Banterla Arturo

Arturo Banterla

Nato nel 1923 a Sona (VR)

Intervista del: 25.05.2000 a Verona realizzata da
Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n. 5 – durata: 62′

Arresto: 12 novembre 1944 a Verona

Carcerazione: a Verona: nella caserma fascista del Teatro Romano, al “Palazzo INA” sede dell’ufficio nazista SD, poi al Forte S. Leonardo

Deportazione: Bolzano, Mauthausen, Gusen 2 (sottocampo di Mauthausen)

Liberazione: inizi di maggio 1945 a Gusen 2

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Arturo Banterla.

Sono stato arrestato dalle Brigate Nere e mi hanno portato alla Caserma del Teatro romano, dove torturavano per far parlare e per far dire anche quello che non si sapeva.

Vi ho passato un periodo di pochi giorni, poi mi hanno trasferito alle SS in Corso Porta Nuova.

In Corso Porta Nuova mi hanno interrogato le SS; quindi mi hanno portato al Forte San Leonardo.

Dal Forte San Leonardo dopo pochi giorni mi hanno caricato su un camion con tanti altri, e ci hanno portato nel Lager di Bolzano. Tutto questo in sintesi …

A Bolzano siamo stati nel blocco E; a quanto ho capito lì c’era dentro di tutto, non erano mica tutti politici.

Il nostro blocco era chiuso, era un campo dentro nel campo, era un blocco circondato e chiuso da reticolati. Dietro al nostro blocco c’erano anche le donne, e ci divideva una parete.

E’ successo – per quel che mi ricordo – che ad un certo punto alcuni deportati stavano scavando una buca nel terreno per uscire, per scappare fuori. Ma il giorno di Natale, il 25 dicembre 1944, uno che si diceva fosse il capo-campo, e che era un colonnello dell’esercito a sua volta prigioniero, ha fatto la spia. Allora ci hanno tenuto fuori tutto il giorno sulla piazza dell’appello, al freddo, senza mangiare: dalle nostre fila dovevano uscire i colpevoli, e due o tre sono in effetti usciti; mi sembra che abbiano fatto una brutta fine, qualcuno lo hanno attaccato a un palo …

Tutta la faccenda non l’ho mica vista, e non ricordo granché della fine che ha fatto, credo che però l’abbiano fatta brutta, la fine. Da lì, a gennaio, c’è stato il trasporto per Mauthausen.

D: Scusa Arturo, ti ricordi quando sei stato arrestato?

R: A dicembre ero a Bolzano, quindi sarà stato settembre.

D: Settembre 1944?

R: Sì.

DOMANDA: Quanti anni avevi?

R: Fai il conto: sono del 1923, quindi avevo 21 anni e mezzo.

D: Tu facevi parte di qualche movimento resistenziale?

R: Sì, facevo parte della missione militare RYE.

D: Ci puoi spiegare che tipo di missione era?

R: Era una missione di sabotaggio e spionaggio di comunicazioni; ne sapevamo poco. Eravamo introdotti nei forti con documentazioni, e dovevamo fornire armi possibilmente ai partigiani, favorendoli; ci siamo introdotti nei forti con documenti, abbiamo fatto la guardia ai forti. Ci siamo anche sparati, con i fascisti, qualche volta, ma dico che è andata bene. Poi c’è stata una spia, che ha fregato me.

Sempre di Verona parliamo: nel forte S. Procolo c’erano munizioni e armi che servivano ai partigiani. Portarle fuori non era mica facile, perché la guardia sulle porte era fascista. Cercavamo il momento buono per agire: uno solo di noi era dentro, 3 / 4 di noi eravamo armati come loro; te lo immagini? Da fuori riuscimmo a fare entrare anche dei carrettini, pensa un po’, e li abbiamo portati fuori.

Una notte – mi viene in mente parlandone ora – siamo usciti, con me c’era un certo Giovannino, che era tornato dalla Russia; era uno scalmanato, non aveva paura di nessuno. Aveva una pistola, come la mia, calibro 9. Ci hanno sorpresi a portare il carrettino che altri dovevano prendere in consegna e portare fuori: alle spalle c’erano due ufficiali tedeschi. Ero davanti, Giovannino era un po’ dietro, mi disse: “Tu cammina piano, fai finta di niente”; e io dietro, facendo finta di niente… fino a che l’ufficiale tedesco che era lì vicino si avvicinò un po’ troppo al mio amico: il mio amico si girò improvvisamente, lo prese, lo buttò a terra e gli sparò. L’altro ufficiale scappò, noi abbiamo consegnato il carrettino e siamo rientrati. Non sapevamo dove fosse finito l’ufficiale, non so come abbiano fatto a portare via il morto, non sappiamo niente, neanche che fosse morto sapevo. Giovannino non perdonava nessuno.

Con un altro carro ci siamo invece imbattuti nella pattuglia fascista, ed abbiamo fatto un piccolo conflitto a fuoco: il mio amico è rimasto ferito ad un polpaccio ed io sono riuscito a portarlo fuori dal combattimento in spalla, riuscendo a salvare entrambi in qualche modo.

D: Arturo, RYE cosa significa?

R: Sono domande a cui è difficile rispondere, prima di tutto perché anche fra noi non ci conoscevamo. Le botte che ho preso dai fascisti, meno ne ho prese dalle SS, erano terribili, i fascisti erano peggio, fra fratelli eravamo peggio; volevano sapere quello che io non sapevo. Le domande erano: chi comandava? chi era il comandante che dirigeva le operazioni? Era proprio il maresciallo che comandava il forte, hai capito? ma noi non sapevamo che era lui a dare gli ordini, non sapevamo niente. Quando uno ci chiedeva: “Ma chi era che comandava le cose?” rispondevo: “E che ne so io, non conosco nessun nome”.

Non sapevo mai con chi collaborassi, noi dovevamo fare delle cose, portare materiali ed informazione, li portavamo e basta; avevamo i lasciapassare, era tutto in regola.

Poi un giorno, quando mi hanno arrestato, ho mostrato i miei documenti; mi dice: “Li teniamo noi, tu devi venire a fare un controllo”. Erano le Brigate Nere, e sono stati fortunati perché era la prima volta che mi fidavo ad andar dentro in un ambiente, era un bar e volevo bere un bicchier di vino, porca la miseria, non lo avessi mai fatto. C’era la spia … ho sentito le armi puntate alle spalle; era ben difficile che mi girassi, pensa se mi avessero trovato la pistola, che avevo in tasca. Erano tanto cretini, quella era una massa di ignoranti, non ce n’era di furbi; Mussolini era giornalista e sapeva qualcosa.

Lì sono stato arrestato e mi hanno portato proprio al Teatro Romano, e sono passato attraverso Umana.

Sono andato al processo come accusato ma avevo con me la pistola: ero in carcere con la pistola ancora in tasca!!  Loro sono stati stupidi, ma il problema per me era di liberarmi della pistola, ed era un problemissimo.

Sennonché telefonarono a mia madre che ero lì, e lei mi portò qualcosa da mangiare, dello zucchero; io l’ho rifiutato, poi ho chiamato la guardia ed ho infilato la pistola dentro la roba che mi ha portato e me ne sono liberato.

D: Come venivate reclutati voi della RYE?

R: A dir la verità non lo sappiamo; ci siamo trovati lì, e siamo stati quasi costretti. All’8 settembre ero in marina ad Ancona, poi ero venuto a casa, e il comandante ci ha lasciati liberi dicendoci: “Abbiamo fatto prima la resistenza contro i tedeschi, ma poiché a terra ci hanno abbandonato tutti, dividiamo quello che c’è sulla nave tra chi vuole andare a casa”, cioè i pochi soldi che c’erano. Eravamo sul “Savoia”, sulla nave reale, che era armata pochissimo. Ci disse: “Io vado in Bassa Italia, a Gallipoli, parto con la nave”; la nave poi è stata affondata appena fuori dal porto dai tedeschi, io ho fatto bene a tornare a casa.

Arrivato a casa c’è poi stata la mobilitazione, hanno fatto il governo fantoccio, hanno fatto quel famoso governo. Porca la miseria, una volta mi hanno beccato sotto casa: andavo a casa perché andavo a sentire Radio Londra. Poi avevo anche un’altra casa; un giorno ho trovato un tedesco, un tedesco che raccontava della Grande Guerra; era un anziano, diceva di essere stato con Cadorna, e raccontava della guerra. Siamo entrati in confidenza; mi dice: “Tu ascolti Radio Londra?”. Allora parlavo abbastanza bene il tedesco – adesso l’ho dimenticato – mi dice: “Sappimi dire qualcosa, di come va questa guerra”.  Avevo paura, ma mi disse: “Non preoccuparti finché io sono là fuori”; era un maresciallo della Wehrmacht non della SS, dunque di conseguenza quando finivo di sentire la radio lui voleva sapere le ultime notizie. Gli dico: “Guarda che va male per voialtri, guarda che è finita!”. Aveva più paura di me, era spaventato perché aveva famiglia, ed anche figli militari; era anziano.

Io giravo per la città dappertutto, con tutti i documenti regolari, con i timbri tedeschi; non so dove andavano a farli, però li trovavano.

D: Comunque non ricordi come siete stati reclutati per entrare nella RYE?

R: No, non lo saprei neanche io.

D: La vostra zona operativa era solo qui a Verona?

R: Sì, noi operavamo in città, a Verona.

D: Oltre alla RYE, c’erano altri gruppi con i quali eravate in contatto?

R: E’ possibile, ma noi non sapevamo un bel niente, non sapevamo con chi fossimo. Quando incontravamo qualcuno … per la miseria! incontro una persona alla quale devo consegnare delle cose e penso solo: “Quella persona mi vedrà”. In realtà quella persona non la conoscevo; una volta finito non sapevo niente, neanche cosa ci fosse dentro le cose da consegnare, tra l’altro. Nessuno ci diceva niente.

D: Hai parlato di Umana.

R: Umana si chiamava, Umana era il suo nome.

D: Chi era?

R: Era uno della Bassa Italia: era il carceriere del Teatro Romano, quello che dopo la guerra è stato condannato a morte dalla Corte d’Assise di Verona. Ho ricevuto un sacco di raccomandazioni a casa mia; c’era una fila di gente, tra cui preti, tutti sono venuti lì per salvare la vita a questo uomo, ma cosa potevo fare io?

Il problema mio era questo: abitavo in un quartiere nel quale tre miei amici che sono venuti con me sono morti a Mauthausen; i loro genitori dicevano: “Mica perdonerai? Lo sai che noi ci abbiamo rimesso il figlio?”. Io vedevo un uomo finito, vedevo un uomo che ormai moriva da solo, non riuscivo a condannarlo, non riuscivo. Comunque ho detto la verità nel modo più assoluto. Il giudice mi disse: “Cosa ti ha fatto Umana?” “Per la verità non mi ha fatto niente, a me non ha fatto proprio niente, non mi ha neanche toccato; mi ha accompagnato in prigione e mi ci ha chiuso”. Se gli avessi detto che mi aveva salvato perché mi ha portato fuori la pistola … lui neanche se ne era accorto. Mi ha quasi salvato, ma ad ogni buon conto. Dalla pena di morte con questa storia è passato all’ergastolo, che è già qualcosa; qualcosa ero riuscito a fare. Poi sono venuti i suoi parenti a ringraziare. Io dissi: “Non ho fatto niente, non ho detto altro che la verità” e basta, non ho detto altro.

D: Arturo, adesso iniziamo il discorso della tua deportazione. Qui a Verona, oltre agli interrogatori, hai subìto torture?

R: Sì, abbastanza.

D: Dove e da parte di chi?

R: Dai fascisti soprattutto: botte. Ti facevano una domanda e non ti facevano dare la risposta perché ti davano come minimo un pugno in bocca, ti sbattevano per terra; non riuscivi a parlare, non ti lasciavano rispondere. Al contrario, le SS, che pure erano tremende …  Ricordo che

sono stato interrogato dal maggiore, era di una gentilezza squisita: “Se non lo sai non me lo dici, ma io ti credo”, mi diceva sempre così. Ti veniva vicino in un modo tale da voler farti parlare senza picchiare, con modi gentili ed educati. Ti offriva la sigaretta e diceva: “Tranquillo, vedrai che andrà tutto bene, tu non c’entri per niente, a quanto ho capito io, cosa vuoi”. Questo sistema i fascisti non ce l’avevano.

Le SS mi hanno chiuso in una cella da un metro per mezzo metro, non si poteva neanche star distesi, comunque. Lì siamo stati per una ventina di giorni.

D: Questo accadeva al Teatro Romano?

R: No, questo nelle prigioni delle SS; al Teatro Romano ci sono stato per pochi giorni.

D: Dov’era il comando della SS?

R: La sede delle SS era nel Palazzo delle Assicurazioni in Corso Porta Nuova, nei sotterranei.

D: Da lì ti hanno preso una bella mattina; eri da solo o c’erano altre persone con te?

R: Quando mi hanno preso ero solo, le altre persone le ho trovate dentro; gli altri miei amici sono stati presi nei giorni successivi; ne hanno preso 1 o 2 alla volta, perché i fascisti avevano coraggio solo quando erano in tanti. Non li vedevo fare quel lavoro, erano forti solo se erano in tanti; quando uno scappava i fascisti avevano paura se erano in pochi. Io solo e loro in tanti, allora erano i padroni. Questo è il fatto.

D: Tu sei partito per Bolzano dal Palazzo dell’INA?

R: No, dal Palazzo dell’INA sono stato trasferito al Forte San Leonardo.

D: Quindi è dal Forte San Leonardo che ti hanno portato a Bolzano?

R: Sì.

D: Con cosa ti hanno portato?

R: Col camion sono venuto a Verona insieme con quelli che erano là; qui a Verona abbiamo trovato altri due camion pieni di gente, e siamo partiti insieme.  Prima di arrivare a Bolzano un camion si è rotto; tutti e tre i camion erano fermi sulla strada ed era quasi notte. Ci trasferirono da un camion all’altro; scendevamo a due a due; ogni tanto invece qualcuno passava sotto il camion.  Loro intanto continuavano a chiamare.  Quando toccava a me non son potuto più andar là sotto perché ormai non c’era più posto. Allora noi siamo partiti e loro sono rimasti a terra sotto il camion rotto, e così sono scappati. Gran parte li hanno poi ripresi sulle montagne del Trentino, perché erano soli, non erano stati aiutati da nessuno. Quella era una brutta zona per farsi aiutare, meglio sarebbe stato qui a Verona.

Siamo arrivati a Bolzano; ci mettono dentro al blocco E; non lo conoscevo, era la prima prigionia che facevo lì dentro.

D: Vi hanno spogliato?

R: No, a Bolzano no.

D: Vi hanno dato numero e triangolo?

R: A Bolzano no, perché era considerato un campo di smistamento; era un campo di passaggio per i campi di sterminio. Nei campi di sterminio creavano posto giornalmente: ammazzavano 100 persone e 100 deportati erano pronti da portare dentro. Nei campi di sterminio hanno eliminato tante persone, è quello il fatto.

D: Eri l’unico del tuo gruppo della RYE nel Lager di Bolzano?

R: No, ero con tutti i miei amici; il fatto brutto è che sono morti tutti.

D: Ti ricordi quanto tempo sei rimasto nel Lager di Bolzano?

R: Sono partito nel gennaio 1945, quindi ero là un po’ prima di Natale: sarà stato fra novembre e dicembre, un mese circa.

D: Ricordi qualche nome dei tuoi compagni della RYE che erano nel Lager di Bolzano con te?

R:  Ricordo i nomi di quelli morti; un certo Bragantin di Giovanni, Predoni Attilio, Marani Enrico, tutti morti. Poi c’era un altro di cui ora mi sfugge il nome; la vedova abita proprio vicino a me, lui è morto a Flossenbürg.

D: Nel corso della tua permanenza nel Lager di Bolzano ricordi se vi erano anche dei religiosi?

R: Certo, un prete c’era.

D: Te ne ricordi il nome?

R: No, l’ho sentito nominare tante volte ma ho poca memoria in questo momento; in questi ultimi anni ho perso quasi tutta la memoria. Non riesco più a ricordare, ho tanti vuoti. Comunque questo prete lo ricordo perché usciva dal campo, andava a fare la messa, non so dove; entrava ed usciva, continuava a dire “preghiamo”. Ma cosa vuoi pregare?  Dovevamo lottare con le cimici là dentro, facevamo la guerra con le cimici.

D: Era un prete veronese o di altre zone?

R: Non lo so.

D: Provo a farti dei nomi: padre Piola ti dice nulla?

R: Io non l’ho mai saputo come si chiamava quel prete.

D: Era un deportato anche lui?

R: Era deportato anche lui, è finito a Mauthausen con me; ma è morto, l’ho visto morire là io.

D: Di Bolzano non ti ricordi qualcosa in più? Cosa facevate tutto il giorno dentro il blocco?

R: Stavamo sempre chiusi dentro, a parte il fatto accaduto in quel giorno di Natale, quando ci hanno fatto stare in piedi invece che mangiare il pranzo di Natale fuori al freddo.

D: Arturo, ricordi se potevi scrivere o ricevere lettere o pacchi a Bolzano?

R: Io ho fatto una lettera, dicevano che i pacchi ce li avrebbero dati, ma io non ho mai ricevuto pacchi, perché li mangiavano loro, quello è il fatto. Ho scritto e ho chiesto, e ho ancora una lettera che ho portato qui oggi. Sulle lettere si doveva scrivere poco, quello che volevano loro; non potevamo mica dire quello che volevamo noi! Prima di partire siamo riusciti a contattare le donne, che erano dall’altra parte dell’asse che divideva i due blocchi; si poteva parlare, si sentiva dalle fessure il parlare delle donne. Siccome le donne avevano probabilmente più libertà di noi, non so se erano come noi o no, ci hanno procurato degli attrezzi per la fuga, ci hanno dato delle seghette e delle pinze. Avevamo della roba che pian piano le donne ci hanno passato. Siamo riusciti a salire sul treno con questa roba, poi abbiamo tentato di aprire lo sportello ma – fatalità! – sul vagone dove mi trovavo c’era anche il prete, e non voleva che si facesse la fuga, mentre invece noi speravamo di riuscire ad aprire un buco.  Sul vagone c’era una guardia dietro ed una davanti. E quando il treno arrivava a qualche curva e poi rallentava si poteva saltare, se va va, ma non c’era altro da fare. Sennonché ad un certo punto il treno si ferma, proprio quando avevamo quasi aperto il buco, mamma mia ragazzi! avevano dei cani, sono venuti, hanno perquisito i vagoni, sono arrivati lì, hanno aperto perché era già tagliato tutto. Sono venuti dentro con i fucili. Botte da orbi! Lì ho avuto una fortuna sfacciata ad essere stato dietro, mentre i primi erano davanti; posso dire che in quell’occasione il prete si è fatto avanti. Parlava benissimo il tedesco; è andato davanti alla guardia, si è preso la responsabilità, garantendo che non sarebbe successo più. Noi consegnammo gli attrezzi; portarono via tutti gli attrezzi che avevamo per la fuga, capito?

Basta, siamo arrivati fino a Linz, poi siamo scesi dai vagoni a Mauthausen, abbiamo fatto qualche bel chilometro a piedi in mezzo alla neve.

Siamo arrivati nel campo … Ne ho fatti tre di campi io; non sapevo neanche dove andavo a finire, là non si sapeva niente, non si sapeva neanche il nome della gente con cui eri assieme. Io mi domando come certa gente può aver fatto 10 / 12 mesi là dentro, non lo so; o facevano i kapo o erano impiegati in ufficio, perché in quei campi lì non si può mica stare; passare tre mesi era già un successo, tre mesi in un campo del genere significano che uno era molto forte. Resistevo perché nella mia vita ho sempre sofferto; ero anche un po’ abituato a soffrire, perché la mia vita è così; sono rimasto orfano troppo giovane, allora di conseguenza ho dovuto arrangiarmi, vivere, guadagnarmi il pane fin da piccolo, non avevo tempo neanche di andare a scuola, io. Pertanto ero un po’ abituato alle sofferenze, e le sopportavo un po’ meglio degli altri.

Arriviamo alla spoliazione: siamo arrivati in mezzo alla piazza dell’appello, tutti nel piazzale, tutti in fila, tutti là: “Spogliarsi!” Io credo che ci fossero 20 gradi sotto zero quel giorno. Spogliarsi tutti quanti, là in mezzo al piazzale! Là ci sono stati i primi morti. Mi ricordo di due uno che mi ha detto che faceva l’orologiaio a Verona, ma non li conoscevo. Sono morti dal freddo, era gente delicata.

Dovevi aspettare di arrivare al tuo turno poi facevi la rasatura e la doccia fredda. La rasatura era totale, totale, compreso la riga, la riga da qua a qua (in testa), dal di dietro. Poi ci hanno dato degli stracci, perché non c’erano più divise quando siamo arrivati noi, quelli con le righe; ci hanno dato stracci di morti, che venivano smessi e restavano lì. Ti ritagliavano sul dietro della giacca un quadretto, ci mettevano sopra 4 righe; il numero di matricola qua (sul petto), lì (sulla gamba) ed uno sul polso, di lamierino. A me l’hanno dato di lamierino legato con filo di ferro. Ci chiamavano solo con quel numero.

Ecco perché si poteva morire spesso: per chi non capiva bene il tedesco erano guai. Chiamavano il numero ma lo chiamavano in tedesco, hai voglia te! A quelli che avevo vicino lo ripetevo io, ma quelli più distanti non rispondevano. Ecco il guaio, e se non rispondevi erano guai; se cadevi eri morto, ti ammazzavano, era proibito cadere per terra, e se non cadevi ti gettavano per terra. Comunque, passata quella cosa …

D: Ricordi il tuo numero di Mauthausen?

R: 115.356; devo averlo in tasca comunque.

D: E in tedesco come fa?

R: 115 mila dunque, aspetta che non mi ricordo adesso … einhundertfünfzehn-dreihundertsechs-undfünfzig. E’ giusto?

D: Ti hanno mandato nel Wascheraum?

R:No, ci hanno fatto la doccia lì, e dopo ci hanno mandato in una baracca, dove non c’erano brande, non c’era niente, tutti per terra. Stavamo tutti se messi di fianco, per terra. Dunque, hai voglia te!

I primi giorni ci avevano messo in quelle condizioni e, puoi figurarti, quando di notte passavano per … il problema era quello. Allora ogni tanto, per allargare, passavano col frustino e chi era colpito doveva uscire. E quelli non li vedevi più, li trovavi poi … in attesa del forno crematorio. Ho preso tante pacche, tutte col frustino, non mi sono mai mosso, ho fatto finta … Lì bisogna imparare a salvarsi, là il cervello era mobilitato solo per salvare la vita e basta. Dopo che lì ho fatto un po’ di giorni, hanno fatto posto e ci hanno messo in una baracca un po’ più larga; c’erano delle brande, eravamo in 6 per materasso, dico sul materasso da uno in 6, l’uno sopra l’altro; da sopra, non parliamo, veniva giù l’orina, perché il pericolo era quello … no, non a Mauthausen.

Da Mauthausen mi hanno mandato via dopo una settimana, sono andato in un campo più piccolo che non sapevo dove fosse. Non so dov’era perché non sapevo niente di niente, non ti dicevano niente, e mi hanno fatto lavorare in una montagna, dove facevano pezzi d’aeroplano.

Siccome facevo il saldatore mi hanno fatto saldare gli alettoni degli apparecchi. Ma poi non ho fatto tante saldature, non potevi farne tante potevi farle perché era un pericolo perché … ti fucilano, perché quegli alettoni lì, se cedevano, l’aereo precipitava …

D: Arturo, il nome di questo sottocampo lo ricordi?

R: No, non sapevo neanche dove fosse. Invece quell’altro sì, lo ricordo: era Gusen 2. Quando sono venuto via da là non sono più tornato a Mauthausen, sono andato nel sottocampo di Mauthausen, sono andato a Gusen 2.

D: Prima di andare a Gusen 2 ti hanno mandato in un altro sottocampo?

R: Sì dove ho detto che dovevo saldare gli alettoni degli aerei.

D: E come si chiama questo sottocampo?

R: Questo non lo so, non ne ho mai avuto idea, non sapevo neanche dove fosse, perché avevo fatto le strade tutte di notte. Non avevamo mai visto niente. Là vedevo solo la galleria sotto la montagna, non sapevo neanche dov’ero io, là.

D: Eri con altri italiani?

R: In quel campo lì no, ero il solo italiano. Ero insieme coi russi, pensa come ci capivamo bene! Ci si capiva che era una meraviglia coi russi! Neanche una parola, beh, insomma, pazienza. Lì abbiamo trascorso una ventina di giorni, non molto; non si stava neanche male, eravamo in pochi.

Poi siamo rientrati a Gusen 2, lì cominciò la tragedia. Purtroppo lì siamo finiti. Entrando abbiamo visto la prima baracca dove c’erano degli ebrei, quasi tutti ebrei, le donne, mamma mia! Tutte squartate, ho visto delle cose che io non … roba impressionante, vedere le donne incinte che le tagliavano per vedere … si son viste delle cose che fanno ribrezzo al solo pensarci. Il medico mi ricordo che mi ha detto quando siamo usciti: “Arturo non raccontarlo a nessuno, non ti crederanno.”

Io non posso credere alla gente perché le belve sono più umane, almeno verso i loro figli o fratelli, ma scherziamo! lì eravamo peggio delle belve. Per quello che riguarda me, li avrei ammazzati tutti i tedeschi, tutti dal primo all’ultimo, dal bambino al grande, perché quando si passava per la strada, passavi un pezzo di strada dove c’era il pubblico, e ti sputavano addosso, ti buttavano la mezza sigaretta lì davanti. Se facevi per prenderla te la pestava e ti sputava addosso, se era un civile; se era una guardia, hai voglia! alla fine ti bastonava e basta, ti dava col fucile.

Quando siamo arrivati a Gusen 2 ci hanno dato la baracca con le brande; erano tre file, adesso non ricordo esattamente, eravamo in sei su un materassino da una persona, tre di qua e tre di là.

Dovevi avere la fortuna che qualcuno morisse, perché se qualcuno moriva durante la notte lo buttavi giù dal letto e stavi più largo. “Morte tua vita mia” dicevano; a quel punto lì non c’era più niente da fare.

C’è un episodio che ricordo: all’ora di mangiare, allora eravamo dentro nella galleria, portavano anche marmitte, ma non so cosa ci fosse dentro; c’era una specie di brodaglia scura, nera, c’era della roba dentro, e c’era un certo Morra di Milano. Disse: “Se vai a casa, saluta i miei”, perché lui stava morendo, stava morendo stava morendo. Insomma è spirato lì, e io avevo in mano la sua scodella per mangiare; visto che è morto lui l’ho mangiata io, cosa potevo fare? mica la buttavo via.  Poi c’era anche un ragazzo lì, un ragazzo russo, avrà avuto 13 anni, piangeva sempre, aveva sempre fame; gli dicevo: “Ma io cosa posso fare? io non posso darti niente”. Allora quello che racimolavo …

Avevo trovato un tedesco, questo non l’ho mica raccontato; era un invalido della Grande Guerra, l’ho convinto un giorno a portarmi delle bucce di patata; gli dissi: “Non voglio niente, solo che quelle che butta via tua moglie invece che nell’immondizia portale qua” “Mi ammazzano – dice – non lo posso fare”. Aveva paura anche lui, una paura tremenda. Finché un giorno mi fa un segno; c’era un banco con gli attrezzi, mi fa cenno di guardare e lui se ne va, fa il giro. Io vado là e trovo patate, bucce di patata erano. Tra l’altro anche un po’ grossette, però crude. Allora bisogna provvedere perché mangiarle crude così è un problema. Mi sono preso una ciotola dove c’era l’olio per ungere le macchine, ho versato l’olio, ho messo dell’acqua dentro; però per scaldare non avevo niente, ma avevo la corrente elettrica lì, avevo da attaccare la corrente. Cosa ho fatto? Siccome mi sono sempre arrangiato anche per l’elettricità, ho pensato: “Se provoco un corto circuito in acqua, scaldo l’acqua”. L’ho fatto, ho preso due lame, le ho unite – ne avevamo finché volevamo – le ho messe vicine, isolate in testa, i due capi con i due poli, le ho messe nell’acqua, una volta mi è saltata la valvola e una volta no, ha tenuto: bolliva che era un piacere, l’acqua!

Allora ho detto al ragazzo: “Continua!” Se la guardia vede il vapore, hai voglia tu! Siamo rovinati. Dopo una mezz’oretta che bolliva le abbiamo tirate fuori. Poi hanno portato il famoso rancio, abbiamo riempito la scodella con quelle, abbiamo aggiunto mezza io e mezza lui, abbiamo fatto la pancia piena. Poi ci siamo riempiti di acqua per finirlo perché lì c’era, nella galleria, una specie di rubinetto che continuava a mandare acqua, ma c’era scritto: “Acqua non potabile, proibito bere”, quando invece noi avevamo sete, fame e sete.

Per riempire la pancia quando ci passavo davanti mettevo la bocca sotto e mi riempivo la pancia. Allora dicevo: “Se devo morire muoio, ma almeno bevo!” Non mi ha mai fatto male l’acqua, stavo bene quando avevo piena la pancia, avevo sempre fame. Un po’ d’erba magari la trovavi da mangiare qua e là e qualcos’altro facevi.

Quando rientravamo la sera il problema era che, non so gli altri, ma io non riuscivo più a tenere niente, il corpo non teneva più né l’orina né niente; avevi bisogno di andare alla latrina e la latrina non era mica nella baracca. Era fuori in piazza, si doveva traversare il piazzale. Attraversare il cortile era un problema perché c’erano le guardie che si divertivano a sparare ai birilli, e camminavi in mezzo alla neve. Dunque dovevi stare attento che non ci fosse la guardia e passare al momento giusto. Sennonché quando avevi bisogno della latrina, prima di arrivarci avevi già fatto tutto per strada e ti restava tutto addosso. Addirittura avevamo una branda sopra di noi, e quelli sopra facevano tutto sul materasso, e sotto pioveva. Quella era la vita che si faceva lì.

D: Tu parli di Gusen 2 e di una galleria. Gusen 2 è il campo vicino a Gusen 1, dove c’erano le tue baracche?

R: Gusen 1 e Gusen 2 erano vicini.

D: E la galleria dove lavoravate era vicino alla baracca?

R: No no no, c’era molta strada da fare.

D: Prendevate un trenino?

R: Un trenino, sì.

D: Andavate a Sankt Georgen?

R: Non lo so dove: si finiva sotto la montagna e poi si andava a piedi, non so.

D: E lì cosa costruivate?

R: Io lavoravo ad una saldatrice, continuavo a saldare le stesse cose; non sapevo neanche a cosa servissero; cercavo qualche cosa per fuggire, volevo costruirmi una pinza per tagliare i reticolati, erano con l’alta tensione.

Avevo promesso di resistere ai miei amici che erano con me e che sono morti. Loro non volevano, dicevano: “Non ce la facciamo più!”. Avevano piaghe sulle gambe, anch’io le avevo, e gli stracci facevano pus; ci pulivamo con stracci unti che trovavamo per terra, non avevamo altro.

Se vai in infermeria sei morto. Sai cosa faceva l’infermeria? Quando uno andava là dentro, dopo un giorno gli chiedevano: “Sei guarito?” “No” “Allora domani viene il medico, vai di là, ti fanno l’iniezione e in due giorni sei guarito e non hai più niente.” Infatti guariva subito perché poi andava in forno crematorio e non parlava più. Gli facevano l’iniezione e dopo un’ora erano morti, erano già guariti quelli: i miei amici purtroppo hanno fatto quella fine, sono morti.

D: Ci puoi raccontare una tua giornata? Partivate da Gusen 2, prendevate il trenino, arrivavate vicino alla galleria, e poi proseguivate a piedi; erano grandi queste gallerie?

R: Io ne conoscevo una o due, cioè quel poco che potevo girare, perché dovevi avere tanta forza per girare. Con la scusa che magari mi occorrevano degli elettrodi, andavo a cercarli nel fondo della galleria; continuavo a camminare, andavo a cercare dove non c’erano, tanto per vedere se trovavo qualche amico, anche solo per poter parlare. E’ brutto non poter parlare con nessuno; c’erano un sacco di lingue là, francesi, spagnoli, c’erano tutte le nazionalità là dentro. Italiani ne trovavi pochi; se avessi trovato un italiano mi avrebbe fatto molto piacere parlarci assieme; poteva essere un po’ di consolazione. Invece non ce n’era dove ero io; mi hanno messo in una squadra che chiamavano “la bea fia”: erano tutti russi. Poi sono venuti una decina di italiani che hanno messo con noi. Lì ci hanno fatto fare un lavoro in un luogo che adesso non ricordo; mi hanno levato da lì e mi hanno messo in un’altra galleria, e si mangiava per conto nostro, tra l’altro. Per tutto questo gruppo mandavano una marmitta, che era tutta per noi. Questo gruppo di russi aveva un capo; io non sapevo come chiamarlo, lo chiamavo Molotov. “Ehi, Molotov, vieni qua!”, allora dice lui: “Io sono la maggioranza, io distribuisco il mangiare”, con la guardia lì. Questo succedeva perché era tutto brodo e poca roba dentro, tutta sul fondo; quando noi italiani andavamo là pescava il brodo, quando arrivavano gli amici suoi pescava sul fondo. Una volta, due, tre, poi gli dissi: “Senti amico, guarda che qua siamo nelle stesse condizioni, così non andiamo mica bene.” Sennonché la guardia ci vide discutere e cosa successe? Venne lì e chiese: “Cosa succede?” “Qualcosa non quadra,” dico “vede, questa è tutta acqua”. La vede, poi fortunatamente … mise giù il mestolo. Fece piegare il capo dei russi e gli diede 25 frustate. “Allora da domani tu distribuire rancio, ma attenzione fai la stessa fine se fai …”.

Siamo tutti uguali, se vediamo un italiano cerchiamo di aiutarlo di più. Se riuscivo, la mia gabella era sempre la migliore comunque, perché ovviamente ero l’ultimo e pescavo il fondo, anche se c’era il rischio di restar senza.

D: Con voi in galleria c’erano anche dei civili a lavorare?

R: Io non li ho mai visti, forse da altre parti può anche darsi, ma io non ne ho mai visti di civili; ho sempre visto guardie militari e prigionieri che lavoravano.

D: Non c’erano neanche capi officina, Meister?

R: No no no no, i capi officina li conoscevo, li ho avuti nel 1941. C’ero già stato nel 1940 io in Germania a lavorare, e a quel tempo li ho avuti, conoscevo ingegneri, conoscevo tutti, ho conosciuto anche della brava gente come si trova come dappertutto, ma lì dentro brava gente non ce n’era proprio.

D: Quando parlavi di donne hai parlato di un medico che t’ha detto: “Non raccontare a nessuno”; era il medico del Revier?

R: No, erano in due: c’era un medico russo ed uno americano, quando sono venuto a curarmi all’ospedale, dopo la Liberazione.

D: Dove eri al momento della Liberazione?

R: Ero a Gusen 2. Me lo sentivo nel corpo che c’era qualcosa che non andava; vedevo ormai gli aerei che passavano a filo del campo e non sparavano un colpo, sul campo non hanno mai sparato, mai lanciato una bomba, nonostante bombardassero dappertutto.

Lì, cosa hanno fatto i tedeschi? Quando venivano i bombardamenti ci facevano uscire dal campo e ci facevano andar fuori 100 metri nel campo libero, in piedi, come se i piloti fossero fessi e non potessero segnalarci con il ricognitore agli aerei dietro. Non abbiamo mai preso una bomba dagli aerei alleati, mai un colpo è arrivato nel campo, mai assolutamente niente.

Gli ultimi giorni vedevo i tedeschi che continuavano a parlottare, non riuscivo a capire, allora ho chiesto a Molotov: “Come la capisci questa cosa?” e lui ha risposto: “Se finisce ti levo gli occhi e te li faccio mangiare”, poiché aveva ricevuto 25 bastonate.

Eravamo vicini, vedevo che le guardie cominciavano a non picchiare più, però c’era il pericolo che ci ammazzassero tutti prima di andar via; non credevamo che arrivasse così rapidamente la Croce Rossa. La Croce Rossa è arrivata per prima nel campo, ha raccomandato di star tutti fermi nelle baracche, di non muoversi, parlando in tutte le lingue.

Poi è venuta dentro tutta la truppa, hanno disarmato le guardie che così non hanno fatto in tempo ad uccidere più nessuno …  tanto si moriva da soli, perché quando gli americani hanno detto che eravamo liberi ci hanno anche detto di restare nel campo, in attesa dei soccorsi; dovevamo però prima lasciar passare le truppe di occupazione, perché l’assistenza è dietro, mica davanti.

Sembrava un manicomio nel campo, tutti quanti correvano dove c’era il rifornimento di generi alimentari; c’era burro, c’era un po’ di tutto là dentro. Fortunatamente non ho perso il cervello, lo avevo ancora, se riuscivo ancora a tenerlo; non ho preso niente, sono rimasto come ero. Di quelli c’è stata una moria; sono morti quasi la metà, in che modo? mangiando, per l’assalto ai viveri, tutti quanti dentro a mangiare, a mangiare; gli altri invece morivano per la diarrea. Non capisco come ho fatto ad arrivare all’ospedale, qua sono nel vuoto. Mi sono trovato all’ospedale ma era già passato un mese dalla ferita; io non sapevo niente, un mese dopo ero ancora all’ospedale. Quando ho potuto vedere, prendevo il latte che mi davano con una specie di succhiotto. Ho sentito ciò che un maggiore medico americano ed un medico russo dicevano: “Questo ragazzo ce la fa; questo no. Facevano la selezione, loro. Quello di fianco a me era tubercoloso ma mi bevevo la sua roba, roba da matti!

D: La Liberazione la ricordi così. E il ritorno come lo ricordi?

R: Quello è stato peggio, per ignoranza mia, tra l’altro.

Mi sono dimenticato di dire che nell’ultimo periodo si era arrivati al punto in cui c’era un’apatia … ormai non sentivi più niente, non ti interessava che battessero o non battessero. Ho avuto la lezione una volta che ho rischiato fortemente la vita, perché mi hanno bastonato per cosa non ricordo. Ogni stupidaggine bastava per prendere le botte. Passando, ho urtato col braccio una guardia, e mi ha dato 25 frustrate, per un affare del genere. Dopo mi disse: “Tu devi morire perché sei un fascista”. Ero a terra e ho radunato in un attimo l’orgoglio e tutte le forze che avevo, mi sono raddrizzato e mi sono messo faccia a faccia con lui. Gli ho detto: “Non ripetere più quello che hai detto, nel tuo interesse ammazzati subito ma non passarmi più davanti, altrimenti, pur con le mie poche forze, ti distruggerò”. Non ha avuto neanche il coraggio di replicare, mi ha lasciato stare. Ho detto soltanto: “Non ripetere più quella frase”. Non m’ha neanche toccato, credevo di aver finito con quel discorso.

Tornando all’ospedale, quando ero in grado di camminare, ma non ancora di mangiare, perché mangiavo appena appena un po’ di brodo – mi ci sono voluti anni prima di cominciare a mangiare, ho impiegato un bel po’ di tempo anche a casa per riuscire a mangiare, perché rigettavo tutto, l’intestino non teneva più niente – allora, quando cominciai a camminare, feci la spedizione per l’Italia.

Prima c’era il programma “Dammi la nota”: avevano preso i nomi dei superstiti che trasmettevano poi per radio, e mi hanno dichiarato disperso. Invece avevo dato la giusta posizione a quelli della radio ma c’era una confusione tremenda. C’erano i treni che caricavano ogni tanto un gruppo di persone che andava in Italia, verso il Brennero. Un giorno esco dall’ospedale, cammino, cominciavo a fare le passeggiate intorno all’ospedale; lì vicino c’era a 50-60 metri il binario della ferrovia; i treni passavano di lì, si fermavano e ricaricavano i prigionieri da portare in Italia. Avevano un sacchettino con dello zucchero che avevano dato loro per fare il viaggio, delle cose da mettere in bocca. Io non avevo niente perché non ero neanche sulla lista dei partenti per l’Italia, assolutamente no. Cosa ho fatto? Ho visto il treno fermo e ho chiesto: “Scusate, dove andate, in Italia?” “Sì, stiamo andando in Italia”, allora dico: “Posso salire anch’io?” “Sali”. Senza dir niente a nessuno prendo il treno. Quando sono arrivato al Brennero, gli altri mangiavano quello che avevano io non avevo niente, ero tanto debole che credevo di morire proprio. Allora dopo un po’ mi hanno dato qualcosa e sono arrivato fino a Bolzano. A Bolzano il guaio era che c’era la quarantena da fare, io non la volevo mica fare; volevo andare a casa, volevo andare a casa.

Il fatto è che invece a Bolzano c’era una confusione che non si poteva neanche camminare, neanche rientrare nel campo. C’era un baraccone, c’era della gente che scriveva a macchina. Con un altoparlante hanno gridato forte: “Quelli provenienti dai campi di sterminio KZ devono passare davanti a tutti”. Allora sono passato avanti, mi hanno fatto un biglietto che non mi è stato né timbrato né firmato; mi hanno chiesto la provenienza, hanno scritto tutte quelle cose lì, da dove vengo e da dove non vengo. Poi mi hanno detto di aspettare, mi hanno dato un panino imbottito ma … chi lo mangiava un panino imbottito, in quelle condizioni?

Vengo fuori, mi mettono in coda, e un signore dice: “Di dove sei? di Verona?” “Sì” “Vuoi venire a Verona?” “Magari! sto aspettando qua, devo fare la quarantena” “Vieni qua, sali, sali”. Aveva la macchina, salgo, parte e via … ospite. Me ne vado da Bolzano e arrivo a Verona.