Addomine Renato

Renato Addomine

Nato nel 1924

Intervista del: 29.07.1998 a Milano realizzata da
Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n.51 – durata: 90′

Arresto: 03.10.1944 a Feltre (BL)

Carcerazione: scuole elementari IV Novembre a Grigno (BL)

Deportazione: Bolzano, Merano alla caserma di Maia Bassa, dipendente da Bolzano

Liberazione: il 30.04.1945

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Organizzazione materiali ed inserimento dati: Elisabetta Mascarello, Elena Pollastri

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

R: Io sono di Feltre, la mia famiglia è di Feltre da generazioni e generazioni. La caratteristica di Feltre, essendo provincia di Belluno, storicamente è sempre stata la bella stagione di Goldoni, il retroterra dell’estate per i veneziani, come educazione, come tutto. A un bel momento mi trovo senza sapere perché nella situazione della Seconda Guerra Mondiale, la capitolazione e tutte queste cose. Nelle tre province, sia di Trento che di Bolzano che di Belluno, ci sono dei villaggi e delle zone in cui si parla tedesco, basti pensare a Cima Sappada, su nell’alta provincia di Belluno, tanto quanto Trento. Caduto il fascismo, si è formato il fascio repubblicano anche a Feltre, un po’ dappertutto. A un bel momento sono venuti i…

Noi chiamiamo tedeschi nel senso generale tutto ciò che è aldilà del Brennero, non andiamo mica tanto per il sottile. Quello che noi chiamiamo tedesco non distinguiamo se è prussiano, se è di altre parti. Sono venuti i tedeschi, ci hanno occupati. A un bel momento hanno dato ventiquattro ore di tempo perché i fascisti abbandonino le tre province di Trento, Bolzano e Belluno, cosa che non tutti sanno. Questi signori hanno fatto le consegne di tutta la loro situazione politica delle varie famiglie, di chi era e di chi non era, consegnati ai tedeschi e sono andati via.

I fascisti sono stati mandati via. Non era più questione di fascisti o non fascisti, era soltanto l’ennesima occupazione che noi avevamo, cosa che non abbiamo mai fatto noi. C’era una piccola storia piuttosto interessante che ricordo, che mio padre quand’era ragazzino, parliamo dell’ottocento ancora, sentiva da mio nonno una frase di cui non ho mai saputo chi sia l’autore, probabilmente qualcuno lo saprà. Mio nonno diceva: “E poiché gli Alemanni in casa avete, serviteli bene e fatevi mostrare le spade loro con che vi hanno fesso i visi e padri e figli uccisi”.

Mio papà diceva: “Ma no, ormai sono finiti quei tempi”. Si è beccato tutta la Prima Guerra Mondiale, sette anni di servizio militare, Feltre è stata invasa per l’ennesima volta. Mio padre quando è successo che siamo entrati in guerra nella Seconda Guerra mi ripeteva questa frase: “E poiché gli Alemanni…”. E io dicevo: “Ma papà, dai che sono cambiati i tempi”. Per l’ennesima volta è successa la stessa cosa.

Quindi nel sangue noi non è tanto con le persone, io ho degli amici tedeschi singoli. Addirittura c’era un ufficiale delle SS, lui viveva in America, che eravamo amici intimi, però lui sapeva e io gli dicevo: “Guarda che se tu metti la divisa, tu mi fai fuori”. E lui mi diceva: “Cosa vuoi che ti dica? Così è”. Per dire l’abisso mentale che c’è, questa è quindi la cattiva disposizione.

D: Addomine, Lei dice che i fascisti sono andati via…

R: Sono stati mandati via. Tanta gente non lo sa.

D: Quando è avvenuto questo?

R: Glielo dico subito, forse non esattamente, verso l’agosto, settembre del 1944.

D: 1944?

R: 1944. Sono stati mandati via. E cosa che non tanti sanno, il capo un po’ dei fascisti repubblichini che era quello che faceva arrestare e consegnavano ai tedeschi il Tizio, Caio e Sempronio, perché venivano consegnati soprattutto da questi, a un bel momento sono stati mandati via. Però hanno lasciato tutto un dossier di dichiarazioni. Aspetti, ho detto agosto? No, il 19 giugno c’è stata una grande retata a Feltre, quindi ai primi di giugno sono stati mandati via con l’occasione di quella retata.

D: Voi quanti anni avevate allora?

R: Io ho compiuto vent’anni in campo di concentramento, perché sono del 1924, quindi avevo diciannove anni. Mio fratello ne aveva sedici, quindici e mezzo, sedici e due sorelle maggiori, perché siamo stati deportati in quattro. Io mi ero appena diplomato a Vicenza e a Feltre c’era la direzione della costruzione della diga del Trabignolo su in Val di Fiemme.

Io lavoravo dentro in quest’impresa svizzera. Circolavo coi documenti Schuetzbetrieb, cioè stabilimento protetto e venivo anche a Milano ai collaudi delle turbine, delle centrali allora sotto i tedeschi, sempre con questi documenti. Quando c’è stato il grande rastrellamento, i documenti stracciati, buttato via tutto, portato via tutto quello che avevamo addosso.

D: Voi siete stato fermato in un rastrellamento?

R: No, al mattino alla cinque tutta Feltre è stata occupata da un’azione militare e hanno portato via duemila e tante persone su una cittadina come Feltre. duemila circa concentrate tutte in uno stabilimento e mandate poi alla Todt, a lavorare alla Todt. Centodiciassette selezionati, fra i quali io, un fratello e due sorelle tirati fuori. Questi centodiciassette, ci hanno portati tutti su un teatro, chiusi dentro senza mangiare né niente né bere là, sulle sedie di questo teatro. Il giorno dopo sono andati su sul palco, tutte le porte picchettate.

In questo non c’entrano né fascisti né niente, perché ormai erano stati mandati via. Avanti una famiglia. Questa famiglia, nome? Avevano tutti i foglietti consegnati dai fascisti. Posso dire che quando è toccato a me, eravamo io, mio padre, mia sorella, altre due sorelle e un fratello, sei persone, quando siamo arrivati: famiglia Addomine. Allora uno fa con la mano così, metà da una parte e metà dall’altra. Un gruppo concentrato così, dov’è la metà?

Un po’ qua, un po’ là. Hanno fatto così e ci hanno sbattuti quattro da una parte e due dall’altra senza stare là a contare. Poi questi qua fucilati e gli altri no non si sa niente, là il momento era così, perché fuori intanto avevano fatto l’ira di Dio, avevano impiccato delle persone. Ci siamo trovati in quattro e gli altri mandati via.

D: Le volevo chiedere: che giorno era questo?

R: Questo era il 3 ottobre 1944. Ci hanno separati in questa maniera, né mangiare né niente, privati di tutto quello che avevamo addosso, portati via ori, anelli, orologi, tutto, spogliati di tutto, messo dentro tutto in un sacco, portato via tutto. Al mattino presto chi poteva dormire là tra un seggiolino e l’altro di un cinema? Ci sono dei camion fuori, si sente che sparano, l’ira di Dio.

Veniamo fuori, incolonnati e messi su dei camion. Attraversando tutto il centro di Feltre tutta la gente che piangeva, noi ci sentivamo che è finita, volavano dalle finestre le coperte per cercare di ripararci. C’è stato quel senso che senza guardare in faccia chi fosse bisognava aiutare questa povera gente. Col camion dove andiamo?

Erano cinque o sei camion, eravamo stretti come sardine. Un piccolo particolare: quelli che hanno mandato via, sono tornati a casa e quelli che siamo rimasti, siamo stati in centodiciassette, cento uomini e diciassette donne. Questi che poi siamo stati deportati.

D: E la Vostra famiglia era?

R: Io, due sorelle e un fratello, quattro. Invece che fare tre e tre, che siamo rimasti lì hanno fatto quattro e due. Poteva essere.. Non lo sapevo se così o così, che andavano a casa. Il babbo e una sorella a casa. Quattro ci siamo trovati così. Con questi camion coperti di teloni cercando di guardare fuori abbiamo passato Primolano, siamo arrivati a Grigno. Hanno fermato i camion, dentro in una scuola. Scendere tutti, ci hanno fatto dormire dentro nelle scuole elementari di Grigno, un paesetto per andare in Valsugana, per andare a Trento.

Al mattino presto: “Su, Aussen, tutti su, tutti in piedi, tutti allineati contro il muro”. Dico: “E’ finita qua”. Altra volta, qua adesso ci hanno messi al muro. Invece no, ci hanno tenuti là fermi finché arrivava sulla ferrovia della Valsugana un treno merci che si è fermato non in stazione e ci hanno fatto montare su, su dei vagoni come bestie. Bombardavano la linea del Brennero allora. Siamo arrivati alla sera del 5 ottobre a Bolzano. Guardano fuori, chi conosceva: “Sì, siamo a Bolzano”. Poi a un bel momento davanti a un grande cancello eravamo all’entrata del campo di Gries a Bolzano.

D: Siete arrivati in treno a Bolzano dove?

R: Alla stazione di Bolzano.

D: Alla stazione.

R: Alla stazione ci hanno fatto scendere, caricato con dei camion ancora e portati davanti al portone del campo. Guardando fuori ho visto reticolati, mi sa tanto di campo di concentramento, ma noi non sapevamo dove eravamo, dove andavamo.

D: Lì cos’è successo?

R: Lì ci hanno fatto entrare, tutti fermi. Vedo certa gente, tutti con una tuta addosso, pelati a zero. Era pomeriggio e ci mettono dentro divisi in baracche. C’erano baracche con castelli di tre piani di legno, pagliericcio per modo di dire, era una specie di coperta straccia e segature. In questo grande capannone, uno dei due o tre, ci siamo tirati su e vedevamo questi qua che venivano su al buio come anime morte e noi: “Dove siamo?”. “Siete in campo. Siamo destinati ad andare tutti in Germania”; le prime informazioni che correvano.

Al mattino giù tutti, hanno diviso le femmine da una parte, gli uomini dall’altra, spogliati, un grande getto con la manichetta per fare la doccia davanti al cortile con la manichetta dei pompieri. I cani addestrati che ci mordevano se uno si curvava, anche questa è una cosa nota, cosa che è molto bella. Il nervo di bue è l’unica cosa, a frustate, ci hanno dato una tuta che erano le tute di fatica, allora, quella che ho avuto io, dell’aviazione nostra, quelle tute bianco grezzo. Quella mi ha accompagnato. Spogliato di tutto il resto, solo la tuta.

Hanno fatto il primo discorsetto: “Da questo momento siete sotto il controllo del vostro capo campo”, che era un certo Maltagliati, fratello della Evi Maltagliati attrice. In gamba, perché con un assembramento di gente così eterogenea se non c’è un capo succede l’ira di Dio, perché le donne, gli uomini erano dagli avanzi di galera Il professor Ferrari, primo Sindaco di Milano del dopoguerra dormiva vicino a me. Mi ricordo, una mattina mi sono svegliato, avevo un mal di gola tremendo, avevamo il terrore di cose del genere perché non c’erano condizioni igieniche.

Mi fa: “Dopo ti guardo io”. “Ma te ne intendi un po’?” mi ha detto lui, mi ha guardato… “No, no, è un angina semplicemente”. Dico: “Ma chi sei tu?”. “Sono Ferrari di Milano”, poi è diventato il primo Sindaco del dopoguerra di Milano, professor Ferrari.

Mi ha guardato in gola, era anche lui con la tuta come me, con gli zoccoli, eravamo tutti uguali, tutti “Banditen”, eravamo banditi e basta.

D: Lei ha subito un interrogatorio?

R: No.

D: Niente?

R: Una cosa posso dire, c’è una storia pregressa. Nessun interrogatorio perché era già tutto predisposto e deciso, era la lezione che dovevano dare a Feltre. Perché con l’occupazione delle tre province a un bel momento i giovani di leva, come ero io, come altri, io ero iscritto al corso ufficiale di stato maggiore di Marina, perché avevo fatto radiotecnica come specialità, ma che poi è finita la guerra l’8 settembre

Ci avevano dato la possibilità di scegliere, scegliere volontari delle SS o delle SD, di vestire in ogni caso la divisa tedesca. Un bel mattino corre la voce che sono arrivati giù i partigiani e hanno portato via tutto… Certo, non hanno potuto fare la chiamata ufficialmente e questa è stata la grande lezione che ci hanno dato. Duemila portati a lavorare in fortificazioni alla Tod e centodiciassette deportati, che eravamo destinati all’eliminazione. Come siamo entrati in campo di concentramento ci hanno dato un triangolo rosa, che vuol dire rastrellato.

I triangoli erano il giallo, ebrei, rosa, rastrellati, rosso, politico pericoloso e azzurro che era qualche inglese, qualche svedese, straniero ma non militare, senza significato politico. Questi erano i triangoli. La cosa è durata poco, perché a un bel momento hanno cominciato a fare le prime partenze, a mandare via qualcuno di noi, poi non è tornato nessuno. Sono andati in Germania, il campo di Bolzano era un campo di smistamento, era un Durchgangslager, un campo di attraversamento. Sotto SS, soltanto controllato da SS.

Noi non potevamo neanche salutare qualcuno della Wermacht. In pieno inverno ci avevano dato una specie di berretto fatto con un pezzo di coperta, a passare davanti a uno della SS bisognava tirare giù il berretto e stare fermi, fermi, fermi finché c’era il consenso di proseguire. Al mattino era una beffa. Alle cinque del mattino, sei, che era notte, quando ci facevano l’adunata, ci contavano tutti. Davanti ad ogni blocco c’era il capo blocco, ci contavano e allora uno diceva: “Siamo in tanti più tre che sono magari morti dentro”.

Dovevano quadrare i conti, sennò là era fame, botte, acqua mai vista, fuoco: chi ha mai visto il fuoco? Sa cosa vuol dire? Passare un inverno, lavorare, poi le squadre. O portavi i feriti che scaricavano dai treni all’ospedale di Bolzano, c’erano degli ospedali, mi ricordo, grandissimi che ricoveravano i feriti che venivano dal fronte, e li portavamo con le barelle su. O a cavare granito.

D: Ma fuori dal campo?

R: Sì, sì, fuori dal campo. Al mattino c’era un certo numero di squadre che uscivano. Andavamo a Gries, andavamo a Appiano, andavamo di qua e di là a fare qualunque lavoro, pulire tutti gli ospedali. In ogni caso la cosa più frequente era cavare pietre in cava.

D: In cava?

R: Sì, le cave di granito, ci sono su, di porfido.

D: E dove, si ricorda?

R: Esattamente no. Sa che non mi ricordo esattamente? Poi c’era un distaccamento a Merano, aspetti. C’era un distaccamento del campo di Bolzano a Merano perché tutta la roba che portavano su con l’avanzata degli alleati dall’Italia veniva messa dentro, i vari castelli della Val Venosta, tutti i castelli che ci sono là. Io mi ricordo una volta un certo maresciallo Kek, allora io avevo studiato tedesco, tedesco e francese, l’inglese era proibito ai miei tempi, io avevo studiato tedesco e allora ero comodo, qualche volta potevano rivolgermi la parola per certe cose.

Una volta chiedevano uno Spezialist Tecknik degli orologi, dico: “Se si tratta di mangiare un pezzo di pane in più, mi intendo anche di orologi”. Avevano migliaia di orologi che avevano sequestrato, allora li avevo tutti classificati, mi ero fatto gli attrezzi, quelli che lavoravano come forgiatori mi avevano fatto le pinzette, degli amici dentro. Tanto per darLe un’idea, ero diventato uno Spezialist, mi era comodo in un certo senso. Ecco perché dico se vado a Merano non c’è l’aria di Bolzano, Merano è un altro clima d’inverno di Bolzano, a Merano si sta molto meglio come temperatura.

Là a Merano qualche grado di più voleva dire tanto per sopravvivere, veramente. Là mi ricordo siamo entrati in un castello accompagnati da un signore con questi della SS sempre, perché c’erano dei quadri. Eravamo io, un certo dottore, che è morto adesso, Nino Paoletti, Bepi D’Antoni che era direttore, è stato direttore della Dalmine Acciai Speciali, che era prigioniero anche lui con me. Avevamo una certa cultura, per chiederci se potevamo classificare in ordine di valore un certo numero di tele.

Erano tele che credo fossero state portate su da Bologna, Modena, non so dove, ma delle tele meravigliose. Allora noi mettevamo a seconda dell’ordine d’importanza, classificate così. E’ venuto dentro un signore che parlava tedesco perfettamente e mi ha chiamato in disparte. Mi ha detto: “Come vi trattano qua?”. Come si fa a dire a uno che me lo porta la SS che mi trattano male? Per prenderle? Ho detto: “Così”. “Abbi pazienza, ci vedremo presto”.

Ed era quello stesso signore, era il rappresentante della Croce Rossa Internazionale, svizzero di Merano che è venuto dentro lui a portarci il foglio di scarcerazione. Questo che era un esperto di pittura, d’antichità, che viveva a Merano, che è venuto dentro con la scusa dei quadri per fare la valutazione di queste tele che avevano portato via, a Castello… Non mi ricordo più quale, li conoscevo tutti.

D: Ma in città o fuori città?

R: Fuori città. A Merano eravamo alla caserma di Maiabassa, prigionieri. Però eravamo sempre fuori. Per cui ho visto dei capolavori passare via, cosa ci potevo fare? Questo signore che avevano invitato per fare la stima in franchi svizzeri, l’aveva fatta lui la stima di questi quadri, è stato quel tale che è venuto dentro ufficialmente. Al 30 aprile è finita e sono arrivati gli americani.

Al 2 o 3 maggio eravamo ancora prigionieri dentro e non si sapeva cosa succedeva, è capitato dentro accompagnato dagli ufficiali con i fogli di scarcerazione di tutti noi. Per cui tutte le cose impensate, chi lo sa. Questa è un po’ la mia strana storia. Posso dire una cosa, però. Quella notte, dopo che ci hanno lasciati dentro, chiusi dentro quei centodiciassette, mi sono arrampicato su sul palcoscenico dove avevano le loro scrivanie, eravamo in due o tre, a raccogliere i bigliettini che avevano stracciato, dove avevano preso gli appunti.

Nel caso mio, cosa straordinaria, mi è capitato proprio “famiglia Addomine, composta di sei elementi, favoreggiatori e collaboratori di banditi”. Questa era la mia accusa. “Dichiarazione Recalchi”. Storia premessa: mio padre aveva uno studio fotografico, questo Recalchi era venuto su perché parente di un certo Rovali da Ferrara, io non ero neanche nato allora. Aveva uno studio fotografico, in un certo senso c’era la concorrenza professionale. I ricordi più lontani della mia infanzia, quindi parliamo del 1926, 1927, ho visto mio padre piangere perché il Recalchi aveva mandato i figli che erano tutti fascisti, mio padre invece non era fascista, era socialista, a spaccare tutti i vetri delle finestre di casa nostra.

Non potevamo fare niente, perché mio padre era socialista e quegli altri erano fascisti. Questi naturalmente erano tutti fascisti, tant’è vero che uno di questi Recalchi sono andati a prelevarlo in prigione e l’hanno fatto fuori, perché ha fatto quella cosa orribile. Una cosa strana che succede: la guerra finisce, sono venuti su con dei camion da Feltre a portarci giù, noi sopravvissuti. Arriviamo giù e ormai eravamo ai primi di maggio. Mi dicono che mio padre è impazzito, dico: “Perché?”. “Pensa che avevano preso Recalchi e messo su in una nicchia che c’è nella porta imperiale a Feltre per fucilarlo, mio padre gli ha fatto scudo e ha detto: “Questo mai”.

Pur essendo lui che ci ha deportati, ci ha fatto deportare lui e la sua famiglia, ha detto: “Ci sarà una giustizia, non facciamo queste cose”. Questo è un ricordo meraviglioso che ho di mio padre. Lei non sa niente perché ci siamo conosciuti e sposati in America con lei, poi era di Rovereto, però soltanto sentito dire. Però testimonio che quando mio padre è morto, vent’anni fa, io da Milano sono andato a Feltre naturalmente perché c’era il funerale di mio padre e vedo uno lontano, ricordo, dico: “Quello è Recalchi”.

Un figlio, il più giovane di questa famiglia era venuto con il motorino da La Spezia a Feltre per rendere scusa e omaggio alla tomba di mio padre. Guardi se non è un po’ un dramma impressionante. Questa è la mia storia. Eccola qua. Io non sono un eroe, non ho meriti particolari, ringrazio il Padre Eterno che mi ha fatto uscire in qualche maniera ed essere qui a raccontare, non posso neanche dire “Io sono un eroe”. No.

D: Una cosa, quando eravate lì a Merano a Maiabassa nella caserma, Vi ricordate la caserma qual’era? Era vicino a una stazione, a un albergo?

R: La caserma me la ricordo sì. Dunque, c’era la strada, uscivo qualche volta che mi facevano tirare fuori i cavalli. Fra me e i cavalli… Con il carretto… Una volta mi è scappato il cavallo, anzi no, ho preso il cavallo. La cavalla, la chiamavano la Fittoria… Questa ha aperto la porta, ha preso la corsa, le si sono fermate le stanghe e io sono volato fuori… Un disastro, fra me e i cavalli proprio non… Si costeggiava un fiume. Comunque la caserma di Maiabassa per me era notissima.

R: Addirittura a Feltre devo avere una delle fotografie del grande cortile interno, perché c’era un grande cortile interno.

D: Della caserma?

R: Sì. Proprio fatte il giorno che ci avevano liberati, devo avere una o due fotografie con le mie sorelle. Poi il triangolo me l’hanno cambiato in rosso. Senza sapere perché, non era più rosa, sono diventato rosso, politico pericoloso, ma non so perché.

D: Una cosa, oltre al triangolo Le hanno dato anche un numero?

R: 4.972.

D: Le Sue due sorelle erano con voi a Maiabassa?

R: Sì.

D: Anche loro?

R: Anche loro.

D: Ma qui non avete però la tuta bianca?

R: No, quella era a Bolzano, questo è Merano. Quella è la foto che si deve vedere il cortile, mi pare, è il cortile della caserma di Maiabassa quello là.

D: Allora, rimaniamo un attimo a Bolzano.

R: Sì.

D: Allora, Vi hanno dato il numero, la tuta e il triangolo.

R: Sì.

D: Poi il capo campo vi ha fatto il discorso.

R: Ha fatto il discorsetto il capo campo che si chiamava Maltagliati, che poi è stato sostituito da altri che adesso mi sfugge il nome, ma a cui posso risalire.

D: In che baracca Vi hanno messo?

R: Io sono entrato nella H.

D: Nella H?

R: Sì.

D: Vi ricordate il capo blocco chi era?

R: Sì, Musi, tenente dei carabinieri.

D: Qualche altro Vostro compagno Ve lo ricordate, oltre al professor Ferrari?

R: Compagni?

D: Dentro in baracca.

R: Dentro in baracca? Giuseppe D’Antoni… Ah no, questo poi era a Merano, poi ci siamo trovati là. E’ un gruppo diverso. Tutto il gruppo di Feltre, me li ricordo… Ci deve essere qualche elenco…

D: Se Le viene in mente qualche nome così.

R: Perbacco, il dottor Nino Paoletti, Antonio Paoletti che era il mio vicino di casa.

D: Vostro fratello era con voi?

R: Sì.

D: Invece le Vostre sorelle dove le hanno messe?

R: Nel blocco a fianco, che era delle donne.

D: Vi ricordate se avete visto che dentro nel campo c’erano anche dei sacerdoti?

R: Sì.

D: Lì avete visti?

R: Sì, perché il giorno di Natale a un bel momento uno di questi prigionieri si è messo su uno straccio sopra, ha fatto la messa per tutti, ha dato un pezzettino di pane secco, ha detto: “Questo è il simbolo…”, senza confessione né niente, “fate la comunione tutti perché qui è finita”.

D: Il nome non Ve lo ricordate?

R: Non me lo ricordo.

D: Ma era un feltrino?

R: No, non era un feltrino perché li conoscevo.

D: La messa di Natale.

R: La messa di Natale. Non ricordo chi fosse. Ha detto: “Questa è la confessione generale a tutti, perché avete pagato tutte le vostre colpe”, senza confessione né niente, un pezzo di pane che sia simbolo della comunione.

D: Vi ricordate i capi invece tedeschi?

R: Sì.

D: Questi nomi Vi ricordano qualcosa?

R: Haage, il maresciallo Haage, il tenente Thito, che quando veniva fuori lui era perché c’erano delle spedizioni, organizzava le spedizioni, le partenze, Thito poi il maresciallo Kek.

D: A Bolzano questo maresciallo?

R: No, Kek era a Merano, invece Haage e Thito erano a Bolzano. Ricordo benissimo che c’erano due o tre ucraini che erano i capi celle che pestavano la gente, poi li impiccavano con le mani sul palo così, sollevati da terra a morire dal freddo.

D: Nel campo?

R: Nel campo. Alla mattina si usciva e si vedeva sul palo uno là e non si poteva toccare, stava morendo servito da questi signori ucraini.

D: Lei a Bolzano quanto tempo è rimasto prima di partire per Merano?

R: Tre mesi e mezzo, quattro mesi.

D: Quindi ha visto numerose partenze?

R: Altroché.

D: Quegli ucraini, Ve li ricordate i nomi degli ucraini?

R: No, però in uno dei libri che ho ricevuto, ho letto, ho trovato, non so che, ci sono.

D: Otto e Lischa?

R: Esatto.

D: Vi ricordate se c’era anche una donna?

R: Sì. Era la iena, era tremenda, la chiamavano “la iena”. C’era questa donna, sì.

D: Una cosa, il campo aveva un muro di recinzione?

R: Sì.

D: Sopra il muro c’era del filo elettrificato, del filo spinato?

R: Filo spinato tutto attorno, elettrificato lo ritenevamo, ma non lo sapevamo. C’erano però ogni tot metri delle torrette con le guardie armate.

D: Delle garitte quindi?

R: Delle garitte proprio sopra il muro.

D: Senta, l’appello come avveniva?

R: Mai fatto appello. Noi dal momento che si entrava, che ci hanno dato il numero, il nostro nome era sparito, soltanto il numero, eravamo solo il numero.

D: Ma alla mattina non vi chiamavano fuori dalle baracche?

R: Certo, tutti in fila e ci contavano, ogni blocco. Questo ne ha centoventicinque, centoventitre, allora il Kapò del blocco veniva avanti, due sono morti dentro, oppure non so, uno è moribondo. Il papà di Gianfranco Grabuio per esempio una volta era pronto per la spedizione, portato via, hanno detto: “E’ morto, lascialo qua”, invece poi è sopravvissuto. Il papà di Gianfranco Grabuio era…

D: A proposito di morti, diceva prima di violenze. Quindi Voi avete assistito a delle violenze?

R: Io ad esempio, siccome lavarsi niente, avevo un’infezione di barba tremenda, siccome non c’era barbiere, altro che per tagliare i capelli con la forbice, i capelli a zero, un’infezione di barba tremenda, mi ricordo. Un mattino col freddo passo via e il maresciallo Kek mi chiama, grida, mi giro, fermo, duro, siccome non ho tirato giù il berretto sperando che non mi vedesse mi ha dato delle nervate in viso.

Avendo tutte le croste dell’infezione di barba sono entrato in blocco che ero tutto sanguinante, sembrava chissà che, però era superficiale, perché erano croste. A vedere i miei compagni che piangevano mi è venuto un male al collo, loro piangevano e per me e io dicevo: “Va beh, insomma, mi ha dato delle nervate”.

Non mi ero visto allo specchio che avevo tutto il sangue dell’infezione di barba. Così si viveva, in queste condizioni. Col terrore. Poi i cani poliziotti sempre addestrati, sguinzagliavano i cani con l’istruzione precisa di saltare addosso se uno si muoveva fuori dalla riga, mordevano. Anche questa era una cosa piuttosto antipatica.

D: Nel periodo che Voi siete rimasto a Bolzano uscivate a lavorare, costituivano delle squadre di lavoro?

R: Sissignore.

D: Quindi uscivate dal campo?

R: Si usciva dal campo comandati da un plotone tedesco, sempre accompagnati da un plotone armato e ci portavano, non so, ad un ospedale o in cava o a scaricare vagoni.

Oh, una cosa che mi sono dimenticato, molto carina anche quella, con i bombardamenti che c’erano nel Brennero le varie stazioni, tutti i vari binari venivano smantellati per ricostruire le linee su cui poter passare. Quella di cavare su rotaie era una cosa spaventosa.

D: Quindi vi mandavano a lavorare sulle massicciate anche?

R: Certo, anche molto grazioso era scaricare le bombe inesplose con un bel martello di gomma, le istruzioni, poi si mettevano di dietro e ti facevano segno così. Quando davi il colpo così slittava la spoletta, facevi così, sono qua o sono… Anche quella era una cosa molto graziosa.

D: E sotto la galleria del Virgolo?

R: Il Virgolo l’abbiamo fatto noi, la galleria del Virgolo era galleria per la strada, ma è diventata una fabbrica di cuscinetti a sfera che era necessaria e dentro al Virgolo a fare le massicciate, a portare i muri… Il Virgolo è stato fatto con tutti i prigionieri. La fabbrica di cuscinetti a sfera.

D: La Imi, Imi si chiamava.

R: Non lo so, non ricordo.

D: La Imi. Quindi Voi siete stato anche lì?

R: Certo. Altroché.

D: A proposito di questa cava, può dirmi qualcosa di più? Perché di questa non avevo mai sentito. Non so assolutamente dove collocarla, era vicino al campo o andavate a piedi?

R: Era lunghetta. Per …. era un altro, subito prima di Bolzano per andare su, cosa c’è? Laives?

D: Laives Bronzolo.

R: Da quelle parti là.

D: Porfido quindi?

R: Porfido, il granito.

D: Estraevate il porfido e lo mettevate sul camion?

R: Sul camion i blocchi venivano caricati…

D: Quindi una cava all’aperto?

R: All’aperto. … Quello era un altro, poveretto.

D: Cioè, hanno ammazzato qualcuno?

R: E’ successo dentro, quando l’hanno portato in Germania, un mio amico.

D: A Bolzano?

R: No.

D: A Merano?

R: No, in Germania, non mi ricordo più, erano tre o quattro campi, erano sempre quelli.

D: Allora, lì siete rimasti tre mesi?

R: Tre mesi circa, sì. Poi sono stato liberato a Merano ed è stata a Merano la storia dei quadri. Di quello che era il funzionario della Croce Rossa Internazionale, che nessuno lo sapeva, che faceva l’antiquario di Merano, loro credevano che fosse un antiquario, era uno svizzero.

D: Il nome non lo sa?

R: No.

D: E questi quadri erano dentro a questo castello?

R: Sì.

D: Però diceva che il castello è fuori Merano.

R: Fuori, fuori. Tutti quei castelli lì attorno, Annaturno, Sluderno…

D: Se io Le dico un nome, Le dice qualcosa San Leonardo in Passiria?

R: San Leonardo anche, sì.

D: Ma non è quello dei quadri?

R: No, non è quello dei quadri questo.

D: Lì a Merano la sua occupazione qual è stata? Quella dei quadri sempre?

R: No, quella è stata incidentale. A Merano era caricare e scaricare i vagoni, tutto quello che portavano su, dai sacchi di caffè, che allora il caffè era una cosa rarissima. Caricare e scaricare vagoni.

D: In stazione?

R: In stazione.

D: Maiabassa?

R: Maiabassa, sì. Ma tante volte non si fermavano in stazione i vagoni, perché con la storia dei bombardamenti venivano spostati in rami ferroviari tirati fuori, secondari. E cavare su rotaie per ripristinare la linea ferroviaria, il ponte di Bodi, quante volte l’hanno bombardato.

D: Siete andati anche lì?

R: Anche lì, perbacco.

D: Sai dov’è? Prima di Trento?

R: Fra Trento e Bolzano. Il ponte di Bodi. Coi bombardamenti di allora buttavano giù tante di quelle bombe che facevano spavento, tant’è vero che la montagna per un certo periodo aveva tutte le buche delle bombe. Anche là, prendere e ripristinare almeno una linea che potesse tirare dritto per poter proseguire.

D: E uscivate con le zebrate, con le tute?

R: Sì, sì. Non esisteva altro per cambiarsi. A Merano avevo quell’altra tuta, due pezzi, a Bolzano quella bianca. Non ho mai avuto altro.

D: Quando eravate lì a Bolzano o anche a Merano avete potuto scrivere a casa?

R: Sì, qualche volta sì. Perché quando ci mandavano fuori con le squadre c’era qualche paesano che salutava così e allora avevamo sempre nascosto un pezzettino di carta, qualche cosa. “Tò, consegnalo”, si poteva comunicare in questa maniera.

D: Però voi potevate ricevere lettere o pacchi?

R: No, mai ricevuto.

D: Avete mai ricevuto niente?

R: Io non ho mai ricevuto pacchi, però c’è stato qualcuno che riceveva dei pacchi. Come non lo so.

D: All’interno del campo c’era chiamiamolo un movimento resistenziale, c’era qualcuno che si dava da fare?

R: No, no. Ho visto delle cose meravigliose, delle cose orribili, però là era proprio la sopravvivenza e basta.

D: Vi ricordate qualche cosa meravigliosa?

R: Una cosa meravigliosa sì. Quando hanno scavato quella galleria nel silenzio per uscire dal blocco, per poter scappare, li hanno sorpresi all’ultimo momento perché hanno fatto la spia. Eravamo 15, 20 gradi sotto zero, tutti inquadrati fuori al freddo. “Se non salta fuori chi è stato non vi muovete”.

Le solite guardie, i cani, ecc.

Non è saltato fuori per un giorno, il giorno dopo si è fatto avanti uno che era un ex ufficiale, non mi ricordo più se degli alpini o di dove fosse. Si è costituito lui, in realtà erano più, erano parecchi. Però con questo hanno liberato le squadre. Ho visto un gesto di uno che ha dato la propria, ha offerto la propria vita per gli altri, sì. Anche questo ho visto. Era nel blocco…l’ultimo del capannone su, non mi ricordo più come si chiamasse. Che roba!

D: Voi dicevate prima dei triangoli azzurri che erano degli inglesi.

R: Sì.

D: Cioè nel campo c’erano anche…

R: Sa che con la guerra, ancora quando c’era l’esercito italiano, un certo numero per esempio di inglesi erano stati catturati in Africa e portati qua. A quelli sbandati, i tedeschi hanno attribuito questo triangolo che non erano né italiani né niente, militari ma non catturati da loro. Questo era il triangolo azzurro.

D: Erano lì a Bolzano, nel campo di Bolzano?

R: Sì, c’erano questi, c’erano i gialli che erano gli ebrei, i rosa che erano i rastrellati e gli ostaggi.

D: Gli ostaggi?

R: Bambini di cinque o sei anni col nonno di sessanta, settanta.

D: Bambini c’erano?

R: Bambini di pochi anni, certo.

D: Dov’erano questi?

R: Qua e là, messi nel blocco. Magari cercavano uno che era, non so, ufficiale degli alpini, avevano preso il padre e il figlio. Allora praticamente nonno e nipote messi in campo di concentramento e tenuti dentro. Che fine abbiano fatto non lo so, però c’erano sì.

D: Non Vi ricordate che c’era una famiglia dentro nel blocco celle che avevano un bambino appunto piccolo di quattro anni, c’erano due sorelle?

R: Ho un vago ricordo. Però quello delle celle era proprio in mezzo al campo, messo di traverso così.

D: In mezzo al campo?

R: Sì, sì. Non era un blocco, le celle erano proprio in mezzo al campo.

D: Non erano in fondo?

R: O in fondo, ma comunque non facevano parte dei capannoni. No.

D: Questa famiglia che erano mamma, due figlie di vent’anni…

R: Ho vaghi ricordi di tutte queste mostruosità, però… C’erano anche quelli, sì.

D: Ci raccontate un’altra cosa bella del campo che avete visto? Oltre a quella del tentativo di fuga.

R: Quella è stata una cosa che non dimenticherò mai.

D: Un altro fatto, un altro episodio a cui avete assistito di questi belli?

R: Non saprei.

D: Allora uno brutto. Quello più brutto a cui avete assistito.

R: C’era uno messo dentro in cella con le gambe e le braccia rotte. Dopo una settimana tirarlo fuori proprio con gli arti spezzati e pestarlo ancora, a questo ho assistito, fatto da quei due ucraini maledetti.

D: Lui chi era?

R: Un italiano sicuramente. Queste sono cose terribili.

D: Su quando Vi hanno chiamato per andare a Maiabassa, cosa Vi hanno detto?

R: Che c’era bisogno di uno Spezialist. Siccome io servivo per fare l’elettricista… Una cosa molto graziosa: nella caserma di Maiabassa nel distaccamento delle SS di Merano, nel distaccamento di Merano verso la fine della guerra erano un po’ tutti abbacchiati, sentivano che stava per finire anche questi signori della SS. E bevevano.

Avevano preso l’abitudine, siccome avevano tutte le villette attorno, vivevano dentro nelle villette questi ufficiali, avevano preso la mania di spararsi un colpo di pistola nella serratura dopo essersi ubriacati, così non vai a letto, uno con l’altro.

Alla mattina lo Spezialist, che ero io, doveva andare ad aprire le porte, per cui io facendo il giro avevo tolto tutte le combinazioni dentro, in maniera che bastava anche un chiodo piegato per aprire, perché sennò dovevo stare là a diventare matto. Come Spezialist ogni tanto mi davano magari una mela o mi davano…

D: Cioè gli avete tolto un nottolino?

R: Sì, sì. Sa che c’è la combinazione? Ho tolto quel nottolino per non stare a diventare matto. Anche queste cose…correre dietro a…

D: Il campo di Merano era anche quello sotto le SS, non c’era Wermacht?

R: Solo SS. E non solo, noi eravamo consegnati con tutti i numeri da un distaccamento all’altro e se ne assumevano la responsabilità di questi numeri.

D: Quanti eravate più o meno lì a Merano?

R: A Merano trenta o quaranta.

D: Arrivavano ogni tanto delle persone in più oppure siete…

R: No, perché eravamo già verso la fine e quindi non arrivavano più.

D: Neanche se ne tornavano?

R: Neanche andavano indietro. Per me è stato un bel rifugio, un bello scappare, Merano per me è stato un bel passo avanti. Anche perché avevo cominciato, sia pure ad andare ad aprire le porte, ma almeno sentivo un ambiente caldo per scaldarmi le mani.

D: Cos’era, marzo, aprile?

R: Fine aprile.

D: A Merano?

R: A Merano io sono andato tra febbraio ed aprile, sono stato a Merano.

D: Il 30 aprile del ’45 Voi eravate a Merano?

R: Prigioniero ancora. Sapendo la gente che gridava per le strade, questo e quell’altro, eppure…finché non sono venuti dentro ufficialmente a scarcerarci. Avevo però da buon Spezialist fatto le chiavi false dell’armeria. Eravamo in tre o quattro pronti a vendere cara la pelle se per caso capita.

D: Anche Vostro fratello?

R: No, mio fratello non è venuto con me.

D: Ah no? E’ rimasto giù?

R: E’ stato scarcerato lui. Un certo numero dopo due mesi o tre li hanno scarcerati, triangolo rosa ancora. E’ stato allora che hanno mandato là quelli rosa e poi quelli dentro sono diventati rossi.

D: E le Vostre sorelle invece sono venute su?

R: Rosse anche loro, triangolo rosso, sempre con me, sempre.

D: Il 30 aprile a Merano, attorno al 30 Aprile, è successo un fatto di sangue, Ve lo ricordate?

R: Sì. Sparavano dalle strade, ci hanno sparato dietro anche a noi.

D: Come vi hanno sparato dietro?

R: Dalle case, le infermiere degli ospedali. Sa che gli alberghi erano ospedali, quasi tutti. Ci hanno sparato dietro. Quando sono uscito per la strada ci sparavano gli infermieri, dicevano, perché chi poteva essere che rimaneva là ormai?

D: Sono state uccise anche delle persone?

R: Certo.

D: Altre due cose importanti. Nel campo di Bolzano, quando siete arrivati nel campo di Bolzano all’ingresso c’era su una targa, c’era qualcosa?

R: Sissignore. Polizeilisches Durchgangslager.

D: Era sul cancello?

R: Sul cancello.

D: Sopra il cancello?

R: Sopra il cancello e i reticolati, sopra c’era questo cartello e poi c’era il cancello.

D: E a Merano cosa c’era scritto?

R: Niente. C’era il cartello che diceva “Amministrazione delle SS del distaccamento di Merano”.

D: La vita nel campo di Merano era un po’ sul ritmo di quello di Bolzano?

R: Mille volte meglio. Eravamo pochi, ci conoscevamo e anche qualche maresciallo o con le denominazioni delle SS che erano completamente diverse di gradi, qualcuno diceva: “Presto finisce”. Sentire confidenze di questo genere dalle SS per me sembrava di toccare il settimo cielo, sta proprio per finire.

D: E a Merano c’erano anche ebrei o eravate solo triangoli rossi pericolosi?

R: Nessun ebreo a Merano.

D: Donne?

R: Donne sì.

D: Le sorelle. Più uomini o più donne?

R: Più o meno metà e metà. Perché le facevano cucire, confezionare sacchi, sempre per queste spedizioni, sa?

D: Quando eravate a Bolzano nel campo avevate sentito di questi altri campi? Avevate sentito parlare prima di Maiabassa o di altri posti?

R: No, però ho sentito il capo blocco Maltagliati che aveva detto: “Occorre un certo numero di persone per Merano”. Un mio carissimo amico che è morto adesso purtroppo, proprio nati e cresciuti insieme, Nino Paoletti che conosceva, era andato tanto tempo, diceva: “Potessimo andare a Merano, è tutta un’altra aria”. Si è fatto avanti, allora per me lo stimolo, dice: “Se non altro, non moriamo dal freddo in queste condizioni”, perché il freddo è stata una cosa tremenda.

Arrivare bagnati con una sola tuta e fare il bilancio scientifico: conviene tenerla visto che non è calda l’acqua che ho addosso o toglierla? Qual è il bilancio termico che conviene tra questi due ragionamenti? Comunque con tutto questo sono arrivato a casa che pesavo quarantadue chili io, uno di ottanta chili.

D: Avevate vent’anni?

R: Sì. Vent’anni giusti. Sono del ’24.

D: Per quello che riguarda le funzioni religiose, Lei si ricorda di questa di Natale e si ricorda magari di qualche altra funzione oppure è l’unico episodio?

R: L’unico episodio che ricordo è questo, però c’erano dei preti. C’erano dei preti perché so che quando ci hanno portato via tutti gli indumenti, i vestiti e ci hanno dato questo berretto, alla mattina c’era la famosa adunata, tutti inquadrati con i numeri, “berretti su” traducevano, “berretti giù”, finché non sentivano il colpo secco tutti insieme non si diceva: “Fuori le squadre”.

Ce n’erano uno o due che avevano tagliato il cappello da prete che avevano e avevano fatto il berretto un po’ più consistente con la cupola che poteva stare addosso. Sapevo che erano preti insomma.

D: Glielo ho chiesto perché alcuni si ricordano di un sacerdote che entrava che non era prigioniero, ma che veniva apposta il sabato o la domenica a celebrare messa.

R: Mai visto.

D: E poi usciva, era un esterno.

R: No, non lo ricordo assolutamente.

D: Neanche a Pasqua?

R: Io ero a Merano a Pasqua.

D: Magari era venuto qualcuno nel campo di Bolzano.

R: A Pasqua ero a Merano.

D: Il Monsignore però, Monsignore Bontignon.

R: Il Vescovo?

D: Il Vescovo, sì.

R: Io non ero…

D: Era su a Merano. Lì a Merano Vi ricordate, a proposito di questo personaggio della Croce Rossa, che c’era un italiano che poi è scappato alla Liberazione e che ha riparato in Svizzera? Non Ve lo ricordate?

R: Non esattamente.

D: Edgardo Sogno? Non Ve lo ricordate?

R: Mi suona il nome, ma non ricordo assolutamente.

D: E’ andato su a Merano Sogno, scappando. La Liberazione, ce la raccontate?

R: La Liberazione è stata un sogno.

D: Dove eravate Voi in quel momento?

R: Già la sera prima avevamo visto dei movimenti strani e avevo distribuito le mie chiavi dell’armeria, perché dico: “Questi qua ci fanno fuori”. Al mattino chi dorme? Nessuno. Affacciarsi con la testa così a guardare giù, vedo tutto uno strano movimento.

Ci hanno riuniti tutti insieme ed è venuto avanti questo signore che era quello che giorni prima era venuto per i quadri, questo svizzero. Ha detto: “La guerra è finita”, c’è stato un urlo generale per noi. Quando abbiamo varcato la porta e abbiamo visto le jeep americane, erano già arrivati gli americani, delle jeep americane, ci sembrava un sogno. Mi ricordo che si sono avvicinati e ci hanno detto se eravamo prigionieri. Mi hanno offerto le Chesterfield. Un sogno sembrava.

D: Poi cos’è successo?

R: Poi da Feltre sono venuti su con dei camion, l’impresa locale Dalla Corte, questi Dalla Corte avevano avuto anche loro dei figli prigionieri come me, a raccoglierci, a portarci giù. Ci hanno portati giù a Feltre coi camion.

D: Quindi direttamente da Merano?

R: Da Merano.

D: Non siete più ritornati a Bolzano?

R: No, perché eravamo un certo numero, ci siamo riuniti e siamo venuti giù da Merano direttamente.

D: Lei a Merano ha ricevuto il foglio di rilascio?

R: Sì.

D: Proprio quello firmato da Titho?

R: No, Titho non c’entrava, dalla Croce Rossa Internazionale.

D: Ce l’ha ancora questa carta?

R: No, non sono riuscito a farmela dare, perché quando è finita la guerra mi hanno chiamato al servizio militare. Allora ho dovuto allegarla come documento al distretto militare di Belluno. In altre occasioni successivamente sono andato per farmelo ridare indietro, mi hanno detto che non c’era più.

D: Ma dopo avete dovuto fare il militare, il servizio militare?

R: No. Perché avevo questo documento di scarcerazione dal campo di concentramento.

D: Neanche le Vostre sorelle hanno quel documento?

R: Sono morte ormai da anni. Probabilmente sì.

R: Mi ricordo che ci hanno fatto la lunga presentazione del mondo che avremmo trovato fuori, dice: “Guardate che trovate per tornare a casa un percorso duro e tremendo. La guerra è stata spaventosa”. Ci raccontava tutti questi particolari questo svizzero. E’ stata una sorpresa, io non avrei mai immaginato.

D: Cos’era, uno svizzero che parlava italiano?

R: Parlava italiano, tedesco, parlava benissimo.

D: Ma lui era svizzero tedesco, italiano? Che svizzero era?

R: Parlava italiano benissimo, però parlava tedesco benissimo perché era lui il consulente per i quadri della SS.

D: Che età poteva avere più o meno?

R: Allora avrà avuto sui quarant’anni.

D: Con divisa da SS?

R: No, no, in borghese.

D: Ah, in borghese?

R: Era un cittadino che era stato preso per stimare dei quadri.

D: Un esperto?

R: Un esperto di quadri. Però mi ha chiamato in disparte quando mi ha detto: “Come vi trattano?” Io gli ho detto: “Zitto, per l’amor del cielo, guai, si sbaglia tutto”.

D: E’ importante secondo Voi che i giovani di oggi conoscano questa storia?

R: Le ho premesso prima: “E poiché gli Alemanni in casa avete…”. Mio nonno garibaldino lo diceva, mio papà: “Ma dai che sono cambiati…”, mio papà lo diceva a me e io dicevo: “Ma papà, dai che sono cambiati…”. Io l’ho ripetuta cento volte alle mie due figlie, che non mi vengano a dire che i tempi sono cambiati perché può succedere ancora.

Ecco perché è importante, perché è un niente che un gruppo di violenti col potere in mano… Non c’è più né destra né sinistra, non c’entra, sono tutte balle. Io ho girato il mondo con molto piacere e ho visto due cose che si assomigliavano spaventosamente: la Spagna di Franco, che più fascista non poteva essere, e la Russia di Breznev, che più comunista non poteva essere. La stessa roba, da una parte a Barcellona dicevano sottovoce: “Stamattina ne hanno fucilati due ancora”, a Mosca mi dicevano: “Stamattina ne hanno mandato quattro in Siberia dei nostri” sottovoce. Poi in confidenza dicevano: “Che speranza c’è per il mio popolo?” I russi.

Mi ricordo che una volta ho detto: “Guardate, io stamattina sono entrato al Cremlino. Voi da cinquanta anni non ci entrate, se non settanta anni. Vuol dire che siete sulla buona strada, visto da me evoluzione, non rivoluzione, perché sennò vanno su quelli più cattivi di voi, secondo me”. Allora sentire queste famiglie a Mosca che volevano sentire il “Kapitalist”, che ero io secondo loro, come la pensavo, è successo così.

Io ho portato mia moglie ed è entrata tranquillamente al Cremlino, ma loro per due generazioni o tre non sono mai entrati. Evoluzione, non rivoluzione. La rivoluzione non fa niente.

D: Prima raccontavate di quell’episodio quando eravate a Caracas se non mi sbaglio, che è venuta questa…

R: Zoppoli, sì.

D: Chi era questo?

R: Quello era un prigioniero che lavorava nell’officina delle automobili, di riparazione automobili dentro nel campo di Bolzano. L’officina era dietro il muro, là facevo l’orologiaio io.

D: Allora, se questo è il campo, questo è l’ingresso…

R: L’ingresso, l’officina era qua, da questa parte.

D: Si usciva come? Da qui oppure c’era una porta nel muro?

R: No, no, la porta è sempre stata interna, dal muro.

D: C’era una porta dal muro?

R: Sì, sì.

D: C’era questo garage, c’era questa officina meccanica, poi c’erano altre officine?

R: Sì, forgiare, ferro, fare catenacci…

D: C’era anche una tipografia?

R: Sì, ho un vago ricordo che c’era anche una tipografia, sì. Con delle macchinette.

D: Voi a Bolzano avevate delle monete interne del campo?

R: No, io no. Avevo sentito parlare, però io non le ho mai avute monete interne del campo.

D: C’era anche una falegnameria che Lei sappia?

R: Non ricordo.

D: Una lavanderia?

R: Sì, lavanderia sì.

D: Vi ricordate, visto che facevate un po’ l’elettricista anche, se c’era un elettricista di Milano?

R: Non ricordo.

D: Che aveva nascosto una radio, un apparecchio radio.

R: Io non ho mai detto che ero radiotecnico, perché quella era una condanna a morte per me, per paura di spionaggio, sa? Mai, per questo che da buon radiotecnico sono andato a fare l’orologiaio, perché solamente a parlare di radio era finita, paura di comunicazione col nemico. Mai detto.

D: Quando partivano i deportati per la Germania, cosa succedeva lì?

R: Succedeva questo: al mattino era una mattina come un’altra, però si vedeva il tenente Tito con tutte le scartoffie. Adesso qua le liste. Cominciava l’appello dei numeri, tirava fuori e durava un’ora, un’ora e mezza, ripetere il numero…

A un bel momento questi venivano messi da parte, gli altri rientravano nei blocchi, questi venivano portati alla stazione che c’erano già i treni di solito, perché gli stessi prigionieri dovevano sigillare i vagoni. C’era Beppi Grisotto e altri che conoscevo che tornavano indietro dopo aver sigillato i vagoni con questa gente che veniva spedita via dalla stazione.

D: Dalla stazione? Non da altre parti?

R: Non lo so, perché io non sono mai andato.

D: Li facevano sigillare?

R: Sì.

D: Adesso una cosa, questa fotografia qui…

R: Questo sono io e le mie due sorelle, questa è proprio dentro nel cortile di Maiabassa di Merano. In fondo questi erano capannoni dove si imballava roba.

D: Che tuta avete su lì?

R: Questa ormai eravamo liberi, perché potevamo fare le fotografie. Ci siamo messi su una maglia per uno. Avevamo la tuta in due pezzi.

D: C’è il triangolo però?

R: Sì, non è una tuta, avevamo due pezzi qua. Tutti, era a Bolzano che avevamo la tuta unica.

D: Chi vi ha fatto questa foto?

R: Uno che era venuto su, perché dentro veniva anche a lavorare della gente fuori di Merano, venivano a lavorare anche loro. Non ricordo più chi me l’abbia fatta, so che mi ha fatto un rullino. Ho detto: “Dammelo che poi penso io”. E questa eccola qua. Vede, il triangolo e il numero.

D: Certo.

R: Io avevo il 4.972.

D: Vi siete ricordati il numero, eh?

R: Già mi crescevano i capelli, vede già lunghi due dita. Eravamo sempre rapati a zero. Qualche volta anche le donne. Se non c’erano cimici, c’erano pidocchi, piccole cose che si dimenticano. Le assicuro che la scabbia, grattarsi fra le dita qua, non avere acqua, non avere niente, cose che non si credono. Qui è stato il ritorno alla vita.

D: C’era un’altra foto. C’è un’altra informazione molto preziosa perché una memoria così viva sui motivi della presenza a Merano non l’avevo mai sentita.

R: Questa è stata così. A Merano occorrevano dei prigionieri un po’ da fidarsi, perché c’era da trattare della roba bella, non solamente mani da cava, capisce? Bisognava tirare fuori qualcuno che sapesse come si tiene un quadro, per dare un’idea.

D: Certo. E di quella roba non si sa poi che fine…?

R: Hanno detto che parte è stata recuperata. Sono tutte voci che ho sentito dopo, perché io non ho voluto più saperne niente, sa, la ripulsa di dire che è il mondo passato, la vita comincia domani, guardiamo davanti.

D: Sa che c’è una via a Merano che si chiama Via trenta aprile?

R: Non lo sapevo. Allora bisogna che si torni a Merano.

D: Questa foto invece?

R: Questa è in Piazza Alta, però me la sono trovata a casa. Era la foto della resa di Feltre, così mi hanno detto, la presentazione dei documenti della resa agli americani, doveva essere.

D: Quindi questo è il ’45?

R: Il ’45 questa.

D: In che zona della città questa?

R: Piazza Vittorio Emanuele, sulla Piazza Alta, questo è il palazzo Guarnieri a sinistra, che non si vede, quello tutto settecentesco, bello. Ricordo benissimo dov’è. Qui a destra c’è il teatro del Palladio.

Forse l’ha fatta mio padre di sfuggita.

D: Allora Vi piace Merano e Bolzano?

R: Sì, molto.

D: Non siete più ritornato?

R: Ogni tanto. Mia figlia appunto per l’ospedale che ci è andata su, diverse volte ho detto: “Vengo su anch’io magari in giro”. Ma non è neanche più l’ombra di quella triste cosa. Guardi che era brutto, perché…

D: Non Vi andrebbe di raccontare la vostra storia a degli studenti?

R: Quali studenti?

D: Ragazzi delle scuole medie o delle medie superiori. Di Bolzano e di Merano. Italiani o tedeschi.

R: Io non ho niente, assolutamente niente in contrario.

D: Raccontare la Vostra storia come ce l’avete raccontata a noi?

R: Certo, perché no? Io ho visto una cosa molto simpatica che mi ha fatto impressione, vedere dei ragazzi giovani che uno parla italiano, l’altro risponde correttamente in tedesco o viceversa, senza problemi. Io sono un internazionalista, sono cittadino del mondo io, a me piace la libertà. Quando ricordo che fuori per le squadre magari ci fermavano in centro…

R: Dicevo che passeggiando era normale che venissero dei bambini e vedevano queste bestie rare vestite con la tuta. Mi ricordo uno che veniva: “Bist du ein Zigeuner?”, “Sei uno zingaro?” Perché eravamo confusi come degli zingari, come della sottospecie. Guarda caso, magari con me c’era il professor Ferrari, però eravamo ridotti in quelle condizioni.

Un’altra cosa che mi ha fatto molto dispiacere, una volta a Bolzano, c’era la Lancia a Bolzano, sì, lo stabilimento della Lancia, erano tutti italiani. Quando passavano le squadre c’era dietro qualche angolo qualcuno con dei pezzi di pane che cercava di darci un pezzo di pane, perché era fame. Vedere magari una bella signora molto elegante avvicinarsi, buttarlo per terra e schiacciarlo sotto i piedi. Questo è capitato anche a me. Non è bello questo.

D: Cioè gli operai vi davano…?

R: Certo, se potevano. Qualcuno cercava di dare un pezzo di pane a questi prigionieri che passavano al mattino e poi scappavano via, perché era proibito avvicinarsi. Mi ricordo di questa donna molto fine, si è avvicinata, avevo il pane così in mano, me l’ha buttato per terra e schiacciato sotto i piedi.

Questo non deve essere una ragione per creare sette e odi, però dire che gente che c’è dappertutto. Io sono razzista perché il mondo si divide in due razze, persone per bene e persone non per bene. Non c’entra il colore della pelle. Guardi, io ho vissuto in mezzo ai sanguemisti. Meglio un negro onesto, in gamba che un ciarlatano di quelli pieni e presuntuosi nostri bianchi. E viceversa.

R: Una cosa bellissima, come siamo arrivati, un gruppo di una ventina, quindici o venti, da Bolzano che ci hanno portato a Merano, ci hanno portati tutti nelle cantine a spidocchiarci. Eravamo pieni di pidocchi e di scabbia, ecc. Per poi portarci nella caserma di Maiabassa. Ci hanno spidocchiati tutti. Sa che sollievo. Era normale che venissero fuori i pidocchi dalle maniche, che roba. Non eravamo esseri umani.

D: Vi fate un giro su a Bolzano e a Merano.

R: Volentieri.

D: Vi chiamo come testimone.

R: Sì.

D: Sai cosa sarebbe bello? Sarebbe bello… assieme all’ingegnere Bettion.

R: Di … mi ha detto?

D: No, di Belluno.

R: Anche a Belluno con la storia là di Piazza dei Martiri, ne hanno impiccato uno per ogni palo. Che vergogna.

D: Invece l’ingegnere Bettion era a Certosa Val Senales e scendeva a Giuderno anche lui alla stazione per caricare…

R: Ecco, vede.

D: Anche lui mi ha parlato di questo, però per un’altra zona. Per la zona di Merano Lei me ne parla.

R: La zona di Merano, sì, sì.

D: Bettion era anche a Maiabassa, penso. Lui andava in un castello solo, si chiama Castel di Nova, dice che portavano dei tappeti e loro dovevano trasportare questi rotoli di tappeti dentro al castello.

R: Sì, sì.

D: L’abbiamo trovato questo castello, abbiamo fatto un giro con l’ingegnere, un giorno un giro a Merano e poi l’abbiamo trovato. Ovviamente il nome non lo conosceva.

R: Che nome ha?

D: Castel di Nova in italiano.

R: Sì, ma mi pare di saperlo che aveva tutti i tappeti dentro.

D: Lui dice che lì portavano i rotoli di tappeti.

R: Perbacco.

D: Lui dice che questo castello…

R: Ingegner Bettion, non lo ricordo.

D: Tullio Bettion si chiama, ma lui è scappato a marzo del ’45, è scappato dal campo di Certosa Val Senales.

R: Ce l’ha fatta?

D: In due sono scappati.

R: Querincig, anche lui è scappato.

D: E’ scappato da dove?

R: Dal treno per andare in Germania.

D: Allora lui è scappato che stava andando… E di dov’è lui?

R: Non lo so, lui era venuto a Feltre, ma non era feltrino. E’ stato catturato a Feltre. Doveva essere sloveno, da quelle parti là.

D: Quindi è arrivato a Bolzano?

R: E’ stato a Bolzano, poi tra gli imbarcati per portare…ed è riuscito a scappare dal treno.

D: Vi siete visti dopo la guerra?

R: Sì, perbacco.

R: Comunque il rastrellamento di Feltre e la deportazione di Feltrini quel 3 ottobre sono significativi perché erano tutti gruppi, pezzi di famiglia. Molti erano in due, tre, unici in quattro noi, io, un fratello e due sorelle. Gli altri due o tre, i Dallacorci, i Palminteri, ecc. Se tu guardi nella lista…

D: Sono passati con gli elenchi.

R: Uno faceva così col mitra, da una parte e dall’altra, nessuno ha mai saputo se quelli di qua vivi e gli altri morti o viceversa. Certo è che era avvenuta la divisione. Poi ho visto che quelli che erano di qua, compreso mio padre e una mia sorella, hanno aperto le porte e li hanno accompagnati fuori e siamo rimasti noi là di notte, può pensare che allegria.

D: Quando è finito tutto avete rivisto Vostro padre?

R: Io ho detto una cosa, è una cosa che sembra mostruosa, ma bisogna provare. Solo una gioia così grande si prova soltanto con un dolore così grande. Questa è la verità. Ero padrone del mondo.

D: …. E’ un professore di Verona che era già laureato in lettere e filosofia quando è stato preso, è stato mandato a Bolzano, Flossenburg, ….., è vissuto a ….. Poi è andato in Sud America a cercare fortuna, perché poi è stato anche picchiato quando è tornato a casa, non solo picchiato in campo, ma quando è uscito si è accorto che la lotta non era finita. Forse non era neanche cominciata. Poi dal Sud America è passato in Nord America e lì è stato in un’università del posto a Chicago. Adesso sono cinque o sei anni che è tornato in Italia. E’ a Verona.

R: E’ così. Tredici anni sono stato io in Venezuela. Dal ’47 al ’60. Siamo stati fra i fondatori della Casa d’Italia ai tempi a Caracas, poi ha portato un angolo di cultura musicale. Facevo le trasmissioni alla radio nazionale della presentazione della musica italiana tutte le domeniche al pomeriggio, la presentazione delle opere, della musica classica. Lo facevo per hobby così mi divertivo un mondo. Senso di libertà. Io sono nato e cresciuto in un ambiente musicale per la verità, quindi questo ha contribuito. Tintinnio e musica.

D: Anche Vittore, Vittore poi è un pittore. Poi si è innamorato, Vittore quando racconta la sua storia, viene con noi nelle scuole a raccontare la sua testimonianza…

R: C’era una certa Marianne Menius e una certa… due tedesche di Ulma, prigioniere, giovani. Anche zingari c’erano.

D: A Merano anche gli zingari?

R: A Merano no.

D: A Bolzano?

R: Sì, a Merano sì, c’era la Maria Ferrari si chiamava che era zingara, sì.

D: Che triangolo aveva?

R: Come il nostro, italiana.

D: Rosso?

R: Rosso.

D: E queste due tedesche?

R: Monica Cloz e Marianne Menius si chiamavano. Non sono mai riuscito a sapere cosa facessero là, avevo sempre paura che fossero spie dentro. Poi scarcerate, sparite, così. Di Ulma.

D: Lavoravano come voi?

R: Sì.

D: Prigioniere?

R: Prigioniere. Io credo che probabilmente avevano seguito qualche militare ai tempi e le hanno prese e messe dentro. Probabilmente erano fidanzate di qualche italiano prima, forse è successo questo. Là non guardavano in faccia a nessuno.

Le zingare, la Maria e sua sorella. C’era la cosa strana, proprio gli ultimi giorni un certo maresciallo Kek che era un archeologo della SS, era una persona coltissima, uno specialista in scavi, nel Nord Africa era stato. Maresciallo Kek. Aveva un certo cuore, almeno con me mi chiamava: “Renato, Spezialist, komm”.

Cosa strane, non era di quelli che si sparavano dentro le serrature, erano gli altri disgraziati. Questo maresciallo Kek una volta mi ha detto: “Renato, vieni che andiamo a caricare della roba là”. Poi mi ha portato all’ospedale, “Andiamo a trovare Maria”, era questa zingara che stava morendo. Un gesto di umanità di questo maresciallo della SS.

D: Questo a Merano?

R: A Merano.

D: All’ospedale c’era una zingara deportata?

R: Deportata che stava per morire, però mentre a Bolzano l’avrebbero lasciata morire nella baracca, a Merano l’hanno fatta ricoverare e sono andato a salutare Maria che era tubercolosa.

D: Di dov’era questa?

R: Non lo so, so che si chiamava Maria, Ferrari di cognome. Parlava italiano, so che era zingara. Siccome questo maresciallo Kek era tubercoloso, allora non c’era ancora la penicillina né antibiotici… Guarda come saltano fuori tutti questi ricordi. Incredibile