Paganini Bianca

Bianca Paganini

Nata a La Spezia l’1.02.1922

Intervista del 08.06.2000 a La Spezia realizzata da
Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n. 10 – durata 62’+40′

Arresto: 3 luglio 1944 a La Spezia

Carcerazione: La Spezia; Genova

Deportazione: Bolzano; Ravensbrück

Liberazione: maggio 1945 durante la marcia della morte

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Nota sulla trascrizione della testimonianza: L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Bianca Paganini, sono nata a La Spezia il 1. febbraio del 1922. Appartengo ad una famiglia molto religiosa, perciò babbo e mamma avevano aderito al movimento del Partito Popolare prima dell’ascesa al potere di Mussolini.

Erano persone molto generose, però nello stesso tempo erano persone che amavano tanto la loro libertà; eravamo cinque fratelli, tre maschi e due femmine, ed eravamo vissuti in una famiglia veramente felice. Babbo e mamma assecondavano, quando era possibile, i nostri desideri anche però con una certa quale rigidità. Ci avevano insegnato poco per volta che si poteva vivere felici anche senza la dittatura fascista. A casa mia infatti non vedemmo mai una divisa fascista, né i miei fratelli ebbero mai le divise da balilla o da figli della lupa, né io e mia sorella potemmo mai avere una vera divisa da giovani italiane. Papà aveva posto il veto a mia madre: “Se devono andare vestite in divisa, che si accontentino di quello che la casa può offrire”. Eravamo studenti nelle scuole spezzine, io frequentavo il liceo, mia sorella frequentava l’istituto tecnico, i miei fratelli mio padre aveva preferito metterli in collegi salesiani, affinché non assorbissero la teoria fascista.

A scuola assorbivamo però tutta la teoria fascista; a scuola dovevamo andare in divisa, determinati giorni dovevamo frequentare le adunate, e con un certo distacco la famiglia ci permetteva di farlo. Mio padre morì nel 1938 e noi restammo soli con la mamma, che però seguì in tutto e per tutto il modo di educarci di papà.

Scoppiò la guerra e noi dal centro della città, a causa dei continui bombardamenti ed a causa anche della salute malferma di mamma, dovemmo trasferirci in una piccola casetta ai margini della città, a San Benedetto, che si trova al di là della foce, dove avevamo già preparato una casa per i momenti del pericolo.

Là ci colse l’8 settembre (1943). Mio fratello più grande era ufficiale degli alpini e si trovava sul confine precisamente nella zona fra Vipiteno e Fortezza. L’8 settembre abbandonò il suo posto e si diresse verso casa. Ci raggiunse ai primi di ottobre, e immediatamente cominciò insieme ad altri ad organizzare i primi raduni dei partigiani. Mamma non si oppose a questo intendimento dei suoi figlioli, anzi li appoggiò, anche se evidentemente l’aiuto che essa poteva dare era veramente poco. Poteva soltanto accettarli in casa quando venivano dalla montagna, e soprattutto ospitare gli amici che poco per volta trovavano nella nostra casa l’appoggio per poi salire la montagna.

Ben presto a mio fratello Alberto si associò anche il secondo, Alfredo, che faceva il quinto anno di medicina e che in montagna cominciò ad organizzare un piccolo ospedale, viste le sue cognizioni di medicina, per poter accogliere partigiani feriti durante i rastrellamenti. Noi restammo in casa, io, mia madre, mia sorella ed il fratello più piccolo che aveva soltanto 16 anni.

Quando cominciarono le prime avvisaglie, mamma cercò di avvisare i miei fratelli che si trovavano in montagna di essere leggermente più prudenti, perché non si poteva mettere in pericolo non solo la nostra sicurezza ma anche quella degli altri che avrebbero raggiunto la nostra casa.

La mattina del primo di luglio (1944) mio fratello Alfredo scese in città insieme alla moglie di Vero del Carpio che era allora il capo della formazione partigiana. Alfredo era venuto in città per prendere delle medicine in una delle farmacie spezzine che avevano accettato di dare aiuti farmaceutici alla zona partigiana. Nello stesso tempo molto probabilmente avevano anche intenzione di prendere una piccola radiotrasmittente che sarebbe servita per le formazioni in montagna. Quando arrivarono in città, e precisamente in piazza Garibaldi, vennero accerchiati da ufficiali della SS e da fascisti, arrestati e portati nelle carceri di Villa Andreini. Noi sapemmo subito quello che stava succedendo: mamma cominciò con grande spirito e grande coraggio a cercare in casa tutto quello che vi poteva essere di pericoloso, ma in casa c’era poco o niente. E allontanò il più piccolo affinché potesse essere sottratto a qualsiasi rivendicazione da parte dei fascisti. Poi cercò di avvisare il maggior numero possibile di persone di non avvicinarsi alla casa perché era estremamente pericoloso. Noi attendemmo, sicure che nulla sarebbe successo ad una donna di 63 anni e a due ragazze, di cui una aveva 21 anni l’altra ne aveva soltanto 18.

Aspettammo. Durante tutta la notte e durante tutto il giorno le notizie arrivavano ma erano incomplete, non si sapeva nulla di quello che stava succedendo in città. Poco per volta però venimmo a sapere che altri erano stati arrestati, fino a che giunse la sera. Ci coricammo e circa verso mezzanotte cominciammo a sentire arrivare sotto la nostra casa parecchie persone. Ci affacciammo, cominciammo a vedere la casa circondata da soldati fascisti che con il moschetto cercavano di impedire, semmai ce ne fosse stata necessità, a chiunque di entrare e di uscire. Bussarono alla porta: mamma con molto coraggio andò alla porta, dicendo a noi ragazze di restare a letto perché così avremmo dato ad intendere con maggior sicurezza di non sapere nulla.

Si affacciarono alla porta Gallo ed altri due fascisti; dietro di loro c’erano due ufficiali della SS e 4 / 5 soldati tedeschi della SS. Entrarono in malo modo, ci fecero alzare, e per cinque ore rovistarono in casa, che era ben misera, perché era un rifugio dai bombardamenti; tutte le cose erano state messe in salvo in altre case dove c’era maggior sicurezza. Frugarono, non trovarono nulla all’infuori di libri; uno, lo ricordo come se fosse adesso, era intitolato “Disobbedisco”, ed era stato dedicato a mio padre dallo stesso autore. La cosa suscitò profondo interesse e profondo sdegno da parte dei fascisti, così come suscitarono sdegno le figure della Divina Commedia del Dorè che erano proprio nella nostra biblioteca. Vuoi che durante la perquisizione venne trovata dai fascisti la lettera con cui un amico svizzero in cui ringraziava mio padre (e notate che mio padre era morto nel 1938) per dello Sciacchetrà che gli aveva inviato affinché potesse brindare con il vino spezzino al suo matrimonio? Era una lettera molto cara, molto gentile da parte di questo amico. Non so per quale motivo la lettera venne presa, messa agli atti come se fosse una lettera capace di suscitare segnali di spionaggio da parte di persone svizzere. Alle cinque del mattino ci fecero vestire, prendere i gioielli che mamma teneva in casa e ci portarono in città.

In città immediatamente ci schedarono nelle carceri di Villa Andreini. I gioielli che erano in mano di mamma vennero consegnati per fortuna direttamente al direttore delle carceri. Questo non successe con la mamma di un altro detenuto, l’avvocato Vironi, la quale ingenuamente aveva affidato i gioielli agli ufficiali fascisti. Quando giunse in carcere questa signora invitò il fascista a dare i gioielli al direttore delle carceri, ma il fascista negò di averli mai avuti. Tanto per descrivere il clima che vigeva allora tra i fascisti spezzini.

Fummo messe in carcere in isolamento, tre celle per tre persone. In carcere trovammo altre due persone che poi divennero per noi molto care, la signora Stanzione con la figlia – mamma e figlia erano state arrestate insieme al figlio – e Italo Geloni; anche loro erano stati arrestati da fascisti e tedeschi. Trovammo anche Dora Carpanese, arrestata con mio fratello, e pochi giorni dopo ci raggiunse un’altra donna, mamma di un partigiano amico dei miei fratelli, arrestata poiché non avevano trovato il figlio, insieme al marito. Il marito morì poi a Dachau. Lei tornò a casa soltanto alla fine della guerra, dopo essere stata per tutto il tempo deportata nel campo di Bolzano.

Arrivati nelle carceri, il giorno dopo cominciarono l’interrogatorio; noi non subimmo interrogatori da parte dei fascisti, cosa che invece subì mio fratello. Immediatamente fummo messe sotto il controllo della SS e ci cominciò ad interrogare un ufficiale della SS con l’interprete spezzino, che però conosceva molto bene il tedesco, lingua che parlava quasi fosse la sua seconda lingua madre.

Il colonnello non alzò mai la mano né contro la sorella e me né contro mia madre. E’ vero che la pistola era sempre nelle sue mani, è vero che le parole talvolta erano accompagnate da movimenti piuttosto bruschi, è vero anche che la voce molto spesso si alzava durante l’interrogatorio, però non venne mai meno a quelli che erano perlomeno i princìpi di una sensibilità che qualsiasi uomo ha verso le donne, soprattutto verso una persona anziana. Mia madre però era continuamente interrogata perché da lei si voleva sapere chi erano, cosa facevano quei banditi, quei disgraziati, quei delinquenti dei suoi figlioli, chi erano gli amici, quali amici frequentavano la nostra casa. Malgrado mia madre si ostinasse a dire che lei non sapeva nulla, che aveva dei figli di cui però non sapeva neanche dove fossero, gli interrogatori erano sempre sempre più pressanti e sempre più pesanti, e a questi interrogatori poi anche io e mia sorella, anche se molto meno, venimmo sottoposte. Fino al 20 di luglio, quando successe l’attentato a Hitler. Mia madre, che era una persona molto calma, molto equilibrata, con un cipiglio che io mai avevo conosciuto, obbligò suor Teresina, che era allora la madre superiore che teneva in mano le carceri femminili, a chiedere un’udienza immediata al comandante tedesco.

Il comandante tedesco dapprima tergiversò, e mia madre lo obbligò in un certo qual senso a sentirla, e quando gli fu davanti disse: “Io vorrei sapere come tu chiami la tua gente, quella che ha attentato al tuo capo? io ti do del tu perché tu dai del tu a me, ma io ti do del tu anche perché ad un certo momento tu appartieni ad un popolo in cui ci sono anche delle persone che, come i miei figli, amano la libertà, e non osare più chiedermi nulla perché tanto non so nulla ma non ti dirò mai nulla”.

La cosa mi venne poi raccontata dalla madre superiora, suor Teresina, che cercava di aiutarci quanto più possibile nelle carceri. Quest’uomo un po’interdetto guardò mia madre, si alzò, le fece il saluto militare, e poi le disse: “Mille donne come te e io qua non ci sarei”. Da quel giorno non fummo mai più interrogate. Perciò il soggiorno in carcere continuò tra alti e bassi; alcune sere dovevamo aspettare i partigiani che ci avrebbero liberato, altre sere invece dovevamo accettare di poter salutare qualcuno che forse poi non avremmo mai più rivisto. Nel frattempo ci fecero anche vedere mio fratello. Mio fratello era ridotto in condizioni pietose, sorretto da due amici che lo avevano accompagnato a salutare mia madre. Io penso che per mia madre questo fu l’inizio della morte, era mamma e fino a quel momento ci aveva sempre protetto, ci aveva sempre salvato. Da quel momento cominciò ad accorgersi che come madre nulla poteva più fare, non poteva più aiutare i suoi figli; il suo ruolo di madre perciò era completamente finito. Il suo cuore non reggeva molto a questo stato di cose. L’8 settembre, ricordo sempre, sentimmo aprire la porta della cella e suor Domitilla, una suora gentile, buona, che sempre aveva cercato di aiutarci, anche con le parole, venne piangendo e ci disse: “Preparatevi perché dovete andar via”. Era tardi, ci fecero uscire dalle carceri, ci imbarcarono ammanettati sul cassone di un camion e così partimmo. Eravamo circa una ventina, eravamo insieme io, mia madre e mia sorella e le due Stanzione, come donne, e un’altra donna di cui adesso mi sfugge il nome, che poi seguì con noi la trafila della Germania. Fummo assaliti dai partigiani durante il cammino e noi sperammo in una prossima liberazione. In realtà i tedeschi puntarono i fucili contro di noi e impedirono perciò la nostra liberazione.

D: Ricordi il luogo?

R: Sì, era un rettilineo fra Riccò e Pian di Barca.

D: Nella zona di Caresano?

R: Nella zona di Caresano, sì.

D: La tua mamma quanti anni aveva?

R: Mamma aveva 63 anni ma era gravemente ammalata di cuore. Soffriva di uno scompenso cardiaco che più di una volta ci aveva fatto temere per la sua salute e anche per la sua vita.

Arrivammo a Genova, fummo perquisite come se, provenendo dalle carceri avessimo mai potuto nascondere qualcosa, e poi avviate al IV raggio del carcere di Marassi. Fu un salto brutto perché a Spezia avevamo amici, a Spezia avevamo le suore che ci proteggevano, a Spezia avevamo i parenti, soprattutto una zia, che ci portava il mangiare a mezzogiorno, e ci faceva sentire ancora legati alla nostra terra e alla nostra casa.

Invece a Marassi cominciammo a capire una nuova dimensione della prigionia. Ci sbatterono in una cella dove non c’erano neanche letti ma soltanto materassi, sporca, piena di animali che camminavano nei muri, ci cominciarono a dare da mangiare in maniera sporca, tanto è vero che prima di mangiare dovevamo pulire il cibo di tutto quello che c’era sopra. Il mangiare era poco. Ecco lo spirito che animava i nostri carcerieri: quando mia madre chiese qualcosa da leggere, le portarono un libro stupendo “Le ultime ore di un condannato a morte”, e mia madre disse: “Capisco che sono utili anche queste pagine però evidentemente non è il momento che io legga queste cose” e lo restituì.

Marassi: una prigionia dura, pesante, anche perché durante la notte si viveva male, erano urla continue di gente che urlava sotto tortura, e noi le sentivamo; la notte era piena di incubi per noi.

Alla fine di settembre, verso il 20, di mattina fummo imbarcati su due pullman e diretti a Bolzano.

Cominciammo ad avere il primo sentore di quello che sarebbe stata la nostra prigionia. Il viaggio era lungo e ad un certo momento fummo costretti a fermarci e, davanti a tutti, a fare i nostri bisogni. La cosa colpì profondamente specialmente noi donne, che non avevamo certamente avuto l’abitudine di fare certe cose di fronte a tutti; era una cosa molto privata. Alla fine giungemmo a Bolzano.

D: Vi siete fermati anche a Milano?

R: No, però a Milano ci fermarono in una piccola strada, vicino a piazza del Duomo. Mamma aveva sete; una persona si affacciò e disse: “Ho sete, portatemi qualcosa da bere”. Immediatamente i due pullman vennero circondati da molte persone che portarono tutto quello che potevano portarci: acqua minerale, pane, salame, di tutto. Però ad un certo momento, vista la ressa, forse per paura che noi potessimo essere liberati, le SS cominciarono a sparare. La gente scappò e noi restammo con la nostra sete, la nostra fame, mentre tutto quello che poteva soddisfare il nostro desiderio di allora era rimasto sopra la strada, senza che nessuno potesse usufruirne.

Dopo Milano raggiungemmo Bolzano. E a Bolzano, lo ricordo come se fosse ora in questo momento, cominciammo a sentire le prime rigide forme della prigionia sotto le SS. Fummo spogliate di tutte le nostre cose, però i nostri vestiti furono messi in un sacco, e ci dettero una tuta. Quando entrammo nel campo io ebbi la ventura di trovare tra i deportati il mio professore di matematica del primo e secondo anno di liceo, Vittorio Sturlese, che era stato arrestato per motivi politici. Il professore mi venne incontro, mi abbracciò, pianse perché non si sapeva capacitare del fatto che anche delle ragazze potessero essere arrestate e soprattutto messe in deportazione. Lì cominciammo ad avere il primo numero, che veniva segnato su una grande striscia bianca sulla tuta che ci avevano dato.

Per noi però Bolzano fu una specie di oasi: da tre mesi stavamo chiuse dentro una cella senza poter vedere la luce del giorno; nove, dieci persone in una sala che poteva essere 5 m x 6, non di più, dove non avevamo neanche il letto per dormire, dove era molto sporco. L’aria frizzante della montagna ci veniva incontro ogni volta che uscivamo dalla baracca. C’erano dei letti a castello, è vero, però ognuno aveva il proprio letto, e avevamo la possibilità di poter conoscere altre donne con le quali condividere la prigionia. Non stavamo tutto il giorno nel campo perché alla mattina venivamo portate nella caserma dei carabinieri (alpini) ad attaccare i bottoni nelle tende da campo. Anche lì trovammo persone amiche, chi lungo le scale ci faceva trovare del cioccolato, chi ci faceva trovare una caramella, chi ci faceva trovare una sigaretta, addirittura una volta trovammo un piatto di pastasciutta, per noi a 20 anni la pastasciutta era una cosa veramente …

D: Scusa Bianca, che caserma era?

R: La caserma degli alpini, proprio vicina al campo. Ho forse detto carabinieri prima?

Il capo del campo era Titho, poi c’era un certo Hans che la mattina in cui fummo convocate per poi farci partire noi mandammo veramente all’inferno, e lui disse: “Non vi preoccupate, ben presto sarete voi all’inferno!” Conosceva evidentemente il campo in cui saremmo dovute andare. La mattina dell’8 ottobre fummo fatte uscire dalla baracca incolonnate, e la maggior parte delle donne e degli uomini venne portata alla stazione. Riempirono due carri bestiame di 113 donne; altri 4 carri bestiame vennero occupati da altrettanti prigionieri che da Bolzano venivano trasportati in Germania. Il viaggio si presentava terribile, nel vagone non c’erano servizi igienici e con noi c’erano donne incinte o già di una certa età. Noi 60 donne ci preoccupammo immediatamente di fare un buco che potesse in un certo qual senso darci la possibilità di …., perché non sapevamo quanto dovevamo stare. Nessuna di noi aveva cibo con sé, soltanto qualche biscotto, e neanche da bere: soltanto qualche biscotto c’era stato dato dal CLN di Bolzano che ci era venuto in aiuto portandoci abiti e, mi hanno detto anche soldi, io questo non lo posso dire, posso dire dei biscotti.

Ci mettemmo in viaggio, ci fermammo a Dachau dove lasciammo gli uomini, e noi proseguimmo, chiuse, senza aria praticamente, senza neanche poter sederci per terra.

Facevamo a turno, lasciando alle più anziane ed alle più deboli il posto per sedersi, per cercare di riposarsi; a turno cercavamo di andare a respirare un po’ d’aria da quei piccoli finestrini che sono nei carri bestiame.

Cinque giorni fummo così, poi al quinto ci fermarono a Lipsia. A Lipsia aprirono i vagoni; eravamo quasi al centro della stazione, ci fecero scendere, ci circondarono militari con il fucile spianato e ci obbligarono davanti a tutti a fare le nostre necessità. Poi ci diedero una piccola scodella, una gamella che ognuna di noi aveva come dotazione, di roba calda.

Richiusero di nuovo i vagoni e finalmente la mattina del 13 ottobre arrivammo a Ravensbrück.

Ravensbrück era il campo femminile in cui venivano raccolte tutte le donne arrestate per motivi politici da tutta quanta l’Europa. Quando scendemmo dal vagone ci guardammo intorno: eravamo sfatte, sfinite, la discesa dai vagoni era stata fatta in maniera quasi bestiale, venimmo spinte, venimmo anche con le parole in un certo qual senso esortate a far presto. Cominciarono anche le prime difficoltà, gli ordini venivano dati in tedesco, e noi il tedesco non lo capivamo. Perciò proprio questa mancanza di conoscenza della lingua ci provocò subito botte e calci a non finire. Malgrado tutto questo ci misero per cinque e ci portarono verso una destinazione che noi ancora non conoscevamo. La strada che ci fecero seguire era una strada che costellava un lago e dall’altra parte della strada c’erano delle ville ben tenute, piene di fiori, tanto è vero che parecchie di noi dissero: “Va bene, siamo state male fino adesso, siamo state finora chiuse in carcere, ma se ci hanno portato qua, tutt’al più aiuteremo le donne tedesche nella direzione della casa, faremo le donne di servizio”.

Qualsiasi cosa e il nostro cuore quasi si allargava, anche perché l’aria del lago che si respirava era molto corroborante. Fino al momento in cui non arrivammo davanti ad un cancello. Era un cancello sopra il quale c’era scritta una frase che noi allora non sapevamo cosa volesse dire, però c’era scritto Arbeit macht frei.

Era sul tardi, ci fecero entrare e poi misero alcune di noi dentro una baracca, altre invece ci lasciarono all’addiaccio. Durante la notte noi sentivamo delle ombre intorno che ci dicevano: “Se avete da mangiare datecelo, se avete oro datecelo”. Mangiare ne avevamo poco e oro evidentemente, anche se qualcheduna l’avesse avuto, mai più si sarebbe fidata a darlo alla voce che proveniva da un posto a noi ignoto.

Venne il giorno, fummo destate dal suono di una sirena e poi vedemmo uscire dalle baracche delle donne, che non erano donne, erano figure magre, macilente, vestite a righe: noi le guardammo, un po’ stupefatte, non riuscivamo a capire, tutte le donne avevano però un triangolo e un numero che noi non riuscivamo a capire bene cosa fosse, né sapevamo perché avessero questo numero.

Fintanto che ad un certo momento cominciammo a vedere arrivare davanti a noi un carro, e ai fianchi di questo carro, due donne con un forcone ogni tanto prendevano quello che cascava e lo rimettevano su.

Una disse: “Mi sembrano stracci”, quell’altra disse: “Ma figurati, è legna, non vedi come sono legnosi? chissà dove la porteranno?”, fino al momento in cui questo carro ci passò davanti. Vedemmo che erano cadaveri, nudi, e sul petto vedemmo i numeri. La paura ci prese, sapevamo che ormai eravamo in un posto dove la nostra vita era soltanto in balia degli altri. Ci portarono dentro delle baracche, ci obbligarono a spogliarci nude. E questa nudità per noi donne di allora era dura, non eravamo abituate alla mancanza del pudore, noi eravamo abituate al nostro privato. Quello che maggiormente ci fece star male era il fatto che vecchie e giovani, ma soprattutto mamme e figlie, potessero vedersi sin nella loro completa nudità. Capii che mia madre aveva vergogna, capii che anche altre donne avevano vergogna, e allora cominciammo soltanto a guardarci in volto. Capii anche che per mia madre sarebbe stato molto duro poter continuare a sperare in una vita migliore. Ci fecero fare la doccia, ci portarono in un luogo dove fummo depilate di tutto, molte di noi fummo anche visitate in maniera tale da poter scoprire se qualcheduna avesse nascosto qualcosa di oro e di gioielli. Ci portarono via tutto l’oro che potevamo avere, cioè la catenina d’oro, il braccialetto, e devo dire la verità tutto fu messo in una forma quantomai precisa. Poi tirarono fuori per ognuna di noi una piccola busta, segnarono quello che avevano portato via a ognuna di noi, chiusero la busta e su ogni busta c’era un nome: Era una catenina, un anellino, cose che dopo 4 mesi di prigionia qualcheduna aveva ancora tenuto ma in realtà era ben poca cosa. Però portarono via anche quelle poche cose, e portarono via le fotografie dei nostri cari, tutto, ci lasciarono soltanto, a chi ancora l’aveva, un po’ di sapone e il dentifricio con lo spazzolino da denti. Però in mano, perché eravamo completamente nude. Dopo averci fatto fare la doccia e dopo averci depilato ci gettarono degli stracci. Noi non sapevamo cosa fare, alla fine capimmo che dovevamo scegliere tra gli stracci quelli che maggiormente potevamo usare per la nostra taglia. Evidentemente non avevano misurato le taglie di quelle alle quali offrivano questi vestiti, perciò chi aveva un cappotto che arrivava ai piedi, a chi invece una gonnellina leggera leggera che arrivava sì e no alle anche, chi aveva, niente, sabò ai piedi, scarpe spaiate, scarpe che non corrispondevano al nostro numero, un paio di mutande di tutte le misure possibili e immaginabili e non certamente quelle adatte a noi. E dopo ci diedero il numero e ci dissero anche che dovevamo impararlo subito a memoria, in tedesco, perché se mai fossimo state chiamate non ci avrebbero chiamato col nostro nome ma col numero con il quale eravamo state contrassegnate.

D: Il tuo numero, Bianca?

R: Il numero era 77.399 siebenundsiebzigdreihundertneunundneunzig come vedi lo ricordo ancora. E poi il triangolo rosso, simbolo della deportazione politica. Questo contrassegno doveva essere messo sul petto del cappotto o della casacca che avevamo, e sul braccio affinché fosse ben chiaro e ben leggibile a chiunque ci avesse incontrato. Di lì fummo portate nella baracca. Cominciò un’odissea terribile. Avevano diviso noi italiane in 2 o 3 baracche; avevamo conoscenza soltanto della lingua italiana e molte di noi neanche di quella perché parlavano soltanto dialetto. C’era tra di noi una che parlava soltanto il bergamasco, Antonia, che poverina capiva poco anche noi, figurarsi sentire parlare tedesco! Noi non capivamo niente, c’era vicino a noi una babele di lingue, perché nelle baracche le deportate appartenevano a tutte le nazionalità presenti nel campo: francesi, olandesi, polacche, russe. Noi non capivamo niente, tra l’altro avevamo anche subito capito che noi italiane non eravamo ben accette: eravamo le donne che avevano contribuito alla Germania, che aveva distrutto con i loro aerei le case dei polacchi, dei russi, degli olandesi, dei belgi; noi eravamo considerate nemiche dai tedeschi ed anche nemiche dagli altri. Fummo perciò isolate, difficilmente i primi giorni fummo aiutate dalle nostre amiche.

D: Quale era la tua baracca?

R: La mia baracca era la numero 17. Capobaracca, capostube e capocamerata era una francese, Madame Shup, me la ricordo ancora: non era cattiva ma non era neanche buona, faceva quello che poteva fare, gridava tanto ma non picchiava mai. Questa era già una cosa molto positiva. Ad ogni modo, entrate in questa baracca non sapevamo cosa fare, capimmo che dovevamo cercarci un letto, ma di letti non ce n’erano perché ormai la baracca era sovrappopolata. Alla fine, grazie ad una francese, perché io parlavo francese e cercavo di contattare qualcheduna che parlasse francese, che capì la nostra situazione, ad altre donne si strinsero e noi trovammo posto, due o tre letti in cui ci accucciammo per la notte.

Chi dormì quella notte? nessuno, anche perché non sapendo che cosa ci aspettava, avevamo paura di quello che ci sarebbe successo il giorno dopo. Il giorno dopo per la prima volta cominciammo a conoscere anche gli appelli. La sirena cominciò a suonare molto prima dell’alba, fummo fatte scendere immediatamente, capimmo che bisognava lasciare il letto nel migliore dei modi possibili, questo ce lo avevano fatto capire.

Poi bisognava andare di corsa al gabinetto, ma erano pochissimi i gabinetti con tante tante donne che cercavano disperatamente perlomeno di lavarsi gli occhi. Poi ci misero per 10, e l’attesa fu lunga, dovemmo restare ferme sull’attenti per ore. Cominciammo anche, io e mia sorella, a capire la tragedia che ci aveva colpite: se tu sei solo soffri per te, ma se tu hai vicino tre persone tu soffri per te, soffri per la sorella che ti è vicino e che vedi più debole di te, che vorresti aiutare ma che non puoi, e soffri tremendamente per quella donna che è tua madre e che tu non puoi aiutare. La vedi cascare ma la devi lasciar per terra. La vedi soffrire e non puoi nulla per aiutarla. Perciò la sofferenza era moltiplicata per tre. Ad ogni modo, finito l’appello fummo di nuovo riprese per altre visite, questo successe per due o tre giorni, visite assurde, sciocche: ti facevano visite alle mani, gli occhi, guardavano se eri forte, visite che poi capivi che non sarebbero servite a nulla perché non avevano senso. Nello stesso tempo, alla mattina dopo l’appello io e mia sorella, mamma no perché non poteva muoversi, fummo prese per essere avviate al lavoro. Anche lì il lavoro più assurdo. Ti davano una pala in cinque, cantando, con a fianco i cani che ti avrebbero azzannato le gambe se tu ti fossi mai allontanata dalla fila di due millimetri, ma sarebbero stati anche troppi due millimetri; i soldati ci portavano su un’altura, e con questa pala noi dovevamo smucchiare la sabbia da una parte e fare un altro mucchio, avanti in circolo di modo che non servisse a niente. Il lavoro però serviva a debilitarti, a fare sì che le tue mani si spaccassero per l’uso continuo per 12 ore di questa pala, e anche, in un certo qual senso, a metterti subito alla prova con le tue compagne. Se tu avevi davanti a te una donna robusta che in due minuti spalava e tu invece non ce la facevi, prendevi delle botte perché il tuo lavoro era lento ed erano necessarie delle botte per farlo accelerare. Se invece ne avevi una dietro di te che faceva presto a fare il cumulo alto, e tu non ce la facevi a smucchiarlo tutto, anche lì erano botte. Alla fine questo lavoro durò per circa dieci giorni, e ogni volta che tornavamo in baracca, dopo 12 ore di lavoro, trovavamo mia mamma sempre più debole, sempre più affilata, sempre presente a se stessa però, tanto presente che malgrado tutto riusciva ancora a spingerci a sperare, a pregare, a chiedere la cessazione di questo terribile avvenimento che ci stava vicino.

Questo per dieci giorni, fino al giorno in cui io e mia sorella fummo convocate e venimmo portate a lavorare alla Siemens. I primi giorni ritornavamo sempre in baracca alla sera; ci insegnavano a fare delle saldature, a piegare il filo di ferro in modo particolare, ad usare una lampada particolare che serviva per illuminare bene gli apparecchi che dovevamo fare. Però ritornavamo sempre in baracca.

D: Dal campo principale di Ravensbrück uscivate per andare alla Siemens?

R: Lasciavamo il campo; il campo Siemens era a 500 metri, non di più. Andavamo verso una piccola montagnola che, come abbiamo saputo in seguito, era stata fatta dalle prigioniere. Su questo campo, su questa piccola piazzola, era stata installata la fabbrica della Siemens, che aveva circa 20 capannoni; lì fu costruito un piccolo campo composto da sette baracche, dentro il quale noi prendemmo posto.

D: La tua baracca quale era?

R: La mia baracca era la 3, Stube 1; eravamo in camerata insieme alle tedesche, quasi tutte triangolo verde. La capobaracca infatti si chiamava Maria ed era un triangolo verde. Molto probabilmente aveva avuto qualche allacciamento con qualche italiano perché ogni tanto si ricordava di canzoni italiane.

D: Lì siete rimaste a lavorare tu e tua sorella?

R: Al primo di novembre ci hanno chiamato e abbiamo dovuto lasciare mamma. L’abbiamo lasciata che era in condizioni pietose, capivamo che la salutavamo forse per l’ultima volta, ed anche lei lo aveva capito. Cercava disperatamente di aiutarci ancora, ma la cosa le fu impossibile. Non la vedemmo più. Sapemmo soltanto in seguito che era morta, poi dirò come e perché.

Noi fummo trasferite alla Siemens e da quel giorno questa visione di mamma è sempre dentro di me.

Ci sono giorni felici che potrei ricordare ma sempre questa immagine è presente. Alla Siemens ci misero nella baracca insieme ad altre sette italiane. C’erano le due Stanzione, io e mia sorella, Ginet Portalupi di Milano, Maria Fasano di Torino, Albertina Radaelli di Ivrea, Carlotta Villa di Lecco e Maria Rossi di Melegnano. E così cominciava la nostra vita in fabbrica. Il lavoro non era molto pesante, avevamo avuto la fortuna di avere mani piccole e occhi buoni, perciò fummo destinate all’equilibrage dei manometri e dei voltometri. Un lavoro che ci teneva ferme in baracca al caldo per 12 ore, che era duro perché alla fine delle 12 ore le ossa facevano male, perché eri costretta a stare su un piccolo sgabello, senza neanche spalliera per 12 ore a lavorare continuamente, il più delle volte con la lente d’ingrandimento. Però non avevamo molta dispersione di calorie e di energie, stando ferme. Dopo le 12 ore rientravamo di nuovo con le SS; lì c’erano la violenza, la fame, la cattiveria più inaudita. Non era difficile che al sabato sera fossi convocata per fare la domenica mattina un lavoro extra, per esempio andare a togliere l’acqua con dei secchi mezzi bucati dai bunker delle SS o andare a fare una nuova fognatura o ripulire tutta la baracca; era un lavoro continuo. Oppure ti inventavano qualche cosa e tu dovevi stare allo Strafappell, cioè appello di punizione, magari per tutto il giorno. Stare all’appello di punizione per tutto il giorno era terribilmente duro perché lì si raggiungevano temperature di 10, 12 gradi sotto zero. Ci fossero neve o acqua o vento, noi non eravamo vestite perché avevamo sì e no un cappottino, senza calze e nient’altro. Ti annientavano, alla fine dell’appello eri talmente sfinita che non ce la facevi più. Poi bisognava lavorare o 12 ore di giorno o 12 ore di notte; se lavoravi di notte arrivavi alla fine della settimana che non ragionavi più, perché dopo 12 ore di lavoro dovevi andare a pulire la baracca, a vuotare i secchi riempiti durante la notte, ad una certa ora della giornata andare a prendere il mangiare, il pane, distribuire tutta la roba in cucina, riandare a prendere tutto alle quattro del pomeriggio. Perciò tu facevi le 12 ore di notte e durante il giorno non si riusciva a dormire nella maniera più assoluta, in una baracca tra l’altro dove, siccome solo noi italiane lavoravamo di notte, di giorno era fredda. E il più delle volte per arieggiare lasciavano pure le finestre aperte, sicché noi dormivamo con una sola copertina e i ghiaccioli che venivano fuori dai tetti della baracca.

D: Alla Siemens c’erano anche dei civili?

R: C’erano i civili, c’erano i Meister, che ci aiutavano nello svolgimento del lavoro perché vi erano momenti in cui gli apparecchi erano talmente difficili che noi non riuscivamo, non avendo conoscenza operaia a questo livello. E allora ci aiutavano. Non infierirono mai né mai nessuno ci denunciò se non avevamo fatto ciò che ci veniva assegnato. Questo è da dire. Erano un tedesco e un alsaziano; l’alsaziano qualche volta riusciva persino a darci qualche notizia.

D: Cosa ti ricorda il natale del 1944?

R: Natale del 1944. Fu un giorno molto particolare. Eravamo in baracca; una notte noi italiane brontolavamo perché un gruppo di donne si era messo intorno alla stufa e stava chiacchierando. Alla fine ci siamo alzate e siamo andate a vedere cosa facessero. Facevano delle strane figure in carta argentata. La cosa ci stupì, anche perché non ricordavamo neanche più che fosse natale. Poi la sera un soldato portò un abete in baracca, le donne cominciarono subito a infiocchettarlo, di doni non ce n’era evidentemente, c’erano soltanto questi bei fiocchetti di carta stagnola. La capobaracca venne da noi italiane a chiederci se potevamo cantare la canzone di natale. Fra di noi c’era Maria Fasano di Torino che aveva una voce discreta, e cominciò a cantare Tu scendi dalle stelle, e per la prima volta sentii quella bellissima canzone tedesca, Stille Nacht, cioè notte silenziosa, cantata da queste donne. Fu una cosa tutta strana, tutta particolare: la baracca si allargò, si dilatò, anziché l’abete noi ricordammo i nostri natali fatti nelle nostre case, dove non c’era l’odore dell’abete ma il profumo del pino, perché da noi è il pino il simbolo del natale. E poi il fuoco, i mandarini attaccati all’albero, altri profumi, altre cose che però avevano lo stesso profumo di amore, era natale anche per loro.

Fino alla sera, perché poi tutto ritornò come prima. Quel giorno avemmo un pranzo particolare: polpette o hamburger col contorno di rape rosse. Io da quel giorno le rape rosse non le posso più vedere e gli hamburger li mangio proprio malvolentieri. Ad ogni modo ci venne dato questo. La sera però tutto ritornò come prima, la capobaracca ci diede il solito caffè, cercò di fare la cresta sopra la divisione del burro, e il giorno dopo ancora, il secondo giorno dovemmo far presto a ritirare la ciotola perché lei non gettasse dentro il suo cucchiaio tirando fuori dalla nostra zuppa quel piccolissimo filamento che dicevano fosse carne, ma che in realtà non so cosa fosse, per darla al suo gatto. Allora bisognava far presto, quando si vedeva che lei armeggiava col cucchiaio, a ritirare subito la nostra zuppa onde evitare un furto del genere.

Poi venne il primo di gennaio (1945). Ricordo che era nevicato la sera prima, e la neve si era subito ghiacciata. Ci chiamarono all’appello, ad un certo momento fu chiamato il mio numero: essere chiamati dal comandante del campo era una cosa terribile, perché da questa chiamata solo male ci si poteva aspettare. Io lì per lì quasi non capii, poi il capobaracca mi disse: “Guarda che ti chiamano”, e io mi avviai verso il centro del campo dove c’era il comandante che mi aveva mandato a chiamare. Ricordo in quei momenti il silenzio assoluto che si era venuto a creare nel campo: ognuna di noi sapeva che essere chiamato significavano botte, quando addirittura non significava camera a gas, perché come minimo potevi essere accusata di sabotaggio, il che comportava la morte.

Io nel tratto che feci non sapevo che cosa pensare, spaventatissima mi chiedevo che cosa mai avessi potuto fare, con chi avevo parlato, non riuscivo a capire. Non riuscivo capire, non avevo mia sorella CHE era in infermeria e non stava bene, perciò pensavo anche a lei. Ad un certo momento mi trovai davanti al comandante del campo, il quale mi guardò e mi disse: “Tua mamma è morta, e stai zitta, perché tua sorella è grave in infermeria”. Non capii subito quello che mi disse, me lo disse in tedesco, me lo ripeté in una forma più lenta allora io capii. Fui annientata, evidentemente, però capivo anche che dovevo star zitta, sì, perché quell’altra era grave in infermeria. Poi cominciai a piangere, mi riportarono a lavorare, perché evidentemente la morte della madre non doveva essere fonte di festa per un lavoratore.

Ricordo che mi si avvicinò quella soldatessa alla quale più di una volta io, mia sorella e un’altra ragazza francese, che aveva a sua volta la mamma in campo, avevamo chiesto di portarci a vedere la mamma: in fondo in fondo erano sì e no 5/600 metri da fare, non di più. Le promesse erano sempre state fatte ma mai mantenute. Perciò quando sentii questa donna che mi toccò quasi con un senso di condoglianza e di affetto, mi ribellai. Mi ribellai in malo modo perché mi venne da sputare, e lei era già pronta a qualche cosa di grave se non si fosse interposto il direttore della fabbrica, o perlomeno il capo della hall in cui lavoravamo; io non capii quello che si dissero, poi lei se ne andò e lui indifferente se ne ritornò al suo posto. Da quel giorno io dovetti lottare, lottare per mia sorella, e ad un certo momento una dottoressa polacca la rimandò in campo a lavorare, anche se non stava ancora bene. Ogni tanto lei mi diceva: “Ho sognato la mamma”, alla fine glielo dissi: quando la vidi un po’ più sulle gambe glielo dissi e accettammo.

Fu un dolore grande, che però non percepimmo subito, perché la morte lassù era una cosa normale, era una cosa, come posso dire, alla portata. Noi sapevamo come ci alzavamo la mattina ma non sapevamo neanche se saremmo andate a dormire la sera. Tutto potevamo aspettarci per noi stesse, era ormai diventata un’abitudine prendere le donne morte per i piedi e per le mani e metterle sotto la vasca del gabinetto, in maniera tale che la mattina fossero presenti all’appello. Era diventata un’abitudine scavalcare un cadavere, per noi era diventata una cosa normale. La morte stessa era diventata una cosa normale. E poi forse il fatto che non soffrivo più per lei, lei era morta, non mi dovevo più preoccupare per lei. Quando tornammo a casa, allora capimmo che cosa volesse dire essere senza mamma.

D: Nel marzo del 1945 il comandante cosa vi ha fatto fare?

R: Nel marzo del 1945 noi eravamo ancora alla Siemens, continuavamo a lavorare in condizioni precarie, anche perché non si poteva più lavorare, notte e giorno i bombardamenti erano continui; durante la notte bisognava stare anche con le luci spente, perciò il lavoro era nullo, o perlomeno molto ma molto lento. In quel momento vennero fuori dei manometri completamente diversi, molto grossi, molto difficili anche da equilibrare: avevano una sensibilità enorme, tanto che non riuscivamo neanche a metterli a punto perché non si riusciva. Avevamo avuto delle pinzette particolari per sistemare la lancetta, e delle macchine particolari per misurarne la forza. E non solo, guarda caso i pochi apparecchi che c’erano all’equilibrage non erano stati fatti in baracca. Avevamo intorno due o tre Meister i quali seguivano il nostro lavoro e cercavano anche loro forse di capire quello che stava succedendo. Durò poco questo lavoro, due o tre giorni, poi tutto scomparve. Il guaio è che alla fine di marzo / primi di aprile in baracca c’era poco da mangiare, anche alla Siemens c’era poco da mangiare, il lavoro stava finendo. Capivamo che la baracca cominciava a smantellarsi perché man mano in alcuni grandi capannoni le macchine venivano imballate e portate via.

Noi stessi dovevamo talvolta andare a prenderci dalla ferrovia i carri bestiame per portarli nel campo, vuotarli, il tutto a spinta perché la ferrovia non arrivava più, si vede che era stata interrotta dai grandi bombardamenti che giorno e notte si stavano susseguendo.

Ad un certo momento vedemmo scomparire anche i Meister.

Il primo di aprile entrò la Croce Rossa svedese, si limitò a stare ai margini del campo. Di questo ne parla anche Russell, dice che alla Croce Rossa non fu permesso di entrare in campo, però ci mandò un sacco divisibile per dieci, poca cosa, ma che ti dava una spinta. Capivi che qualche cosa si stava muovendo intorno a te, che non eravamo lasciate completamente sole e che quello che ventilavano i tedeschi, cioè di farci fuori prima della fine, forse non sarebbe successo.

Ai primi di aprile però ci ripresero e ci riportarono in campo, perché ormai la fabbrica si stava chiudendo.

D: Prima di ritornare al campo grande: quando eravate nella fabbrica Siemens, c’era qualche scritta con questo nome?

R: No, però sapevamo che era la Siemens. Scritte non ce n’erano, però sapevi di andare alla Siemens. Era il campo Siemens.

D: Ad un certo punto hanno distribuito dei marchi a voi deportati, te lo ricordi?

R: Sì sì, lo ricordo perfettamente, anche se non tutte se lo ricordano, e la cosa mi sembra strana. Una mattina ci fecero passare una per una davanti ad un grande tavolo, dietro al quale erano seduti il direttore ed altri funzionari della fabbrica. Guarda caso prima arrivarono le polacche, e io mi trovavo purtroppo tra le prime, perché ero tra le prime a lavorare lì nella baracca. Mi diedero questi marchi, ma non erano proprio marchi bensì dei cartoncini con sopra scritto “Buono” in tedesco; figurati se sapevo cosa volesse dire! Chiesi a che cosa servissero e mi risposero che con quei marchi potevo andare allo spaccio e prendere rossetto e borotalco. Lo spaccio non l’avevo mai visto in quei mesi perciò non esisteva; non avevo sapone, non avevo neanche asciugamano, avevo, scusate, le mutande che mi avevano lasciato ad ottobre ed erano sempre quelle: era inutile che mettessi il rossetto! Rifiutai perché mi sentii presa in giro. Rifiutai e dietro di me tutte le altre rifiutarono perché era una cosa assurda dare questi marchi.

D: Sei mai stata sottoposta alle selezioni?

R: Le selezioni, sì, erano una cosa proprio terribile. La prima selezione la subimmo proprio prima di partire da Siemens. Al momento del rientro dalla fabbrica in baracca ci trovammo davanti, fermi, alcuni infermieri, dottori, il camice bianco ce l’avevano, e una specie di camion contrassegnato di bianco. Ci fecero passare una per una e cominciammo a vedere destra e sinistra. Una francese dal campo mi vide; era un periodo in cui io avevo un paio di scarpe l’una col tacco alto l’altra col tacco basso, l’una piccola e l’altra grande, perciò camminavo zoppa; la francese mi disse: “Bianca, attention, selection“. Capii che sarebbe andata male per me se mi fossi presentata nelle condizioni in cui ero: mi tolsi le scarpe, mi tirai su i vestiti, in maniera tale che potessero vedere che camminavo bene, e mi avviai, col cuore stretto perché davanti a me c’era mia sorella. Fintanto che lei non passò e non passò dalla parte giusta, la cosa mi colpì, ero proprio in ansia. Alla fine arrivai con le mie scarpe in mano, mi guardarono, mi diedero una bella sberla sopra la testa e mi avviarono verso mia sorella.

La seconda selezione la avemmo dopo che dalla Siemens fummo portate nel campo grande, e io e mia sorella andammo ancora a lavorare nella fabbrica di sartoria che era lì attaccata alla Siemens. Lì subimmo una seconda selezione. Anche lì andò bene. Ci scoprirono tutte, eravamo coperte di piaghe, ma per fortuna a questo non posero mente, guardarono soltanto se eravamo ancora capaci di camminare, poi capimmo il perché. Ci misero nella parte giusta.

Le selezioni distruggono proprio la personalità dell’uomo, ti fanno avere delle reazioni terribili poi dopo.

D: Ravensbrück era un campo tutto femminile.

R: Il campo di Ravensbrück era un campo esclusivamente femminile, gli uomini non li abbiamo mai visti. Abbiamo saputo dopo che c’era anche un piccolo campo che molto probabilmente serviva da supporto per i lavori che le donne non sarebbero state capaci di fare. Ma noi non sapevamo che ci fossero uomini.

D: In tutto il tuo periodo di deportazione tu, tua sorella e le altre donne, come faceste con il ciclo mestruale?

R: Non esisteva più. Appena entrate ci tolsero tutto quello che ci poteva essere necessario. Loro sapevano che non ci sarebbero stati problemi in questo senso, e basta, finì. Ricomparve 3 o 4 mesi dopo la liberazione, senza problemi anche dopo perché io, mia sorella ed altre amiche abbiamo avuto figlioli in maniera regolare.

D: Pasqua nel campo.

R: Pasqua fu in campo, sì. Per pasqua con le francesi riuscimmo ancora a riunirci e a dire una preghiera, perché l’uomo spera sempre con un miracolo di cambiare la propria vita, di indirizzarla con l’aiuto di Dio verso un qualche cosa di più giusto. Chiedevamo l’aiuto di Dio per migliorare la situazione, e poi anche perché la fede che ci aveva sempre accompagnato non si era mai affievolita. Con le francesi riuscimmo a fare una piccola cerimonia, nascosta evidentemente, perché sarebbe stata oggetto di una terribile punizione; non si poteva nella maniera più assoluta, però ce l’abbiamo fatta.

D: Ritornate al campo grande …

R: … ritornate al campo grande, ritrovammo il caos. Il campo era sovrappopolato, erano arrivate deportate da tutte le parti dell’est perché i campi erano stati evacuati, non arrivava più nulla da mangiare perché tutto intorno la ferrovia era stata distrutta, e molto probabilmente non c’era più niente neanche da mangiare nella stessa Germania. Le donne si accalcavano l’una contro l’altra, bisognava lavorare senza mangiare, ma le donne ormai erano debilitate da mesi di fame, di paura, di malattia; e morivano. Io ricordo mucchi di cadaveri davanti al forno crematorio, io ricordo la debolezza di queste donne che si trascinavano per cercare di continuare a lavorare, per cercare di sopravvivere; capivamo che ormai potevamo essere liberate da un giorno all’altro e la fine della tortura sarebbe venuta in poco tempo; volevamo continuare a vivere forse proprio per questo. Sentivamo già in un certo qual senso i rumori del fronte che si stava avvicinando, però la vita era diventata impossibile, nella maniera più assoluta. Eravamo ridotte al lumicino, nessuna riusciva più a sorreggersi, tant’è che io e mia sorella in queste condizioni fummo mandate ancora a lavorare nella fabbrica di divise, ci stemmo un giorno e poi fummo chiuse nella baracca.

Restammo chiuse in baracca per circa una settimana, e quando ne uscimmo non sapevamo neanche più camminare, non potevamo più reggerci in piedi perché, come ci mettevano all’appello, le gambe si gonfiavano e si cascava. In queste condizioni fummo di nuovo messe all’appello tra la sera del 26 e del 27 aprile, quando ormai si cominciava già a sentire i cannoni russi avvicinarsi. Capimmo subito che gli ordini erano contraddittori, chi urlava da una parte e chi urlava dall’altra. La maggior parte delle donne SS non esisteva più, erano venuti dei soldati SS prima e Wehrmacht dopo. Mentre eravamo lì cominciammo a vedere del fumo che saliva dalla parte alta del campo, avemmo paura, perché pensavamo che coi lanciafiamme avrebbero messo in atto quello che avevano sempre detto di fare, cioè la completa uccisione di tutte. Perciò avemmo una paura enorme, poi alla fine lasciammo nel campo quelle che non potevano più camminare. Noi fummo messe in strada per cinque. Scortate dai soldati della SS e dai cani. Chiunque si fermasse, ce l’avevano già detto, sarebbe stata uccisa con un colpo alla nuca. In queste condizioni, camminammo praticamente tutto il giorno, la sera cominciò a sparare la contraerea prima di tutto, cioè i mosquitos cominciarono ad arrivare a mitragliare. Dietro avevamo i cannoni russi che sparavano a misura d’uomo, ne avevamo visti uccisi di tedeschi. Io, mia sorella e altre donne, di cui tre slave e una ungherese, ci tenemmo insieme e camminando raggiungemmo un posto per noi quantomai sicuro, in mezzo ad una foresta.

Ci mettemmo sfinite ai piedi di un albero e con una coperta sotto e una sopra cercammo di dormire.

La mattina sentii un colpo alla spalla e un russo mi offrì una gamella di caffè. Io felice e contenta gridai: “Sono arrivati i russi!”, e lui mi disse: “No, son prigioniero anch’io, però i tedeschi mi hanno detto di portarvi questo”, e diede a tutte un po’ di caffè caldo. Durante la notte eravamo state circondate letteralmente dai carri armati e non ce ne eravamo accorte; sembrava di aver camminato per delle ore, ed in realtà ci eravamo allontanate dalla strada solo qualche centinaio di metri, tanto che la mattina dopo i cani e i Posten (sentinelle) ci rimisero in marcia e per sette giorni camminammo. Alla fine ci fecero riposare su una piccola altura. Posten e cani con noi. Ad un certo momento vedemmo passare lungo la strada una macchina che non avevamo mai visto, contrassegnata da un disegno che non avevamo mai visto. Era una grande stella bianca, con sopra una scritta che abbiamo letto in buon italiano mibabi. Lì per lì non riuscivamo a capire, perché, è vero che qualcheduna di noi sapeva anche l’inglese, mia sorella per esempio, eravamo talmente stanche e sfinite da non riuscire neanche a connettere veramente quello che ci stava succedendo.

Alla fine mia sorella disse: “My baby ma sono americani!” Infatti li guardammo ben bene, la divisa era diversa, l’elmetto era diverso. Ci precipitammo tutte giù, sperando di trovare qualcosa da mangiare perché era da sette giorni che non si mangiava, e si beveva l’acqua che trovavamo per strada.

Chi ci vide era un ufficiale, ci guardò esterrefatto, ci chiese che cosa volessimo, e l’unica cosa che gli chiedemmo “pane”. Da mangiare non poteva darcene, erano ancora in formazione per l’occupazione del territorio e per ricongiungersi ai russi che distavano poche centinaia di metri. Ci diede delle sigarette, e noi ci accontentammo di quelle, però poi abbiamo aspettato gli eventi. Ad un certo momento vedemmo gli americani retrocedere e avanzare invece una colonna di russi.

Ci trovavamo nel punto di contatto tra americani e russi. Poi gli americani lasciarono il posto ai russi.

A questo punto eravamo talmente stanche, vedemmo un fienile; strano a dirsi, ma entrammo tutte lì dentro e dormimmo.

Non so cosa sia liberazione; per me era finito l’incubo della stanchezza, della paura, della fame, di tutto; la libertà è cominciata con un gran sonno liberatore, dentro un fienile insieme a tanti altri. Abbiamo scoperto dopo che dentro quel fienile eravamo più di un centinaio, tutti addormentati, tutti a riposarci delle fatiche che avevamo dovuto affrontare. Dopo di che io e mia sorella quando ci risvegliammo ci rimettemmo in strada, con una fame …. Mia sorella non stava bene, ci fermammo, io vidi passare un camion di francesi che stava radunando tutti i connazionali per portarli in zona americana. Mi sono fatta passare per francese: “Je suis française!”, feci salire mia sorella, sali anch’io, arrivammo in zona americana.

Dopo di che mi affidai ai compagni di prigionia italiani, e con loro poco per volta ritornammo a casa.

D: E’ stato allora che hai potuto scrivere a casa che eravate salve?

R: Lì era passata la Pia Opera Pontificia, ce l’ho ancora quel documento in cui si diceva che le due sorelle erano sane e si trovavano nella zona di …

D: Da lì siete arrivate a casa?

R: Da lì siamo arrivate a casa. Poi è cominciato veramente un muro di silenzio.

Avevamo capito che c’era un qualche cosa che non quadrava: come arrivammo, trovai una strana telefonata che mi diceva: “Io sono il tale e ti sposo”. Non capii lì per lì, la presi per una telefonata sciocca, non sapevo.

Poi capii. Quando sei giovane e sei fuori, se ritorni qualche cosa devi aver fatto per ritornare.

Siccome questo non era vero, e siccome addirittura si pensava che io e mia sorella fossimo incinte, cosa che mai più immaginavamo, si alzò proprio un muro tra noi e gli altri, gli altri che hanno pensato ma che non hanno cercato di sapere quello che hai sofferto. Per farsi quasi come una specie di … coscienza dicono: “Si sono salvate così”

No, io e mia sorella abbiamo chiuso.

E’ stato poi difficile tornare a vivere e a parlare, però ce l’abbiamo fatta, anche perché c’era da lavorare, eravamo rimasti 4 ragazzi soli, in una casa completamente svaligiata dai fascisti, completamente distrutta dalle bombe americane, non avevamo neanche gli abiti per cambiarci: tutto era stato portato via.

Bisognava ricostruire, secondo quello che ci avevano insegnato mio padre e mia madre, con onestà, con serietà, con dignità soprattutto, la vita che loro ci avevano insegnato a fare. Il compito è stato mio e di mia sorella, perché i due ragazzi che avevamo lasciato avevano subito anche loro degli shock tali per cui non avevano trovato dentro di loro, come invece noi, la forza di ricostruire. Dopo ci riuscirono anche loro, evidentemente. Poco per volta ci ricostruimmo la casa, finimmo i nostri studi, ritornammo a vivere, ma è stato dopo anni.

Devo dire grazie a una mia carissima amica, Lidia, che mi ha imposto di ricominciare a parlare altrimenti non avrei mai parlato, perché se tu parli, parli a chi ti vuole ascoltare, non a chi ti vuole ascoltare avendo orecchie già tese verso altre cose.

D: Poi hai scoperto chi ti aveva telefonato?

R: Sì, era uno slavo scappato in montagna dopo essere stato soldato tedesco, ed era stato compagno dei miei fratelli, anzi lo consideravo quasi come un altro fratello, tanto è vero che dopo la liberazione mio fratello lo aveva portato a casa nostra.

D: Quale fu il destino del fratello arrestato?

R: Del fratello arrestato non sapemmo più nulla. L’abbiamo atteso, atteso, atteso, atteso, ma nessuno voleva darci notizie. Alla fine Italo Geloni, che aveva condiviso con lui tutti i giorni della deportazione, con lui nel Lager di Flossenbürg, mi disse: “E’ inutile che lo aspetti, mi è morto tra le braccia”.

Sapemmo anche la sua tragica fine: venne ucciso a suon di botte da un soldato tedesco al quale inavvertitamente aveva pestato un piede.

D: Scusa Bianca, ancora una cosa che riguarda il campo di Ravensbrück: ricordi come era il Wascheraum, come erano i servizi?

R: Il Waschraum nel campo grande era una grande baracca divisa in due grandi camerate: al centro c’erano una decina di lavandini e una decina di gabinetti. Ogni baracca conteneva 500 donne, perciò 1000 donne alla mattina dovevano gravare su 10 lavandini e i lavandini erano piccolissimi, e 10 gabinetti. Bisognava farlo.

Invece nel campo Siemens era una grande stanza al centro della quale c’era una buca con intorno un muretto di cemento. Alla sera era il ritrovo di tutte: c’erano le russe che facevano le danze, le polacche che cantavano, le slave che si muovevano al suono di una canzone slava. E noi trascorrevamo venti minuti in questo soggiorno che però era anche in un certo qual senso un centro di raccolta.

D: E’ lì che andavi con nelle tasche del cappotto …

R: No no, quello che non riuscivo a fare perché era troppo difficile e che nascondevo nelle tasche, gettavo nel Waschraum, cioè nel gabinetto, della fabbrica: consisteva in due cubicoli di legno con un buco al centro. Speravo che nessuno avrebbe mai trovato niente.

D: Cosa gettavi?

R: Ci gettavo quegli apparecchi che non mi venivano. Se non ne facevo 30 ero punita, ma gli apparecchi erano molto difficoltosi, io dietro ad uno sono stata anche due ore. Come facevo a farne 30? Allora

quelli che non mi riuscivano …

D: Ricordi se a Ravensbrück, oltre alle baracche, c’era anche campo tende o una tenda?

R: Io ricordo una tenda dentro la quale erano state messe delle zingare, però il ricordo è molto vago. Noi siamo uscite da Ravensbrück ai primi di novembre del 1944, per quanto posso capire la tenda nera venne messa dopo. Io ricordo una tenda bianca, anche perché vi fui portata, anche mia sorella.

Fui fotografata di profilo e davanti, con il numero. Io me lo ricordo, anche mia sorella, ma non tutte lo ricordano. Io, mia madre e mia sorella di sicuro.

D: Il tuo numero di Bolzano lo ricordi?

R: Non me lo ricordo, mi pare che sia sul quattromila ma direi una bugia, perché proprio non me lo ricordo. A Bolzano non bisognava mai rispondere col numero, perciò era inutile impararlo a memoria, e poi era un numero che praticamente ho portato soltanto per dieci giorni.

D: Nel marzo del 1945 in fabbrica avevate combinato qualcosa per cui il comandante vi ha mandato fuori?

R: No, non nella fabbrica; eravamo nel campo. Era domenica, e siccome era già 3 o 4 domeniche che ci facevano andare a togliere l’acqua dai bunker della SS, la cosa era pesante. Anche perché, guarda caso, tutti i buglioli con i quali dovevamo togliere l’acqua erano un po’ difettosi, o spruzzavano acqua da una parte, perciò quella mattina cosa avevamo fatto? ce ne eravamo andate nel Waschraum per le pulizie e c’eravamo spogliate nude per cercare di lavarci. Il comandante del campo aveva capito tutto, allora venne dentro con la frusta e ci fece uscire, facendoci stare in appello per 4 ore di fila.

La cosa fu un po’ pesantina.