Pedrotti Ginevra

Ginevra Pedrotti

Nato il 29.07.1921 a Novaledo (Trento)

Intervista del: 01.06.2000 a Povo di Trento realizzata da
Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari
TDL: n. 131 – durata: 40′

Arresto: dicembre 1944 a Novaledo
Carcerazione: Borgo
Deportazione: Bolzano
Liberazione: data non precisata a BOLZANO (liberata, con la mamma, dai responsabili del Lager: mi hanno fatto una carta…un biglietto”)

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Nota sulla trascrizione della testimonianza:
L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Pedrotti Ginevra. Sono nata a Novaledo il 26.07.1921.

D: Ginevra, quando Vi hanno arrestata?

R: Penso sia stato nell’anno 1944, prima del Natale del ’44, non mi ricordo di preciso il giorno, no.

D: Dove Vi hanno arrestato?

R: A Novaledo.

D: Perché?

R: Perché mio fratello era nella FLAK a Bolzano. Un dì moriva questo, un dì moriva quello e lui per paura è scappato. E’ scappato ma non era partigiano. Forse dopo sarebbe andato coi partigiani ma dopo l’han preso a casa. L’han preso a casa, era a letto; era nascosto ma gli era venuta la bronchite ed era tornato a casa malato e lo hanno trovato a letto. L’hanno preso e l’hanno portato fino a Campiello. A Campiello però mentre stavano arrivando per arrestarne altri due è di nuovo scappato. Gli hanno sparato dietro, ci sono ancora sui meleti tutti i bossoli. Lui e il cane, che era con lui sul camion, scappavano a zig zag e poi è scappato. Subito dopo essere scappato alla mattina sono venuti a prendere noi. Mio padre quando ha visto arrivare il camion delle SS è scappato anche lui. Hanno caricato un mucchio di roba che avevamo, una cassa di calzini nuovi, tutto quello che han voluto, poi hanno caricato anche noi e via. Ci hanno portato in carcere a Borgo Valsugana.

D: Hanno arrestato te e chi?

R: E la mamma. Io e mia madre ci hanno portato a Borgo, in carcere, e là ci hanno tenute 15 giorni prima di interrogarci. Mia madre non era neanche capace di parlare dallo spavento e le ho detto: “Noi non c’entriamo niente, che colpa abbiamo se questo ragazzo è venuto a casa! Chi è la mamma che non accoglie in casa un figlio?”. E ci hanno caricati sul camion dopo l’interrogatorio.

D: In carcere c’erano fascisti o tedeschi?

R: Italiani. Il carceriere era di Borgo. Il carceriere era uno di Borgo.

D: In cella ti hanno lasciato insieme a tua mamma?

R: Sì sì.

D: Assieme ad altre persone?

R: C’erano altre che non conoscevo. Sono venuti fuori 3 preti, 3 ragazzi, studenti preti. Sa che una volta dovevano portare la tunica, non erano preti ancora. Ecco quando poi ci hanno caricati sul camion ci siam trovati tutti assieme, ‘sti tre ragazzi, noi, e altre 4 o 5 persone che venivano da Castel Tesino.

D: Ginevra, quanto tempo siete rimasti nel carcere?

R: 15 giorni.

D: In 15 giorni avete subìto degli interrogatori?

R: Uno.

D: Chi ve lo ha fatto e cosa vi si chiedeva?

R: La SS mi domandava se avessimo dato da mangiare ai partigiani. Noi abbiamo detto: “Siamo gente che lavora e che non si preoccupa di altro”. Ecco, e la mamma continuava a piangere. Rispondevo io. Dicevo così. Loro non han capito ragione e ci han portati via.

D: Una bella mattina vi hanno caricati su un camion…

R: … camion e a Bolzano. Fino al Ponte di Vodi (a nord di Trento) e se non fosse andata bene sarei rimasta lì ma per fortuna si vede che hanno pensato che sul camion c’erano prigionieri e non hanno bombardato il camion, hanno bombardato il ponte di Vodi.

D: Sul camion in quanti eravate?

R: Saremo stati in 7, 8. Non mi ricordo bene.

D: C’eravate tu e la tua mamma.

R: E poi quei 3 preti e altre 2, 3 persone e il militare che ci faceva la guardia, 2 militari che ci facevano la guardia.

D: Tedeschi o italiani?

R: Oh, italiani e tedeschi.

D: Vi hanno detto dove vi portavano?

R: No, ci hanno caricato senza dirci niente, niente, niente, niente. Alè, andiamo!

D: Quindi quando è stato bombardato il ponte vi siete fermati?

R: Sì, dopo siamo ripartiti perché l’aereo è andato via. Siam ripartiti e siamo arrivati a Bolzano e in Bolzano ci han messo nel blocco A, nel blocco A.

D: Subito al campo di concentramento vi hanno portati?

R: Subito.

D: Cosa ti ricordi del campo di Bolzano quando sei entrata con tua mamma?

R: Un formicaio di gente. Un formicaio di gente disperata. E la paura che prendessero mio papà! Tutti i giorni guardavo fuori quando arrivavano i camion. Un bel giorno m’ha sorpresa l’ucraina, mi ha dato 2 o 3 bastonate e mi ha fatto stare tutto il giorno con la faccia al muro perché guardavo fuori chi arrivava. Invece il mio papà non l’hanno mai preso, neanche mio fratello, è stato nella tana della volpe tutti i mesi.

D: Cos’è la tana della volpe?

R: Un buco dentro nella montagna.

D: Dove? In che zona era?

R: Sempre a Novaledo, sopra vicino al Sella.

D: Nel blocco A, quando siete entrati nel campo di Bolzano, vi hanno tolto i vestiti?

R: Sì, mi han fatto spogliare e mi han dato la tuta di sacco col triangolo rosso perché noi eravamo ostaggio politico.

D: Vi hanno dato anche un numero?

R: Sì, ce l’avevo, ho un numero, l’ho scritto sul libro.

D: Te lo ricordi adesso il tuo numero?

R: No, ho il libro lì, basta andare a prenderlo. Non mi ricordo il numero, no.

D: Tu sei sempre rimasta con la mamma?

R: Io no, ero lavoratrice libera.

D: Ma quando sei rimasta e t’hanno portato lì?

R: Sì, sempre con la mamma son rimasta. Guai se mia mamma vedeva che mancavo! Non mi hanno mai staccata da lei; sono stati bravi a non staccarmi mai. Perché sennò sarebbe morta lì dalla disperazione.

D: Ricordi se c’erano altre donne nel campo?

R: Sì, certo mi ricordo. Ce n’era una di Levico con la figlia anche quella, e son già morte; c’era la professoressa Zasso di Belluno, proprio vicino al mio letto, carina, era dentro anche lei come ostaggio per il figlio.
Nel blocco E c’era uno di Levico: lo portavano fuori a prendere il sole, sembrava uno scheletro vivente e quando è finita la guerra a Vetriolo tutti gli anni mi veniva a portare le fragole. Mi han messa sì lavoratrice libera ma prima m’han messo in sartoria e lavoravo. Lavoravo? Non facevo niente, dormivo sul tavolo. E quando veniva il maresciallo a controllare, i ragazzi mi venivano a chiamare perché mi alzassi.
Sull’angolo del campo c’era la Polizia Trentina che ci guardava, e gli dicevo: “Ehi, traditore della patria, beh, domani devi portarmi pane per quei tuoi amici che dentro stanno morendo!” Mi portava filoni di pane, di nascosto, e sigarette perché ero giovane allora e ‘sto ragazzo diceva: “Guardo che vengo a trovarti dopo la guerra!”, “Sì, sì ven ti caro – dico – intanto portami il pane adesso e sigarette!”.
Guarda che avevo fame anche io, sai. Ma mi facevano tanta pena. Aveva il cuoco che mi faceva la corte. Veniva con il taschino pieno de zucchero, diceva: “Bisogna che tu mi sposi dopo la guerra”, ero bellina allora. E gli dicevo: “Non solo zucchero, portami anca qualcos’altro, il sale per salare”: Mi dava torsi di verza senza sale, senza niente.
A me le mestruazioni duravano 25 giorni al mese e sono venuta fuori dal sanatorio; le mie amiche, due, son morte in sanatorio, una di Torino e una di Levico.

D: Deportate anche loro?

R: Sì.

D: Come si chiamavano? Te lo ricordi?

R: Quella di Levico aveva un nome lungo lungo, ma tanti anni sono passati, e una di Torino, e anche di lei ho dimenticato il nome.

D: Ginevra, ti ricordi se hai visto anche dei ragazzini, dei bambini nel campo?

R: Un ragazzino si chiamava Giuseppe Maria. L’avevano messo con gli uomini, dopo lo chiamavano Maria e l’han messo con le donne. C’era dentro il rastrellamento di Bologna delle case di tolleranza, tutte lo volevano nel letto ‘sto Giuseppe Maria per vedere se era un uomo o una donna. Succedevano anche ilarità fra le lacrime e i pianti. Mi ricordo i ragazzini, i piccoli; una signora con 2 bambini, ebrea di Milano; quella è sparita, è stata dentro un po’ di tempo, poi è scomparsa come altre 2 ebree, mamma e figlia, sono state dentro un po’ di tempo e poi sono sparite. E dopo ho visto, han detto, passava fuori uno o due con una cassa sulla schiena, una cassa frugale e ha detto: “Lì ci sono dentro quelle due povere donne ebree, le hanno uccise, nel blocco chiuso.”

D: Il blocco celle?

R: Sì, le han messe nelle celle e dopo sono venute fuori morte.
Dopo hanno ucciso un uomo davanti a noi perché era uscito dalla fila andando a lavorar. Andava a lavorar in galleria: ha messo fuori un braccio per prendere un tozzo di pane da un signore e l’hanno portato in campo, l’hanno ucciso lì, col mitra, in terra morto.

D: Ti ricordi quando è avvenuto?

R: Sai che non mi ricordo, è passato tanto tempo. Sarà stato un mese che ero dentro, un mese e mezzo. Poi noi avevamo il terrore che tutte le notti ci caricassero perché tutte le notti partivano camion de uomini per la Germania, tutte le notti partivano uomini che andavano in altri campi di concentramento e noi vivevamo col terrore che portassero via anche noi.
Ma siccome dopo m’hanno messa come lavoratrice libera a fare il letto alle loro donne in una villa io uscivo dal campo, facevo il giro sulla strada che va a Bolzano, andavo dentro una stradina e andavo a fare i letti e un po’ di pulizia.

D: Tu da sola uscivi dal campo?

R: Da sola, mi dicevano: “Kaputt”: se non fossi tornata avrebbero ucciso la mamma, puoi immaginarti se scappo! mi premeva la mia mamma, l’ho sempre avuta cara, anche dopo.

D: Uscivi con la tuta?

R: Col bollo sulla schiena, col triangolo sulla schiena.

D: E le persone che incontravi ti guardavano?

R: Non c’erano mica tanti bolzanini che mi parlavano; c’era l’attendente del colonnello, c’era anche il colonnello.
Un bel giorno andando fuori mi son buttata in mezzo a un prato di margherite a dormire. Invece che andare a lavorare dissi: “Va bene, me la dormo qui in mezzo a un prato.” Mi son messa in mezzo a un prato di margherite, era tutto margherite, era di maggio, appena prima che finisse la guerra. Passa il colonnello con la macchina e mi dico: “Zitta, ormai non mi alzo, sto qui ferma”. Ha mandato l’attendente a portarmi il cuscino da mettermi sotto la testa. Ma te lo giuro, sai? E l’attendente me l’ha portato ma li giorno dopo mi ha detto: “Ginevra! Se ti prendo dopo la guerra! Era un bolzanino; ma guarda, c’è gente cattiva ma non c’è come quei bastardi di bolzanini che non sono né italiani né tedeschi, tremendi come i diavoli, è vera sai, erano figli di puttana quelli.
Sa che non mi hanno mai offerto niente, c’erano scatole grandi di caramelle buone, non mi hanno mai offerto una caramella quelle donne, mogli di colonnelli, di capitani, di tenenti, di SS: mai offerto una caramella. Ma io mi arrangiavo.

D: Ginevra, ma quando rientravi andavi sempre nel blocco A o vi hanno cambiato di blocco poi?

R: Sempre nel solito posto.

D: Sempre nel blocco A?

R: Sempre nel blocco A.

D: E mamma cosa faceva dentro?

R: La mamma stava dentro con la professoressa Zasso, anche quella non l’han messa a lavorare. Stavano assieme loro due; passeggiava tutto il giorno, sembrava impazzita, passeggiava indietro avanti, indietro avanti, nel blocco. Loro non potevano neanche uscire dal blocco; io come lavoratrice libera andavo nelle cucine, gli inglesi avevano la cucina e si facevano da mangiare, gli americani.

D: Dopo la guerra?

R: No, durante. Loro si facevano il mangiare a parte.

D: Ma scusa, nel campo c’erano degli inglesi?

R: Inglesi di quelli che cascavano con gli aerei, e americani.

D: E si facevano loro da mangiare?

R: Loro si faceva da mangiare, e io andavo a lavare i loro piatti e mi davano qualcosa; allora potevo rientrare nel campo.

D: A proposito di alimentazione, prima dicevi che il cuoco ti faceva la corte.

R: Sì.

D: Ricordi di che nazionalità era quel cuoco lì?

R: Uno di Belluno era, un bellunese. E’ arrivato a casa dopo, ah è venuto dopo la guerra e gli ho detto: “Tu credi che per una scorzella di zucchero prendi una donna?” E mia madre gli ha detto: “E’ lì mia figlia”. Sapeva che ero scaltra di carattere, non scaltra no, ma capace di difendermi alla mia maniera. Disse: “Lì è mia figlia”. Mamma poi se la rideva da morire.

D: Ginevra, anche la tua mamma aveva la tuta con un numero?

R: No, solo io. A mia mamma hanno lasciato i vestiti.

D: Senza numero?

R: Senza numero.

D: Senza triangolo?

R: C’era il numero ma non lo aveva attaccato sulla schiena.

D: Al lavoro sei sempre andata fuori da sola?

R: Sempre da sola.

D: A fare le pulizie?

R: Sì, quando ero arrabbiata le facevo come le facevo; facevo il letto, per ogni letto c’era un mitra, avevo anche paura. Qui c’è il letto, il comodino e fra il comodino e il letto, un mitra. Anche loro … avevano paura anche loro.

D: Mentre uscivi non hai avuto contatti con persone esterne?

R: Non mi parlavano, avevano paura di parlare a gente che usciva dal campo di concentramento. Si vedeva che si scansavano, i bolzanini tenevano ai tedeschi; lì erano tutti di quelli che avevano la campagna e l’hanno lasciata per seguir (Hitler). PARLA DEGLI OPTANTI PER IL TERZO REICH. Lo sa che hanno lasciato la campagna dove si erano trasferiti, poi hanno voluto venir dentro ma non l’hanno più trovata la campagna, non gliela hanno più data. Qui da noi c’è uno che ha una bellissima casa con un sacco di campagna: suo padre l’ha comperata da quelli che volevano andarsene. Abita qui nella nostra casa.

D: Ti ricordi nel campo di Bolzano di quella donna che veniva soprannominata la Tigre? E i due ucraini, te li ricordi, quelli del blocco celle?

R: Ma quelli erano quelli che davano botte! Sì mi ricordo, quelli erano quelli che davano legnate. Sì, anch’io avevo un’ucraina che mi faceva la guardia. Ma me la sono fatta buona l’ucraina. Dopo mi ha chiesto se fossi capace di lavorare a maglia, allora ho cominciato a farle le mutande di lana. “Si tenga calda, le faccio io le mutandine”. Sono sempre stata così di carattere, guai se non avessi avuto ‘sto carattere… Le facevo le mutande e dopo mia mamma e la professoressa ridevano. Le facevo due pezzi col triangolato, attaccavo il triangoletto bellino e lei mi diceva: “Oh Danke, Danke Ginevra, Danke Genf”. Genf mi diceva in tedesco. Un dì venne, mi portò della lana bianca e mi disse di farle una giacca. Beh non mi è mai riuscita così bene, glie l’ho fatta bellissima. E sai che cosa m’ha dato? Due scacchetti di cioccolata. Ho detto, un’altra volta non te la faccio più.

D: Ginevra, quando hai lavorato il primo periodo in sartoria, la sartoria era nel campo o fuori?

R: Dentro, sotto la garitta, sotto l’ultima garitta, sotto a quella d’angolo che guardava….allora erano tutti prati là.

D: Tu lavoravi sola?

R: Sì, io come donna ero sola con uomini da Torino, ero il jolly perché dicevano: “Arriva la nostra piccola”. Tutta brava gente e nessuno che mi ha mai fatto scherzo, mai. Tutta brava gente.

D: Ricordi se potevate scrivere o ricevere lettere o dei pacchi?

R: Nessuno mi ha mai mandato niente. Avevo un ragazzo che lavorava; l’unico che m’ha mandato delle mutande e dei pannolini è stato un signore che lavorava alla centrale di Albiano. Sopra Bolzano c’è una centrale.

D: Quella di Prato Isarco?

R: Lui lavorava nella centrale e aveva una forte simpatia per me, lo conoscevo prima. Dov’è?

D: Forse Appiano?

R: Appiano. (NB: è Cardano) Veniva qualche volta sulla porta a veder se mi scorgeva. Si vede che aveva dei permessi speciali, vestiva in divisa, veniva e mi portava mutande e pannolini perché ne avevo estremo bisogno, perché allora non c’erano i pannolini. Sempre lavarsi con l’acqua fredda e fuori passavano le finestrelle a questa altezza: così vedevano dentro la Polizia Trentina e le SS che passava a far guardia di notte, venivano dentro urlando. C’era da nascondersi perché c’era come un corridoio lungo con tutte fontanelle come gli abbeveratoi della bestie.

D: Da mangiare cosa vi davano?

R: Solo minestra. E il giorno di Pasqua hanno fatto la pastasciutta.

D: Il giorno di Pasqua è successo un altro fatto però, è entrato qualcuno nel campo, no?

R: E’ venuto il vescovo di Belluno a portare la comunione, ha portato pacchi a tutti i suoi bellunesi, a tutti.
E dopo era scappato uno di Levico, una persona altolocata, era un po’ maneggione dentro, non so come dirlo: aveva un compito dentro nel campo, e uno di quei giorni è scappato.

D: Ricordi se dentro nel campo voi avevate dei soldi per poter comperare qualcosa?

R: Niente, mai comprato niente mì.

D: Quindi non c’era uno spaccio dentro nel campo?

R: Io non ho mai comprato niente.

D: Non entrava un camioncino a vendere le mele?

R: Niente. Io non l’ho mai visto.

D: Ti ricordi di una deportata che veniva soprannominata “Cicci”? piccolina?

R: Ce n’erano dentro tante tante. Sì ci sarà stata ma io, siccome andavo a lavorare e dopo quando avevo tempo andavo a guardare i bambini ebrei e a giocar con sti popi ebrei. Dopo andavo sotto la garitta a prendere il pan e portarlo a quegli altri e le sigarette perché sa, uno che ha il vizio! E dopo ero sempre un po’ occupata, io e la, come si chiamava quella di Levico? Ha un nome strano, veniva anche lei insieme a me, aveva 2 o 3 anni più di me. E andavamo ma non me ricordo.

D: Ginevra, ti ricordi la liberazione?

R: Sì, me la ricordo. Mi han fatto una carta che ho perso, mia mamma l’ha persa. Per fortuna che avevo il libro io perché quando è morto il papà la mia casa è stata messa sotto sopra e mia cognata ha bruciato tutte le carte che ha trovato nel cassettone; ho una cognata calabrese, di quelle che non sanno né leggere né scrivere.

D: E alla liberazione tu e tua mamma dove eravate?

R: Eravamo in campo però fuori dal campo abbiamo trovato una famiglia di Bolzano che ci ha portate a casa sua e ci ha dato da mangiare e da dormire quella notte. Ho tanto mangiato che son stata male. E il giorno dopo noi ci siamo avviate a piedi, ma quella notte son venuti a bombardar Bolzano; un mucchio de prigionieri che dormiva sotto le porte del Duomo sono morti dopo.

D: Ma voi siete uscite dal campo, vi hanno detto che eravate libere?

R: Libere, mi han dato una carta, un biglietto così: a me e anche alla mamma.

D: E siete andate da questa famiglia?

R: C’era fuori questa famiglia. Lui era un commerciante di verdure, portava col camion le verdure dal Veneto e son venuti a prenderci e mi ricordo che c’han portati a casa loro. Abbiamo dormito lì, ci han dato da mangiare e poi la mattina presto a piedi ci siamo avviate. Siamo arrivati fino a Ora, penso. A Ora passa un camioncino di tedeschi e ci chiede dove andiamo. Abbiamo detto: “Andiamo in Valsugana”. Ci han caricati e portati fino a Levico, perché a Levico c’era ancora il comando, c’era ancora qualche rimasuglio. La mamma l’ho lasciata a Levico in famiglia a dormire e sono andata a Novaledo, 5 chilometri a piedi. Incontravo i tedeschi con buoi, con mucche, con vettovaglie che si portavano a casa.
Ma per noi è stata una distruzione: la nostra famiglia aveva 6 bestie nella stalla, 6 mucche, 2 maiali, pecore, conigli, galline, perché noi eravamo i “baccani” dicono, cioè i benestanti, prima della guerra. E’ stata una disfatta per noi. Abbiamo recuperato una mucca e era malata di polmoni, l’abbiamo dovuta vender anche lei. La mia famiglia è stata distrutta.

D: Ginevra, tu non hai mai raccontato di questa tua esperienza di deportazione?

R: Mai a nessuno, no. La racconto a qualche mia amica quando mi viene a trovare, per esempio se vado al mare, e dico: “Io sono stata anche al campo de concentramento”; allora mi chiedono qualche cosa ma non ci credono.

D: Ai tuoi figli lo hai raccontato?

R: Ai miei figli sì, e mi dicono: “E tu sei sopravvissuta?” Ma và, mia figlia ha un carattere diverso dal mio, io la sovrasto col mio carattere. Quando andiamo al mare assieme, siamo sempre andate insieme fino all’anno scorso, lei si sente più piccola perché dove vado io mi faccio il nido con il mio carattere; non so come, ma tutti mi vengono dietro: “Dov’è la Ginevra? Dov’è la Ginevra?” perché piace stare in mia compagnia.

D: Ginevra, cos’è stato per te e per tua mamma l’esperienza del campo di concentramento?

R: La disfatta della famiglia, per noi una tristezza tremenda, non abbiamo più trovato noi che eran tutte case e famiglie. D’estate venivo qua a aiutare a far da mangiare, a far le pulizie, a tener puliti gli uomini perché avevano la campagna e mio padre era capo al Genio civile. Mio papà era papà del secondo matrimonio, era della provincia di Sondrio mio padre, non è della Valsugana, e venivo ad aiutare la famiglia perché c’era bisogno di una persona.
D’inverno andavo a Novara e lavorava come commessa al Galtrucco, un negozio di stoffe, sì, sì. Tutti gli inverni trovavo il posto: “Arriva la Ginevra”. Il signor Galtrucco che era sulla via principale sotto ai portici: “Arriva!” e mi offriva il nome, non mi ricordo più come diceva, in novarese me lo diceva. E tutto contento mi dava lavoro, 3, 4, 5 mesi come volevo stare.

D: E poi l’arresto e il campo di concentramento?

R: E dopo là tutta la disfatta e dopo quando son venuta fuori: “Adesso – dico – voglio andare in Svizzera per imparar il tedesco”. E son andata 5 mesi a Laufen e lavoravo in un ristorante, ho lavorato in un ristorante. Si faceva di tutto, dalla cucina alla lavanderia, bisognava far di tutto, una settimana ci si alzava alle 7, una settimana alle 8, però mi son trovata benissimo perché erano perfetti nel modo di trattare; se facevo un’ora di straordinario la sera la pagavano subito, in contanti. Davano subito i due, com’erano i soldi là?

D: Franchi?

R: Due franchi, alla sera per un’ora davano due franchi, subito.

D: Ginevra, e tuo fratello che era in Germania?

R: E’ venuto dalla Germania a piedi, da in cima alla Germania in due; l’avevano portato vicino alla Polonia, a piedi è venuto fino a non so che città dell’Austria, sempre a piedi, sempre a piedi; l’ha attraversata tutta. Era del ’16. Pensa che è sempre stato militare tutta la sua vita, ha fatto l’attivo, stava a casa tre mesi, e poi richiamato, è sempre sta via a militare.

D: Lui era prigioniero in Germania?

R: In Germania prigioniero, sì, sì. E invece l’altro fratello che non doveva far neanche un giorno perché erano orfani di guerra, della guerra del ’14, quello è stato richiamato dai tedeschi e mandato in Sicilia, era in Sicilia. Non mi viene il nome, mi scriveva, mi metteva il nome della città. E lì è stato preso prigioniero degli americani e l’hanno mandato in Africa, in Marocco. E da là mi ha scritto una cartolina dal Marocco, ma è arrivata dopo la guerra perché non c’era il permesso.

D: Ginevra, cosa ricordi ancora del campo di concentramento di Bolzano?

R: Di male ricordo il maresciallo Haage, non l’ho mai dimenticato; stavamo ore e ore all’adunata anche fino a mezzanotte la sera. Avanti col frustino perché non gli tornava il numero, fuori nel cortile grande. E là tutti in fila passavano e contavano eins zwei drei si sbagliavano allora anche fino a mezzanotte in piedi a far l’adunata.

D: Anche se c’era brutto tempo?

R: Anche se c’era brutto tempo. Sì, sì.

D: E poi cosa ti ricordi ancora del campo do Bolzano?

R: Il letto comodo. Il letto di piume, un sacco di segature!! C’erano le stecche, le segature andavano giù e restavano le stecche.

D: C’era un’infermeria nel campo do Bolzano?

R: Ho sentito nominare era qualche medico e che qualcuno lo aiutava, gli dava qualcosa ma non ho mai voluto, non ho mai chiesto niente, avevo paura che mi avvelenassero, dico: “Mi danno la medicina e mi fanno morire quelli lì”, non son mai andata, mai chiesto niente.

D: Di mamma cosa ti ricordi, quando era nel campo con te?

R: La mamma continuava a piangere. Tutti i giorni diceva: “Tutta la vita ho lavorato” perché veniva da una famiglia benestante e il primo marito l’ha sposato povero, ha dovuto piantarlo povero con la sua roba insomma. Dopo questo è andato in guerra, ogni volta che veniva a casa la metteva incinta, ne ha avuti 4. A 26 anni era vedova con 4 figli! A 30 anni ha sposato mio padre, 5 anni più giovane, lui aveva 25 anni. Io ho 25 anni di differenza da mio padre.