Faronato Gianni

Gianni Faronato

Nato il 26.12.1927 a Feltre (Belluno) 

Intervista del: 10.08.2000 a Feltre (Belluno) realizzata da
Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n. 89 – durata: 45′

Arresto: ottobre 1944 a Feltre (caserma degli alpini)
Carcerazione: a Grigno
Deportazione: Bolzano, Colle Isarco
Liberazione: fuga da Colle Isarco il 2 maggio. Borgo di Val Sugana esercito americano li porta a Feltre

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Nota sulla trascrizione della testimonianza:
L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sono Gianni Faronato. Sono nato a Feltre il 26 dicembre 1927. Abito da sempre a Feltre e sono stato internato nel campo di concentramento di Bolzano. Il 3 ottobre 1944 le SS tedesche facevano delle azioni di rappresaglia nei confronti dei partigiani attorno a tutte le montagne feltrine. Le montagne feltrine in provincia di Belluno erano brulicanti di partigiani. Le SS hanno cominciato a rastrellare Bassano, impiccando 40 partigiani. Sono saliti sul Monte Grappa, sono discesi dall’altra parte, dalle parti di Seren del Grappa, di Porcen e hanno bruciato Porcen e anche Seren. Poi hanno distrutto tutte le casère che sono in cima al Monte Tomatico e lungo il Monte Tomatico e sono scesi a Feltre.
Il 3 ottobre un grande rastrellamento: 2.000 persone vengono rastrellate e portate nell’allora Metallurgica Feltrina. È una fabbrica di manufatti di alluminio.
Fra queste persone c’era il vescovo, c’erano i sacerdoti delle città, c’erano i frati, c’erano tutte le personalità di Feltre e dopo che, assieme ai fascisti, avevano individuato quelli che potevano essere i rappresentanti dei partigiani e i loro collaboratori, hanno rinchiuso 150 persone nel Cinema Italia di Feltre. Là c’erano le SS sul palco che ci hanno interrogati tutti quanti. C’era anche un nostro amico, un certo Scarton che poi è stato ucciso dai partigiani, che ci conosceva perché eravamo diversi amici.

D: Gianni, tu sei stato arrestato dove?

R: Io sono arrestato a Feltre perché hanno circondato Feltre, i tedeschi hanno circondato Feltre e hanno bloccato tutte le tre o quattro uscite che c’erano. Avevano dei fucili mitragliatori: pancia a terra e là ci hanno fermato e ci hanno condotto prima nella caserma degli Alpini a Feltre e poi nel recinto della Metallurgica assieme ai 2.000 che dicevo prima. Ci hanno portato poi al Cinema Italia e là ci hanno interrogato. C’era, come dicevo, questo mio amico Scarton, il quale mi ha chiesto cosa facevo là. Non so, mi hanno rastrellato, mi hanno fermato qua. Disse: penso io a liberarti.
Sennonché lui invece probabilmente ci ha fatto la denuncia e ha detto che noi eravamo staffette partigiane. Allora io avevo 16 anni appena fatti. Voi potete immaginare cosa ha provato un ragazzo a quell’età ad essere messo là in mezzo a tedeschi, a fascisti, a repubblichini e poi portato in campo di concentramento di Bolzano. Siamo stati là al Cinema Italia una notte, poi il giorno successivo ci hanno portato a Bolzano. Ci hanno fatto fermare prima a Grigno e poi ci hanno messo in un carro bestiame e ci hanno mandato a Bolzano.

D: Dal cinema, cioè da Feltre per arrivare a Bolzano, dicevi, vi hanno portato come?

R: Nei camion. C’erano dei camion. Non eravamo ammanettati ed eravamo tutti quanti stipati su due camion, 150 eravamo come le salsicce messe là. Ci hanno portato prima a Grigno e ci hanno fermato là una notte, poi il giorno successivo ci hanno messo su tre carri bestiame e ci hanno condotto a Bolzano.

D: Scusami Gianni, qui a Feltre tu non sei mai stato interrogato?

R: No, personalmente no. Sono stato interrogato solo a Bolzano, quando sono arrivato là che mi hanno chiesto cosa avevo fatto e cosa non avevo fatto. Io ho detto: non ho fatto niente. Qua a noi risulta che la denuncia che è stata fatta a Feltre era che tu eri una staffetta partigiana e collaboratore con i partigiani.

D: Questo interrogatorio che ti hanno fatto a Bolzano dove te l’hanno fatto?

R: Proprio all’interno del campo di concentramento, quando sono arrivato. Siamo arrivati alla sera del 6 ottobre a Bolzano, siamo scesi dai vagoni che erano piombati e c’erano tutte le SS pancia a terra attorno alla stazione di Bolzano con le luci abbrunate perché eravamo in periodo di coprifuoco, periodo di guerra, ci hanno messo su ancora sui camion e ci hanno portato dentro nel campo di concentramento di Bolzano.

D: Gianni, come ricordi il tuo ingresso nel campo di Bolzano?

R: È stato il primo impatto, ma un impatto, era buio anche là, c’erano anche là i lampioni tutti abbrunati e siamo entrati dentro su una porticina che quasi quasi non ci si passava neanche. Siamo entrati dentro e abbiamo visto tutti questi letti a castello, tutte queste brande a castello in legno che erano come tanti alveari e io sono entrato dentro e non sapevo neanche dove ero arrivato. Noi non sapevamo neanche dove ci avrebbero portato. Dall’altra parte del blocco io avevo visto fuori blocco D, avevo letto blocco D. Sono entrato dentro assieme a tutti quanti gli altri miei amici, ci siamo osservati tutto attorno e sono spuntate dalle altre parti del blocco perché il blocco era diviso con delle pareti in mattoni alte, dal blocco sono spuntate delle facce macilente, pelate, striminzite, con delle tute strane. Ma dico: ma dov’è che siamo qua? Dice: siamo in campo di concentramento di Bolzano. Ma dico: voi altri con quella faccia da … avete fame? Sì – dice – abbiamo fame e qua non si mangia niente, avremmo bisogno di mangiare.
Allora io avevo un sacco che ci avevano mandato su delle mele e del pane, un sacco da montagna pieno, l’ho rimandato su ai miei amici, i quali se lo sono preso e se lo sono mangiato e hanno restituito il sacco. Poi mi sarei morso le dita qualche giorno dopo, quando finalmente la fame è stata veramente grande. Voi pensate all’età di 16 anni, ragazzino venuto fuori dal collegio, non sapevo neanche come gestirmi, trovarmi là in mezzo a tutta questa bolgia che non si capiva neanche cos’era. Mi si lascia su questi alveari e con dei materassi di trucioli, con una coperta, due coperte, poi il giorno dopo ci hanno portato dentro, ci hanno rasato i capelli, ci hanno dato una tuta con una croce, con un triangolo rosso. Prima era rosa, ma devono aver sbagliato perché successivamente poi doveva essere il triangolo rosso. Io avevo il 4.927, il triangolo rosa significa che eravamo rastrellati.
Poi dal 5.000 in su hanno messo il triangolo rosso, quindi probabilmente eravamo tutti politici e hanno sbagliato a metterci il triangolo. Hanno sbagliato anche la numerazione e hanno sbagliato probabilmente anche a metterci il triangolo rosa anziché rosso.

D: Scusa Gianni, qualche tuo amico che è rimasto con te, i feltrini che sono partiti con te, ti ricordi qualche nome?

R: Sì, ce ne sono tanti. Alcuni sono anche morti. Il Dall’Olio intanto prima di tutto oltre ai miei amici che poi descriverò, il Dall’Olio che ci ha lasciato il bellissimo diario che lui ha aveva fatto del campo di concentramento da cui noi feltrini abbiamo ricavato un libro che abbiamo provveduto poi, con i 10 milioni del ricavato di fare cinque premi annuali di due milioni ciascuno da assegnare ai ragazzi delle scuole medie superiori. Questo è il quinto anno che noi assegniamo il premio con grande soddisfazione per tutti. Quindi Gino Dall’Olio in primis, poi Felice Bellumat, che era il nostro capogruppo dopo lo scioglimento del campo, che è deceduto. Poi Vittorino Bellumat, Sergio Samiolo, il cavalier Tombari, che era il segretario dell’ospedale, il direttore sanitario dell’ospedale di Feltre generale Emilio Gaggia e tanti altri.

D: Anche delle donne feltrine?

R: Anche delle donne feltrine. La Ghita Repici che è deceduta, la Liliana Zadra che è vivente, la Lina Di Palma che è vivente, Lelia Barbante che è stata con me quando ci hanno trasferito nel campo satellite di Colle Isarco, è stata con me amica carissima che è già morta.

D: Gianni, cosa ti ricordi tu del campo di Bolzano?

R: Sono anche sciocchezze, ma in mezzo al nostro blocco c’era un grande vaso che si chiamava bugliolo, era il bugliolo. Allora noi altri andavamo là la sera quando ci richiudevano verso le sette, ci chiudevano dentro e tutti dovevamo accomodarci là perché il gabinetto non c’era. Allora eravamo in tanti, eravamo in 140 dentro, 114 noi feltrini e altri che poi si sono aggiunti. Dovevamo tutti ad accomodarci là. Quindi ad un certa ora della notte il vaso strafondava, veniva fuori e là si camminava in mezzo alla melma. La mattina portarlo fuori, pulirlo.
Altra brutta cosa che io ricordo, oltre alla fame, il freddo. Il freddo di Bolzano proprio a ottobre che è cominciato e l’adunata alle sei di mattina a farci la conta e là durava magari un’ora, un’ora e mezza e non contavano mai abbastanza, non eravamo mai a posto abbastanza. Non si sapeva quanti eravamo. Loro non sapevano quanti eravamo e ci facevano il bel giochetto che lo portano anche per farci divertire un attimino. I cappelli su e i cappelli giù, che riportano anche in diversi libri, anche Primo Levi lo dice, anche altri autori. Dovevamo tutti, al comando “cappelli su”, mettersi il cappello in testa, quelli che avevamo, e “capelli giù” sbatterlo sulla mano sinistra facendo un grande rumore. Ma siccome il rumore andava a spezzettarsi, non erano mai contenti. Doveva essere un colpo unico solo che non riusciva mai perché eravamo in 2.000 là a fare questa benedetta adunata e finché il colpo non era proprio massiccio, forte, robusto, lo lasciavano là. Una grande umiliazione perché rapati a zero, freddo, un’unica tuta, 15 gradi con una piccola maglietta sotto e una tuta sopra, gli zoccoli, erano cose da impazzire.

D: Oltre alle donne feltrine che vi hanno seguito lì nel campo di Bolzano, hai visto se nel campo c’erano altre donne deportate?

R: Sì, perché noi, col blocco D, eravamo vicino al blocco E e quindi salendo su, c’era un reticolato, noi potevamo vedere di là e c’era, per esempio, il signor Citton che aveva la moglie dall’altra parte e c’erano anche altre persone che avevano la moglie dall’altra parte, adesso non ricordo i nomi, ma ricordo il Citton e comunicavano, buttavano là i vestiti, loro li rammendavano e li cucivano e poi li rimandavano di qua perché non ci si poteva vedere altro che qualche minuto al giorno.

D: Tu avevi 16 anni, c’erano dei deportati più giovani di te, li hai visti, dei ragazzini?

R: No, questi non li ho visti perché noi del blocco D eravamo proprio tutti quanti assieme e alla mattina, quando alle sette si usciva per andare al Virgolo, perché si andava a lavorare al Virgolo, si ritornava la sera alle cinque, era difficile vederli. Non era possibile comunicare da blocco a blocco.

D: E dei religiosi, hai trovato dei religiosi, dei sacerdoti?

R: Sì, s’era un sacerdote che diceva la messa, non ricordo più il nome e alla domenica diceva la messa ma non è che alla domenica si stesse là a riposare. Tutt’altro, si lavorava, si facevano le pulizie al campo, si andava per i vari blocchi, per esempio, quando c’erano deportazioni, allora il blocco rimaneva vuoto ed era da pulire. Si andava là a pulire il blocco si ritornava. Oppure si andava alla Wehrmacht a lavorare sulla caserma delle truppe, si andava a fare dei lavori là. Si andava al Virgolo, quando bombardavano si portavano i sveller (traversine), le scine (rotaie pesanti), i binari da una parte all’altra e si aggiustava.

D: La messa al campo dov’è che veniva fatta, te lo ricordi?

R: Veniva fatta al centro del campo. Poi ricordo anche un’altra cosa ma questa l’ho sentita perché io ero già a Colle Isarco allora che è venuto il nostro vescovo, monsignor Bortignon, è venuto a celebrare la Messa il giorno prima di Pasqua, il giovedì di Pasqua ed è stata una cosa meravigliosa mi hanno detto là, tutti commossi, tutti che piangevano, perché lui ha ricordato, ha detto: guardate che la Liberazione sarà vicina, ha fatto capire a quelli che erano là che dovevano avere la fiducia perché le cose volgevano al meglio, insomma.

D: Tu accennavi che andavi a lavorare al Virgolo, come è che sei stato scelto per andare a lavorare al Virgolo?

R: Ogni tanto sceglievano, c’era il capoblocco che era Musy, era un capitano dei Carabinieri, era lui che destinava quelli che andavano da una parte o dall’altra, secondo i lavori, i più giovani li destinava ai lavori più pesanti, gli anziani cercava di metterli a loro agio magari con le pulizie, scopare al campo, liberare qualcosa, fare qualcosa insomma, ma i più giovani, quelli che secondo lui erano i più robusti, li mandava o alla cava o al Virgolo o lungo la ferrovia a fare dei lavori.

D: Dal campo al Virgolo come andavate?

R: Andavamo in camion, allora là quando si tornava, si aveva una fortuna immensa perché al Virgolo venivano le signore dell’Azione Cattolica e della San Vincenzo, ci portavano la minestra, ogni tanto ci portavano qualche gavetta di spezzatino e si mangiava così. Mi ricordo con tanta commozione il casellante della ferrovia da Bolzano a Merano che a un certo punto abbassava le sbarre e costringeva i tedeschi, le SS, a fermarsi per cui ci dava casse di mela, casse di frutta, in qualche maniera ci riforniva di qualcosa che poteva darci quasi tutte le sere.

D: Al Virgolo tu cosa facevi?

R: Io ero addetto ai carrelli, andavo dentro con il carrello, mi caricavano la roba, io col carrello andavo fuori, lo scaricavo e poi ritornavo dentro. Quello era il mio lavoro, in più aiutavo a caricare il carrello e a scaricare il carrello.

D: Questo durante il giorno, la notte non lavoravate al Virgolo?

R: No, no nel mio ricordo no, alla sera alle ore cinque si rientrava al campo ed alle sette eravamo tutti quanti rinchiusi nel blocco.

D: Dentro nel Virgolo, nella galleria del Virgolo c’erano anche dei civili che lavoravano?

R: Non ricordo. Non so perché il mio compito era quello e cercavo di dare il meno possibile all’occhio, cercavo di tergiversare per non farmi notare, per non avere possibilmente grane.

D: Nel periodo in cui tu sei rimasto al Virgolo, ci sono stati dei bombardamenti al Virgolo?

R: Che io ricordi no. Io non sono stato là tanto perché a metà novembre circa, allora hanno fatto una selezione, io avevo una paura maledetta di andare a finire a Mauthausen, o di andare oltre il Brennero invece mi hanno mandato a Colle Isarco che è a otto chilometri dal Brennero, era il comando delle SS tedesco, da Verona avevano trasferito il comando a Colle Isarco e là io avevo il compito di curare i maiali, allora là qualcosa si mangiava sempre perché i tedeschi buttavano via e noialtri si tirava fuori quello che era possibile tirare fuori dalla pattumiera dei maiali e si cercava di mangiare, poi facevo il fuochista, c’erano due, un certo Toller ed un certo Cantaller che erano i fuochisti, conduttori delle caldaie, io facevo il fuochista, alimentavo le caldaie con il carbone, tanto è vero che negli ultimi tempi abbiamo bruciato nelle caldaie un sacco di documenti che pervenivano dai Comandi delle SS di Verona con tutti i documenti delle persone schedate in Italia, ebrei, per due giorni e due notti abbiamo continuato a bruciare documenti. C’erano una ventina di casse di documenti che noi abbiamo bruciato con fotografie, con domande da parte degli ebrei, con politici che chiedevano di essere reintegrati nei propri posti di lavoro, io ho letto qualche documento, le istanze che facevano per poter essere scagionati dalle accuse che le SS facevano loro.

D: Gianni, da Bolzano quando ti hanno trasferito a Colle Isarco, in quanti siete stati portati su?

R: Siamo stati portati su in 15, eravamo circa una diecina feltrini e altri cinque che erano stati racimolati qua e là, ci hanno messo su un camion a rimorchio, hanno caricato mele da Bolzano e farina, vettovaglie varie e ci hanno portato su tanto è vero che siamo arrivati alla sera alle ore otto ed ho sentito una voce quando siamo arrivati che ha detto: io sono solo italiano e qua gli altri sono tutti tedeschi, orco cane, dico qua siamo arrivati in Germania, mi hanno detto: no, non siamo ancora in Germania, siamo a otto chilometri dal Brennero e siamo in Italia, scortati sempre giorno e notte facevamo tutti i lavori di manutenzione, di facchinaggio, andavamo a caricare carbone in ferrovia, lo scaricavamo su per poi alimentare le caldaie, come dicevo io facevo il guardiano di porci, ma anche facchinaggio, le ragazze invece erano destinate nei due hotel Gröbner e Palace alle pulizie, ai lavori nelle camere degli ufficiali tedeschi, del personale delle ex SS che erano là.

D: Gianni, come era il campo, la struttura del campo?

R: Eravamo messi in una cantina, guardati giorno e notte da due SS che si alternavano al comando giorno e notte, erano in tre, quattro, cinque, sei che si davano il turno e noi eravamo sempre scortati, andavamo avanti e indietro scortati dove si doveva andare, eravamo messi nelle cantine del Gröbner Hotel prima e del Palace Hotel poi.

D: Quindi avevano requisito questi hotel?

R: Avevano requisito questi due hotel e al Gröbner avevano fatto il Comando delle SS, invece al Palace Hotel avevano tutte le loro camere e tutti i loro alloggiamenti.

D: Lì sei rimasto fino a quando?

R: Fino al tre ottobre. Scusa: dal 3 ottobre al 3 maggio (1945), il giorno 3 maggio abbiamo requisito una macchina, loro erano già in disarmo e siamo scappati con la paura che ci venissero a prendere perché la macchina era stata rubata per cui avevamo paura. Ci siamo fermati a Bressanone e là ci hanno detto: dove andate? Ho risposto: siamo diretti a Bolzano perché siamo stati internati là e torniamo al campo di Bolzano. A Bolzano ci hanno chiesto dove si va, abbiamo detto: a Trento. A Trento abbiamo trovato i partigiani, non ci volevano far passare, allora uno dei nostri che era stato rastrellato sul Grappa e che era un marinaio, era una faccia di quelle… ha tirato fuori una pistola: a me che sono stato partigiano sul Grappa, che sono stato rastrellato e che ho fatto sette mesi di campo di concentramento non mi lasciate passare, vi tiro giù tutti quanti, dice. Ci hanno fatto passare, però a rischio e pericolo nostro. Non vi preoccupate, ha detto. Siamo passati e a Borgo Valsugana abbiamo trovato gli americani che ci hanno scortato fino a Feltre.
Quando ho visto la mia Feltre non le dico la commozione di trovare i miei, di vedere finalmente che avevamo portato la pelle a casa.

D: Gianni scusa. Dicevi il 3 maggio.

R: Sì.

D: Ma cos’è successo il 3 maggio, sono scappati tutti?

R: Si sono dileguati. Il 25 (aprile 1945) abbiamo sentito casualmente la notizia che era stato fatto l’armistizio e si vedeva un po’ di tramestio fra tutte le SS che andavano e non si capiva cosa facevano, cosa non facevano. Allora abbiamo pensato di scappare in qualche maniera. Se cerchiamo di eludere la vigilanza, scappiamo, ma erano sempre alle costole sti benedetti tedeschi. Alla notte del 2 maggio ci siamo trovati senza più nessuno, allora ci siamo guardati a destra e a sinistra e abbiamo visto che stavano caricando delle macchine, stavano caricando delle cose, stavano scappando. C’erano due autisti, c’erano Barioli e anche Masocco, dicono: qua noi abbiamo il camioncino, montate su che si parte e siamo partiti.
Per quanto riguarda un altro episodio molto importante che vale la pena di essere raccontato. Un mese prima circa ci hanno chiamato, io e Sergio Dalla Rosa e ci hanno detto di andar dentro in un salone del Palace Hotel. Era meraviglioso, era un quattro piani con camere splendide. Ci hanno fatto fare pulizia di casse che erano là. Dentro erano contenuti tutti i soldi, le valute, gli ori, i gioielli che provenivano dal Monte dei Paschi di Siena. Io ho visto coi miei occhi quattro lingotti da 25 chili di platino. Li avevo messi dentro una cassa quattro lingotti, poi c’erano piatti in argento, anelli, braccialetti, era tutta la refurtiva del Monte dei Paschi di Siena. Li abbiamo messi dentro due casse, loro le hanno inchiodate, hanno portato via due forme di formaggio grana che erano là, sacchi di farina e altri alimenti. Li hanno messi su un camion e se li sono portati via.
A noi come premio ci hanno dato mille Lire francesi allora e a me hanno regalato una perla che era rimasta fuori dalle buste, perché abbiamo spiluccato tutte quante le buste e abbiamo tirato fuori tutta questa cosa e l’abbiamo caricata su queste casse.

D: Poi con questo camioncino siete arrivati a Bolzano.

R: Siamo arrivati a Bolzano.

D: Siete andati nel campo di Bolzano?

R: No, abbiamo detto a Bressanone che andavamo a Bolzano, che eravamo destinati ad andare a Bolzano, perché eravamo prigionieri, eravamo lassù, eravamo deportati lassù e che tornavamo al campo perché dovevamo tornare là. Poi invece ci siamo portati verso Trento e poi da Trento siamo arrivato a Borgo e quindi a Feltre.

D: Quindi tu nel campo non sei più rientrato.

R: Non sono più rientrato, non ho più visto. Ho sentito il dottor Meneghel che era il direttore dell’ospedale neuropsichiatrico qui di Feltre e che ha scritto un libro anche “Carnematta” da cui ho ricavato alcuni brani che ho messo anche nel mio testo “Ribelli per la libertà”, che negli ultimi giorni anche là si sono dileguati. Posso dire anche una cosa di un mio amico Barioli di Feltre che era l’autista e che ha condotto il comandante delle SS di Colle d’Isarco, assieme ad altri tre ufficiali a Bolzano qualche giorno prima e gli hanno detto di aspettare di fuori. I comandanti sono andati dentro, non si sono più fatti vedere, lui ha preso la macchina ed è venuto a Feltre.

D: Cioè è scappato.

R: È scappato anche lui, non si sono fatti più vedere, ha aspettato fino a tarda ora. Nessuno più si muoveva, lui ha visto movimento di camion che andavano e venivano. Dice: ho pensato che queste persone tornassero a casa, scappassero via, per cui sono scappato via anch’io ed è tornato a Feltre anche lui con la macchina che gli era servita da Colle Isarco ad arrivare a Bolzano per portare giù ‘sti capoccioni.

D: Quando voi siete scappati c’era solamente il gruppo dei feltrini e quindi anche la donna di Feltre, oppure no?

R: Gli ultimi giorni erano venuti ad aggregarsi a noialtri delle ragazze che avevano lavorato come lavoratrici coatte in Germania e sono venute là, le hanno portate là e le hanno consegnate ai militi che ci facevano la guardia. Dice: queste qua devono star qua e dare una mano assieme ai deportati. Sono rimaste là con noi e siamo tornati in 12 o 13 perché qualcuno era andato via, Barioli era andato via ed altri erano andati via, si sono aggregate anche quattro o cinque ragazze che erano del bellunese, che sono tornate e sono rientrate in bellunese anche loro.

D: In questo sotto campo, oltre al gruppo feltrino, c’erano altri deportati di altre regioni?

R: C’erano cinque deportati, la nostra paura è sempre stata quella che ci ha ossessionato di più, c’erano cinque deportati rossi, col triangolo rosso, quindi politici e che probabilmente uno mi aveva detto che da ragazzino, non so se ricordo bene, se è vero, se non è vero, che è stato quello che ha portato una valigia con dentro della dinamite, una bomba a orologeria con dinamite a Milano. Quando hanno fatto una riunione al cinema che io non mi ricordo più, che lui mi ha detto, gli hanno consegnato questa valigia da portare là. La bomba è scoppiata e ha fatto diversi morti durante il periodo fascista. E questo qua era stato preso e portato là, assieme ad altri cinque o sei che noi siamo andati là a dargli il cambio. Loro sono rientrati a Bolzano e successivamente sono stati inviati a Mauthausen tutti e cinque. Uno è scappato e mi hanno detto che è scappato e lo hanno ucciso quando è disceso dal treno, uno è tornato con la TBC e gli altri due o tre devono essere morti là. Non so se sono tornati o se sono morti. Queste sono tutte notizie che io ho raccolto dopo, non potrei dire che siano veritiere, però me le hanno date per vere.

D: Quando tu eri su invece in questo sotto campo c’era solamente il gruppo dei feltrini?

R: Sì, è rimasto il gruppo dei feltrini solamente.

D: E basta.

R: Basta.

D: Ti ricordi qualche episodio di violenza che tu hai visto?

R: Io personalmente là loro avevano bisogno di noialtri e non era che ci bastonassero più di tanto. Io ho un episodio mio particolare da raccontare che è stato anche per me eclatante. Una mattina alla cinque viene il maresciallo a svegliarci. Svelti su, ci si alza. Io sono là sulla mia… erano letti a castelli di due a due, di brande in ferro, ero su in cima e mi ero traccheggiato un attimino a mettermi su le fasce da piedi sugli zoccoli. Lui è andato fuori ed è tornato, mi ha visto ancora su a letto, si è arrabbiato, ha preso uno sgabello, me lo ha tirato, uno sgabello di quelli là quadrati, è andato a sbattere fortunatamente sulla spondina del letto e si è fatto tutto in pezzi. Se mi prendeva, mi ammazzava. L’unica cosa. Però erano duri, avevano sempre il nerbo dietro che se sgarravi ti facevano correre, ti facevano lavorare. Il freddo di Bolzano era ancora maggiore perché lassù c’era un vento terribile che ti entrava dappertutto. Mi ricordo che quando si scaricava il carbone, alla sera arrivavamo dentro il campo neri, sporchi, non ci si poteva lavare, pidocchi che giravano e avanti.