Chieffo Giorgio

Giorgio Chieffo

Nato il 05.01.1921 a Firenze

Intervista del: 07.10.2002 a Firenze realizzata da
Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n. 73 – durata: 61′ circa

Arresto: a Milano

Carcerazione: a Milano a San Vittore

Deportazione: Bolzano

Liberazione: fuga da Bolzano

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Organizzazione materiali ed inserimento dati: Elisabetta Mascarello, Elena Pollastri

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Giorgio Chieffo. Sono nato a Firenze il 05.01.21, ho ottantuno anni.

Dove sono stato arrestato? Sono stato arrestato a Milano su una delazione di un tizio, il quale era stato paracadutato, che avrebbe invece dovuto essere il collegamento tra il nostro servizio, dico nostro”, perché eravamo insieme io e Giorgino, tra il nostro servizio e il servizio segreto statunitense, l’O.S.S. che avrebbe avuto in quel periodo lo scopo di preparare uno sbarco con alianti e anche avio, se fosse stato possibile, a nord dell’Appennino.

Praticamente io ero a Milano e avevo parlato con un alto dirigente del Comitato di Liberazione che era Pietro Stucchi Prinetti, e dopo noi vivevamo nella casa di un tizio che ce l’aveva offerta, partendo da Borgotaro e una mattina siamo usciti io e lui e ci siamo trovati ingabbiati.

D: Scusa, tu facevi parte di quale organizzazione?

R: In primis, ovviamente, io facevo parte della Brigata Julia di Borgotaro. Mentre ero nella Brigata Julia, venne dal sud un piccolo gruppo, tre persone, che loro erano stati incaricati dal servizio di informazione americano, di iniziare a trovare una maniera di adepti e ovviamente informazioni.

Questi ci dissero: “Guardate, avremmo bisogno di questo e questo”. E allora abbiamo iniziato a dare queste informazioni. Volevano sapere la dislocazione dei reparti tedeschi, dei reparti fascisti. Avevano bisogno di avere delle notizie circa gli eventuali punti fortificati.

Tra l’altro riuscimmo, ma questo in maniera un po’ fortuita perché non fu merito nostro, ma fu un caso, eravamo a Borgotaro quando fu occupato questo paese dai partigiani, quando venendo giù dal passo della Cisa, veniva giù una macchina tedesca scoperta.

A questo punto, ovviamente era stata sottolineata, e all’altezza di Borgotaro un po’ di raffiche bloccando questa macchina.

Fortunatamente dentro c’era un ufficiale tedesco che aveva un grosso borsone e in questo borsone c’erano tutti i piani delle fortificazioni tedesche di La Spezia.

Erano questi i piani che ci convinsero a dire: “Andiamo a Milano perché dobbiamo portarli al Comitato di Liberazione Nazionale” che faceva capo, allora, al Partito d’Azione, a Milano, dico Stucchi Prinetti.

Quindi, a chi si faceva capo? Diciamo in maniera saltuaria, come capitano, noi avevamo proprio questo scopo, poi ovviamente si riferiva.

La cosa migliore per riferirla era tramite la radio che avevamo e poi ovviamente per quello che si poteva,

Dall’arresto fummo trasferiti a San Vittore.

D: Ti ricordi quando ti hanno arrestato?

R: Questa è la data che o la sa Giorgino o me la sono completamente dimenticata. Perché lui so che ha fatto un brogliaccio, dove ha scritto tre o quattro date, ma tra l’altro ha anche la data di quando noi fummo portati al Lager di Bolzano, poi ha la data di quando noi scappammo.

Però io gliel’ho fatto vedere: non è possibile, perché altrimenti si sarebbe stati nel Lager quindici giorni. Ci siamo stati parecchio tempo, quindi non tornavano queste date.

Quindi la data dell’arresto, con tutta sincerità non la ricordo.

D: Giorgio, quando vi hanno accerchiato per la delazione, erano italiani che vi hanno…?

R: Erano italiani, ma tutti in borghese, tant’è vero che a San Vittore, gli interrogatori ce li fece un italiano. E devo dire che per una ragione che non so, me la sono immaginata un pochino, la ragione era che le cose cominciavano ad andare poco bene sia per i tedeschi che per i fascisti, quindi le persone che in carcere avevano la fama dell’aguzzino, pian piano cominciavano a farsi un po’ un piccolo alibi. Ecco perché dico che nell’interrogatorio non è che furono bastonate o altro, anzi dicevano: “Diteci la verità, dateci una mano, altrimenti andate a finire in mano al Crup e andate a finire male”.

D: Nell’arresto hanno preso te e Giorgino?

R: Esatto.

Portati a San Vittore. A San Vittore, quinto raggio. Il quinto raggio è il raggio dell’isolamento.

Ci saremo stati quindici o venti giorni, i tempi dell’interrogatorio.

D: Gli interrogatori, scusa, li facevano lì a San Vittore?

R: Sì, a San Vittore, di sotto.

Dopo, passammo al primo raggio. Il primo raggio invece era un raggio che noi abbiamo considerato in maniera molto umoristica perché i secondini, chiaramente anche loro che cominciavano a sapere da che parte era il burro sul pane, a un momento i secondini specialmente con i politici, dicevano “Buongiorno signore, devo aprire la cella, vuole uscire?”. Aprivano la cella, e noi andavamo nei corridoi, ci si girava, ci si muoveva, ecc. e alla sera: signori, buona notte, dobbiamo rientrare.

Questo era quello che era il primo raggio, il che è comprensibile perché sapevano benissimo che eravamo dei politici ed ovviamente si rendevano conto che se un domani qualcuno gli dava una mano nel dire: “Questi ci hanno trattato bene, questi ci hanno dato una mano, questi ecc.”, era tanto di guadagnato per loro.

Proprio lì in San Vittore, durante l’interrogatorio, chi interrogava cercava di sapere qual’era il nome proprio di uno di quelli che era venuto su dal sud.

Infatti, addirittura aveva fatto uno schizzo, un disegno, che tra l’altro era molto somigliante, bravo chi l’ha fatto e volevano conoscere questo qui.

Perché? Perché questo effettivamente su a Milano aveva, indipendentemente dall’altro gruppo, organizzato un gruppo per conto proprio, tipo un gruppo di gappisti.

Comunque, a parte il fatto che non sapevamo dov’era, tutto quello che si sarebbe potuto dire era: “E’ venuto su, però ora chissà dov’è”.

Ma a parte questo, non è che fu un infierire nel vero senso della parole, né su me, né su Giorgino, per nessuno dei due, in un certo senso.

Ovviamente notizie arrivavano di persone che erano state malmenate ecc., ma non a noi direttamente, fino al giorno in cui di notte, all’improvviso, ci dissero: “Alzatevi perché voi partite”.

Allora, “Come?” “Chi?”, domande senza risposte, comunque gente del carcere aveva subito capito di cosa si trattava e di conseguenza ci dettero una mano perché chi ci dava delle coperte, chi ci dava dei sacchi di pane e formaggio, chi ci dava altre cose, praticamente per arrivare su con una certa possibilità, una certa quale possibilità.

Qui, nei pullman, pullman portati fino a su, a Bolzano, siamo entrati dentro.

D: Più o meno, anche qui non ricordi quando?

R: Io so una cosa sola: non era freddo. Non era freddo perché quando si poteva, alla mattina ci si lavava a una fonte, quindi freddo non era, settembre o roba di questo genere.

D: In quanti vi hanno preso da San Vittore e portati su a Bolzano, più o meno?

R: Erano tre autobus, quindi mettiamo trentacinque, quaranta per autobus, quindi più o meno centoventi, cento trenta persone.

D: Solo uomini?

R: No, uomini e donne.

D: Chi vi faceva da scorta?

R: Io lì per lì, io ho dato un’occhiata a destra e a sinistra, ma siccome non vedevo l’unanimità del fatto, non me la sono sentita, perché tra me e Giorgino, allora, specialmente allora, io a quell’epoca ero più robusto di ora, perlomeno più agile, c’era un tedesco accanto all’autista e un tedesco in fondo.

Seguiva ovviamente una macchina con tre o quattro tedeschi, più una motocicletta o due motociclette.

Ma volendo, il pullman lo si beccava come si voleva, però giustamente facevano osservare: “Tu prendi il pullman e per il resto come fai? Come lo levi di mezzo?” Lasciamo andare…

Ma erano tre pullman, quindi saranno state cento cinquanta persone circa.

D: Ti ricordi se durante il tragitto vi siete fermati?

R: Sì, ci siamo fermati, ma ci facevano fermare per necessità fisiologiche e basta, non c’era stato niente altro.

D: E lì siete arrivati a Bolzano.

R: Siamo arrivati al Lager, papale papale… e siamo entrati…

D: E’ entrato il pullman dentro, tant’è vero…, ovviamente ci hanno fatto scendere, quindi tutti in colonna, inquadrati, destra, a sinistra, allineati e coperti, come si diceva allora e il primo impatto e quindi le osservazioni che facevamo tra di noi: “Non ci sono scheletri”. Capite cosa voglio dire? Ci siamo meravigliati del fatto che pur essendo un Lager, la gente non aveva l’aspetto di uno scheletro, di uno patitissimo.

Ora, non sapevamo, allora, che il Lager era stato aperto da poco tempo.

C’è un punto qui dove c’è scritto che viene aperto il Lager di Bolzano.

D: Nell’estate del 1944.

R: Ti dicevo settembre, noi siamo arrivati verso quell’epoca lì. Non sapevamo che era aperto da poco.

Quindi per forza di cosa, per far sì che della gente internata diventino degli scheletri perlomeno un briciolo di tempo ci vuole.

Queste cose noi non le sapevamo, quindi ci eravamo meravigliati del fatto che perlomeno qui la gente era viva, quindi non era come ci si può aspettare e come noi sapevamo di Auschwitz.

Per cui divisione, un blocco lì, un blocco là, tre o quattro blocchi, perché c’erano due, tre, quattro capannoni e lì ci fu la cosa buffa che io mi presi del “cretino” da tre o quattro persone più anziane di me, perché erano colonnelli dell’esercito, maggiori, colonnelli dell’esercito.

Io, a quel tempo, ero capitano e basta.

Perché questo? Perché quando fu fatto il blocco e fu fatto questo gruppo e si disse: “Voi fate parte di questo blocco…”, quello che era il responsabile italiano del campo, che era un ex tenente dell’aviazione, tra l’altro, domandò: “C’è tra voi qualche ex ufficiale effettivo?”

Io, da un certo momento, da cretino, presi e schizzai fuori, “Sì, io sono ufficiale effettivo”.

Tre o quattro persone più anziane di me “Cretino” mi dissero, subito e al volo, perché loro erano più ufficiali effettivi di me diecimila volte, però ovviamente loro avevano annusato il fatto che sarebbe stata una responsabilità e basta e anzi andavo incontro a delle grane, e io in quel momento non ci ho pensato.

Quindi, fui fatto capo blocco….

D: E il blocco qual era? Te lo ricordi?

R: Allora, si entrava nel campo, i blocchi erano sulla sinistra e sulla destra, ovviamente, noi eravamo su quelli di sinistra.

Era il secondo blocco, uno, due, non so come erano indicati. Comunque era il secondo blocco.

In questo blocco c’era di tutto: c’erano politici, c’erano ebrei, c’erano zingari, poi c’erano anche prigionieri comuni.

Insomma c’era promiscuità di qualsiasi tipo, ma nessuno brontolava, le uniche persone ….

D: Giorgio, due cose, quando siete entrati, per prima cosa, vi hanno immatricolato?

R: Scusa, questo l’ho dimenticato.

Ci hanno immediatamente immatricolato. E io ero uno di quelli che scriveva i nomi, perché siccome conoscevo il tedesco un po’, di conseguenza potevo tradurre in tedesco le voci che loro chiedevano perché c’era un prontuario. C’era nome, cognome, poi un prontuario ed eventuale servizio militare fatto, e questa cosa qui, io traducevo in tedesco questi nomi. Questo, tra parentesi, che non ho trovato il mio nome tra quelli che avrebbero dovuto essere quelli iscritti.

D: Da nessuna parte?

D: Il tuo numero?

R: Non eravamo a numeri.

D: Non avevi il numero?

R: Mi sembra di no.

D: Non ti ricordi?

R: Può darsi, ma non lo ricordo. Tant’è vero che Giorgio non ha mica parlato di numero.

L’altro giorno, sono andato a trovarlo… e perché sono andato a trovarlo?

Gli ho detto: “Giorgio, bisogna che ti venga a trovare per una ragione molto semplice, perché siccome vengono a fare quattro chiacchiere con noi, cerchiamo di non dire fesserie l’uno con l’altro, oppure di non remare contro perché altrimenti sembrava di andare contro corrente, noi nel dire che lì non c’erano assassini, crudeltà, ecc., mentre è considerato il Lager che era un Lager disastroso.” Noi dicevamo quello che c’era, quindi ci siamo trovati per metterci d’accordo, dicendo: “Quello che possiamo dire è questo, né di più né di meno”. E non abbiamo parlato del numero, proprio non ne abbiamo parlato.

D: Un’altra cosa che ti volevo chiedere: ti ricordi se nel campo hai visto dei religiosi?

R: C’erano nel mio blocco. C’erano due sacerdoti.

D: Non ti ricordi i nomi?

R: No.

D: E neanche di dove erano?

Non te lo ricordi?

R: Di dov’erano, se io faccio per deduzione, sono venuti insieme a noi, quindi erano a Milano, quindi della zona, come suol dirsi.

D: Ti ricordi se nel campo hai visto anche dei bambini?

R: No, di bambini non ne ho visti.

Che ci fossero dei bambini nel blocco delle donne può darsi, però a parte che non si poteva andare da quelle parti, non ne ho visti, non ne sono stati citati.

Non se ne parlava, non è capitato di parlarne o di dire: “E’ scappato un bambino, bisogna cercarlo…”

No, non c’è stato qualcosa di questo genere.

D: Il tuo lavoro come capo blocco in che cosa consisteva?

R: Consisteva nel presentare…, i controllori, diciamo, dei blocchi erano dei militari della Wermacth che poi non erano neanche tedeschi perché erano polacchi che erano stati assimilati o cecoslovacchi che erano stati assimilati, erano tutta gente a cui non importava nulla di nulla. A loro interessava soltanto una cosa: alla mattina si scendeva dai pagliericci, come suol dirsi, ci si metteva dentro allo stanzone in fila e bisognava sempre stare attenti a mettersi in fila quattro per quattro.

Chissà perché questo tedesco sapeva contare soltanto i multipli di quattro. Non lo so perché, gli garbavano i multipli di quattro.

Comunque la risata era questa: lui partiva da una parte e faceva: uno, due, tre, quattro e contava quanti quattro erano.

Ora, a un certo momento, se uno voleva scantonare, bastava che uno in fondo, girasse, scappasse dall’altra parte, faceva il quarto, non ci voleva niente, ma non lo si faceva perché non c’era ragione, non c’erano delle ragioni per farlo ancora.

Quindi c’era questa conta.

Fatta la conta, uno si sedeva sul pagliericcio, chiacchierava, se poi usciva, perché stava nel cortile e si poteva stare.

Altre cose non è che si potevano fare.

Praticamente il capo blocco aveva come compito le adunate, l’elenco, il controllo che ci fossero tutti quanti. Questa roba qui internamente. Poi quando cominciarono ad usufruire dei prigionieri per i lavori esterni, il capo blocco aveva anche l’incarico di gestire l’attribuzione dei lavori di qua e di là e poi controllare che rientrassero tutti, il succo era questo, di mantenere il gruppo tutti insieme.

Non so se prima o dopo c’è stato un periodo che è stato un po’ duro per noi perché eravamo stati portati a lavorare in quella galleria che era stata iniziata che dentro avevano messo una fabbrica, la IMI.

Però, dopo, ci fu la popolazione che cominciò a dire: “Questa gente qui ci farebbe molto comodo per raccogliere le mele”. Quindi ci portavano là, ci mettevano a raccogliere le mele e noi facevamo il lavoro del raccoglitore gratis, per cui questa gente era tutta felice e beata.

Ed onestamente quasi tutti, quelli che sono andati, la fetta di polenta ci arrivava alla fine mattinata, fetta di polenta che normalmente noi ne mangiavamo un pezzetto e il resto si portava agli altri.

Poi l’altro lavoro che ci fecero e che fu appunto l’ultimo, quello di scaricare i treni e di mettere la roba su dei camion che dovevano andare in Germania.

Arrivavano dei treni, carichi di tutto quello che i tedeschi riuscivano a razziare dal paese, quindi magari razziavano tutto il supermercato, allora: camice, scarpe, borse, tutto quello che potevano razziare. Questa roba che era nei treni, noi dovevano scaricarla e metterla su dei camion, che erano quei camion che poi partivano per la Germania.

D: E questo dove lo facevate?

R: Io devo dire che siccome la nostra fuga avvenne in occasione di uno di questi lavori qua dei treni e siccome quando noi scappammo, io le montagne le conoscevo perché sono sempre stato in montagna.

Voi conoscete, da dove c’è uno specie di capolinea, se si guarda in alto, si vede il profilo dei monti dell’Amendola, non so quale può essere la stazione di questo genere….

D: C’era un laghetto?

R: Questo non ce l’hanno fatto vedere.

Comunque il punto di riferimento è questo, quando si scendeva dal treno, io mi guardavo in giro per vedere dove eravamo, o dove non eravamo, cosa si poteva fare o non si poteva fare, e io guardando in alto, riconoscevo il profilo dei monti dell’Amendola e dicevo: “Se noi riuscissimo ad arrivare lassù ai monti dell’Amendola siamo a cavallo perché si va di là e siamo a posto”; questo è stato il pensiero.

Allora ecco perché dico che deve essere stato Caldaro…

D: Quindi non nella stazione di Bolzano?

R: No, assolutamente no, la stazione d Bolzano la conosco.

Più che la stazione, era un punto di fermo, come per dire a Firenze, la stazione di Campo di Marte, che è tutto treni e basta.

E lì è stato che abbiamo pensato di vedere se si riusciva, dopo due o tre volte che si guardavano queste montagne, si diceva: “In qualche maniera si riesce a tagliare”, perché erano già cominciati gli invii e noi avevamo saputo che le partenze erano per Auschwitz e quindi si capiva che se non ci levavamo, andavamo a finire male.

Di conseguenza ci si pensava e abbiamo visto che il momento migliore era quando eravamo un pochino liberi di movimento perché è ovvio, noi prendevamo questa roba, scendevamo dal treno e poi arrivavamo ai carri per caricarla, per darla, quindi questa certa libertà, ad un certo momento.

Poi, tra me e Giorgino avevamo avuto un’idea, che poi si è rivelata felice.

Nel camminare con questa roba che qui avevamo, magari un pacco con quattro, cinque camice, un pacco con quattro cinque scarpe, passando ne buttavamo una o due a questi tedeschi o meglio diciamo persone, non so chi erano, comunque erano di Bolzano, non erano di altre parti. Li buttavamo a loro e questi li prendevano ben volentieri.

Perché facevamo questo? Perché dando le cose a loro, si coinvolgevano, in un certo senso, e quasi si diceva loro: “State attento, se capita qualcosa, non essere proprio te a chiamare perché se tu chiami, ti trovano con in mano un pacco di camice e non si sa da che parte vengano”.

Quindi le avevamo date.

Le avevamo date un paio di giorni avanti e allora si era rinfocolato il numero delle persone che erano lì ad aspettare e noi davamo facilmente.

A questo punto, una mattina, noi ci vestimmo di panni normali, i panni con i quali eravamo arrivati, perché dopo ovviamente con la tuta, ma prima siamo arrivati con quei panni, la tuta sopra.

Siamo usciti, tra l’altro io ricordo, mi sembravo una ciliegina, sotto il braccio avevo anche un cappello, comunque a un certo momento Giorgio mi disse: “Guarda, non ci guardano”.

Allora si mollò tutto e si fece una corsa in un campo fino a un muretto, salto del muretto e dietro al muretto ci siamo levati la tuta, senza né sentieri, niente, proprio con la bussola del naso.

Io, ogni tanto alzavo la testa, ce l’ho sempre davanti, allora su diritto, sempre in mezzo, sempre diritto.

Quando eravamo un bel pezzo su, evidentemente qualcuno se ne deve essere accorto perché abbiamo cominciato a sentire i cani, il vociare dei cani. Però penso, perché il terreno era umido dove noi salivamo, quindi doveva essere piovuto la sera avanti, comunque andò bene.

Poi su, su, a un certo momento quando fu buio buio ci si fermò un momento per riposarci, la mattina si ripartì e si arrivò su in un prato, i primi prati dell’Amendola e andammo alla parrocchia del Don… , di cui non ricordo il nome…

D: Ascolta, in due siete scappati?

R: Sì, in due. Io e lui.

D: Non avete detto a nessuno che avevate intenzione di scappare?

R: Sinceramente non l’avevamo detto, ma non con intenzione, non l’avevamo detto. Se ci avessi pensato, non l’avrei detto con intenzione, perché voi sapete benissimo che se una cosa si allarga, poi non si sa mai dove va a finire, perché Tizio lo dice a quell’altro, lo dice a quell’altro, a quell’altro e quando si arriva ad essere un certo numero di persone, qualcosa salta fuori e quindi no, lì per lì non l’abbiamo detto senza nessuna intenzione.

Però confesso che se ci avessi pensato, avrei detto: “No, non lo diciamo mai a nessuno”.

Fu proprio uno di questi prigionieri che era un prigioniero comune, diciamo o un ladro o qualcosa di questo genere, che ricordo disse: “Stai attento, ti si vede il cappello, lo capiscono che vuoi scappare…”

Fu proprio lui. Comunque andò.

Si arrivò su e Giorgio si ricorda che noi vedemmo degli operai che mangiavano.

Allora si fece la conta e si disse: “Chi ci va a domandargli un pezzo di pane? Ci vai te o ci vado io?”

Si fece pari e dispari e ci andai io.

Di conseguenza, lì ci dissero, ci dettero del pane e anche del formaggio però ci dissero: “Tagliate la corda perché prima o poi qui qualcuno arriva”.

Non è stato invece un tagliare la corda e abbiamo suonato alla parrocchia, e non so se ve l’ha detto Giorgio, il parroco Giorgio lo conosceva da quand’era a Firenze.

R: Tant’è vero che siamo rimasti di stucco, perché io dissi: “Giorgio, più fortuna di così, vai ad incrociare proprio Don…”, che lui conosceva benissimo.

Pover’uomo, questo parroco la prima cosa che ci ha domandato: “Vi ha visto nessuno?”

E noi abbiamo risposto: “No, non ci ha visto nessuno”.

Comunque, morale: ci tenne a dormire, a mangiare, in parrocchia e ci siamo stati come minimo venticinque giorni, parecchio.

Perché dico questo? E qui faccio una piccola parentesi: a me farebbe piacere rintracciare, anche per telefono, un tizio di Bolzano che era un grossista di frutta, che aveva una casa, non so se la seconda casa o cosa fosse, comunque aveva la casa a duecento metri dalla parrocchia, un po’ più in su.

Evidentemente aveva annusato la cosa e ci venne a trovare e la prima cosa che ci disse fu: “Guardate che io mi metto a vostra disposizione per qualsiasi cosa di cui potreste avere bisogno perché io sono libero di andare da qui a Bolzano come voglio, perché ho questo negozio, questa industria di frutta a Bolzano ecc…”

Il primo grosso favore che ci fece, ci fece per primo le fotografie per avere la carta di identità, per farci avere un documento, quindi ci fece le fotografie. Secondo: ci presentò, evidentemente ne avevano parlato, quindi venne un’impiegata del comune di Fondo, Fondo è vicino a Bolzano, la quale ci disse: “Vi preoccupate per la carta di identità? Non vi preoccupate, ci penso io”.

Il perché ce lo spiegò dopo. Disse: “Io ho i timbri del comune di Fondo. Faccio alla svelta. Riesco con un piccolo accorgimento, invece che Fondo, fare Fondi, e Fondi è un comune vicino Roma, come voi veniste da Roma, da Fondi vicino Roma” e ce la fece.

Ci fece questa carta di identità da Fondi vicino Roma.

Questo è uno che io ritroverei, perlomeno per telefono, molto volentieri, ma non so come indicarlo.

Gli elementi per indicarlo sono che era un grossista di frutta, aveva la casa accanto a questa parrocchia, e poi non so altro…, una persona relativamente giovane, pur essendo a capo di una grossa azienda, avrà avuto venticinque, ventotto anni, una cosa di questo genere, più o meno.

D: Giorgio, nel periodo che voi siete rimasti nascosti nella casa del padre non sono mai venuti?

R: Non è mai venuto nessuno, o quantomeno noi non l’abbiamo mai saputo, il perché non lo so. E’ difficile spiegarmelo. Tra l’altro è difficile spiegarmelo perché se avessero voluto sincerarsi veramente del come eravamo riusciti a scappare c’erano tante di quelle tracce di noi che ci eravamo arrampicati in quella boscaglia che si vedeva che avevamo preso quella direzione.

Allora, quale direzione prendono due che vogliono andare in Italia e varcare…, prendono la direzione dell’Amendola e quindi avrebbero potuto venire a fare un rastrellamento lassù.

Solamente che ho quest’impressione: che praticamente persone del Lager di Bolzano non avevano tanta voglia di andare a cincischiare e a muoversi per fare un rastrellamento al passo dell’Amendola.

Con ogni probabilità, se anche l’avessero segnalato a qualche Comando, non so se si sarebbero mossi.

Questo per una cosa che non era una cosa eccezionale, faccio per dire.

D: Ascolta, e dopo questi venticinque giorni circa?

R: E’ successo che ho detto: “A questo punto, bisogna trovare il verso di riprendere i contatti.”

Dove si riprendevano questi contatti? A Milano.

Di conseguenza, con il camion stop, perché salendo su dei camion che trasportavano mele verso il sud, sto parlando da Bolzano in giù, ovviamente a pezzi e a bocconi siamo arrivati a Milano.

D: Quindi dall’Amendola siete scesi…?

R: Sì, allo stradone, a Bolzano, praticamente alla strada che viene giù da Vipiteno, dalla strada che viene dal Brennero e viene giù, che fa Verona Milano e siamo arrivati a Milano.

A Milano abbiamo ripreso contatto con il Partito d’Azione e loro ci hanno detto, chissà come mai perché non eravamo delle persone talmente importanti da giustificare un’inchiesta di una certa importanza, insomma ci hanno detto che ci ricercavano. Ci hanno detto che la cosa migliore che potevamo fare era di passare in Svizzera.

Allora abbiamo detto: “Se volete che si passi in Svizzera, passeremo in Svizzera” e di conseguenza praticamente ci organizzarono una gita con dei contrabbandieri che conoscevano i sentieri e arrivammo in Svizzera, tutti e due e si rimase là, per un po’ di tempo.

D: In Svizzera dove?

R: C’è Giorgio, in uno dei suoi libri, che descrive l’arrivo in Svizzera.

Effettivamente è vero, quando si cammina per tutta la notte, quindi al buio, per sentieri ecc., ad un certo momento si arriva in una parte alta, in un colle, in un passaggio e di conseguenza, da questo passaggio non è più Italia e si vede tutto illuminato, si vedono tutte le case con lumi e luci e uno resta così perché si viene da un posto dove non c’era assolutamente niente e questo era la parte bella, diciamo, perché ovviamente in Svizzera abbiamo fatto un po’ di vita per bene, si poteva mangiare…