Moimas Albina

Albina Moimas

Nata il 30.10.1921 a Monfalcone (GO)

Intervista del: 20.06.2000 a Udine realizzata da
Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n. 119 – durata: 59′ circa

Arresto: il 01.06.1944 a Ronchi dei Legionari (GO)

Carcerazione: Coroneo (TS)

Deportazione: Auschwitz 2 – Birkenau, Ravensbrück, Wittenberg

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Organizzazione materiali ed inserimento dati: Elisabetta Mascarello, Elena Pollastri

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Moimas Albina, nata a Monfalcone il 30 ottobre del 1921.

D: Albina, quando ti hanno arrestato?

R: Mi hanno arrestato il 1 giugno del 1944.

D: Dove?

R: Ero a casa a dormire.

D: Perché ti hanno arrestato?

R: Mi hanno arrestato perché la sorella più anziana aveva un figlio con i partigiani e questo figlio era in montagna, non era a casa. Allora mia sorella già aspettava qualcosa di poco buono. E’ andata a dormire in un’altra famiglia. Così la mattina del 1 giugno sono venuti e l’hanno portata via con tutta l’altra famiglia.

Poi, dato che io stavo a Ronchi dei Legionari in Piazza Oberdan, era presto, erano le 6.00 di mattina, sentivo che qualcuno chiamava perché il portone era ancora chiuso, c’era il coprifuoco e io ero a letto.

Sentii chiamare, sono andata alla finestra, ho visto che era mia sorella. Mia sorella mi ha detto Albina, vai a casa mia a prendere qualcosa perché guarda qua, ci sono i tedeschi e i fascisti”, io e Bepi, suo marito, mio cognato e gli altri li avevano portati via da casa.

“Vai a casa mia, prendimi qualche cosa perché mi portano in prigione”. Allora mi sono alzata, ma non potevo andare subito perché era ancora il coprifuoco. Ho aspettato un momento con la bicicletta, poi sono andata sempre a Ronchi, anzi ad una piccola frazione, San Vito si chiamava. Lì sono andata, c’era la casa tutta buttata per aria.

Il bambino piccolo di mia sorella solo in casa. Io sono andata dentro, ho preso due o tre cose e poi sono andata sempre in Piazza Oberdan dove erano con il camion. Era dei fascisti e dei tedeschi. Sono andata vicino per portare queste cose, le cose sue. Mi sono fermata un momento.

E’ venuto un vicino, ha detto “basta con le chiacchiere, vai a casa perché se no vai su”. Mi sono girata e ho detto: “Non faccio niente qua”. “Allora basta, vai su anche te”. Non volevo. Ho detto: “No, io non vado su, non ho fatto niente”.

Allora s’è girato dall’altra parte, “Vedi la tua famiglia in fondo sul portone? Sono capace di portarti vicino e uccidere te e anche i tuoi”.

Sentendo quelle parole, ho preso paura, ho detto “E’ meglio che vado su” e così sono andata sul camion. Eravamo in ventinove, con me trenta. Siamo stati fermi un momento. A casa mia tutti sbigottiti, hanno preso la bicicletta che era sul portone, l’hanno portata dentro e sono andati dentro.

Col camion siamo andati a Trieste. A Trieste mi hanno portato in prigione al Coroneo. Là siamo andati dentro in un grande stanzone. Siamo stati tutta la mattina lì ad aspettare. Poi chiedevano cosa, il perché, il motivo… Poi ci hanno fatto salire sopra. Ci hanno portati ognuno in prigione, nelle stanze.

Dentro eravamo in tre, c’era già dentro gente, eravamo in venti là dentro, proprio. Lì sono stata dal 1 giugno fino al 28. Ventotto giorni sono stata in prigione. Poi dalla prigione hanno fatto il convoglio e portata là. Però quando ero in prigione i miei ogni due/tre giorni venivano a portarmi la biancheria pulita e anche qualcosa da mangiare perché in prigione si mangiava quello che si mangiava, insomma. Risi e bisi tutti i giorni.

Sapendo che dovevo partire per la Germania, ho messo un biglietto nell’orlo del vestito. Loro andando a casa hanno trovato questo biglietto. Il giorno che siamo partiti sono venuti tutti in stazione a Ronchi, i familiari, gli amici, i conoscenti, tutti quanti.

Quando siamo arrivati a Ronchi il treno s’è fermato perché c’era la stazione gremita di gente. Hanno fermato il treno e sono venuti tutti giù a salutare i nostri famigliari, ci hanno portato diversa roba da mangiare, hanno portato vestiario, roba.

Lì ci hanno lasciato un quarto d’ora. Poi siamo saliti di nuovo tutti quanti in treno sulla tradotta del bestiame e siamo partiti per la Germania. Però neanche in Germania, in Polonia.

D: Scusa un attimo Albina. Scusa un secondo.

R: Sì.

D: Hai detto che quando ti hanno arrestata a Ronchi dei Legionari tu facevi la trentesima. Eravate in trenta sul camion.

R: Sul camion.

D: Quanti della tua famiglia?

R: Della mia famiglia c’erano mia sorella e mio cognato.

D: E gli altri chi erano?

R: Gente di Ronchi, tutti amici, ci si conosceva, ci si conosceva tutti quanti.

D: Ho capito. Dopo ti hanno caricato alla stazione di Trieste?

R: Sì, quando eravamo in prigione alla mattina presto ci hanno fatto venire fuori tutti quanti dalle celle e ci hanno portato giù in prigione. Giù c’era altra gente delle altre celle, era una fila grande, saremo stati circa duecento persone, sì, perché il treno era grande, era tutto pieno, tutto pieno.

Però il treno era per Auschwitz e per Buchenwald. Mio cognato l’hanno portato a Buchenwald, non a Mauthausen. Il treno era lungo, metà ad Auschwitz, metà a Buchenwald.

D: Ascolta un’altra cosa.

R: Dimmi.

D: Quando eri in prigione a Trieste sei mai stata interrogata?

R: Poco. Quando eravamo appena arrivati nello stanzone, lì mi hanno domandato qualcosa ma poco perché non avevo da dire niente, non ero come i partigiani che li prendevano qua e là e avevano da dire. Non c’era motivo per farlo perché non avevo cose da dire.

D: I vagoni dove ti hanno messo erano carri bestiame?

R: Carri bestiame, sì, altro che, chiusi anche, tutti chiusi. Quello sì.

D: Sul tuo vagone in quanti eravate?

R: Oddio, tanti. Tanti perché stavamo in piedi come sardelle, tanti. Saremo stati trenta, anche più, tanti.

D: Solo donne?

R: Solo donne. Solo donne, sì.

D: C’erano anche delle ragazzine o persone anziane?

R: No, persone anziane sì. Io avevo 22 anni compiuti, loro erano più anziane di me. Mia sorella era del 1902, era più anziana, tanto più anziana, anche altre. Noi eravamo fra le più giovani, 20-22 anni.

D: C’erano delle guardie?

R: Quando ci hanno portato via?

D: No, quando eravate sul vagone, sul Transport.

R: C’erano carabinieri nostri e tedeschi delle SS, sì, anche nella prigione ci hanno portato alla stazione a Trieste, dopo hanno fatto il viaggio con noi fino al campo. Anzi un carabiniere ci ha detto: “Andè via contente perché se in preson ti es chiuse per ciapar aria, ma là vedarè qualcosa che non ve aspetè”. Un carabiniere me l’ha detto. Quello ha detto giusto.

D: Dopo che siete partiti da Ronchi, quanto è durato il viaggio? Te lo ricordi?

R: Da Ronchi col treno? Cinque giorni di viaggio perché c’erano i bombardamenti. Il treno si doveva fermare, mettersi da parte, non andare avanti. Cinque giorni perché siamo arrivati il 3-4 luglio là.

D: Mangiare e bere?

R: Mangiare e bere caro… Allora, mangiare… Noi ringraziando Iddio avevamo ancora qualcosa perché fermando a Ronchi… Davamo da mangiare anche agli altri. Prima di tutto, eravamo in giugno, noi avevamo tanti frutti, tante ciliegie. Mi avevano portato un cestino di ciliegie, tante. Le ho spartite in treno con tutti, anche altra roba. Poi ho tenuto anche qualcosa per me che mi hanno portato via, però ho mangiato quel poco che avevo portato via. Chi aveva portato via dalla prigione, chi aveva portato qualcosa lì in stazione, ma da mangiare, caro, niente.

Quando dovevamo andare a fare i bisogni, quando c’era il treno fermo, pregavamo quelli delle SS, loro scendevano e noi vicine a far pipì, vicino a loro. Basta, poi risalire e andare là.

D: E il treno è arrivato dove?

R: Il treno dentro Auschwitz. Dentro Auschwitz.

D: Cioè Birkenau, Auschwitz 2, Birkenau.

R: No, ho paura perché questo è il fatto, perché io mi ricordo benissimo di aver visto, anzi mia figlia è qua presente che mi aveva domandato le dicevo sempre: “Mi resta in testa quel portone che c’è scritto Arbeit…” Io l’ho visto là. Io non so che giro mi hanno fatto fare perché adesso ho visto com’è Auschwitz 1 e Auschwitz 2, ma prima non lo sapevo. Adesso ho visto qualcosa di più. Là non si sapeva dove ci avevano portato.

D: Quando il treno è arrivato era mattina o sera?

R: Era verso mezzogiorno, no, verso le dieci e mezzo/mezzogiorno siamo arrivati. Appena siamo arrivati abbiamo visto il demonio. Vicino a noi quando ci siamo fermati, hanno fermato un treno di ebrei, carico, stracarico di gente mezza viva, mezza morta.

Noi eravamo da parte. Hanno aperto i vagoni, hanno preso questa gente morta, chi per le braccia, chi per le gambe e li buttavano giù di peso.

Noi appena arrivati, abbiamo detto: dove siamo arrivati? Spaventate e basta. Dopo un’altra cosa. Fino che siamo andate avanti in fila sempre lì abbiamo visto mucchi di scarpe, mucchi di capelli, orologi, carte d’identità. “Signore Iddio, cosa c’è qui?” Eravamo vicino al crematorio perché ci hanno portato dentro proprio negli stanzoni del crematorio. Noi non lo sapevamo.

Siamo entrate in questo stanzone grande. Era pieno come di spine, queste cose fuori come quando si fa la doccia. Madonna, cos’è. Noi siamo entrate là. Ci hanno fatto fare, per modo di dire, una doccia. Prima l’acqua bollente. Dopo acqua fredda. Con quella ci siamo lavate. Nude, ci hanno messe da parte là. Ci hanno tagliato i capelli, ci hanno rasate, ci hanno portato via tutto.

Quando ci siamo guardate tutte quante non sapevamo se piangere o se ridere, non ci si riconosceva più, senza capelli, spaventate. Robe da non credere.

D: Albina, c’erano delle donne incinte con te?

R: No. Questo no. No. Delle donne più anziane sì, erano due, anzi, poverette, neanche tornate, ma incinte no. Neanche tanto giovani, erano come noi sui vent’anni, ventidue. Altrimenti un po’ più vecchie.

D: Poi che cosa vi hanno fatto dopo la doccia, cosa vi hanno fatto?

R: Ci hanno attaccato il numero sul braccio. Tutti in fila, ci hanno fatto il numero.

D: E il tuo numero te lo ricordi?

R: Me lo ricordo sì, me lo ricorderò: 82139, lo ricorderò per tutta la vita anche se non l’ho sul braccio.

D: E come hanno fatto a farti il numero?

R: Il numero non era una cosa tanto difficile. Era come una penna, come quando si fanno le punture, una robetta così, avevano una pratica tagliente, mi tagliano il braccio a puntini. Un attimo, non faceva male, erano come beccatine, robette così da niente.

D: Eravate in piedi o sedute?

R: Quando ci facevano il numero sedute perché si doveva appoggiare il braccio. Loro erano seduti vicino e facevano questo numero.

D: Dopo ti hanno dato dei vestiti?

R: Mi hanno dato dei vestiti, sì, mi hanno buttato dei vestiti. Mi ricordo sempre, mi hanno dato, erano tanto pieni di pidocchi, poveretta, una maglia verde che avrò tenuto su per tre mesi, una cottola, non so di che colore era, se era a campana o a pieghe, non so. Perché come ti disinfettavano loro, mettevano dentro, poi buttavano là la roba. Non era sporca, era disinfettata, era “sgrisinida” in dialetto.

D: Tutti qui i tuoi vestiti?

R: Oddio, i miei vestiti erano anche un paio di mutande legate in vita lunghe fino al ginocchio che si tenevano su a fatica. I vestiti erano tutti quelli, non erano altro. Un paio di scarpe, una scarpa numero 36 e una scarpa numero 38. Avevo un calzino corto e un calzettone. Immaginate voi.

Poi ho m’è toccato anche andare in ospedale per causa di queste scarpe, mi hanno fatto male, mi è toccato andare in ospedale perché mi si erano gonfiati i piedi, camminando, camminando con le scarpe mal messe, una stretta e una larga, andando fuori a lavorare mi avevano fatto male.

Una mattina male, male, avevo quaranta di febbre, mi hanno portato in infermeria, mi hanno portato in ospedale, mi hanno operato. Sì, mi ha operato una dottoressa russa prima la gamba. Ho fatto due giorni che mi hanno operato alla gamba, dopo due giorni mi è venuto fuori qua sotto il braccio un affare grosso così. Mi hanno operato anche sotto il braccio. Insomma, ho fatto quasi dieci giorni di ospedale sempre a Auschwitz nelle baracche.

D: Dopo però la spogliazione ecc. l‘immatricolazione, ti hanno portato in baracca.

R: Mi hanno portato in baracca, sì. La baracca sarebbe una baracca per stare un periodo perché eravamo come in quarantena perché avevano paura che da fuori portavamo le malattie. Ci mettevano in quarantena.

Però la quarantena non l’abbiamo fatta perché c’era tanta di quella gente. Avremo fatto quindici-venti giorni, dopo da là ci hanno tirato fuori, ci hanno messi nel blocco n. 13 che l’ho cercato adesso, ma non l’ho più trovato.

D: Quando sei stata lì ad Auschwitz, quando eri lì ad Auschwitz hai lavorato tu?

R: Sì, si, ho lavorato. Mi portavano fuori. I primi momenti mi hanno portato fuori senza lavorare. Mi portavano fuori la mattina, mi facevano camminare e andar per i campi. Ci davano una pala ciascuno, un badile, girare la terra del campo i primi momenti.

Poi è arrivato il momento che mi hanno cambiato di blocco, mi hanno messo in un altro blocco e lì eravamo già pronte per andare a lavorare.

Loro fuori da Auschwitz avevano delle grandissime fattorie, avevano dei trattori, avevano dei cavalli, avevano tutto, facevano questo grande raccolto per il campo stesso.

Noi ci portavano fuori. Come tagliavano il frumento, noi dovevamo prendere i covoni, legarli, metterli da parte perché come si girava, dovevamo fare alla svelta, portali qua. Per un periodo finché c’era il frumento.

Dopo invece c’era non l’orzo, una cosa come i fagioli, ma non erano fagioli, era un’altra roba. Allora prima passavano sulla macchina, aveva su questa roba, i fagioli, li mettevano lì. Dopo noi col vasetto che avevamo buttato qua, quello da mangiare, si doveva in fila così, trenta, quaranta donne tutte quante in fila abbassate a tirar su i grani per terra. Riempire i vasetti e buttarli nei sacchi.

La sera c’erano centinaia di sacchi pieni di roba, di tutta la roba cascata per terra. Tutto il giorno con la schiena abbassata per tirar su questa roba e metterla nei sacchi. Si facevano quei lavori ad Auschwitz.

Quando si usciva, c’era la banda, tutte le belle signorine di fianco al portone, c’era il Presidente, mi ricordo quando si suonava che si passava. Bisogna che non ci pensi perché se no… Mi vien su…

D: Ascolta, altri lavori ne avete fatti?

R: Lì ad Auschwitz no perché dopo Auschwitz io sono stata a mi ricordo benissimo perché era il mio compleanno, stavo tanto male. Mi hanno portato via. Quando siamo stati a … al 30, perché sono arrivata a Ravensbrück il giorno 30. Il giorno 29 ad Auschwitz mi hanno detto che non si va a lavorare, si va fuori, bisogna tenersi tutti quanti lì fermi perché da un momento all’altro verrà un trasporto, cambiamo campo perché i giovani bisogna che vengano portati via, devono andare a lavorare in altri posti, perché si sentivano già i bombardamenti, la guerra.

Allora la mattina mi hanno portato in questo grande stanzone a fare i bagni, a cambiarsi di roba perché dovevamo fare questo trasporto.

Allora così è stato, bagno, per modo di dire, come erano abituati loro, un po’ di acqua calda, un po’ di acqua fredda, nude, ore lì senza asciugarsi, senza niente, come si è.

Allora finiamo di lavarci, ognuno passa in fila e le butta la roba. Chi un paio di mutande, chi un vestito, chi una calza. Passo io, mi buttano la mia roba. Però al momento delle scarpe, le scarpe, io sono l’ultima, no.

Vado là, vado vicino alle… Le chiamavano perché non erano neanche tedeschi questi delle SS, erano prigionieri come noi, però erano tedesche e polacche ed erano anche lì da tanto tempo prima di noi e allora erano i nostri comandanti.

Erano la Stubowa, la Blokowa, tutti quei nomi che davamo. Vedendo che ero così malcontenta, ma come, tutti hanno le scarpe e io no? Sono andata là, il mio parlare, un po’ che mi arrangiavo, non si capiva tanto, ma ho fatto in modo di far capire che io le scarpe non le avevo. Aspetta che vado a guardare un momentino se è avanzato qualcosa là. Va a guardare, “Nein”, niente. Io non vado via scalza.

Sì, ja che vado via. Come faccio? Per terra tutto pieno di pietrisco che appena si metteva i piedi per terra erano bucati. Mi siedo da parte, dico “Maria Vergine, come faccio da sola?” Mia sorella non era con me, non eravamo in campo assieme. Bisogna tener conto che io avevo 22 anni, lei ne aveva tanti di più e allora era in un altro posto.

Non l’avevano messa in quarantena, l’avevano subito mandata a lavorare sull’altro campo, faceva tappeti, con quelle più anziane. Ho detto, “Madonna, qua sola, senza scarpe, senza niente, come faccio?” Cominciava a fare freddo, erano gli ultimi di ottobre là in Polonia, fuori, l’aria era fredda. “Cosa devo fare, Maria Vergine?” Mi metto lì, batto la testa, mi tiro in parte. Madonna, un paio di scarpe. Bisogna stare attenta. Torno a guardare, un paio di scarpe. Mi abbasso pian piano, un paio di scarpe. Guada se c’è qualcuno, non c’è nessuno. Avevo paura che qualcuno veniva. Nessuno viene. Guardo le scarpe, 39, nuove, me le sono messa su, le più belle scarpe mai avute. L’ho raccontato nel campo adesso agli studenti e alle professoresse.

Prima di andar via mi hanno detto: “Signora ci racconti quella delle scarpe”, eravamo ad Auschwitz. Quando racconto, mi vengono i brividi perché è come se fosse stato un… Meraviglia. Non ne potevo più, sola, senza scarpe e invece le scarpe.

Prendo le scarpe, le metto su, ringrazio Iddio, il Signore benedetto, ringrazio, avevo le più belle di tutte. Dopo un po’ che eravamo in fila siamo partite. Ho avuto la grazia.

D: Era quando? Quando sei partita?

R: Son partita… Sono arrivata là il 30 ottobre, sono partita un giorno prima perché in un giorno siamo arrivate. Siamo partite la sera, abbiamo fatto tutta la notte, a mezzogiorno eravamo già a . Questa tenda nera Ravensbrück che ha detto la signora Rosina, Maria Vergine, la tenda della morte. Quando siamo arrivate ci hanno messo sotto là. Là c’era un tocco di pane, ma io stavo tanto male che ho preso il pane, l’ho messo sotto qua, il pane, un pezzettino di burro.

Al mattino avevo fame, ma il pane non c’era più, me l’avevano portato via.

D: Eravate in tante da Auschwitz ad andare a Ravensbrück?

R: Sì, eravamo in tante. Avevano scelto tutte le giovani, tutte meno di trent’anni, tutte sui venti, venticinque, tutte giovani. Sì.

D: Quanto tempo sei rimasta nella tenda nera di Ravensbrück?

R: Non tanto, era soltanto come per un riposo e poi continuare il viaggio. Mi hanno portato lì quando siamo arrivate verso mezzogiorno, metà giornata, mi hanno dato qualcosa, ero stanca, ho dormito. La mattina dopo siamo ripartite di nuovo.

D: Per dove?

R: Ravensbrück

D: E a Ravensbrück sei arrivata?

R: A Ravensbrück siamo arrivate… Là abbiamo trovato subito altro. Come mangiare e dormire era sempre uguale, perché… Invece tutt’altro perché appena arrivate ci hanno fatto fare la doccia, una roba più decente, non ci hanno scottato. Dopo ci hanno dato un paio di braghe, un giubbetto, un paio di mutande, lunghe anche quelle, ma non importa, stavano su per miracolo, mi cascavano sempre e le rimettevo su.

Insomma là non era un campo di quelli tremendi, era un campo più piccolo, tutte lavoravamo in fabbrica, c’erano tante polacche, tante tedesche. Italiane non eravamo in tante. Quelle slovene, anche slovene italiane perché erano di Pola, Fiume, quelle parti che erano ancora italiane.

D: Ti hanno cambiato numero?

R: Cambiato numero del braccio no, perché quello mi è restato, però numero qua sul petto sì. Allora qua avevo un altro numero, perché avevamo anche il numero. Eravamo in meno e il numero era tanto più basso.

D: Te lo ricordi il numero di Ravensbrück?

R: Guarda, non vorrei dirti una bugia, so che era col 4 davanti, sono sicurissima, ma adesso proprio tutto il numero, non voglio dire una bugia.

D: E il blocco te lo ricordi, in che blocco ti hanno messo?

R: Non erano numerati. No. Non c’erano tante baracche. Appena si entrava, c’era una baracca di SS donne. Tutte donne erano là, non uomini. L’appello, tutta la roba. Quello era interessante, l’appello. La mattina ci si doveva alzare presto, e il conteggio durava un’ora la mattina, era come punizione del campo, e un’ora la sera quando tornavi dal lavoro. In fila dritti sempre sull’attenti, guai se ci si muoveva, un’ora. Pioggia, neve, freddo, caldo, non importa. Chi stava male cascava, chi doveva fare i suoi bisogni andava sulla carriola e li cacciavano dentro in una carriola, dovevano aspettare che finisse l’appello e poi andavano a tirarli su.

Ci vorrebbe più di un’ora per raccontare tutto, è un piccolo riassunto. Una robetta così, perché raccontare tutto è troppo lunga.

D: Lì a Ravensbrück, dove andavate a lavorare?

R: Nelle fabbriche.

D: Fuori dal campo?

R: Fuori, sì, si doveva camminare dieci minuti e più. C’erano delle fabbriche grandi di aeroplani. Per una settimana ci hanno portati dentro, ci davano dei piccoli pezzi di alluminio, chiamiamoli di alluminio, e delle robette sue, da fare come chi era più bravo, chi sa far qualcosa per dopo dare i posti, come pareva loro di darmi il punteggio di chi era più… chi non era mai stata in fabbrica. Insomma, abbiamo fatto lì per un po’ di tempo.

Dopo ci hanno mandato nelle fabbriche a lavorare. Ci facevano l’appello, dopo c’era questa strada dove andare e si andava nelle fabbriche. Ognuno aveva il suo lavoro. Io lavoravo come in grandi vasche, tanta schiuma dentro, si lavavano dei pezzi, a volte mi davano, a volte niente, si dovevano lavare questi tocchi, però neanche là sono stata tanto perché sono cominciati i bombardamenti. Non siamo stati tanti nelle fabbriche.

D: Ascolta, nelle fabbriche c’erano anche degli uomini?

R: No. Tutte donne, erano proprio anche tedesche che lavoravano. Due uomini c’erano, ma non prigionieri, erano gente tedesca, due giovani che io guardavo sempre perché mangiavano delle mele piccole, mi facevano venire l’acquolina in bocca. Forse erano istruttori, guardavano quello che facevamo. Si stava abbastanza bene, c’era caldo in fabbrica. Si era riparate dal freddo, dalla pioggia. Peccato che è durato poco perché ci sono stati dei bombardamenti a Berlino. Non era tanto lontano da Berlino.

D: E dopo dove ti hanno portata?

R: Basta. In tre campi: Auschwitz, Ravensbrück, Wittenberg l’ultimo, l’ultimo è Wittenberg dove c’erano le fabbriche, tre ne ho passato. A Wittenberg c’è stata la fine che non mi è toccata tanto bella, ma mi pare che c’è ancora da dire qualcosa prima della fine.

D: Dai, dì ancora qualcosa.

R: Posso dire questo. In fabbrica sarò stata qualche mese, un mese e mezzo, dopo sono cominciati i bombardamenti, dei fumi che non si vedeva bene in cielo, tutto per coprire queste grandi fabbriche dov’erano.

Lì ci portavano nei rifugi. Dopo devono aver bombardato anche le fabbriche e non abbiamo lavorato più nelle fabbriche. Dopo ci hanno portato sempre in questo campo, ci facevano andare a lavorare per i camminamenti per i tedeschi, sottovia a coprire queste strade, a tagliare con la pala i tocchi d’erba, poggiarli sopra con le mani, prenderle così, portarle, per fare questa strada e loro passavano sotto i tedeschi. Erano gli ultimi momenti, perché era lì la guerra. Abbiamo fatto quello fino agli ultimi.

Si sentiva, guardate che sembra che finisce, che la guerra sia finita. Dopo una mattina abbiamo sentito correre, bim, bum, abbiamo guardato. Avevano tagliato con le forbici grandi, quelle che tagliano il ferro, avevano tagliato tutta la rete, hanno tirato via la corrente, hanno tagliato la rete. Allora tutti quanti con queste coperte sono scappati.

Ma noi eravamo in sei italiane siamo andate via da lì alla mattina con queste coperte sulle spalle, c’era la guerra, questi militari, questi carri armati, questa roba. Non sapevamo come fare, gira e volta. Poi alla sera abbiamo detto, torniamo al campo che è meglio perché dove andiamo a dormire? Dormire nei fossi non si poteva perché c’era la guerra.

Allora siamo tornate al campo. Ma al campo non abbiamo trovato più come prima. Quelle delle SS vicino alla nostra baracca avevano una cameretta, avevano i vestiti, le fotografie, le loro robe. Intanto che noi eravamo via avevano rotto tutto. Quando siamo entrate, hanno cominciato a picchiarci, non sapevamo neanche per cosa, perchè avevamo rotto tutto, tutti i loro ricordi, i loro vestiti, la loro roba. Cosa avevamo fatto? Noi non sapevamo niente.

Per fortuna che ce n’era una che sapeva parlare un po’ l’italiano. Ha detto, “Lasciatele in pace, io ho un figlio a Trieste e non vorrei che mi uccidessero mio figlio. Lasciatele andar via e non fate loro niente”.

Andar via e a dormire? Dobbiamo stare lì lo stesso. Allora siamo state lì. Una di Venezia mi ha detto: “Albina, vieni con me che io so dove nascondono le patate, così stasera possiamo mangiare”. Erano due giorni che non si mangiava.

“Guarda Maria, mi dispiace tanto, ma io non mi sento di venire”. “Perché devi dire di no?” “Io vi faccio la minestra, vi faccio quello che volete, ma a prendere le patate non vengo”. Con quattro parole brutte, “Guarda, va da sola”. E’ andata da sola. Noi stando alla finestra l’abbiamo guardata. Quando è stata sulla meson delle patate, i tedeschi l’hanno ammazzata. Mi aveva tanto pregata di andare. Io avevo detto, “Mi dispiace, fammi fare la minestra, fammi fare quello che vuoi, ma io con le patate non mi sentivo”. Se mi fossi sentita, avrei fatto la sua fine. L’è toccata bella.

Dopo siamo tornate indietro. Visto che l’avevano ammazzata, spaventate, non avevamo neanche da dormire, siamo scappate via prima che ammazzassero anche noi. Abbiamo preso paura anche dopo.

Poi il viaggio con i russi. Siamo andate via, camminando, camminando un giorno, due giorni, una s’è ammalata, un’altra è morta e io sono rimasta sola.

Per fortuna che passando per la strada, passavano un po’ ragazzi con lo stemma dell’Italia. Allora io ho detto che mi era successo così, che ero rimasta sola. Loro erano di Bologna. C’erano anche degli sloveni che passavano, si sono trovati insieme, hanno fatto un gruppetto. Aspetta un momentino. Mi sovviene. Avevo in mente di dire qualcosa ma mi è sfuggito.

D: Aspetta Albina, ti faccio io due domande, ascolta.

R: Sì.

D: Quando eri ad Auschwitz oppure a Ravensbrück tu hai subito delle punizioni, delle violenze?

R: No.

D: Hai visto delle violenze, delle punizioni?

R: Sì. Le ho viste proprio, agli ebrei, ne ho viste diverse. Ne ho vista una. Mentre si lavorava nei campi, come ti dicevo che raccoglievamo i fagioli, quella roba, c’era un ebreo che aveva il lavoro suo con i cavalli. Però nei taschini doveva aver avuto qualcosa, io ho visto che ha tirato fuori perché era di fianco a me lì, però il tedesco furbo delle SS l’ha visto, è venuto vicino, gli ha chiesto cosa ha tirato fuori, una bottiglietta.

Ha tirato fuori la frusta dei cavalli, gliel’ha data sul viso, gli ha tagliato mezzo viso. Io ero lì vicino. Dopo un’altra roba. La mattina quando andavamo noi c’erano dei letamai grandi, avevano tante bestie, era pieno di bestie per il latte, per il lavoro, c’erano dei letamai grandi, era la stagione calda e questi letamai grandi asciugavano.

Prendevano gli ebrei, tutti ragazzi, li mettevano dentro nei letamai tutti quanti. Uno andava a prendere l’acqua, l’altro gli dava il secchio e quello doveva svuotare il secchio dell’acqua e dopo gli mollavano anche l’acqua. Quando era sera, erano fin qua dentro nel letame, fino qua.

Quando sono tornata dall’ospedale è toccata bella anche a me. Allora mi hanno detto “Va”, io sono partita, sono andata via, però c’era il coprifuoco; siccome c’era il crematorio in funzione, doveva esserci coprifuoco, nessuno doveva camminare. Mi hanno mandato fuori. Vedo una tedesca che viene verso di me. Aveva una gomma di quelle del vino. Mi tocca bella. Parla, io non capisco niente di tedesco. Parla, grida. Ero appena uscita dall’ospedale, non potevo neanche camminare perché avevo avuto tanti giorni la febbre, mi avevano operato perché stavo male. Mi ha fatto capire che non si doveva passare. Ma se io ero in ospedale, ma non capiva. Doveva essere polacca, non capiva.

Insomma me le ha date. Via svelta. Arrivo in campo, non trovo più il mio letto, non trovo le coperte, era verso sera, non trovo niente. Il mangiare l’avevano già dato, salta anche il mangiare. Maria Vergine che roba.

La Blokova mi dice: “Stasera devi dormire lì”. “No”, ho detto io. I letti erano a tre corsie, tre castelli, sotto c’è come un cemento, come un buco. Dovevo andar in quel buco là a dormire. Io ho detto di no che non vado. “Sì” dice. “No” dico, non sono andata perché avevo paura degli scorpioni. “Io non vado”, ho detto. A vedermi dura, lì in piedi, mi ha fatto capire, c’era un letto su senza coperte, “Va su che io non ti vedo”. Ma in quel buco non vado, no, caro.

D: Albina, eravate tutte donne?

R: Sì, tutte donne. Vedevamo gli uomini perché erano di fronte a noi con la rete, li vedevamo. Ma noi eravamo tutte donne.

D: Hai visto anche dei bambini per caso?

R: Dei bambini, sì. Ho visto dei bambini. Perché nella baracca 13 dov’ero in quei quindici giorni, là c’era una baracca piena di bambini. A dir la verità io non posso dire tanto male. Oddio, piangevano, le mamme andavano vicino, erano cose che non andavano bene. Ma che facevano robe brutte io non posso dire perché io dico quello che ho visto. Le altre robe più grosse non le dico, non le ho mai dette, non le dirò mai.

D: Albina, le mestruazioni?

R: Quelle caro, appena ero in prigione. O che mi hanno messo qualcosa nel mangiare, o delle grandi paure. Perché i giorni che mi dovevano venire le mestruazioni, basta, in prigione non mi sono venute più. In prigione avevamo paura del fatto perché ogni tedesco che ammazzavano, venivano nelle celle a tirarne fuori dieci.

Allora la notte dicevamo chissà a quale cella tocca. Quella era la nostra paura. La paura era quella.

D: Ascolta, pensavi a qualcosa dentro nel campo? Pensavi a casa, pensavi a tua sorella?

R: Pensavo al mangiare. Pensavo al mangiare, ma non al mangiare buono, alle cose buone. Pensavo quando facevo il latte, il burro a casa con il fiasco in tempo di guerra. Pensavo: Quel latte lungo se l’avessi qua”. Non mi interessavano i pollastri, le galline. M’interessava quello e basta perché avevo tanta fame.

D: Ti ricordi adesso quando hai incontrato quegli Italiani alla Liberazione? Alla liberazione della fabbrica che sei rimasta da sola e hai trovato quegli italiani. Cos’erano? Militari?

R: Militari, bravo. Militari. Allora sono andata con loro per un periodo. Venivo sempre verso casa. Treni non c’erano, non c’era niente, c’era ancora la guerra, era un disastro finché non siamo arrivati un po’ più in giù.

Lì sono restata con questi qua. Una sera freddo e pioveva, c’era una brutta giornata. Questi ragazzi, andare avanti non si può andare. Abbiamo visto una casa, i tedeschi ci mettono del fieno, là sola, era mezza diroccata. Ci fermiamo là almeno stiamo là e non prendiamo la pioggia.

Così abbiamo fatto. Siamo andati là. Sola con questi sei ragazzi. “Tu Albina ti metti nell’angolo e noi dormiamo qua. Non aver paura, se viene qualcuno ci siamo noi”. Dopo tre ore che eravamo lì sento come quelle pile che c’erano. “Maria Vergine”, ho detto ai ragazzi, “viene qualcuno”. “Tu Albina stai buona, se viene qualcuno ci siamo noi”.

Entrano russi ubriachi. Entrano, prendono queste coperte. Prende la coperta, tira, c’ero io sotto. “Ah”, dice l’altro, viene vicino a me, mi ha tirato su. Gli ho mollato un sburton. In questa casetta mezza diroccata c’era una finestra bassa. Ho fatto un salto, non so come, ho fatto un salto fuori. Pioveva, era scuro, sola. In fondo vedevo come una luce. Corro fin là. Corri, corri, corri, arrivo là. C’era una stazione, una stazioncina piccola con un treno fermo e un po’ di gente che aspettava il treno, tedeschi, polacchi.

C’era il treno fermo e la stazione qua. Come faccio ad andare di là? Mi sono abbassata sotto il treno. Per sotto e sono passata. Sono arrivata là. La gente mi guardava e parlava tra loro. Da dove arriva questa?

Mi giro, vedo uno che mi segue, era un italiano di quelli che erano col gruppo, quello di Bologna. “Albina, sono venuto dietro, dove vai? Sola?” “Mario, erano ubriachi”. Non so cosa dire. Mentre eravamo lì a parlare, arriva la ronda dei russi, viene vicino. Mario, poveretto, è venuto a casa mia finito tutto, da ragazzo è venuto a casa mia con la famiglia, eravamo come fratelli. Aveva la giacca da tedesco. I russi non sapevano se era tedesco, se era prigioniero, chi era.

Anche loro saranno stati mezzi ubriachi. Domanda, “No. Nein Deutsch. Niente”. Questo che mi correva dietro, tutto bagnato, credevano fosse tedesco. Mi commuovo un po’ e perdo il filo. Dopo siamo tornati. Andiamo ancora dove sono i ragazzi. Siamo andati via. Dopo per fortuna abbiamo avuto una gioia.

Dicono questi ragazzi: “Senti, stiamo due giorni assieme e andiamo un pezzo avanti insieme”. Io sola donna, questo ragazzo che non faceva parte di loro e questi ragazzi qua. Camminiamo. Là c’era un paese tutto deserto perché la gente era tutta scappata, c’era la guerra.

Dicono questi ragazzi, mi è venuta un’impressione. “Dai, dai, senza mangiare ti gira”. Proprio perché sono senza mangiare penso a qualcosa. “Da quanti giorni non mangiamo?” “Ma, non so”. Io ho visto che vicino a quella casa c’è della terra mossa. Sì. C’è nascosto qualcosa.

Andiamo a cercare se c’è qualcosa. Sono andati sul dietro, hanno trovato la pala. Trovano questo pezzo di roba che avevano ben coperto, viene fuori il ben di Dio. Tutti questi vasetti preparati. C’erano galline, oche, non so quanti vasetti. Da un sacchetto da parte coperto c’era farina di polenta.

Allora tutti contenti. Madonna della misericordia. Prendiamo, svelti, a me e a Mario ci hanno messi da parte. “Adesso noi prendiamo tutto e poi anche voi due”. Sono entrati, hanno trovato pignatte per fare la polenta. “Io”, dico, “vado in camera a vedere se trovo qualcosa”. Ho trovato un catino con la brocca per lavarsi. Così abbiamo fatto la polenta, abbiamo mangiato e ne hanno dato un po’ anche a me e Mario.

D: Albina, quando sei rientrata in Italia?

R: Sono rientrata in Italia il 27 agosto, il giorno che è nata lei, mia figlia. Non posso significare perché è nata il giorno stesso, la prima figlia, il 27 agosto. Di sera.