Balboni Ferdinando

Ferdinando Balboni

Nato il 27 maggio 1923 a Castelmaggiore (BO)

Intervista del: 23.08.2000 Bologna realizzata da
Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n. 53 – durata: 55′ circa

Arresto: il 24 giugno 1944

Carcerazione: a Minerbio (BO) e a Bologna, al carcere di San Giovanni in Monte

Deportazione: Bolzano

Liberazione: il 30 aprile 1945

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Organizzazione materiali ed inserimento dati: Elisabetta Mascarello, Elena Pollastri

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

R: Mi chiamo Balboni Ferdinando, sono nato il 27.5.1923.

D:. Dov’è che sei nato?

R: Sono nato a Castelmaggiore, un paese vicino a Bologna, il 27 maggio 1923. La mia storia possiamo dire che comincia fra la fine di febbraio e i primi di marzo.

Ci fu una chiamata, siccome molti non avevano ricevuto la cartolina tutti quelli nelle classi ’22, ’23, ’24, fino a ’25 e anche ’26 avevano l’obbligo di presentarsi volontariamente.

D: Questa chiamata in che anno è avvenuta?

R: Nel ’44. Io non è che avessi troppa voglia di andarci, allora fui contattato una sera da un certo Giordano Maz, penso che si chiamasse così, è una specie di reclutatore, il quale mi offrì di entrare in una piccola squadra partigiana, roba di principianti.

Io entrai, accettai. Andavamo in giro per le campagne, il nostro ordine era di approvvigionare quelli della montagna. Siccome nella zona dov’ero io c’era un sacco di piccoli proprietari terrieri che facevano il mercato nero. Allora noi, adesso non so se sia giusto dirlo questo, andavamo alla sera.

Prelevavamo quanto ci serviva, però abbiamo sempre lasciato una ricevuta con la quale alla fine della guerra questa gente che aveva dato la roba poteva per lo meno giustificarsi. Non so se siano stati rimborsati o pagati, però per lo meno non sono stati né arrestati né tacciati di collaborazionismo.

Anzi, sono stati apprezzati come collaboratori. Poi venne il periodo della mietitura, allora c’era l’ordine che nessun carico di grano doveva partire. Noi alla notte andavamo a bruciare le macchine, le trebbiatrici con delle molotov, con una bombetta a mano, prima la molotov poi la bombetta a mano.

Ogni tanto abbiamo avuto qualche scontro, perché nei fienili su c’erano le Brigate Nere, allora qualche sparatoria, ecc. Fu in una di queste sparatorie che un mio collega rimase ferito da una scheggia di legno che gli si piantò nel collo. Non avevamo medicinali.

Siccome io nella zona ero quello conosciuto di meno, andai a Minerbio, un paese sempre vicino a Bologna a prendere dei medicinali. Naturalmente i medicinali che presi io insospettirono il farmacista, il quale era un noto fascista. Mi dette tutta la roba, presi bende, ecc.

Anche lì, un po’ ingenuo. Appena fuori fui fermato dalla Todt, da guardiani della Todt. Io avevo una tessera della Todt come documento, mi lasciarono andare. Solo che quel maiale di farmacista andò dentro alla Casa del Fascio, che era lì proprio nella piazzetta dove c’era la farmacia, disse che un tipo sospetto si era presentato e aveva preso dei medicinali.

Allora mi mandarono dietro. Solo che io non me ne accorsi, perché io avevo una bicicletta, allora le chiamavano alla Valencia, cioè col manubrio così, una motocicletta moderna. Se io mi fossi solo voltato, mi bastava accelerare.

Mi stavano seguendo due con quelle biciclette da bersaglieri a ruote piene, non c’era competizione. Invece mi sono arrivati dietro che non me ne sono accorto, mi hanno intimato l’alt.

A quel punto mi ritengo fortunato, perché nei mesi precedenti non sono mai uscito una volta armato, senza due pistole. Avevo due Browny calibro lungo che avevamo prelevato disarmando fascisti e tedeschi.

Per fortuna quel giorno non ce l’avevo, non l’avevo con me, quindi me la cavai, mi arrestarono. Subii un primo interrogatorio, poi mi mandarono alla caserma dei carabinieri, il maresciallo dei carabinieri era un fascista.

D: Scusa, Ferdinando, quando? Ti ricordi il giorno che ti hanno arrestato?

R: Il giorno che mi hanno arrestato deve essere stato il 24 giugno.

D: Del ’44?

R: Del ’44, però non è che io ricordi esattamente, è già passato tanto di quel tempo.

D: Questi due che ti hanno seguito chi erano?

R: Erano due della Brigata Nera, due brigatisti neri. Mi hanno spianato il mitra e mi hanno detto di precederli. Io sono andato davanti e loro dietro.

Ad un certo punto mi è venuto in mente che io avevo una scatola di fiammiferi nel taschino, piegata nella parte sotto c’è una lista d’armi che io dovevo far avere a Castelmaggiore. Ho detto: “Qui sono fatto, sono finito”.

Ad un certo punto si dà il caso che passassimo dove stavano facendo dei lavori, c’era un tombino di fognatura aperto. Io tirai fuori la scatola, dico: “E’ già finita, avete da accendere?”, poi ho buttato via la scatola così dentro lì.

Mi hanno arrestato, mi hanno fatto un primo interrogatorio in cui io ho raccontato una storia alla quale non avrebbe creduto nemmeno Cappuccetto Rosso penso, di getto. Ad un certo punto mi misero dentro in cella.

Poi dice: “Domani ti interroghiamo, domattina ti interroghiamo”. Alla mattina fui portato all’interrogatorio.

D: Questo dove? Ti hanno messo in cella in quale località?

R: A Minerbio sempre.

D: Ti hanno portato lì nella caserma?

R: Mi hanno portato nella caserma, poi dopo un piccolo sommario interrogatorio in cui io gli raccontai una storia tanto per dire qualcosa mi misero in cella. Alla mattina andai all’interrogatorio.

Primo interrogatorio, l’interrogatorio venne su alla casa della GIL, era la caserma delle Brigate Nere. Avevo davanti quattro o cinque persone, io ero seduto su una specie di poltrona da barbiere girevole. Cominciarono ad interrogarmi.

Mi interroga, io racconto questa storia ecc. Ad un certo punto uno: “No, sono tutte balle quelle che stai dicendo, non è vero”. Poi uno schiaffone. “Tu hai detto così e così, invece non è vero”, poi i tre mi giravano, un altro schiaffone.

A turno mi hanno schiaffeggiato tutti, diverse e svariate volte. Dopo però finita lì, sono tornato in cella. Stetti sveglio tutta la notte a cercare di architettare una storia credibile e un po’ mi sembra di esserci riuscito.

La mattina dopo ricominciano, per un’ora li lascio andare avanti sulla vecchia versione con schiaffoni, ecc. Alla fine feci una scena, feci finta di piangere: “No, basta, vi dirò tutto. Sì, la storia che vi ho raccontato non è vera”. “Allora che storia?”. E gli raccontai quella che mi ero costruito.

Lì ho tenuto botta per quattro giorni, sotto le botte non ho mai sbagliato una parola. Non è che io l’avessi scritta, ma ormai me l’ero memorizzata. Allora non avevo la memoria di adesso.

Non dico che furono costretti a crederci, ma dovettero crederci, perché nemmeno sotto gli schiaffoni ecc… Difatti mi avevano ridotto la faccia, sanguinavo un po’ dappertutto, la faccia gonfia. Poi mi misero un giorno in cella.

Mi arriva dentro all’improvviso, sento aprire la cella, mi si presenta un certo Romano Ricci. Era un partigiano, veniva a portarci da mangiare nelle basi dove andavamo delle volte. Per fortuna aveva il carabiniere dietro e non s’accorse che Ricci ebbe un momento così…

Io invece ebbi il sangue freddo di rimanere impassibile. Salutai, poi stavo leggendo un libro e mi rimisi a leggere. Me lo lasciarono lì, io gli feci segno che avrebbero potuto essere in ascolto. Così parlammo un po’ del più e del meno.

Dico: “Se permetti adesso voglio finire questo libro, tanto a te non interessa”. Dopo mezz’ora lo vennero a prendere e lo rimandarono a casa, perché anche lui era un sospetto, però non avevano niente in mano.

In poche parole fui spedito a Bologna, dopo quello mi mandarono a Bologna alla caserma Giulio Bernini. Allora dalla caserma Giulio Bernini avevano estradato i frati, era un vecchio convento, e si erano insediate le Brigate Nere. Gli avevano dato il nome di Giulio Bernini; credo che fosse un eroe loro.

Sono stato lì diversi giorni. Anche lì botte da orbi, non ho sbagliato una parola nemmeno lì. Allora si sono convinti. Nel frattempo c’era stata una fuga a San Giovanni in Monte, nel carcere di San Giovanni in Monte, purtroppo l’avevano fatta troppo presto.

Quando sono arrivato io ci misero dentro una cella. Eravamo in trentacinque dentro una cella, ognuno aveva la sua branda, c’era il passeggio. La cella sarà stata lunga 20, 25 metri, larga 8 o 10, si stava comodi. A parte il fatto che non si mangiava niente, ma si stava comodi.

Lì chiamavano gli interrogatori. Io non fui mai chiamato e sono stato lì. Adesso esattamente non lo so, sarà stato il 14 o il 15 d’agosto che sono andato a San Giovanni in Monte e sono rimasto lì fino al 27 ottobre, il giorno che ci hanno mandato a Bolzano.

Premetto: nella cella dove ero io hanno fucilato un sacco di gente, li tenevano come ostaggi, ma eravamo tutti ostaggi, anche noi. Ammazzavano un fascista, ne prendevano dieci o quindici, li portavano contro al muro lì e li ammazzavano spesso e volentieri, dove c’è il muro del pianto adesso con tutte le fotografie, i tre tabelloni.

Li ammazzavano lì contro, poi li lasciavano lì, il giorno dopo li esponevano, tanto per farli vedere. Io ho subito tre o quattro di queste incursioni dentro, che c’era il famoso Tartarotti, il famigerato Tartarotti. Era credo a Villa Triste, credo che fosse a Milano Villa Triste, so che era una villa dove si compivano un sacco d’orrori e i capi dentro queste villa erano Osvaldo Valenti e la Luisa Ferida.

Hanno raccontato delle cose spaventose di quelli. Sembra che la Luisa Ferida, sembra, non lo so, io non ho visto, si esibisse nuda, che legavano questi ragazzi, lei gli si esibisse nuda davanti, magari anche avvicinandoli a contatto, naturalmente ragazzi giovani, si eccitavano.

Allora delle gran legnate sul sesso, questa è una delle cose. Poi c’era la famosa tortura del fiammifero sotto le unghie. Io fortunatamente non ho mai avuto torture, botte ne ho prese.

Ma sai, le botte si sopportano. A quell’età ti viene un nervoso addosso che le senti dopo magari, ché ti ritrovi con una faccia così. Dov’ero rimasto? Ero rimasto che ero ancora dentro a San Giovanni in Monte e venivano alle cinque della mattina.

Quando il secondino, erano secondini normali, secondini impiegati, venivano a chiamare, cominciavano: “Tizio, Caio, Sempronio, altri fate fagotto”. A quell’orario fare fagotto voleva dire andare contro il muro.

C’erano i vari orari. Alle nove c’era l’orario dell’interrogatorio, alle undici invece se ti chiedevano di fare fagotto venivi scarcerato. Fare fagotto voleva dire racimolare il materasso, tirare su il materasso dalla brandina, il lenzuolo, quello che avevano dato e poi portarlo in magazzino.

Poi da lì o andavi da Tartarotti o andavi all’interrogatorio. No, all’interrogatorio comunque non facevano fagotto, dall’interrogatorio dopo ritornavano. Ho visto diversi, sono stati in cella con me, fucilati. Sono tutti là.

C’è un certo Onofri, Gino Onofri credo che si chiamasse, un signore sulla quarantina d’anni, un certo Musi, che era uno che avevano beccato con del tritolo sulla bicicletta. Anche lì dopo averlo torturato l’avevano buttato contro al muro.

Poi chi c’era? Adesso i nomi purtroppo non me li ricordo più, ma ce n’è diversi che li conosco guardandoli. Poi ad un certo punto verso il 5 ottobre ci fu un grossissimo bombardamento a Bologna, che durò dalle nove di mattina alle cinque del pomeriggio.

Sembrava che preludesse l’entrata degli alleati a Bologna, invece poi non è stato vero. Gli alleati erano ancora lontani. Premetto una cosa ancora, che io ero sotto il Tribunale Speciale di Parma, perché l’unica accusa che mi rimase era il sospetto di essere partigiano e disertore.

Bastava quello in tempo di guerra per cacciarti contro un muro, però non sono mai andato a Parma. Ci caricavano su un camion, eravamo in trentaquattro, trentacinque, eravamo noi un po’ della nostra cella, d’altre celle. C’erano anche, posso parlare chiaramente, c’erano anche tre prostitute di Roma.

Il loro crimine era quello di avere impestato un mezzo reggimento di tedeschi, o qualcosa del genere. Naturalmente, come furono a Bolzano, le rimandarono subito a casa. Ce n’era una con una pancia così, a quella detti l’indirizzo di casa mia e la mandai a casa mia, da mia madre raccomandandole di dare quello che poteva per aiutarla.

Difatti mia madre la tenne in casa diversi giorni, le preparò un piccolo corredino per il bambino. Mia madre era una ricamatrice bravissima. Le dette delle cose, la aiutò. Poi arrivammo a Bolzano.

Però prima di arrivare a Bolzano nei pressi del Po’ fummo attaccati da due Moschitos, quelli a doppia coda, che ispezionavano un po’ la strada. Ci fermammo, c’era il camion e dietro di noi c’era una di quelle jeep tedesche, quelle anfibie con quattro SS sopra coi mitra. Ce n’erano due in cabina.

Ad un certo punto la jeep si fermò e il camion invece non capì, proseguì e ci rimase per venti, trenta secondi tre o quattrocento metri di strada libera. Allora quattro saltarono giù, mi ricordo i nomi. Erano Vittorio Chefeo, Fellicani, Didomizio e un capitano dei bersaglieri ebreo, un certo Ascoli.

Quelli riuscirono a scappare, saltarono giù al volo, gli spararono dietro, ma gli spararono dietro con una Maschinenpistole. Quelli correvano in mezzo alla campagna. Per non perdere capre e cavoli siamo andati avanti così e siamo arrivati a Verona, al castello.

Era il periodo che c’erano De Bono, Ciano. Li avevano fucilati subito prima o subito dopo, adesso non ricordo più. Io so che ci cacciarono in una camerata con della paglia per terra e ci misero a dormire là.

Alla mattina alle quattro ho passato il più grosso spavento della mia vita. Ci svegliano, c’è un prete. Erano le quattro di mattina. Questo prete dice: “Io sono autorizzato per speciale dispensa papale ad assolvervi e a comunicarvi tutti in massa”. Dico: “Qui ci danno l’assoluzione in massa alle quattro del mattino, qui ci fucilano tutti”.

Invece fortunatamente ci caricarono su un camion e arrivammo a Bolzano il giorno dei Santi, non mi ricordo più se l’uno o il due, so che o il giorno dei Santi o il giorno dei morti. Lì appena entrati venimmo classificati, cioè segnati, tutto: nome, cognome. Presi dentro a forza, poi ci mandarono alla tosatura e ci raparono a zero.

Dopo ci presero gli abiti e ci misero sopra dei giacconi. Non avevano lì a Bolzano la divisa a strisce, avevano dei giacconi di iuta, di tela grossa, giaccone e pantalone. Dietro c’era verniciato rosso una specie di bersaglio, di tiro a bersaglio, perché se uno scappava… Non lo so.

Oppure una croce così. Ci lavarono, ci lavammo. Mi meraviglio che ci lasciarono… Io avevo un bel pacco così che mi aveva portato dentro mia madre il giorno prima, dove c’erano dentro tutte le grazie di Dio. Ci assegnano al blocco, credo che fosse il primo, il blocco non lo ricordo esattamente. So che è un blocco.. o F o… No, F no. C’erano le donne, credo fosse il blocco H.

Nel frattempo passa il rancio, uno schifo da far paura, figurati se io mangio questa roba. L’unica cosa in cui non c’era nessuna differenza con i campi veri e propri di sterminio era il mangiare, quello era uguale. Era una tazza di brodaglie con qualcosa dentro, c’era una qualche grana d’orzo.

Io ad un certo punto me ne frego, mi ero scelto un castello in alto, mi prendo fuori una bella cotoletta così e mi metto a mangiare con del pane bianco. Mentre mangiavo ad un certo punto mi sono sentito a disagio, mi sono sentito osservato. Alzo gli occhi, avevo tutto il blocco in piedi sopra che erano lì tutti attorno a guardare.

Allora non ho potuto fare a meno, ho visto uno che sembrava il capo, gli ho dato tutto e ho detto: “Distribuisci un po’ per uno”. Per me avevo da mangiare per tre o quattro giorni, ma per un centinaio che c’era dentro al blocco hanno mangiato un pezzo di roba ciascuno e sono rimasto là, per tre giorni non ho mangiato.

Dopo è diventato buono anche il rancio. Il pezzetto di pane grosso così, pane in cassetta che sarà stato un etto, poco più di un etto, ma non credo che fosse molto di più, sarà stato dodici o quattordici millimetri.

D: Ferdinando, quando ti hanno immatricolato lì a Bolzano?

R: Subito, appena arrivato. Mi hanno dato il numero 5854, achtundfunfzigvierundfunfzig, dico bene?

D: Assieme al numero ti hanno dato qualche altra…

R: Il triangolino rosso. Ce li ho ancora quelli lì. Ce l’ho qui, lo vuoi vedere? Sospendiamo per un attimo.

D: Abbiamo recuperato il triangolo. Quello è il tuo triangolo e il tuo numero?

R: Sì.

D: Di Bolzano?

R: Sì.

D: Il numero qual era?

R: 5854. Ci chiamavano col numero in tedesco, se non rispondevi… Abbiamo fatto presto ad impararlo.

Lì siamo stati fortunati che, a parte gli ultimi che avevano cinque cifre, i 110, qualche cosa del genere sono stati proprio gli ultimi entrati, erano tutti numeri a quattro cifre. Quindi erano abbastanza…

R: Mi ero dimenticato un particolare. Subito all’inizio che ero in questa piccola squadra di partigiani, che avevamo cominciato a fare delle cose, subentrò in squadra un fuoriuscito jugoslavo, un certo Vincon Laker, che poi è tornato in Jugoslavia.

Ha fatto a tempo a congelarsi un piede nell’ultimo inverno, è riuscito a scappare dopo, scappava. Lui non è mica mai stato catturato. Lui era lì con me come un domicilio coatto, era presso una famiglia di fascisti che però facevano il doppio gioco. Quindi lo tenevano lì.

Dopo è venuto in squadra con noi e ci ha insegnato diverse cose, ci siamo fatti un po’ d’esperienza. Tant’è vero che con l’incoscienza dei vent’anni io da niente ero diventato… Abbiamo fatto un paio di cose.

Tu pensa una cosa, siamo entrati io e lo svizzero, mi meraviglio che l’abbia fatto anche lui, in un bar a San Giorgio di Piano che era un covo delle Brigate Nere. Siamo andati. Mentre eravamo dentro arriva un camion. C’era stato un rastrellamento ad Argelato, un paese lì vicino.

Tutti questi fascisti: “Sì, perché qua, perché là”. Io ebbi la presenza di spirito, come entrarono nel bar gli andai incontro, dico loro: “Quei figli di puttana li avete ammazzati?”. Allora loro mi guardarono: “No”, dicono, “qualcuno sarà, perché abbiamo sparato attraverso la canapa, ma tanto non possono mica scappare. Sono là”.

Dico: “Dio bono, avete fatto bene. Dovete ammazzarli tutti quelli che ci stanno rovinando, potremmo vivere tranquillamente. Posso offrirvi da bere?”. Gli abbiamo offerto il caffè. Saranno stati ventiquattro o venticinque caffè.

Avevamo i soldi, ne avevamo. Gli abbiamo offerto i caffè: “Allora ragazzi, arrivederci”. “Grazie del caffè”, “Mi raccomando, se ne trovate ammazzateli tutti”. Poi dico: “In culo”. Avevo voglia di voltarmi. Me lo tirerete via questo suppongo.

A parte quell’episodio, adesso riprendiamo. Dove eravamo rimasti?

D: A Bolzano.

R: A Bolzano.

D: Che dopo il primo giorno che sei arrivato, che hai mangiato…

R: Sì, tutte quelle cose. Il secondo giorno passò senza niente lì in campo: appello alla mattina, appello al pomeriggio, appello alla sera. Dopo quattro o cinque giorni cominciammo a sentire, Radio Scarpa fa presto a camminare, si cominciava a sentire, noi non sapevamo niente di Mauthausen, non sapevamo nemmeno cosa fosse Mauthausen.

Si cominciava a sentire che andavano a Mauthausen, a Dachau, Buchenwald. Parlavano che li spedivano e ogni quindici giorni circa vuotavano il campo, all’infuori di quelli che erano di servizio fissi lì, vuotavano il campo.

Noi eravamo quattro o cinque giorni che eravamo lì. A un certo punto la mattina dopo è stato il colpo di fortuna. La mattina dopo all’appello c’erano tutti e due, il maresciallo Haage e il comandante Titho, con l’interprete, il quale interprete ci dice: “Chi è meccanico specializzato venga fuori”.

Io ho pensato: “Io di meccanica me ne intendo”, facevo il disegnatore tecnico. Dico: “L’incognita quale sarà? Se ci chiamano qui penso che hanno l’idea di mandarci a lavorare. Io vado fuori”. Cercai di tirare fuori qualcun altro, tirai fuori un avvocato di Bologna, l’avvocato Mocai. Tirai fuori uno studente in medicina del meridione, tirai fuori due braccianti che non sapevano nemmeno cosa fosse la parola meccanico. Tirai fuori altre due persone, andammo fuori in sette. Eravamo in trentacinque, vent’otto rimasero lì.

Dopo tre o quattro giorni quei vent’otto sono andati via, ne sono tornati due. Un certo professor Forni, che non so, poveretto, come sia andato a finire, perché io l’ho visto a casa e sembrava uno di ottant’anni, non aveva ancora quarant’anni. Era un professore di matematica dell’università di Bologna. Sono tornati in due, quell’altro non mi ricordo chi fosse. Poi siamo partiti, ci hanno caricato su un camion e ci hanno portato alla galleria del Virgolo. La stavano ultimando perché doveva venire su una fabbrica di cuscinetti da Ferrara.

Solo che non avevano operai, perché avevano tagliato la corda gli operai, allora si sono trovati che a Bolzano non c’erano operai, perché c’era la Falck., la Viberti e altre due che adesso non ricordo più come si chiamano, che lavoravano a pieno ritmo. Quindi non c’era un operaio libero, allora li vennero a cercare al campo. Andammo fuori in tutto fra tutto il campo un 170, 180 persone. Il primo mese o quasi due abbiamo lavorato a picco e pala, cioè piccone e badile, perché abbiamo depositato all’interno della galleria i binari perché entrassero col materiale, con le macchine che pesavano delle tonnellate.

Poi a un certo punto verso gennaio, primi di gennaio, cominciarono ad arrivare le macchine e fecero le squadre. Erano venuti su alcuni capisquadra da Ferrara, gli dettero una parte. Io fui assegnato al collaudo volante. Avevo sette, otto macchine da guardare con dei calibri.

Dovevo controllare queste macchine a diverse grandezze, a diversi diametri. Facevano le gole dei cuscinetti, le gole interne ed esterne, tutto. Io avevo dei misurini chiamati calibri, dovevo ogni tanto controllare la centratura di questo incavo. Nell’Isarco se vanno a guardare sotto c’è una miniera di ferro lì sotto o d’acciaio.

I tedeschi non capiscono niente da quel lato. C’era solo il pericolo di due capi torinesi, uno si chiamava Nicolini e l’altro Prelle. Il signor Prelle era una brava persona, abbastanza. Nicolini era un fascista fetente, ma di quelli fetenti, ma super fetenti.

Il quale s’accorse che io e altri due o tre sabotavamo le macchine un po’. Allora dice: “Io debbo dirlo perché sennò…”. Dico: “Signor Nicolini, si ricordi una cosa. Il suo nome è già segnalato fuori a chi di dovere, quindi le garantisco una cosa, che se Lei ci denuncia noi andiamo a finire contro al muro, ma a casa Lei non ci torna. Quello glielo garantisco io”.

Fatto sta che Nicolini si è tenuto per sé quello che sapeva. Arrivammo verso la fine. Dopo si cominciava a stare… Sai com’è, uno comincia ad organizzarsi un po’. Cominciò a saltare fuori il pezzettino del pane.

Io adesso ho un particolare, glielo dico però non l’ho detto per televisione. Praticamente un giorno io stavo dentro uno sgabuzzino, avevo una specie di sgabuzzino, stavo disegnando. Disegnavo una donnina nuda, ero abbastanza bravo a disegnare. A un certo punto mi trovo il caporale tedesco dietro la schiena che mi stava guardando.

Ho detto: “Adesso qui sono botte”. “Gut, gut”. Mi deconcentra, per me deve avere fretta di andare via. “Tu fare cose per me, qua e là”. Allora io andai un po’ oltre, gli feci un disegnino pornografico. Andò al settimo cielo. Da quel momento cominciò a portarmi un pezzo di pane, qualche sigaretta.

Allora io mi misi a lavorare, Tinto Brass è roba da ridere. Mi misi a fare questi disegnini, tutto è permesso ad un certo punto. Solo che ad un certo punto mi sono preso la più grossa legnata della mia vita.

Una mattina ci alziamo, erano le sei del mattino, cinque e mezzo. Cominciavamo il turno alle sei. Io in genere tenevo un pezzettino di pane, alla mattina ci davano un bicchierino così di caffè, acqua calda. Però era caldo, un po’ dolce.

Solo che quella mattina non c’era più niente. C’era l’ordine del giorno con tutti gli orari. Per esempio nell’ordine del giorno c’era: burro e la fetta di salame, mai visti, mai, proprio mai visti. Strappo via l’ordine del giorno. Dopo cinque minuti arriva Panciolini, lo chiamavamo Panciolini, un caporale della SS che era cattivo, ma cattivo cattivo.

Comincia ad urlare, chiama l’interprete. “Chi è che è stato a fare questo?”. Tutti zitti. “Chi è che è stato?”. Ad un certo punto dice: “Va bene, io adesso…”. L’interprete disse, io parlo, faccio finta di essere il tedesco: “Vi conto, faccio la decimazione, cioè vi conto, ogni dieci ne tiro fuori uno e viene punito”.

Io non ero sicuro che nessuno mi avesse visto strappare il foglio. Dico: “Qui se mi hanno visto va a finire che ci faccio una figura di merda, meglio prendere qualche botta”. Alzo la mano e vado fuori. Mi sono preso… Io non le ho contate, ma mi hanno detto che sono state vicino alla trentina, con il Gummi.

Era un attrezzo d’alluminio con la copertura di gomma. La prima mi ha spaccato il sopracciglio qui, la seconda mi è arrivata nel naso, poi ho cominciato a coprirmi. Tutte le altre me le hanno date da qui.

Mi sono lasciato andare in ginocchio, non sono svenuto perché avevo una tensione. Mi hanno ridotto per qualche giorno… Ha presente Quasimodo? Ero gonfio da qui fino a metà schiena. Un collo che era così.

Poi pian pianino… E tutto sommato ci guadagnai, perché mentre ero a letto, nel frattempo premetto che avevano aperto anche alle donne la galleria, c’erano arrivate altre 120 donne, c’erano arrivate altre macchine. Era tutta roba automatica, era abbastanza facile da fare.

Premetto quello, che arrivavano. Allora le donne di là lo sapevano, c’era la guardiola fra gli uomini e le donne, la guardiola con due SS, però le lasciavano. Per una decina di giorni le donne mi hanno portato tutte qualcosa da mangiare.

D: Ferdinando, quest’episodio si svolgeva nella galleria del Virgolo o nel campo?

R: No, nella caserma.

D: Vicino alla galleria?

R: Sì. C’è una caserma tuttora che esiste. Difatti quando mi avete fatto l’intervista eravamo circa in quella posizione. Dalla galleria del Virgolo avanti duecento metri sulla sinistra allora c’era una caserma.

Ci deve essere ancora, io l’ho vista, l’ho fotografata. Le ho a casa, solo che non le ho trovate. Volevo prenderle, ho a casa le fotografie. C’è ancora sulla galleria del Virgolo, c’è ancora l’aquila del Littorio.

Com’è che non la fate levare via?

D: Tu quando sei uscito dal campo, siete stati alloggiati in questa caserma?

R: In questa caserma quando siamo usciti, perché andare dal campo a lì era troppo lontano. Dal posto dove era il campo…

D: Via Aresia.

R: Da Via Aresia a lì facevano prima. Ci andavamo a piedi e in un minuto eravamo dentro. Quindi eravamo lì. Io sono stato picchiato lì, nella guardiola.

Però, come le ho detto, ci ho guadagnato, perché almeno ho mangiato qualcosa di più.

D: Anche lì al Virgolo c’erano i Kapò, c’erano dei capi?

R: No, al Virgolo non c’era nessun Kapò.

D: Nella caserma?

R: Nella caserma nemmeno, non credo. C’era il comandante del campo che seguiva, ma io non mi ricordo che ci fossero dei Kapò.

D: Ferdinando, tu sei rimasto lì fino a quando?

R: Fino al 30 aprile. Sono andato fuori il 30.

D: Cos’è successo in quei giorni?

R: In quei giorni si cominciava già ad avere il sentore che stava per finire. Noi ci siamo preparati. Ad un certo punto da fuori sono riusciti a mandarci dentro un mitra, l’abbiamo nascosto. Era nascosto sotto un letto.

Se per caso facevano degli scherzi… Invece non ci fu bisogno di niente. Ci caricarono, ci portarono tranquillamente al campo, ripassammo per la reception, ci dettero questo documento e poi a quel punto liberi.

D: Cioè, cos’è successo?

R: Come cos’è successo?

D: Liberi cosa vuol dire? Sei uscito dal campo?

R: Sono uscito dal campo lì a Bolzano. Poi a Bolzano i partigiani hanno attaccato i tedeschi sbagliando il momento, sbagliando tutto, poveretti. Anche loro non è che avessero una gran pratica di guerriglia.

Io ho visto un ragazzino dentro una porta con un mitra, sparava a mortaio col mitra, puoi ben immaginare se il mitra è efficace, a venti, trenta metri al massimo. Dopo non fa più niente. Lui sparava così.

A un certo punto i tedeschi si stancarono, li circondarono, li presero tutti, li schiaffarono dentro ad un cortile e poi li dettero in mano agli americani quando arrivarono.

Per me c’erano già stati dei contatti, perché quando tornammo indietro, non so se era a Ora, quei posti lì, c’erano già che facevano i vigili soldati tedeschi con la piastra qui. Non erano armati, però facevano i vigili.

D: Tu quando sei arrivato a casa?

R: Io sono arrivato a casa dopo sei giorni, me la sono presa comoda. Primo episodio, appena uscito dal campo, una signora di Bologna ci ha sentito parlare bolognese, una che abitava a Bolzano. Ci ha invitato a casa, ci ha fatto le tagliatelle.

Quattro o cinque forchettate, poi non andavano più giù. Lo stomachino si era ridotto. Dopo ci incamminammo, Mocai aveva uno zio facoltoso che aveva una villa a Riva del Garda. Allora siamo arrivati a Riva del Garda.

Ci siamo installati un paio di giorni a casa dallo zio facoltoso. Dopo siamo venuti via e siamo passati da Verona, eravamo in contatto col dottor Betti, che era uno dei capi, era il farmacista di Piazza delle Erbe. C’era la farmacia in Piazza delle Erbe.

Appena uscito erano già venuti a prenderlo, l’hanno portato a casa. Lui a sua volta ci ha portato a casa sua in campagna e ci siamo fermati altri due giorni lì. Lo stomaco cominciava già ad essere più ricettivo.