Bruni Eugenio

Eugenio Bruni

Nato il :11.07.1918 a Bergamo

Intervista del: 16.02.2002 a Bergamo realizzata da
Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n.66 – durata: 56′

Arresto: 4 marzo 1944 a Luino

Carcerazione: a Como nel carcere di San Donnino, a Milano nel carcere di S. Vittore

Deportazione: Bolzano, Dachau

Liberazione: a Dachau

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Organizzazione materiali ed inserimento dati: Elisabetta Mascarello, Elena Pollastri

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

D: Prego.

R: Mi chiamo Eugenio Bruni, sono nato a Bergamo, l’11 luglio del 1918 e …

D: Prego, prego, vai.

R: Dimmi quello che …, vado avanti nella mia vita anche?

D: Esatto, ad un certo punto voi avete fatto una scelta di resistenza …

R: No, aspetta allora, in una famiglia antifascista, mio padre era combattente della guerra 1915-1918, pluridecorato, ed era stato licenziato dal Comune per scarsi sentimenti nazionali, perché non era iscritto al Partito Fascista, questo aveva incominciato a farmi pensare e con me fare pensare mio fratello.

Quando abbiamo visto che una volta veniva messo in carcere perché arrivava il Duce a Bergamo, un’altra volta veniva licenziato perché era di scarsi sentimenti nazionali, perché nostro padre lo avevamo sempre visto come persona non soltanto coraggiosa ma ben voluta in città, quando è stato licenziato, tutta una gran parte della città che contava gli ha dimostrato la sua solidarietà, perché allora un atto di coraggio era possibile quanto meno, e questo rincuorava.

Tutto questo ha fatto pensare a noi che la libertà era una qualche cosa a cui non si poteva rinunciare, e siamo cresciuti proprio con questo spirito di ribellione di fronte a tutte le imposizioni che il fascismo faceva, dalle imposizioni di carattere ideologico, alle quali era facile dire di no, alle imposizioni di carattere formale, alle quali era più difficile dire di no, divise, adunate e cose di questo tipo.

Ci siamo ritrovati alcuni compagni e abbiamo incominciato a pensare che dovevamo fare qualcosa, e quel qualcosa si è tramutato in scritte sui muri, nel pubblicare una rivistina da distribuire, in cui esprimevamo quello che sentivamo, i nostri pensieri, fino a che abbiamo creduto di dover richiamare l’attenzione della città con un’azione un po’ eclatante, e cioè nel centro di Bergamo i fascisti avevano fatto un monumento nel quale era effigiato con maggior evidenza il Duce.

Noi abbiamo sporcato la faccia di questo Duce con una vernice studiata apposta, resinosa, che si staccava a mala pena, e che aveva un colore che la assimilava ad un prodotto organico. Hanno incominciato a parlare nei palazzi, c’è stato qualche d’uno che ha parlato, preso dalla paura evidentemente, siamo stati arrestati, e siamo stati portati nelle carceri di Bergamo.

D: questo quando Eugenio, quando è successo?

R: 11 ottobre 1941. Dopo qualche giorno, senza essere stati interrogati naturalmente, siamo stati portati a San Vittore a Roma, portati attraverso trasporto speciale, perché mio padre era terrorizzato dall’idea che noi potessimo andare in un vagone per detenuti …

D: San Vittore a Roma o …?

R: No San Vittore, Regina Coeli, si può correggere?

D: Sì, sì prego.

R: Là si è rimasti, direi, un paio di mesi in perfetto isolamento, che non auguro a nessuno.

D: Vi hanno arrestati, chi?

R: Hanno arrestato me, mio fratello, il dottor Taino e un certo Virginio Caffi, cantante lirico.

D: Tutti di Bergamo?

R: Tutti di Bergamo. Sto pensando, anche il dottor Antonucci. Il processo nel marzo del 1942, abbiamo saputo per vie particolari che la sentenza era stata già segnata sul fascicolo dallo stesso Mussolini, e la condanna era di anni tre di reclusione per me, di anni quattro per il dottor Taino, mentre mio fratello, che non aveva partecipato a quest’azione, anche perché in condizioni di salute non felici, e il dottor Antonucci, che evidentemente non era emerso nelle sommarie indagini che allora venivano fatte, venivano assolti per insufficienza di prove.

Quindi venivamo portati nel braccio famoso per i politici di Regina Coeli, e da lì poi partivamo per andare a Castelfranco Emilia, io, a Castelfranco Emilia e Taino, ma in un altro braccio perché là c’erano due bracci per i politici, mentre il Caffi andava al reclusorio di San Geminiano. Sono rimasto in carcere dalla fine del processo fino al 25 luglio 1943, e dirò che la vita nel carcere è stata rasserenata dal fatto di essere assieme a tutti i politici, si studiava, si pativa la fame, perché ci dividevamo tutto quello che arrivava, soldi e pacchi, ma era bello perché ci si sentiva anche molto uniti.

Fino a che è avvenuta la caduta del fascismo e ci siamo trovati in mezzo a Bergamo a vedere passare i carri armati, vedere tutti i soldati scappare, non avere neanche un punto d’ancoraggio, cercare di andare in qualche caserma per richiamare gli ufficiali superiori ad un minimo di senso del dovere e di fedeltà al giuramento, cosa che è riuscita assolutamente vana, e quindi soli di fronte alla nostra coscienza, vedere che la via della libertà era la via della montagna, e lì ci siamo avviati.

Mio fratello è rimasto a casa perché, come dicevo, non poteva affrontare una fatica di questo tipo, mentre io sono andato ad unirmi ai partigiani. Purtroppo il carcere aveva lasciato dei segni nella mia salute e quindi sono andato a Milano per vedere di farmi curare, naturalmente con tutti i sotterfugi delle carte d’identità e di quanto altro, dopo di che sono ritornato e ho preso contatti tramite mio padre con il comandante Buttero, e sono stato mandato in Val Canobina.

D: La vostra formazione partigiana quale era?

R: Qui non c’era un nome preciso perché eravamo proprio agli inizi, e la Val Canobina non sono neanche riuscito a sapere esattamente che cosa era, perché abbiamo preso un treno a Milano, ci siamo avviati sul lago Maggiore, poi lì uno ci ha ricevuto alla stazione, ci ha avviato su una strada, ci ha detto di andare su, poi abbiamo dormito una sera nell’accampamento dei partigiani, poi dovevamo raggiungere un altro distaccamento e siamo stati affidati quindi ad un partigiano.

Non so che cosa sia successo lì, fatto sta che in questo cammino, in questo percorso per raggiungere questa nostra nuova destinazione, ad un certo punto il partigiano è sparito e invece sono sbucati dei militi forestali, i quali ci hanno subito preso, ci hanno spianato le armi contro e noi non abbiamo potuto fare atro che dire di sì.

D: Lì c’era anche Roberto, no, il fratello?

R: Certo, ovviamente c’era il problema Roberto da risolvere, ed è sembrato giusto che questo problema lo risolvesse con me, perché restare in città, non potevamo sottrarre mio padre a quelle che erano le sue normali occupazioni, mia madre e mia sorella non erano assolutamente adatte, e quindi l’unico adatto a stargli vicino ero io, ed allora a questo punto non c’era altro da dire. “Andiamo e vediamo di poter risolvere il problema là”.

Siamo stati presi, i partigiani sono venuti e hanno fatto un attacco alla casermetta di questi militi, una battaglia che non finiva più, dopo di che non sono riusciti assolutamente a sfondare, e quindi abbiamo dovuto subire l’umiliazione dell’attacco di gerarchi fascisti, poi lungo la strada essere consegnati ai nazisti, alle SS, e andare lungo la strada dove questi giovani fascisti sputacchiavano, insolentivano, picchiavano, era gente alla quale ci avevano affidati perché facessero tutto quello che volevano, che era suggerito dai loro istinti più bassi, più volgari e più violenti.

Poi siamo stati portati, perché siamo arrivati a …, come si chiama lì, sul Lago in fondo, la patria di Chiara …

R: Luino.

D: Luino, lì che periodo era quando vi hanno arrestati?

R: Dunque, vediamo un po’, marzo, febbraio, 4 marzo …

D: Del ’44?

R: 1944. Da Luino saliamo su un motoscafo, anzi ci pigliano con un motoscafo lì, non so quale era la base di partenza, ci accompagnano a Luino. A Luino le SS ci fanno un piccolo interrogatorio, puramente formale, dopo di che ci caricano su questo motoscafo e scendiamo la prima volta una terra, ci spianano i fucili addosso, dopo di che rinunciano, saliamo ancora sul motoscafo, seconda fermata e poi terza fermata, poi capiamo che siamo di fronte a sadici che vogliono vedere le reazioni di gente che è posta di fronte ad un plotone d’esecuzione.

Arriviamo ad un’oasi di riposo a San Donnino. A San Donnino, restiamo lì parecchi giorni insieme a tutti i politici, mio padre aveva interessato della nostra sorte un certo Eugenio Rosasco di Como, che faceva parte anche del CLN, il quale organizza dei partigiani, che vengono e danno l’assalto a San Donnino …

D: Scusa Eugenio, siete stati arrestati te e Roberto e basta, o anche insieme ad altri?

R: Io e Roberto e basta. Il terzo, che era con noi, poi è scappato.

D: Poi vi hanno portato al carcere di Como a San Donnino?

R: Lì dicevo, c’è stato quest’assalto, dopo di che c’è stato l’ingresso a San Vittore

D: Vi hanno trasferiti a Milano?

R: Trasferiti a Milano a San Vittore. La vita a San Vittore è stata una vita si può dire abbastanza tranquilla, per quanto era possibile e per quanto avevamo intravisto in queste prime vicende. C’era questo maresciallo tedesco, si chiamava Franz, che era una cosa spaventosa, lanciava urla terribili, veniva con quel cane che abbaiava, e noi sentivamo il terrore che ti scorreva un pochettino addosso. Eravamo sempre in tensione, poteva succedere di tutto, ma anche dall’altro braccio si sentiva arrivare urla, certe volte, e noi immaginavamo che fosse qualche d’uno dei nostri che veniva trattato in modo non certo complimentoso.

Così è stata un po’ la vicenda a San Vittore, ricordo che una volta sono riuscito ad avere per vie traverse, erano i preti in genere, forse c’era anche qualche SS cattolica non so, erano venute mia madre e mia sorella, e siccome avevano delle caratteristiche somatiche, mia sorella è molto riccia e mia madre con un naso piuttosto pronunciato, le hanno tenute per tre ore all’entrata di San Vittore dicendo che loro dovevano dimostrare di essere ariane, perché davano tutta la sensazione di essere ebree, questo è per dire il clima nel quale noi si viveva.

Fino a che un giorno sono arrivati dei pullman, ci hanno fatto uscire, e ci hanno mandati, passando attraverso le nostre contrade, che oramai conoscevamo a mena dito, perché ci avevamo passato la nostra giovinezza, siamo andati verso Bolzano. Scappare sarebbe stato forse possibile, forse, infatti c’è stato l’avvocato Luciano Elmo per esempio che è scappato, si è rotto il naso, e Luciano era su a Bolzano con me, non era però del mio trasporto, mi sembra.

Fatto sta che siamo arrivati a Bolzano e a Bolzano abbiamo visto cose brutte. Abbiamo visto per esempio un palo in mezzo a questa grande distesa e abbiamo visto attaccato uno che veniva percosso perché aveva tentato di scappare, e quindi veniva castigato in questo modo, almeno la voce correva che fosse questa la ragione, ma non poteva avere commesso niente che meritasse un castigo di questo tipo.

D: Eugenio scusa, nel carcere di San Vittore ti ricordi qualche nome di altri arrestati che c’erano, perché voi siete rimasti fino a giugno?

R: C’era un certo ragioniere Castelli, che era di Bergamo, che dopo non l’ho più visto, c’era Mike Bongiorno come ho detto, c’era don Gagino …

D: Leggeri?

R: Don Liggeri, direi di sì, perché mi ricordo che a San Vittore ho avvicinato un prete per parlare di temi di religione con lui, ero in un momento che non è che avessi bisogno di vincere i miei dubbi, perché i miei dubbi erano già risolti, ma con un religioso certe volte si può parlare di valori morali che possono interessare anche al laico, come ero io, come mi ritenevo io, questo lo ricordo. Non ricordo se c’era Indro Montanelli, a me sembra, io ho la sensazione che lo avessi visto o che l’ho avessi sentito nominare, però francamente altri non li ricordo.

Sai si viveva in una specie di nebbia, perché non era facile vivere. Non era facile vivere perché, io avevo alle spalle tutto il carcere, un anno e mezzo di carcere, insomma non è poco per riprenderti e per acquistare tutta la tua lucidità, tutta la capacità e tutta la forza di reagire a quello che stava succedendo. Era una nuova tappa che si apriva per uno che aveva già preso le sue brave mazzolate. Quindi i nomi, io avrò parlato con Tizio, Caio e Sempronio, però che i nomi mi siano rimasti incisi, può darsi che per esempio lo chiamassi Paolo, lo chiamassi Carlo, chi lo sa? Però non ricordo.

D: Di Bolzano, del campo di Bolzano per esempio cosa ti ricordi, i blocchi, ti ricordi qualcosa oltre alla piazza dell’appello?

R: Ricordo che noi avevamo un blocco che era sulla sinistra entrando, a Gries eravamo, io il resto non lo ricordo.

D: Neanche il numero del tuo blocco, la sigla del tuo blocco?

R: No, no, per me francamente, ricordo il mio blocco a Dachau.

D: Lì a Bolzano siete rimasti quanto tempo?

R: Dunque a Bolzano siamo rimasti penso, ho il certificato della Croce Rossa e caso mai te lo posso dire, penso un mesetto, un mesetto e mezzo.

D: E lì cosa facevate tutto il giorno?

R: Niente. Siamo andati a lavorare con dei territoriali tedeschi in una galleria, che era sotto il vecchio ospedale di Bolzano, questi due territoriali erano Enrico Fucilone… Anche lì, a mio avviso era facile scappare, però scappare in due, tirare dietro mio fratello il quale aveva sempre perplessità, dubbi, poverino …

D: Era più giovane di te?

R: Più vecchio.

D: Ah, più vecchio di te?

R: Più vecchio di me.

D: Lì a Bolzano vi hanno dato una divisa?

R: No, siamo rimasti con i nostri vestiti.

D: Avevate un numero?

R: Neanche, io non lo ricordo, ricordo il numero a Dachau, 113157, l’ho visto adesso, ma l’ho riconosciuto perché ho lì …

D: Quindi uscivate per lavorare in questa …

R: Poi venivamo riaccompagnati dentro.

D: E cosa facevate in questa galleria?

R: Ma, gli sciocchi! Raccoglievamo del materiale della migliore qualità possibile, lo caricavamo su dei carrelli, che poi spingevamo e giocavamo su questi carrelli, perché ci mettevamo su e ci spingevamo a vicenda, fino a che in fondo c’erano questi soldati che dicevano “Ferma, ferma, ferma” e gridavano, tutto lì insomma.

Poi una volta siamo andati a cogliere le mele, con delle strane scale, fatte con un bastone in mezzo e i pioli che uscivano a lato, una sacca in spalla, potevamo mangiare le mele, e questi contadini non parlavano, non dicevano niente …

D: E di personaggi diciamo così?

R: Io ricordo che sono scappati da lì due toscani, uno si chiamava Giorgio, io avevo portato con me da San Vittore, perché nessuno mi aveva perquisito, avevo della simpamina, e allora non potendo andare con loro sempre per la stessa ragione, gli ho dato queste pastigliette di simpamina e gli ho detto “Queste vi tira su, vi dà la carica e andate” erano dopati insomma. È stato un dopaggio ante litteram. Avevo questa simpamina perché avevo fatto atletica leggera, c’era chi mi aveva suggerito di doparmi, non lo avevo fatto, però quando ho dovuto affrontare i passaggi, le camminate, ecc, io venivo dal carcere ed ero indebolito al massimo, mi ero ricordato e allora avevo comperato questa simpamina.

D: Ti ricordi Eugenio di Titho, Haage lì a Bolzano, dei comandanti del campo?

R: Li ricordo, ma non li ricordo di nome.

D: E neanche del blocco celle ti ricordi?

R: Il blocco celle sì, era spostato più in fondo, esatto.

D: Dove c’erano gli ucraini …

R: Ecco.

D: Otto e Misha?

R: Adesso i nomi non domandarmeli.

D: Non te li ricordi. Ti ricordi lì a Bolzano di avere incontrato altri sacerdoti, deportati dentro nel campo?

R: No.

D: E donne ne hai viste?

R: No.

D: Non hai visto donne nel campo, deportate?

R: No.

D: Si arriva al giorno che vi chiamano …

R: … E ci caricano sul vagone bestiame.

D: Ti ricordi da dove siete partiti, da dove vi hanno caricati sul Transport?

R: Alla stazione, allo scalo ferroviario. Ci hanno messo lì e poi siamo saliti su questo vagone.

D: Vi hanno dato qualcosa da mangiare, da bere?

R: Non lo ricordo, ho la sensazione di sì, pochissimo, ma sì, però questo non lo ricordo, so che avevamo qualche cosina di nostro, che c’eravamo portati dietro fino da Milano, un po’ di zucchero, due biscotti, roba del genere, non ricordo neanche come li avessi avuti, non mi ricordo.

Ricordo che a San Vittore, tu adesso stai scavando nella mia memoria, cosa che io ho sempre cercato di non fare, e mi ricordo per esempio che a San Vittore avevo fame, e avevo tanta fame che una volta, mi ricordo, c’è stata una vicenda di pane che è arrivato dentro, che chi lo aveva preso, chi non lo aveva preso, Franz gridava l’ira di Dio.

Deve essere successo invece che, a Bolzano, vi era un commerciante di legname, si chiamava Amati, e aveva delle ragazze, di Bolzano, che cercavano di fare qualche cosa, ed erano riuscite a fare entrare un pacchetto con queste piccole cose, evidentemente non era niente, che poi mi aveva aiutato un pochettino durante questo viaggio.

D: Questo viaggio era iniziato i primi di ottobre del ’44?

R: Sì.

D: Ed è durato quanti giorni?

R: Ho la sensazione che sia durato un giorno, una notte, ed un altro giorno, però ho il dubbio che siano state una o due le notti che noi abbiamo passato su questo … cosa risulta a voi?

D: E no, adesso bisogna recuperare le date, durante il percorso si è mai fermato il treno, il Transport?

R: Può darsi.

D: Non so, per i bisogni fisiologici …

R: No, no, no, mai, mai, perché avevamo questo grosso problema, questo grosso problema. Qui poi succede questo che poi i ricordi si sommano ai ricordi che io ho sentito da altri, per cui per esempio avevamo recuperato delle latte, queste latte servivano per l’acqua, ma io pensavo che era per fare la pipì, altri mi avevano detto che avevano sollevato un asse del vagone, questo ha creato in me, non so se suggestione o ricordo autentico, che anche noi avessimo sollevato questo asse, in modo tale da poter …

Ricordo le fermate, questo sì, perché ricordo le urla, le urla delle SS, erano urla di “State indietro”, o parlavano fra loro ad una certa distanza per cui era necessario urlare, però lo ricordo esattamente, avvertivamo qualche cosa che c’era fuori del nostro carro bestiame.

D: E quando vi hanno fatto scendere?

R: A Dachau.

D: Direttamente lì vicino …

R: Davanti al portale.

D: Del campo, e poi lì cosa è successo?

R: Lì si è aperta la porta. Oltre tutto non ricordo, vedo adesso, tu mi dici che c’erano parecchi che erano partiti quel giorno, io ricordo soltanto quelli che sono partiti con noi, saremo stati una cinquantina penso, siamo andati nel magazzino a destra, ci hanno portato via tutto, ci hanno fatto spogliare, ci hanno vestito con una camicia, una giacca, ci hanno tagliato i capelli e poi ci hanno fatto la riga in mezzo, ci hanno dato i sabot.

L’unica cosa che ho visto, ecco c’era un prete, perché ho visto un prete spogliato nudo con un tricorno in testa, era là, tu sai che c’era l’Antreten lì, con tutti i fari, la mattina presto venivano, lì un registro doveva esserci stato per creare proprio il senso l’ossessione, e ricordo che era lì, lo avevano lasciato lì quasi per derisione. Dopo di che siamo andati nel blocco …

D: Quale blocco, te lo ricordi?

R: 25, io direi 25, siamo entrati sulla sinistra, sulla destra c’era la parete chiusa, ci hanno detto “Pigliate posto” e siamo entrati in tre in una, erano a tre piani, ognuna era in tre, e lì è incominciata.

D: L’immatricolazione quando ve l’hanno fatta?

R: Non me lo ricordo, so che sulla giacca c’era scritto 113157, il 113 lo ricordavo, il 157 l’ho visto adesso ma ho quello della Croce Rossa che segna, il triangolo con la “I”, e sopra il coso bianco con il numero.

D: Il triangolo di che colore era?

R: Rosso.

D: Lì nella baracca 25, nel Block 25, fino a quando sei rimasto?

R: Fino a che non sono andato in infermeria.

D: Al Revier?

R: Sì, perché ho dovuto lasciare mio fratello, perché ero …, c’era un tifo petecchiale in giro, intanto noi eravamo afflitti dai pidocchi, a manciate li tiravamo via, ogni tanto andavano a farci la disinfezione all’aperto con dei grossi pennelli, li intridevano nella …, cosa è quel disinfettante biancastro …

D: Creolina?

R: … Creolina, lì ci pitturavano tutti, non serviva a niente. Dopo di che mi è venuta la febbre e sono dovuto entrare in infermeria, avevo 38 e mezzo circa di febbre. Lì è stato brutto perché intanto il passaggio delle docce, ricordo che nevicava, ci hanno fatto spogliare nudi, ci hanno fatto entrare e l’acqua era in alternanza, fredda e calda, e qualcuno quando sono passato io è morto. Dopo di che siamo andati avanti con questi passaggi, aperto, chiuso, aperto, chiuso, fino a che sono arrivato nel mio posto.

D: E lì cosa ti hanno fatto?

R: Niente, niente. L’unica cura che io ho avuto, intanto c’era un cibo che davano invece delle carote e delle rape, davano una specie di riso, con un colore biancastro che doveva essere latte.

Siccome eravamo in due, non ho mai parlato con quello vicino, e quello vicino non ha mai parlato con me, perché eravamo esausti primo, in secondo luogo la lingua non si conosceva, ricordo che due volte è capitato che ho tenuto quello lì morto, e ho preso la sua scodella per poterne mangiare due.

Quando si andava giù al gabinetto, che era vicino alla porta che dava all’aperto, si vedevano fuori mucchi di cadaveri, di venti persone, trenta persone, in fondo dall’altra parte c’era il crematorio.

Dopo sono uscito, ad un certo punto si è stabilito che ero guarito, e quindi sono uscito, sono andato a pigliarmi un altro blocco, perché ad un certo punto sono stato abbandonato un po’ a me stesso, sono andato prima di tutto a chiedere notizie di mio fratello ed ho appreso che era morto, c’era un padre domenicano nel blocco, che teneva nota di tutti quelli che erano morti, l’ho chiamato e mi ha detto “È morto il 13 di febbraio, l’altro giorno” così quando poi sono arrivati gli americani …

D: Scusa Eugenio, quindi tu sei andato in un altro blocco, quando sei uscito da lì?

R: Sì.

D: Non ti ricordi che blocco fosse?

R: Non mi ricordo, non mi ricordo.

D: Cosa facevi durante il giorno?

R: Niente.

D: Dentro nel blocco eri?

R: Dentro nel blocco o nel cortiletto che intercorreva tra un blocco e l’altro, si camminava sotto l’acqua, sotto la pioggia, sotto la neve, sotto il sole.

D: Non sei mai stato chiamato in un commando di lavoro?

R: No sono stato qualche giorno con don Angelo. Con don Angelo è lui che me lo ha detto, mi ha detto “Vieni con me”, don Vismara che era di Bergamo, aveva presentato anche don Angelo, e don Angelo era un galletto per quanto consentiva il posto. Mi ha detto “Vieni con me che si mangia a metà mattina, ti danno qualche cosina ancora” e cosa si doveva fare? Si doveva stracciare vecchi indumenti dei tedeschi, mutande, ecc, ecc, e poi dovevi fare la treccia, poi veniva lì ogni tanto se era fatta bene o se non era fatta bene, e se non era fatta bene la rompeva magari e te la faceva rifare, poi questa roba qui non l’ho …

D: Non l’hai più fatta?

R: … Non l’ho più fatta perché, intanto volevo stare vicino a mio fratello, perché questo era avvenuto prima, in secondo luogo bisognava andare all’appello la mattina ed era una cosa terribile, perché lì ti picchiavano con i calci dei fucili, e poi questa specie d’asfissia lì dentro, per un pezzettino di cosa che non serviva assolutamente a niente.

Ho provato anche, questo non con don Angelo, alla ferrovia, ma era pazzesco. Era pazzesco perché dovevi alzarti di mattina, prestissimo, entravi e passavi attraverso questo piazzale d’adunata, attraverso le urla di questi signori che urlavano “Scnell! Los!”.

Poi si aprivano queste porte, si saliva su un carro bestiame dove gente aveva fatto lì i propri bisogni, l’ira di Dio, si arrivava ai binari della ferrovia di Monaco, là scendevi, eravamo in dicembre, gennaio, vestiti com’eravamo vestiti, ti davano un piccone di quelli che hanno una parte un po’ a paletta, e dovevamo, sotto il comando di un operaio di Monaco, rincalzare i sassi sotto le traversine, quindi comandava “Hanz, vai, hanz, vai, hanz, vai” e tu dovevi seguire quel ritmo, se non seguivi quel ritmo c’era una botta.

Tutto questo per avere poi un piccolo scampolo di riposo, nel quale potevi pigliare mezza fettina di pane e una fettina di margarina, se tutto questo valeva quel dispendio d’energie che ci obbligavano a fare, per poi arrivare meglio a cercare di chiacchierare con qualcuno se era possibile. Infatti avevo conosciuto un certo Andrè Romer dei Vosgi, un ragazzo bravo che è venuto poi a Bergamo a trovarmi, e lì si camminava per cercare di avere un pochettino di caldo, ci si stancava e quindi ci si fermava per avere un po’ di freddo, ma intanto si chiacchierava, lui mi parlava del suo paese, io parlavo della mia città, ci scambiavamo il conforto di ricordare un pochettino qualche cosa.

D: Questo fino alla Liberazione?

R: Fino alla liberazione.

D: E come te la ricordi la liberazione?

R: La Liberazione me la ricordo, ero in questo famoso blocco nel quale ero entrato dopo essere uscito dal Reviere, ad un certo punto si sono incominciati a sentire i duelli aerei sopra, poi abbiamo visto due o tre volte degli aerei che cadevano, che fossero tedeschi o che fossero inglesi, erano il segno di una battaglia che si svolgeva proprio sopra di noi.

Dopo di che ci hanno portato tutti sul piazzale, e lì ci hanno dato mezzo pane, una scatola di flaisch, li chiamavano flaisch non so cosa sia, una specie di impasto di carni animali, e poi siamo stati lì ad aspettare. Io ho mangiato subito tutto, ho detto “Qui è meglio mettere giù, piuttosto che …”

Poi una parte, sono partiti, un certo numero, e noi invece siamo rientrati, eravamo lì, i nervi tesi, dicevamo “Ci siamo, ci siamo, ci siamo” e, infatti, si è affacciata al campo una giornalista americana con la pistola in pugno, le SS hanno sparato qualche colpo sul piazzale dove c’erano ancora i nostri, ma sono state immediatamente fatte fuori dalle truppe americane che erano arrivate, quindi poi è cominciata la festa. È cominciato questo senso di ricominciare a guardare avanti a noi, di incominciare a dire adesso si apre qualche cosa che è diverso.

D:Voi italiani vi siete subito organizzati?

R: Noi italiani ci siamo organizzati in un gruppo, ed è saltata fuori la fantasia italiana, perché in un gruppo …, non so, ogni tanto ci penso “Ma come è successo?”, socialista, comunista, si sono divisi e hanno formato quasi il CLN.

Poi si andava fuori, mi ero procurato un piccolo biglietto che c’eravamo fatti a vicenda, lo facevamo vedere agli americani e uscivamo, io sono uscito un due o tre volte.

Una volta, la penultima volta, ho visto un treno con tutti i morti, francesi, e c’era un ometto lì vicino al quale dico “Dubish doich” “Nein italijenick” “Italiano? Di dove?” “Sono di Bergamo” “Sono di Bergamo anche io” “Ma dove?” “Borgo Canale”, che è un borgo di Bergamo, “Anche io sono nato in Borgo Canale” “Come ti chiami?” mi dice lui, “Bruni” “Ma ti sei figlio del professor Bruni?” “Sì”. Si è messo a piangere, ad abbracciarmi, ecc.

Lui era lì con la Todt, era da un fornaio, allora io sono rientrato un momento, sono riuscito, sano andato da lui, ho mangiato a crepapelle e ho dormito ventiquattro ore. Dopo di che ho rubato una bicicletta, senza nessun rimorso, lui aveva un carrettino, se lo era già preparato, dove aveva su il suo bottino di guerra, pelli per fare scarpe, ecc, ecc, e siamo partiti.

D: E siete arrivati dove?

R: Siamo arrivati a Garmish-Partenkirchen.

D: In quanti giorni?

R: Abbiamo dormito in fienili, ecc, ecc.

D: Tutto a piedi, in bicicletta …

R: A piedi, in bicicletta.

D: E non vi ha fermato nessuno?

R: Sì, i francesi ci hanno portato via tutto.

D: Cioè?

R: Ci hanno portato via tutto, carrettino, bicicletta, tutto, e ci siamo avviati a piedi. Ci hanno lasciato qualche cosa da mangiare che aveva lui.

D: Eugenio tu avevi ancora la zebrata?

R: Certo non avevo altri vestiti, io.

D: E dopo Garmish cosa è successo?

R: E dopo Garmish c’erano ancora gli americani, gli inglesi non so chi. Lì c’era un gruppo d’italiani, militari, li vediamo bene in carne, uno ha addirittura una forma di groviera, e ci da un bel pezzettone di groviera.

Ci organizziamo un po’ anche, si nomina un organismo di disciplina, di cui faccio parte anche io, saputo che ero studente di legge, è vero fino a che ad un certo punto ci hanno detto: “Salite sulle nostre camionette e andiamo”, e ci fanno attraversare il Brennero, e arriviamo …

D: E siete arrivati?

R: Non a Bolzano, dunque no, a Bolzano mi sono fermato perché c’era quel tale Amati, e allora sono sceso, ho lasciato andare avanti gli altri e ho detto “Io vorrei andare …” lui mi ha detto “Guarda pronti, qui c’è un camion che parte adesso per Milano, ferma a Treviglio, poi a Treviglio qualche d’uno ti aiuterà”

Difatti a Treviglio mi sono fermato, si era formato già il CLN, ecc, ecc, tutta gente che poi magari è ritornata ad essere fascista. …

Lì mi ricordo che c’era uno che conoscevo, un certo Tombini, il quale ha procurato una macchina, ma il mio grosso cruccio era sapere se i miei sapevano di mio fratello, perché portare quella notizia lì era una cosa tragica, invece lo sapevano.

Lo sapevano me lo hanno detto lì a Treviglio, era già tornato uno prima di me, un italiano, che era un certo Americano Italo, che era venuto a cercarmi, ma era uno che aveva una certa libertà, perciò mi puzzava di qualche cosa che non andava, è venuto a cercarmi, mi aveva pescato lì, non lo so, non mi ricordo, e mi aveva regalato una bottiglia di olio di fegato di merluzzo, che io avevo messo via per partire.

Poi visto che dovevo partire l’avevo regalata ad un prete, non faccio il nome, che l’aveva messa via “Tieni, io guarda parto, ormai chissà cosa fanno qui, mi sbattono, mi fucilano o roba del genere, pigliala”, quando ho visto che non si partiva, io sono andato là e gli ho detto “Guarda che non sono partito, tornamela”, tornamela, non tornamela è caduta e si è rotta.

Quindi a Treviglio mi hanno dato queste notizie e sono ritornato.

D: Quindi i genitori, mamma e babbo, sapevano già di Roberto?

R: Sì, sì.

D: Tu quando sei uscito dal Reviere, e che hai appreso la notizia di Roberto, ti sei messo a cercare dove era stato messo, sepolto?

R: Ma che mai sepolto? Cremato. Perché me lo hanno detto, poi sapevo, vedevo passare i carri con su tutti i cadaveri che andavano a finire al crematorio. Io il crematorio dentro non l’ho mai visto, perché c’erano i beccamorti che andavano là a fare questo mestiere, ma sapevo benissimo.

D: Eugenio, alla Liberazione di Dachau, voi deportati vi organizzate in comitato con Melodia, con altri, e l’autorità italiana c’era?

R: Assente.

D: Voi non l’avete mai incontrata, neanche quando sei tornato?

R: Mai, niente. No, dopo qui hanno detto che si doveva andare all’ARC, in Via Borgo Palazzo, che era organizzata mi sembra dalla Croce Rossa, lì tanto è vero che c’è il certificato della Croce Rossa Internazionale, che ha raccolto tutti i dati, poi li aveva già raccolti non so come, e hanno preso nota di un po’ di tutto, ma altrimenti …

D: Cioè sul piano della salute, voglio dire?

R: Niente.

D: Perché quando siete tornati non è che…?

R: Io pesavo 35 chili.

D: Sì, poi con malattie?

R: Ero piagato. Avevo tutte le gambe piagate.

D: Ecco, questa attenzione sanitaria, la cura sanitaria, è stata tutta a carico tuo voglio dire?

R: Sì, a carico mio, ma è consistito nel fare una vita normale, quindi forse non ricordo se sulle gambe ho spalmato qualche cosa, qualche crema …

D: L’autorità non si è interessata?

R: No, no, no, non è che mi abbiano detto “Lei poverino è tornato, adesso venga qui”. C’è un mio amico che mi ha fatto una visita, il dottor Leidi, che ricordo sempre con molto affetto, il dottor Paolo Leidi, il quale mi ha chiamato, siccome era medico polmonare, e c’era pericolo soprattutto per i polmoni, mi ha fatto una visita scrupolosa e mi ha detto “No, stai bene”, anche perché il tifo non lascia tracce se si guarisce, almeno credo, non me ne intendo.

D: Di Bergamo oltre a te e tuo fratello, sono state deportate …

R: C’era, io avevo visto un certo Battagion, che poi è sparito, ma non ha lasciato traccia questo tale. Questo tale io lo conoscevo a Bergamo, e là, non lo so, quando sono entrato così, ho visto, ho intravisto, della gente che giocava a pallone cosa che mi ha … “Ma siamo diventati matti?”, ed era anche lui che giocava a pallone.

D: Questo a Dachau?

R: A Dachau, dopo non ho visto più niente di tutto questo. Ma se tu sapessi come si affollano i ricordi, proprio si intrecciano, uno si sovrappone all’altro e viene fuori qualche cosa che probabilmente ha un po’ dell’uno un po’ dell’altro, però inquina tutti e due i ricordi.

D: C’è un altro tipo di ricordo, gli odori di Dachau te li ricordi?

R: Gli odori di Dachau li ricordo benissimo, mi ricordo certi episodi, per esempio tu sai cosa si mangiava? La mattina davano un certo caffè che era poi dell’acqua tinta, ma anche tinta male, poi ti davano le carote con le rape, e la sera ti davano il pane a fette con un po’ di margarina o un salsicciotto, una roba che …

Ci mettevamo tutti in fila, e le fette non le potevano tagliare tutte uguali, tu guardavi, contavi e dicevi “L’ottava fetta è più grossa” allora cercavi di contare a che punto eri della fila, e cercavi di sgattaiolare o fare qualche cosa del genere, o passare facendo finta di andare al gabinetto, che era la cosa migliore, rientrare appena vedevi che la fila aveva sedici posti e tu avevi adocchiato al diciassettesimo una cosa più grossa, tacchete dentro e arrivavi, ed erano 3 grammi di più. Ecco, questa è stata la nostra vita.

D: Eugenio un’ultima domanda, la babele delle lingue, delle urla, dei rumori del campo, come te lo ricordi?

R: Le urla no, mica tante, gli impiccati sì, nel viale. Le urla no. Dicevano che i russi rubavano, che passavano sopra il tetto dei blocchi, facevano il buco e poi entravano dentro, dicevano. Guardavamo con invidia i danesi, perché avevano il pacchetto della Croce Rossa, e c’erano i polacchi, che io ho sempre visto di una dignità straordinaria. Mi ricordo che c’era un ingegnere polacco che era là fermo, sempre così, non è morto, praticamente così, guardando nel vuoto, una testa a uovo, per cui non erano riusciti neanche a raparlo, ed era sempre là così che guardava.

Degli italiani ricordo un avvocato Bruni, si chiamava Alessandro Bruni di Torino, che era l’avvocato dell’UTET, della casa editrice, è morto nella merda, è morto sotto di me, siccome c’era questo tifo petecchiale, questa diarrea, non riusciva più a muoversi assolutamente, fino a che un giorno lo abbiamo trovato lì morto, abbiamo portato fuori un pagliericcio intriso di …, marcito, una cosa terribile, Alessandro era buono, erano tutti buoni.