Casanova Virginio

Virginio Casanova

Nato a Santo Stefano di Cadore (BL) il 03.04.1924

Intervista del: 19.05.2000 a Bolzano realizzata da
Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n. 71 – durata: 42′ circa

Arresto: il 12 ottobre 1944 a Campolongo di Cadore (BL)

Carcerazione: Corpo d’Armata a Bolzano

Deportazione: Bolzano

Liberazione : fine aprile 1945

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Organizzazione materiali ed inserimento dati: Elisabetta Mascarello, Elena Pollastri

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Casanova Virginio, nato a Santo Stefano di Cadore il 3 aprile 1924.

D: Lei, Signor Casanova, è stato arrestato quando?

R: A Campolongo di Cadore, alla mattina presto, dalla SS.

D: Che giorno era?

R: Giorno 12 di ottobre 1944.

D: Per quale motivo?

R: Un rastrellamento.

D: Cioè, ce lo può spiegare, se si ricorda?

R: Un rastrellamento, ho pensato come partigiano; io collaboravo con i partigiani ma il partigiano non l’ho mai fatto. Mi hanno preso nel letto la mattina alle 5,30, un ufficiale della SS e due militari, mi hanno preso in camera; hanno trovato la divisa di alpino che avevo nell’armadio e mi hanno chiesto: “Perché lei è scappato a casa?”, come sono scappati tutti. Andavano in cerca sotto il letto, sotto il materasso per vedere se avevo qualcosa, poi ha detto: “Venga con me”. Mi hanno fatto venir giù, abitavo al piano sopra, ho visto mia nonna che piangeva a vedermi fra due tedeschi con il fucile spianato e mi hanno portato davanti alla chiesa, davanti a sette, otto amici.

Continuava ad arrivare gente, ci hanno portati alle scuole, al piano superiore, sempre a Campolongo.

D: Questa gente che continuava ad arrivare chi era?

R: Tutti rastrellati, miei paesani.

Ad un certo punto hanno fatto venire altri militari, ci hanno messo in fila e ci hanno portato a Santo Stefano di Cadore. Lì siamo stati nella sala del cinema un giorno.

So che siamo stati interrogati, perché avevano preso due partigiani dal Friuli e ci hanno chiesto se li conoscevamo. Non li conoscevamo.

Ogni tanto si sentivano delle botte date a questi due ragazzi.

Siamo stati lì fino a domenica, mi ricordo sempre, hanno fatto arrivare due macchine militari e ci hanno tirato fuori tutti.

Anzi, quando ci hanno interrogato in piazza, hanno chiesto se lavoravamo da qualche parte. Io sono scappato dalla Lancia, perché lavorato in Lancia dal ’44, febbraio. Sono stato quattro o cinque mesi poi sono scappato.

D: Alla Lancia di dove?

R: Qui a Bolzano.

D: Chi vi ha interrogato in piazza?

R: No, nella sala del cinema, gli ufficiali tedeschi.

D: Parlavano in tedesco?

R: No, c’era anche l’interprete. Poi hanno portato via tutti, due camion ed abbiamo fatto il passo di Monte Croce.

Si aspettava sempre che arrivasse qualche partigiano a fermare questi camion, perché si passava proprio in mezzo al bosco, ma non ho visto nessuno.

Ci hanno portati a San Candido, alla Caserma del Sesto Alpini, all’ultimo piano, abbiamo riposato un po’ e dopopranzo siamo partiti dalla caserma e siamo andati al treno.

Ci hanno caricato su un vagone normale, c’erano circa una cinquantina di persone e siamo partiti da lì e siamo arrivati qui a Bolzano, sono venuti a prenderci al treno altri due camion.

Ci hanno portato al Corpo d’Armata; lì hanno chiesto un po’ di informazioni e di domande di questo e quell’altro, poi ci hanno caricati sulle macchine e ci hanno portato nel campo di concentramento. Tutto di notte, dopo la mezzanotte.

D: Eravate solo uomini o c’erano anche donne?

R: No, solo uomini.

D: Eravate tutti più o meno della stessa età?

R: Differenza di sei, sette anni.

D: Il motivo per cui vi avevano arrestati era per tutti uguale o c’erano differenze?

R: Tutti uguale, era un rastrellamento, hanno portato via tutti dal paese, tutti di Campolongo. Poi sono arrivati quelli dei paesi vicini, anche.

D: Questo nel cinema?

R: No, nel cinema siamo stati solo noi dei paesi del Comune. Poi siamo andati nel campo di concentramento. Sento l’odore di calcina, meno male che andiamo a lavorare! Ci hanno portato lì, le celle non erano ancora finite, ci hanno messo in due sale, in due stanze, c’erano già dentro prigionieri, abbiamo chiesto informazioni, dove li avevano presi ecc..

Abbiamo fatto la notte; la mattina sveglia presto e siamo andati al campo e ci hanno portato le … due volte mi hanno tagliato i capelli.

Poi ci hanno dato un numero, triangolo rosso ed il numero di matricola.

Io sono andato nel blocco H, con anche altri due o tre miei paesani e gli altri al gruppo G, che era sotto, c’era uno scalone di legno che andava su, come una mansarda.

D: Questa era il blocco?

R: Blocco H, quello dov’ero io.

D: Si ricorda il suo numero di matricola?

R: 5.112. Mi ricordo 5.112 avevo e triangolo rosso, perseguitato politico. I primi giorni sono andato a lavorare per terminare le celle, sono andato ad aiutarli, c’era più manovalanza dalle mie parti. Abbiamo fatto il primo giorno lì, poi alla sera ci hanno lasciato mezzora per andare ai gabinetti, c’erano i gabinetti aperti, immaginate, donne e uomini, tutti insieme.

D: C’erano anche donne nel campo di Bolzano?

R: Tante donne. Lì ne abbiamo trovate tante. Poi hanno cominciato a dividere, a fare squadre, noi ci hanno portato alla galleria che stavano facendo, vicino al comando tedesco.

D: Si ricorda dove?

R: In Via Fago c’era l’ospedale, l’avevano spostato dal centro e l’avevano portato all’Hotel Margherita. Lì ho lavorato per un mese, un mese e mezzo. Poi ci hanno cambiato.

D: Quando andavate alla galleria che lavoro facevate?

R: In galleria a spostare materiale, liberare la galleria, buttar fuori materiale. Per fortuna c’era una ditta, la Faifer, a mezzogiorno ci davano da mangiare e si mangiava da cristiani allora, perché si mangiava quello che mangiavano gli operai.

D: C’era anche il personale della ditta con voi? La ditta Faifer lavorava con voi o no?

R: Sì, si lavorava. Poi quando si è finito in galleria, io ho lavorato al frantoio e ho parlato con uno che era di Merano, era diplomato, ma non ricordo. Lì ho lavorato un mese, un mese e mezzo.

Poi ci hanno portato alla Galleria del Virgolo. Lì facevo lavori di manovalanza sempre, si faceva la pavimentazione della galleria, dove c’era la fabbrica. Lì c’erano le donne, c’erano parecchie donne lì.

Lì ho lavorato fino al 23 marzo.

Poi siamo stati richiesti dalla ditta Forst e ci hanno tirati via, una ventina e più e ci hanno portato alla caserma Mignone.

Nel frattempo, prima di essere libero, alla caserma Mignone abbiamo dormito per un po’, uomini e donne divisi, all’ultimo piano della caserma.

D: Quanti potevate essere più o meno? Decine o centinaia?

R: Un centinaio, perché so che quando si partiva dal campo di concentramento in principio c’erano due camion che portavano via gli operai, donne e uomini, e poi hanno tolto i camion e ci hanno fatto andare a piedi: si passava per la campagna, si passava dal ponte e si entrava in galleria a lavorare.

D: Questo quando eravate alla Galleria del Virgolo.

R: Galleria del Virgolo.

D: Invece quando andavate alla galleria di Via Fago andavate a piedi o…

R: A piedi si faceva tutto l’attraversamento, allora c’erano tutte le casette, quelle piccole ed in mezzo alle casette si passava….

D: Le Semirurali?

R: Si attraversavano le Semirurali, poi si andava verso Gries, poi si passava alla sera, ritornando, dal magazzino dei frutti, preparavano un sacchetto di mele da portar dentro agli amici che erano nel campo di concentramento.

D: Eravate sempre la vostra squadra di cinquanta o c’erano anche altri non bellunesi in questi lavori?

R: No, c’erano altri.

D: Quanti potevate essere nella galleria di Via Fago?

R: Non posso dire quanti… so che eravamo in tanti, perché c’era una fila, quando si passava a piedi era una fila lunga.

D: Com’eravate vestiti?

R: La tuta, con un paio di mutande lunghe.

D: La gente vi vedeva passare?

R: Sì, in Piazza Don Bosco quando si passava di lì c’era la gente che veniva a buttare del pane sulle macchine; avevamo paura per i tedeschi, avevi la scorta, avevi tre o quattro tedeschi.

Poi anche qui … avevo trovato una signora, la moglie di un tenente dell’esercito che abitava in Via Claudia Augusta e ci portava dei dadi per salare quella cosa che si mangiava.

So che questa donna aveva una bambina e veniva lì nei dintorni e cercava di gettare questi dadi.

D: Quando eravate alle caserme Mignone come si strutturava la giornata? Facevate l’appello, era come nel campo, o era diverso?

R: Lì era diverso, perché c’erano due stanzoni, uno a destra ed uno a sinistra, uno era degli uomini e l’altro delle donne. Ci portavano via tutti, ci volevano pochi passi per andare alla Galleria.

D: Eravate tutti triangoli rossi?

R: Tutti triangoli rossi.

D: Non facevano mai l’appello alla Caserma Mignone?

R: Non mi ricordo se facevano l’appello, perché lì sono stato poco. Però ci controllavano, perché la sera c’era la chiamata, poi facevano l’appello fuori dalla Galleria prima di…

D: Si ricorda che turni facevate?

R: Solo di giorno, di notte non c’era nessuno che lavorava.

D: Quante ore lavoravate?

R: So che si andava lì alle 7 e si veniva a casa verso le 7 di sera, perché era ancora chiaro.

D: Si ricorda se c’erano dei comandanti con voi alla Caserma Mignone o eravate solo voi prigionieri.

R: Non mi ricordo di questo, se ci fosse qualche stratega fra loro.

D: Quindi potevate anche parlare tra di voi?

R: Sì, questo sì. Si parlava.

D: Che tipo di lavoro facevate nella Galleria?

R: Io con tre o quattro miei amici ci avevano messi insieme dei polacchi, quelli addetti al controllo, erano operai anche quelli, avevano il fucile, ma erano operai e lì si lavorava per fare la pavimentazione. Donne e uomini erano sulle macchine della IMI e lavoravano.

D: Ma c’era un’unica galleria o ce n’erano due al Virgolo?

R: Una sopra, dove c’era un uomo grande, sempre con la sciarpa rossa, un pezzo di omone e so che faceva il minatore quello.

So che c’erano due o tre che lavoravano nella Galleria e noi tutti sotto, nella galleria bassa, dove c’è la strada adesso.

D: Allora ce n’era un’altra sopra?

R: Sopra c’era una galleria non so di che cosa, ma roba piccola. So che lavorava quest’uomo, lo si vedeva passare, era sempre con la sua bottiglia di vino.

D: I macchinari erano sotto?

R: Sempre nella galleria. So che poi lì è venuto un bombardamento, noi si facevano le vasche fuori davanti alla galleria, delle vasche di rifiuti di cose, è suonato l’allarme e c’era un certo Max che era cattivello, però qualche volta buono, e ci ha mandati tutti in galleria.

Come siamo andati in galleria è venuta giù una bomba davanti alla galleria e a Max è saltata una mano, allora portalo ai ripari! Il pompiere mi aveva insegnato di stare attento ai bombardamenti; mi sono buttato in terra e mi sono trovato una trave sopra la vita, c’era un altro che si lamentava, un mio paesano, ma io stavo bene, era tutto buio ed abbiamo pensato di essere rimasti chiusi dentro, hanno bloccato e chissà chi viene a liberarci, a tirarci fuori.

D: Questo Max dormiva con voi alla Caserma Mignone?

R: Era al concentramento. Questo Max l’ho trovato dopo la guerra, l’ho trovato in Aldo Adige; stava lì da solo e mi sono fatto riconoscere, lui cercava di non conoscermi. Però dico la verità, non era cattivo, era severo, perché aveva sempre il frustino in mano e girava con quello. Poi l’ho trovato, in un bar.

D: Si ricorda qualche altro nome o figura di guardiano o di guardiana?

R: Cologna, lo chiamavo Cologna, era un bell’uomo, grosso, diceva che era dalle parti di Verona. Quello faceva la sveglia la mattina presto. So che le donne quando camminava dicevano sempre: “Che belle scarpe hai”, lo prendevano in giro, scherzavano.

Ma non so dov’è, se è morto, l’ho visto ancora per Bolzano. Quel Cologna era il padrone, aveva un comando, ma le donne dicevano “Stai attento”, era sempre vestito bene. Si vede che poteva lui.

D: Il nome della Forst di cui parlava se lo ricorda per quale motivo?

R: Ci hanno portati a lavorare lungo la ferrovia, a riparare la ferrovia.

D: Quando?

R: Dopo il 23, ho cominciato a lavorare e si andava ad aggiustare la ferrovia, lungo i binari per riparare la ferrovia.

Poi ci hanno messo di fronte alla Caserma Mignone, a quella casermetta rossa che era di fronte alla caserma, so che era una distilleria. Lì si mangiava assieme a quei tedeschi che erano nel concentramento con me e lì ho fatto amicizia con un polacco; lì si mangiava sempre insieme sul tavolo e si mangiava abbastanza bene, davano la margarina, a quelli che lavoravano.

D: Lavoravano al Virgolo?

R: No, per la ferrovia, quand’ero fuori dal campo di concentramento.

Abbiamo detto a questi polacchi: “Buttate via il fucile, andiamo senza fucile a lavorare”; si rideva sempre, anche loro erano sottomessi ai tedeschi.

D: Ma quando andava a lavorare lungo la ferrovia non tornava la sera nel campo?

R: No, di fronte alla Caserma Mignone; si era liberi noi, ci avevano levato il numero e tutto.

D: E questo a partire da quando?

R: Dal 20 o 23, prima della Liberazione.

D: Marzo o aprile?

R: Fine aprile, perché ero lì.

D: Cos’è successo, un giorno sono arrivati e vi hanno detto siete liberi? Com’è successa questa cosa?

R: Sono venuti, hanno scelto quasi tutti dei paesi vicini del Cadore e ci hanno portato all’Ospedale Militare. Ci hanno fatto pulizia, una specie di quarantena e poi siamo andati ad Oltrisarco, in questa casetta.

D: Avete dovuto firmare qualcosa? Avete ricevuto un modulo?

R: Noi no; quelli che erano nel concentramento che sono stati lasciati liberi hanno ricevuto delle carte, invece noi ci hanno liberato e basta.

D: Vi hanno detto “Siete liberi”?

R: Quando ci siamo visti liberi, senza la divisa.

D: L’avete restituita la divisa?

R: Lasciata lì e ritirato le nostre cose che si avevano; avevamo messo in deposito tutto quando eravamo entrati nel concentramento, ci hanno portato via tutto.

D: Ve li hanno portati lì i vostri vestiti o siete tornati voi nel campo a prenderveli?

R: Ci hanno portato in campo, c’erano i vestiti e ci hanno mandato alla Caserma, all’Ospedale Militare per fare la pulizia di tutto quello che si aveva attorno.

D: Cosa avevate attorno?

R: Pidocchi…

D: Lei si ricorda di aver visto o lavorato lì nel campo al Virgolo con dei sacerdoti?

R: Al campo c’era uno che ha detto la messa il giorno di Natale e di Pasqua, ma non mi ricordo più che prete era.

D: Un prete deportato come voi?

R: Sì. Dico la verità, sono sempre andato da una parte o dall’altra a lavorare. Stavo poco nel concentramento, solo la notte, perché ho fatto tanti lavori. Ci avevano portato anche a Castel Firmiano, c’erano due o tre baracche e dentro c’erano tutti i macchinari di meccanica e si andava lì a pulire. So che sono andato un giorno o due lì.

D: A Castel Firmiano dov’erano queste baracche?

R: Dopo il castello c’era un piano, so che c’era un contadino lì, che ho conosciuto dopo, con la famiglia; lavoravano la campagna e so che poi sono entrato in confidenza con i figli. La posizione non ce l’ho più presente, so che era un piano quasi in cima al colle dove erano queste due o tre baracche.

D: Non è più tornato a vedere?

R: No, neanche il concentramento sono andato mai a vedere.

D: Ma Lei era qui a Bolzano o è tornato in provincia di Belluno?

E’ rimasto qui a Bolzano dopo la guerra?

R: Sono andato al paese perché non vedevo l’ora di vedere mia nonna: da quando mi avevano portato via, cinque o sei mesi che sono stato via, non vedevo l’ora di tornare a casa a trovare mia nonna e sono andato giù al paese, sono stato giù neanche un mese. Mio zio mi ha scritto: “Vieni alla Lancia di nuovo”. Sono andato alla Lancia e mi hanno assunto ancora. C’era il Comitato di Liberazione, c’erano già dei miei amici che sapevano che mi avevano portato in concentramento e poi sono stato alla Lancia. Non sono più scappato.

D: Ma la sua famiglia sapeva quando Lei è stato portato via dove era stato portato, sapevano qualcosa di Lei o no?

R: Io avevo uno zio a Bolzano che lavorava alla Lancia e qualche volta di sfuggita si vedeva.

D: Come si vedeva?

R: Si vedeva quando si passava per andare alla Galleria del Virgolo.

D: Lei vedeva suo zio?

R: Vedevo mio zio, ma si aveva tanta paura, perché se succedeva qualcosa portavano via anche mio zio.

D: Ma suo zio le dava qualcosa, del cibo, o la vedeva da lontano?

R: Lo vedevo da lontano. C’era una signora di Santo Stefano che portava il pacco nel campo di concentramento, so che c’era questa donna.

D: Una deportata?

R: No, una… abitava alla banca di Via Orazio a Bolzano. So che questa portava… ma io, le dico la verità, noi si andava fuori e qualche cosa si riusciva a prendere dalla gente.

D: La gente aiutava?

R: Sì, aiutava. Per esempio la signora che adesso è morta, che portava i dadi per salare la minestra, anche con pericolo: si avvicinava quasi a noi, dove si lavorava, e ci buttava i dadi.

D: Lei ha mai potuto scrivere a casa sua?

R: No, mai scritto. Una volta uno ha scritto una lettera e me l’ha data da spedire, siccome andavo fuori a lavorare. Io avevo un cappello da carabiniere, lo avevo tagliato tutto attorno, dentro c’era la fodera ed infilavo sempre qualche lettera di qualcuno che mi davano. L’ho lasciata nel taschino della tuta e mi fa: “Che cosa hai lì?” Sono rimasto perché poi… Ho fatto due o tre ore con quel freddo che c’era vicino al portone sull’attenti. Poi mi ha chiamato e me ne ha detto di tutti i colori: “Ignorante, perché ti sei fatto prendere?” Tante parole e finalmente poi mi ha lasciato libero, fortuna che quello non aveva scritto le cose, aveva scritto a sua mamma, ma cose da poter leggere.

D: Come faceva Lei a spedire? Aveva i francobolli?

R: No, si davano a qualche persona, che veniva vicino alla galleria. Si buttavano, poi le raccoglievano e mettevano il bollo loro, noi no.

D: Chi era la iena?

R: Era il più cattivo degli uomini, la iena: quando lo si sentiva parlare si aveva paura.

D: Era una SS?

R: Sì, una di quelle giuste anche. Era lui che comandava quasi più dell’ufficiale.

D: Lei era qui a Bolzano quando hanno abbattuto le baracche negli anni ’60? Non è andato a vedere che cosa stavano facendo?

R: Sì, sono andato a vedere.

D: Ha fatto delle fotografie?

R: Sì, io ho la fotografia io, i miei cognati ed altri due amici, abbiamo fatto la piramide.

D: Delle fotografie delle baracche ne ha fatta qualcuna?

R: Sì, sugli avanzi della baracca la piramide nostra che…

D: Ce l’ha qui?

R: No, è la moglie che mette via tutto. Abbiamo un libro con fotografie in grande della gente che era lì alla baracca.

D: Lei ha mai assistito in questi mesi nel campo di Bolzano a degli atti di violenza?

R: Noi no, che ricordo no, però si diceva fra di noi che c’erano quelli votati alla morte, avevano il disco bianco ed il centro rosso: quelli li portavano a morire da qualche parte ed ogni tanto di notte qualcuno partiva. Li portavano dietro la caserma, li uccidevano lì o… ma si parlava fra di noi. Però hanno sempre fatto delle pagliacciate, c’era una squadra di Verona che era gente… si faceva i gavettini, si bruciava il coso fra le dita, si facevano i processi ad uno che faceva qualcosa. Veniva condannato se aveva portato via qualcosa al suo amico, la coperta, allora botte.

D: Tra di voi?

R: Tra di noi.

D: Volevo chiederle ancora una cosa. Prima parlava della Forst.

R: Forst, ingegner Forst. So che ho due marchette ed ho su ingegner Forst, ma il nome non lo so. C’era un ufficio di fianco alle Caserme Mignone.

D: Invece quella ditta che era in Via Fago?

R: La Faifer, la ditta Faifer: quella ci dava da mangiare, anche bene.

D: Si ricorda questo nome per quale motivo? C’erano delle scritte?

R: Si parlava anche con gli operai, qualche parola si faceva. Ditta Faifer.

D: Di Bolzano?

R: Non so se era di Bolzano, dal cognome è più o meno vicino.

D: Sono tornati tutti a casa quei cinquanta più o meno che erano stati rastrellati con Lei? Vi siete più rivisti?

R: Ne è morto uno, perché in Germania sono andati due fratelli, quelli sono tornati, in un altro paese quello è morto dentro i forni. Poi ho trovato ancora degli amici, adesso siamo dimezzati, non so neanche chi è vivo ancora di quelli che c’erano.