glaube nicht mehr recht. Die anderen: “Doch. Das werden wir schon. Jetzt sind wir soweit.” Dann hat es geheißen morgen bekommen wir bestimmt etwas zum Essen. Ich habe mich gefreut: Vielleicht stimmt es, dass wir etwas zu essen bekommen.
Ja, es ist dann gegangen. Am nächsten Tag haben wir gesehen Lastwagen vor dem Lager herum, es war alles im Freien, haben Kartons abgeladen, haben angefangen auszuteilen, zwei kleine Dosen. In einer waren Bohnen, ein bisschen Öl und in der anderen Dose waren ein paar Kekse, ein paar Bonbons. Ich war der Letzte. Ich habe immer geschaut. Vielleicht reicht es für mich nicht mehr?
Doch! Es hat gereicht. Ich habe mich hingesetzt im Schneidersitz, angefangen zu essen, geweint. Dann ist es wieder aufwärts gegangen. Ich bin noch vier Monate in amerikanischer Gefangenschaft gewesen. Wir haben wenig zu essen bekommen, aber was wir bekommen haben war gut.
FRAGE: In welchen Lagern, in welchen Städten wurden Sie in diesen vier Monaten…
ANTWORT: Zuerst ein Monat in Deutschland in verschiedenen Lagern, immer im Freien, nachher in Frankreich in einem großen Gefangenenlager. Dort haben sie diejenigen, die krank oder schwach waren, separat ein Zelt… Dort waren große Zelte. Ich kam dort in ein Krankenzelt hinein.
Da ging es ein bisschen besser dann.
FRAGE: Die letzte Frage. Wann kamen Sie endlich nach Hause?
ANTWORT: Am 19. August.
FRAGE: Des Jahres?
ANTWORT: 1945.
FRAGE: Haben Sie sich gewogen?
ANTWORT: Als ich vom Lager herauskam habe ich mich bald einmal gewogen. Da wog ich noch ganz wenig über 30 Kg, vielleicht 31 Kg ungefähr.