Rudolf Maria

Maria Rudolf

Nato a Gorizia il 17.08.1926

Intervista del: 21.06.2000 a Trieste realizzata da
Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n. 146 – durata: 31′ circa

Arresto: 12.04.1944 nei pressi di Gorizia

Carcerazione: Gorizia, Trieste al Coroneo

Deportazione: Auschwitz 1, Plauen

Liberazione: 25.04.1945 a Plauen

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Organizzazione materiali ed inserimento dati: Elisabetta Mascarello, Elena Pollastri

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Rudolf Maria, sono nata a Gorizia il 17 agosto del 1926.

Quando ero piccola, ci siamo trasferiti a 35 km di distanza da Gorizia verso il confine dell’allora Iugoslavia. Lì ho vissuto per sedici anni e lì sono stata arrestata.

D: Scusa, Maria. Chi ti ha arrestato?

R: Mi hanno arrestato i tedeschi perché io ero corriere dei partigiani e sono stata denunciata dai paesani.

Mi hanno portata nelle carceri di Gorizia e lì sono rimasta per tre mesi.

D: Quando? Ti ricordi la data?

R: Il 12 aprile del 1944.

D: Chi ti ha interrogato?

R: I tedeschi.

D: Nelle carceri di Gorizia.

R: Nelle carceri di Gorizia.

D: E cosa ti chiedevano?

R: Volevano sapere delle organizzazioni ecc., ma io ho fatto finta di non sapere assolutamente niente, perché i nomi dei partigiani erano tutti nomi di battaglia ed erano organizzati in maniera che non potevano dimostrare che io sapessi qualcosa.

Comunque, nonostante l’età, io devo congratularmi con me stessa perché non ho mai detto niente.

D: Hai subìto anche delle torture?

R: Se non avessi riconosciuto, no, non è giusto. Ho riconosciuto.

Se avessi detto che io non ero il corriere dei partigiani, sicuramente mi avrebbero torturata, ma io non potevo negarlo perché lì c’erano dei testimoni che mi hanno denunciato e non potevo smentire.

D: Nelle carceri, quanto tempo sei rimasta?

R: Sono rimasta tre mesi a Gorizia e dopo il processo mi hanno portato al Coroneo, nelle carceri di Trieste.

Il 12 settembre del 1944, con un carro bestiame, mi hanno portata ad Auschwitz.

D: Eri da sola o c’erano anche delle tue compagne?

R: C’erano tante mie compagne perché le conoscevo già in carcere a Gorizia e poi ci siamo ritrovate a Trieste e da Trieste ci hanno portato in questo campo di concentramento di Auschwitz.

D: Scusa, Maria, ti ricordi dal Coroneo al carico del Transport, dove vi hanno portato?

R: Non ci hanno mai detto niente, perché loro facevano tutto senza che noi sapessimo qualcosa.

Quando sono arrivata ad Auschwitz, mi è venuto un colpo perché sentivo qualcuno che mi chiamava ma non riconoscevo nessuno e poi sento: “Maria, Maria, sono io, non mi riconosci?”.

Le mie compagne che erano partite prima di me, erano già ridotte a delle larve.

Io non le ho riconosciute.

E poi la cosa che più mi ricordo e che più mi è rimasta impressa è quando mi hanno fatto spogliare tutta davanti ai tedeschi, io avrei preferito essere morta in quel momento, perché avendo vissuto in un paese, senza avere visto prima un cinema, qualsiasi cosa, per me era talmente da morire di vergogna, dovermi spogliare davanti a tutti.

Poi ci hanno dato un vestito, quello che capitava, un paio di zoccoli di legno, tipo olandese, e niente altro.

Ci hanno tagliato i capelli, portato via tutto quello che avevamo con noi, che poi non era molto. Ci hanno raggruppato in una baracca dove non si poteva stare seduti così come sto adesso seduta io. Era tanto basso, chiamiamolo il tetto, che dovevano stare seduti così.

Dunque immaginate quale tortura per noi a diciotto anni.

E la notte si dormiva in otto in un piccolo spazio, dove per rimanere tutti dovevamo avere uno la testa qui e uno la testa dall’altra parte, altrimenti non ci si stava.

Alla mattina dovevamo spogliarci completamente nudi e fare l’appello davanti alla baracca, che poi era già autunno, i primi di ottobre e faceva freddo.

In una di queste mattine, ricordo che passava davanti a noi un camion che al momento non sapevamo cos’era e poi ci siamo accorti che era un camion pieno di cadaveri nudi, perché quando si stava all’appello, di tanto in tanto qualcuno cadeva a terra, e lo raccoglievano e lo portavano nel forno.

Tutte le mattine dovevamo stare così in piedi nudi per diverse ore.

Ci davano un mangiare che io definirei per i maiali e una sola volta al giorno e se tu non avevi una bacinella, qualcosa del genere per mettere dentro questa minestra, rimanevi anche senza quella.

Io ricordo che per la gran fame mi rotolavo sotto il reticolato di ferro, di filo spinato, per andare a mangiare quel poco che rimaneva alle persone ammalate di tifo.

Io rischiavo la vita, ma la fame era tanta che non ci pensavo due volte e c’era una specie di baracca che fungeva da ospedale e lì c’erano queste persone che non riuscivano più a mangiare perché erano mezze morte.

Io andavo a raccogliere gli avanzi di quelle persone.

D: Scusa, Maria, il viaggio da Trieste ad Auschwitz quanto è durato? Te lo ricordi?

R: E’ durato parecchi giorni, ma io non saprei dire con esattezza quanti.

D: Eravate in tanti, nel tuo vagone?

R: Eravamo in tanti e quando siamo arrivati ad Auschwitz, io ho riconosciuto una persona ebrea che invece lei non conosceva me, e c’era anche il suo nipotino.

Quella volta, io avrei preferito…, peccato che non gliel’ho detto che la conoscevo ecc. perché quando sono ritornata da Auschwitz, ho raccontato di avere visto questa signora con il nipotino e il figlio di questa signora è venuto da me a chiedermi cosa so di preciso.

Mi è dispiaciuto tantissimo perché non potevo raccontargli niente più del fatto che l’avevo vista e basta.

Perché io ero tanto convinta del fatto che non sarei ritornata a casa, che non valeva la pena di dirle che la conoscevo.

D: Scusa, Maria, quando tu parli di Auschwitz 1 o di Birkenau?

R: Proprio Auschwitz 1.

Io sono rimasta lì ma soltanto 40 giorni…

D: Hai detto che quando sei entrata vi hanno fatto la spogliazione…

Vi hanno dato dei vestitacci…

R: Quello che capitava…

D: Senza biancheria intima…

R: Senza biancheria intima…

D: L’immatricolazione, quando ve l’hanno fatta?

R: Quando ci siamo spogliati in fila, tutti quanti, ci hanno fatto il numero che io da quel momento sono diventata un numero, non più un nome e cognome, un numero.

D: Il tuo numero qual è?

R: Il mio numero è 88.492.

D: Ti hanno dato anche un triangolo?

R: Sì, io sul vestito avevo un triangolo rosso “IT” che significava “italiana”. Gli ebrei invece avevano un triangolo giallo che non ricordo bene se era una stella.

D: Quindi tu sei rimasta ad Auschwitz 1 per quaranta giorni?

R: Per quaranta giorni.

D: Ti ricordi il numero del tuo blocco?

R: No.

D: Non te lo ricordi.

R: No, perché non siamo rimasti sempre nello stesso blocco, ci hanno trasferito più volte.

Per questo quando si rischiava di rimanere senza bacinella per il mangiare non mangiavi proprio.

D: Dovevi digiunare?

R: Eccome. Io ho visto episodi terribili di questa fame perché lei sa quanta fame si ha a diciotto anni e poi c’erano anche persone già molto ammalate che finivano lì, come avevo già detto, in questo ospedale. E io andavo lì sperando di trovare qualcosa.

D: Hai detto che hai visto quella signora ebrea con il nipotino.

Hai visto altri bambini?

R: No, perché lei è partita proprio con il mio trasporto, per cui l’ho vista lì quando ci dovevamo spogliare e ho visto quanto era dispiaciuta a doversi svestire davanti al suo nipotino.

D: Nel tuo trasporto non ricordi i numeri, quanti eravate più o meno?

R: No, perché eravamo in diversi vagoni e poi io ero così disperata, che non mi interessavo di niente.

D: In questi 40 giorni che sei rimasti ad Auschwitz 1, cosa hai fatto?

R: Praticamente non ho fatto niente, perché loro già preparavano dei trasporti, dopo la quarantena per portare quelle persone che erano ancora in grado di lavorare più verso il centro della Germania.

E a me, dopo quaranta giorni, con questo trasporto mi hanno portato a Plauen, in una città che si chiamava Plauen e ci hanno sistemati in una fabbrica di lampadine.

Lì, il mangiare era pochissimo. Non solo, dovevamo fare dei turni di lavoro anche la notte e poi c’erano bombardamenti in continuazione.

Io, oltre al ricordo della fame, ricordo quanto bisogno di dormire avevo.

Io ero stanca da morire, un po’ forse per la debolezza perché non si mangiava, ma soprattutto perché non c’era mai pace: o si doveva lavorare o c’erano i bombardamenti e bisognava correre in rifugio.

Insomma ho dei ricordi tremendi. E non bastava tutto questo, ma tante volte ci mettevano in fila per qualsiasi sciocchezza e dovevamo stare lì, non solo in piedi per delle ore, ma dovevamo anche cantare.

D: Cantare cosa?

R: Mi facevano cantare l’Ave Maria di Schubert. E poi tutte le altre facevano il coro.

Si figuri come lo potevamo cantare, così deboli, stanchi e soprattutto umiliati in tutte le maniere, quanta voglia di cantare avevamo.

D: Ascolta, Maria, quando hai lasciato Auschwitz 1 per quella fabbrica lì, quel sotto campo lì, tu hai passato una selezione?

R: Era questo il loro… Quelli che si presentavano ancora in grado di lavorare andavano da una parte e gli altri dall’altra. Tanto è vero che due persone che io conoscevo sono partite con me, sono rimaste lì dopo di me, perché erano intanto più anziane, e poi deboli, da non potere lavorare.

D: E sono rimaste al campo queste?

R: Sono rimaste al campo e so che una di queste persone non è mai tornata a casa. Per la seconda, a dire il vero, non lo so.

D: Quando tu hai lasciato il campo c’erano anche altre tue compagne con te?

R: Sì, diverse. Perché noi, in 40 giorni abbiamo sì sofferto la fame, ma non ci siamo ridotte ancora a degli scheletri.

La maggior parte delle mie compagne è venuta con me in fabbrica.

D: Lì, il campo dov’era rispetto alla fabbrica?

R: Noi eravamo lì, segregate nella fabbrica. Si dormiva lì, si mangiava e si lavorava.

Io non sono mai uscita da quella fabbrica fino all’aprile del 1945, quando hanno bombardato la nostra fabbrica abbiamo dovuto abbandonarla perché non si poteva rimanere lì e non avevano più dove portarci, era distrutto completamente tutto e queste persone che si sono ammalate in fabbrica dovevamo portarle noi, si figuri con quale fatica.

Perché già noi eravamo tanto deboli che portare anche queste persone ammalate era una tale fatica, impossibile da sopportare. Non ce la facevamo proprio.

Poi, quando hanno buttato via un po’ di detriti, ci hanno ributtato nella fabbrica sotto il sotterraneo.

E da lì io e quattro mie compagne siamo scappate.

Siamo scappate in un bosco, e lì ci siamo preparate un letto di rami di alberi, e siamo rimaste lì per quattro giorni, però poi la fame era all’estremo, eravamo all’estremo delle forze.

Sapevamo che vicino alla nostra fabbrica c’erano degli italiani che però non erano prigionieri come noi, ma erano lavoratori.

Così, io e un’altra mia compagna, pur essendo vestite da prigioniere con il vestito a righe e sulla schiena un “KL”, abbiamo rischiato perché dovevamo o morire di fame o fare qualcosa.

Siamo andate da questi italiani che poi c’era anche un triestino tra di loro e loro ci hanno dato non solo da mangiare, adesso io non ricordo bene che cosa, ma qualcosa da mangiare e ci hanno consigliato di andare almeno sotto un ponte per non essere bagnate e per ripararci un po’.

Questo ponte non era molto lontano e comunque ormai c’era tanta confusione, che nessuno ci badava più.

Anche se eravamo vestiti da prigionieri, nessuno ci guardava, nessuno ci ha mai fermati comunque siamo arrivati il 25 aprile e sono arrivati gli americani.

Lì, loro ci hanno messo in una baracca e hanno cercato di curarci alla meglio.

Comunque sono morte tante mie compagne anche dopo, perché ormai erano così rovinate, così esaurite che non ce la facevano più.

Siamo rimaste lì un paio di mesi e poi sono arrivati i russi.

Siamo partiti da lì, in luglio, non saprei dire il giorno preciso, e siamo rimasti in viaggio per un mese intero. Era tutto distrutto: le ferrovie… Sono tornata a casa il 12 agosto del 1945, quando nessuno si aspettava più di vedermi.

D: E che giro hai fatto per arrivare in Italia?

R: Addirittura siamo passati per l’Ungheria: Budapest, però noi non abbiamo mai visto niente perché noi dovevamo rimanere lì altrimenti non avevamo altri mezzi per tornare a casa. Poi Ungheria, Iugoslavia, poi Postumia e io sono tornata a casa finalmente, il 12 agosto del 1945, cioè tutti quei mesi dopo la fine della guerra.

D: Maria, tu quando eri ad Auschwitz e poi lì nella fabbrica, dicevi che eravate molte donne…

R: Tutte donne, solo donne.

D: Come vi hanno risolto il problema delle mestruazioni?

R: Non avevamo le mestruazioni, o ci davano qualcosa, o a causa di questa fame non avevo mestruazioni, tanto è vero che ero terrorizzata all’idea di non potere averi figli perché dicevano che eravamo rovinate, che non potevamo avere figli. Invece non era così, io ne ho avuti tre.

D: Quando eri ad Auschwitz o in fabbrica, soprattutto in fabbrica di lampadine, c’erano anche dei civili con voi a lavorare ?

R: Soltanto il nostro capo, era un tedesco perché si vede che era stato ferito in guerra, non era in grado di camminare e lui era il nostro capo.

D: Quando ti hanno portato in fabbrica, ti hanno cambiato il numero di immatricolazione?

R: No, è rimasto sempre lo stesso.

Io adesso non ricordo tanto bene se lì avevamo un altro numero in fabbrica, ma se ce l’avevamo non è che ce l’avevamo tatuato, può darsi, non ricordo proprio che se l’avevamo, l’avevamo sulla veste, ma non ricordo bene.

D: Lì, in fabbrica facevate degli appelli?

R: Tutte le mattine si faceva l’appello, come in campo di concentramento.

D: Ti ricordi se nel campo ad Auschwitz 1 hai visto anche dei religiosi?

R: No.

Perché noi lì eravamo segregate in questa baracca e lì non ci si poteva muovere. Noi non avevamo la possibilità di poter girare e andare da una fabbrica all’altra. Dovevamo stare lì, sedute come le ho già raccontato in quella maniera e poi quando, alla mattina, c’era questo appello che bisognava stare lì delle ore, poi fino all’ora di pasto, eravamo lì seduti come le avevo fatto vedere, senza poterci muovere, senza poter camminare e andare da un posto all’altro.

D: Scusa, Maria, un’altra cosa, quando eravate in fabbrica, o anche nel campo, tu sei mai andata all’infermeria?

R: Sì, ma avevamo tutto in fabbrica, c’era una stanza che fungeva da infermeria.

Io avevo un eczema terribile.

Ho cominciato con un pochino all’orecchio e poi avevo mezza faccia completamente rovinata da questo eczema.

Addirittura mi scolavo questo liquido.

E avevo paura di rimanere così, con la faccia sfigurata per tutta la vita e invece con delle pomate mi è un po’ migliorata.

Però, quando sono ritornata a casa avevo un po’ di eczema non soltanto sulla faccia ma anche sul seno e quello mi è durato per un anno ancora, perché dicono che è la mancanza di vitamine, non so cosa bisognava fare per aiutare.

Quando sono tornata a casa, in farmacia mi hanno dato l’olio di fegato di merluzzo, che però non mi è servito.

Poi invece con una pomata per l’eczema, ma ci sono voluti due anni prima che guarissi completamente.

D: Ad Auschwitz non sei più ritornata?

R: No. Ho visto un film su Auschwitz, ho pianto tutto il tempo del film, e non era tanto brutto quanto quello che ho vissuto io.

Mi viene un nodo alla gola se penso a quello che ho passato a diciotto anni.

Non solo tutte le umiliazioni, la fame.

Io adesso ho una nipote della mia età, dell’età di quando io ero in prigione, penso se lei dovesse passare quello che ho passato io.

Mi dispiace che i giovani non sanno che godono della libertà che abbiamo loro procurato noi, con tante sofferenze.

D: Maria, tu non hai mai testimoniato?

Non sei mai stata intervistata?

R: No, non vorrei esserlo.

Io volevo dimenticare a tutti i costi questo, non è così, purtroppo, le guerre continuano.

Lei non sa cosa ho sofferto adesso quando c’era questa guerra nel Kosovo perché mi ricordava tutto quello che ho passato io, che poi le guerre non risolvono mai niente.

D: Ma è importante che i giovani conoscano la tua testimonianza.

R: Guardi, io spero che non succedano mai più di queste cose, e non ho mai parlato con i miei figli, però li ho educati al rispetto di tutte le persone, indifferente il colore della pelle e della religione, perché soltanto chi ha provato e visto quello che ho provato io, non potrà mai essere un razzista.

Bisogna viverle certe cose per sapere cosa sono in realtà.