Cherchi Anna

Anna Cherchi

Nata a Torino il 15.01.1924

Intervista del 06.07.2000 a Torino realizzata da
Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n. 30 – durata 64’+60′

Arresto: 19.03.1944 a Dogliani (CN)

Carcerazione: Torino

Deportazione: Ravensbrück; Berlin-Schönefeld

Liberazione: 28.04 1945 a Ravensbrück durante la marcia della morte

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Nota sulla trascrizione della testimonianza: L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sono Anna Cherchi, sono nata a Torino il 15 gennaio del 1924.

Ho vissuto nelle Langhe fino all’arresto, eravamo contadini. Sono stata arrestata dai tedeschi e sono stata arrestata il 19 marzo del 1944 nelle Langhe, perché ero partigiana combattente. Perché partigiana combattente?

Prima ero staffetta ma al 7 gennaio del 1944 i tedeschi sono venuti e hanno bruciato la nostra casa, allora sono riuscita a fuggire, malgrado tutto è rimasta mia mamma nelle sue mani, ma le è andata abbastanza bene. Hanno portato via anche lei ad Asti, l’hanno messa a confronto con un capitano degli alpini che abitava a Cassinasco e che lavorava con la resistenza ma da casa, infatti quando c’erano delle riunioni venivano a casa nostra. Tanto è vero che la casa è stata bruciata perché secondo loro – era vero – era il covo dei ribelli; i fascisti del paese hanno insistito coi tedeschi con ben 5 lettere che io poi ho visto e dirò come le ho viste. Nell’ultima di queste lettere c’era scritto che se il comandante della piazza di Asti tedesco non avesse preso provvedimenti si sarebbero rivolti ad altri comandi. Allora questo in un certo senso è stato obbligato a farlo, perché forse, ma magari l’avrebbe fatto, è stato obbligato da queste parole. Sono venuti su accompagnati dai repubblichini e, come ho detto, prima hanno razziato tutto quello che hanno potuto, c’erano 5 camion, li hanno riempiti di tutto, biancheria, grano, mais, le bestie, avevamo i buoi, avevamo una mucca che aveva due vitellini e li allattava, avevamo un cavallo, hanno portato via tutto. Il cavallo non voleva salire sul camion, hanno fatto di tutto e non è salito, e allora un italiano, un repubblichino, ha detto al tedesco che parlava italiano: “Uccidiamolo e lo portiamo via morto.” Mia madre non se l’è sentita di vedere fucilare questa bestia, perché per noi quel cavallo era un emblema, era anziano, gli mancava solo la parola. Allora mia mamma ha detto: “No, non uccidetelo, ci penso io”. E’ salita sul camion, il cavallo si chiamava Torrido, e lei gli dice: “Torrido vieni!” e allora lui adagio è salito sopra con grande stupore dei tedeschi, perché loro avevano fatto di tutto per fallo salire e non è salito; lei è salita con tre parole e il cavallo è salito, poi è andato da lei e col muso come a dire “sono qui”. Questa è la storia del nostro cavallo.

Poi l’hanno portata ad Asti e l’hanno messa a confronto con il capitano degli alpini perché sapevano che faceva le riunioni a casa nostra e che lei doveva riconoscerlo. Quando poi sono tornata dal campo di sterminio il capitano mi ha detto – Novello si chiamava questo capitano: “Credimi che quando ho visto tua mamma entrare in quella camera mi si è raggelato il sangue nelle vene perché conoscendo tua mamma, la sua lealtà, questa dice la verità”. Invece dice che quando è entrata i tedeschi le hanno detto, sempre questo tedesco che parlava italiano: “Allora, questo signore quante volte è venuto a casa sua?” Lei l’ha guardato bene e poi ha detto: “Io a casa mia non l’ho mai visto, perché se viene uno a casa mia, la mia testa è una macchina fotografica, lo ricordo, non lo dimentico, però questo qui non è mai venuto, non l’ho mai visto”. Mi ha detto questo capitano: “Io non so cosa avrei fatto a tua mamma dalla gioia perché non mi sarei aspettato, conoscendola, non mi sarei aspettato questo”. Comunque, fatto questo lei è stata portata ad Alessandria. Ma anziché metterla in prigione l’hanno messa nella caserma dei carabinieri, e i carabinieri le facevano pelare le patate, insomma le facevano fare quei lavoretti della cucina, e quando è venuta a casa ha detto: “Mi trattavano bene, erano bravi, mi chiamavano tutti nonnina”. Sennonché, bruciata la casa, io sono riuscita a fuggire e sono andata a chiamare i partigiani. Quando siamo arrivati su, loro erano a Santo Stefano Belbo; quando c’era necessità di una riunione, per partire suonavano le campane e tutti si trovavano in piazza. Siamo arrivati su, la casa bruciava e i camion erano già partiti, abbiamo visto l’ultimo camion dove c’erano le bestie e c’era mia mamma sopra. Allora il comandante partigiano Poli, lui e il padre, erano in due, ha detto: “Non possiamo sparare, perché se spariamo la prima ad andarci di mezzo è lei”. Così l’hanno portata via e da quel momento io ho cessato di fare la staffetta. Certo, avrei trovato chi mi dava ospitalità, ma voleva dire rovinare anche loro, e allora il comandante partigiano, sia il figlio che il padre, hanno detto: “No, tu adesso vieni con noi”. Là c’era già mio fratello, quello che poi è stato fucilato; mio fratello era a casa in convalescenza, era del ’20, l’avevano richiamato e l’avevano mandato in Albania e lì si è preso la malaria, dopo varie peripezie l’hanno rimpatriato a Civitavecchia, poi l’hanno portato all’Ospedale Militare di Roma e di lì l’hanno poi mandato a casa in convalescenza. Lui doveva presentarsi all’Ospedale Militare di Roma il 12 settembre del 1943; l’8 settembre è venuto fuori quello che è venuto fuori e lui non si è più presentato. Ha fatto tutta la pratica per il viaggio, ha fatto tutto per partire, è partito ma ha preso un’altra strada ed è andato in montagna, per cui era considerato un disertore da quelli che comandavano a loro.

Il comandante partigiano ha detto a me: “Vieni con noi, perdiamo una valida staffetta ma non possiamo fare diversamente, non possiamo abbandonarti”.

Ecco perché sono diventata partigiana combattente: non è stato facile per me perché ho dovuto imparare tutto. Prima di tutto ho dovuto imparare ad operare con le armi – io avevo una paura matta – ma purtroppo quando si è lì bisogna fare anche quello. Ho imparato a fare l’infermiera, non l’avevo mai fatto, bisognava curare anche i feriti perché ogni tanto c’era qualcuno che restava ferito, il dottore veniva ma poi bisognava… e lì ho imparato anche quello ma è durato troppo poco perché il 19 marzo del 1944 c’era un rastrellamento in atto e sono stata arrestata dai tedeschi. Mi hanno messo in una prigione di fortuna.

D: Scusa Anna, dove ti hanno arrestata?

R: Mi hanno arrestata nella Langhe, tra Carrù e Dogliani. Mi hanno tenuta una notte in una prigione di fortuna, un magazzino di pali, dritti, lunghi, penso che fossero pali della luce perché allora i pali erano di legno, non di ferro come sono adesso. C’era un tedesco in questa prigione, l’hanno fatto uscire, lui tutto felice, e sono entrata io. Al mattino presto bussano alla porta: dovevo prepararmi, vestirmi, io non mi ero nemmeno svestita, e andare a Torino, mi dicono. Io ero pronta perché non avevo niente, non mi ero svestita, ho passato tutta la notte seduta su quella branda con una coperta sulle spalle, era marzo e faceva ancora freddo, c’erano due coperte e una me la sono avviluppata intorno alle gambe e sono stata tutta la notte così. Ad un certo punto ho visto su quei pali una bestia, ho detto: guarda, c’è un gatto, ho la compagnia di un gatto. Invece guardando bene non era un gatto, era un topo grosso, e allora avevo paura di quel topo, di grossi così non ne avevo mai visti. Dico: Se a questo gli prende di saltare! Ecco perché sono stata tutta la notte seduta, io guardavo lui, lui guardava me, non si è mosso e io neanche. Il mattino, quando mi hanno bussato alla porta, ho messo le coperte da una parte ed ero pronta; mi portano al treno e non mi ricordo più dove, mi sembra tanto Alba però non sono sicura dove mi hanno portata per prendere il treno. Alba è grande e io so che siamo entrati in una stazione che non era tanto grande, non me lo ricordo più. Siamo entrati in questa stazione, abbiamo preso il treno e siamo arrivati a Torino, alla stazione di Porta Nuova. Prima di portarmi in carcere, le Nuove, in Corso Vittorio 27, mi hanno portato all’Albergo Nazionale. Lì c’era il famoso capitano Schmidt, che a vederlo ti sembrava una persona gentile, per bene, e io ho detto: “Non sono poi tutti come crediamo noi”, ma mi sono ravveduta subito. Mi sono ravveduta subito perché non ho risposto alla domanda che lui mi ha fatto come voleva lui, ha incominciato a diventare burbero, a diventare quello che veramente era.

D: Scusa Anna, all’Albergo Nazionale c’era la sede di che cosa?

R: Della SS. il comando territoriale di Torino della SS. Cosa volevano sapere? Volevano sapere da me dove erano state nascoste delle armi. Noi avevamo ricevuto due paracadute con delle armi, perché con noi c’era un comandante inglese che mio marito ha scortato fino a Cortemilia. Pensare che io ho uno scritto di mio marito a casa che parla di questo comandante inglese che è riuscito a salvare la radiotrasmittente e si è messo in contatto non so con chi e sono arrivati questi due lanci di armi, però questi due lanci sono arrivati che c’era già il rastrellamento in atto, e allora cosa è successo? Queste armi bisognava scartarle, montarle, ci voleva del tempo e tempo non ce n’era e allora con l’aiuto di un contadino … Qui vorrei dire due parole sui contadini: qualcuno ha detto che i contadini erano egoisti e non ci aiutavano, non è vero. I contadini ti aiutavano, certo avevano paura perché vedevano che per un nonnulla bruciavano la casa; chi non aveva paura? Tutti avevano paura, però nel loro piccolo e nella loro possibilità siamo sempre stati aiutati. Un contadino che aveva un cunicolo sotto un terrapieno dove metteva le robe per lavorare la campagna, la zappa, la vanga, il badile, tutte queste cose per non portarle a casa tutte le sere, ha detto: “Se volete possiamo metterle là, c’erano delle fascine di legno, mettiamo quelle fascine davanti, è tanto tempo che sono lì, speriamo di salvarle”, e così hanno fatto.

Loro volevano sapere da me dove erano state messe le armi e io ho detto: “Non lo so, ero lì però ero in un altro gruppo”. Non potevo dire che le armi non erano arrivate perché le avevano portate via, nascoste ma i paracaduti erano rimasti lì, e al contadino hanno detto se voleva prendere i paracaduti perché la stoffa del paracadute era bella. Lui ha detto no: “Se vengono in casa a farmi una perquisizione e mi trovano quello!” e li ha lasciati lì. Loro sono arrivati, hanno trovato i paracadute e io non potevo negare questo; allora dicevo: “Le armi so che sono arrivate però dove le hanno messe non lo so perché ero in un altro gruppo” e ho sempre sostenuto quello. Ma il capitano Schmidt non lo ha digerito tanto, lui voleva sapere dove erano le armi e io dicevo di non saperlo, e lì non è stato tanto gentile, aveva dei metodi abbastanza… più che botte adoperava i suoi mezzi, era ben attrezzato, metteva anche le matite in mezzo alle dita, poi serrava le dita in mezzo alla morsa e la morsa ce l’aveva appesa alla scrivania: stringevano le dita in mezzo a questa morsa con le matite dentro, le unghie sanguinavano, aveva quei metodi. Appunto ho detto che subito sembrava gentile, ma ha messo fuori le sue bravure, e lì sono stata tutto il giorno. A mezzogiorno loro sono andati a mangiare, mi hanno messo in un corridoio, c’era già una persona anziana e un ragazzo. Il ragazzo era tutto euforico perché dovevano misurargli una camicia rossa: se quella camicia rossa gli andava bene lo fucilavano, se non gli andava bene lo lasciavano uscire. Ma lui sapeva che quella camicia non gli andava bene, non era sua, e allora era felice perché diceva: “Mi lasciano uscire, non mi va bene, lo so già”. Gli hanno portato da mangiare, della roba che io non avevo mai mangiato – io a dire la verità fino a quel momento la fame non l’avevo provata, perché in campagna avevamo la farina, la nostra roba, non avevamo la tessera però anche polenta e minestra, il pane lo facevamo noi, la fame non l’avevo ancora provata. Hanno portato un piatto di tutti pezzettini di quel pane nero dei tedeschi, e il signore più anziano si è messo a fare tre parti, io alla fine ho detto: “Quella minestra non lo mangio e quel pane neanche!” Lui mi guarda e mi fa: “Sei sicura?” “No, no io non mangio quella porcheria”. Mi ricordo sempre che questo signore anziano mi ha detto se hai la disgrazia di stare quattro mesi qui dentro come ci sono io, mangerai quello ed altro; dico quando sarà ora mangerò anch’io, però in questo momento non mi va giù quella roba. Sicura? Sì. Allora hanno fatto due parti sia del pane che di quel gries lo chiamavano, lo tiravi su e faceva le bave, solo a vederlo faceva schifo, poi … ne avessimo avuto! Alla sera mi portano in carcere nella cella 22, trovo tre donne: c’erano la De Angeli, Marconi Ines che adesso è mancata, che è la mamma di quel partigiano di cui c’è la lapide vicino al Corso, Mirko De Angeli – era sua mamma ed era con me, padre e figlio erano con me nelle Langhe, poi il padre è stato venduto ai tedeschi dal nostro famoso comandante Davide che ha tradito, cioè ha detto ai tedeschi che era un ebreo, per cento mila lire. Sì, allora cento mila lire erano soldi, ma vendere una persona… noi lo stimavamo, credevamo che fosse un persona… e invece purtroppo abbiamo dovuto constatare che era un traditore. Finita la giornata vado in cella e trovo queste tre donne: la De Angeli, Ines, poi c’era una certa Margot che non hanno mandato in Germania, l’hanno poi lasciata uscire, era una ballerina: avevano fatto la spia dicendo che lei aiutava i partigiani ma diceva che non era vero: “L’avessi fatto ma non l’ho mai fatto!” Solo che una era gelosa perché lei riusciva bene nei suoi balli ma quella no, e allora sempre le solite storie, comunque non l’hanno mandata in Germania. Poi c’era un’ebrea, una certa Levi ma il nome non lo ricordo più, una persona anziana, e verso il 10 o 12 di aprile è arrivata Lidia (Beccaria) Rolfi. Le due più anziane dormivano nelle due brande che c’erano e che al mattino si tiravano su per avere più spazio nella cella e alla sera si tiravano giù, e noi altre dormivamo per terra perché non c’era posto. Adesso si lamentano, anche allora, però nessuno è intervenuto per noi ma non facciamo commenti su questo, è un altro argomento. Io per un mese consecutivo tutti i giorni venivo presa al mattino, portata all’Albergo Nazionale e riportata indietro alla sera. Quel giorno mi hanno dato da mangiare a mezzogiorno perché le carceri non sapevano ancora del mio arrivo, ma quando poi tutti i giorni venivano a prendermi dovevano mettermi via il mangiare; io poi arrivavo ma era tutto freddo perché potete immaginare, là da mangiare non me ne davano, a mezzogiorno loro andavano a mangiare ma io stavo nel corridoio e non mi davano niente. Per un mese la solita storia, entravo dentro e il capitano Schmidt insisteva su quello, e io insistevo sulla mia tesi, ho sempre detto: “Non lo so, non ero lì, non ero presente e non so dove le hanno messe”. Ha adoperato tutti i mezzi, persino la scossa elettrica: c’era una sedia di ferro come una volta negli ospedali, quelle con i braccioli; vicino a una gamba hanno messo una presa, era il mese di marzo e faceva ancora freddo e lui aveva una stufa elettrica nell’ufficio, aveva l’interprete che era un ragazzino ebreo, parlava tedesco e l’hanno tenuto, la famiglia l’hanno mandata via e lui l’hanno tenuto lì, gli facevano fare da interprete e anche quel lavoro: staccava la spina dalla stufa e toccava il gambo della… ma appena toccato già mi dava… finché un bel giorno si vede che l’ha lasciato un attimo di più e io sono svenuta, sono andata per terra. Si vede che ho battuto la testa in qualche posto, perché quando mi sono ripresa ero tutta bagnata, si vede che mi hanno buttato acqua addosso per farmi rinvenire, e avevo già un cerotto sulla testa, sanguinavo. Da quel giorno non sono più venuti a prendermi, ho continuato a stare in carcere, andavo all’ora di aria, perché ci davano un’ora di aria al giorno, e lì ho cominciato a conoscere le mie compagne; prima conoscevo solo quelle che erano in cella con me perché mi portavano all’Albergo Nazionale e lì non vedevo nessuno, arrivavo la sera.

Solo che anche lì è durato poco perché al 30 giugno sempre del 1944 sono arrivati i tedeschi e hanno detto che ci portavano in Germania a lavorare. Noi non avevamo mai sentito parlare dei campi di sterminio, mai nessuno aveva parlato di quelli, perché c’erano solo le persone altolocate che sapevano, gli altri non sapevano niente. Nella notte sono venuti e da quel giorno non mi hanno più portata all’Albergo Nazionale.

Ho fatto la vita con gli altri, la vita del carcere, che certamente era diversa da quella che avevo fatto fino a quel giorno.

Al 29 di giugno i tedeschi ci dicono che ci portano in Germania e la notte sono venuti, ci hanno chiamati sotto, c’era anche lei, eravamo in 14, ci hanno caricate su un camion e ci hanno portate a Porta Nuova, c’era già la tradotta pronta. La chiamavano tradotta ma era poi un treno, un carro bestiame. Noi eravamo solo in 14, ci hanno chiuso dentro questo carro bestiame e siamo state lì tutto il giorno ad aspettare gli avvenimenti. Intanto si sentiva… e non si capiva niente di quello che stava succedendo perché eravamo chiuse dentro, c’era solo quel piccolo sportello là sopra che bisognava fare la scala per salire, e finalmente la sera il treno è partito. Si fermava perché si vede che avevano paura di trovare qualcosa sui binari, sospettavano, chi ha la coscienza sporca sospetta sempre degli altri. Poi finalmente siamo arrivate a Innsbruck. Ci hanno fatto scendere dal treno, gli uomini da una parte perché noi eravamo in 14 donne chiuse in un vagone, ma poi c’erano 280 uomini chiusi in altri vagoni, che loro erano stipati così, certi vagoni dice che non li hanno nemmeno potuti chiudere perché non riuscivano, e allora c’erano i tedeschi sulla porta del vagone che sorvegliavano questi uomini che non scappassero, perché qualcuno era riuscito a scappare. Arriviamo a Innsbruck, ci fanno scendere a tutti, il nostro vagone è stato agganciato a un treno che andava a Berlino, nel frattempo ci hanno dato una scodella di quel gries che faceva le bave che non avevo mangiato in carcere, ma lì l’ho mangiato, era già buono anche se faceva le bave, poi ci hanno fatto di nuovo salire sul nostro vagone, gli uomini li hanno smistati ma noi non c’eravamo più, chi a Dachau chi a Mauthausen, chi negli altri campi, a noi ci hanno fatto salire di nuovo sul nostro vagone bestiame e siamo andate fino a Berlino. A Berlino ci hanno fatto scendere, abbiamo attraversato nei sotterranei tutta la stazione di Berlino che è grandissima, allora non era ancora tutta bombardata come era poi alla fine della guerra, e ci hanno portati in una stazione dove c’era un treno locale. Ci hanno fatto salire su questo treno locale e finalmente non eravamo più in carro bestiame ma eravamo in un vagone normale di terza categoria, o forse era anche di quarta, comunque un vagone normale, c’era la gente che saliva perché era presto e si vede che andavano a lavorare, e ci hanno sistemate, eravamo in 14, in due scompartimenti. Loro erano in due che ci accompagnavano e ci hanno sistemati lì e c’era uno per porta, e ci guardavano, perciò la gente che saliva ci vedeva, doveva capire che eravamo delle prigioniere perché c’era un tedesco sulla porta che ci sorvegliava, poi magari non eravamo le prime, e lì devo dire che abbiamo provato la prima delusione della Germania, dei campi di sterminio, perché questa gente saliva e non ti degnava di uno sguardo, ma se ti degnava di uno sguardo era uno sguardo cattivo, tanto che a noi ci ha obbligati a dire questi sono tedeschi. Questo treno è partito, non abbiamo viaggiato tanto, mezz’ora, di preciso non lo so, siamo arrivati in una piccola stanzioncina che era la stazione di Fürstenberg. Fürstenberg è una bella cittadina, l’ho vista dopo, e la stazione è ancora adesso tale e quale come allora, brutta, tutto arrugginito. Ci hanno fatto scendere e lì a piedi ci hanno portate al campo, c’era una bella strada asfaltata, ad un certo punto abbiamo avuto una visione bellissima, dalla parte destra c’era il lago, alla parte sinistra c’erano tutte villette, una più bella dell’altra, eravamo poi alla fine di giugno, il 1° luglio, piene di fiori, uno più bello dell’altro, sembrava che avessero fatto una gara, chi aveva la finestra e il balcone più bello degli altri, tanto era bello da vedere, tanto che noi ingenue, sapevamo che andavamo a lavorare e abbiamo detto: guarda in che bel posto ci hanno portate! E quella visione dopo un po’ è sparita.

Ci siamo trovate davanti a un muro altissimo, nero, brutto, e abbiamo detto: guarda che fabbrica brutta è questa, non possono dare un po’ di bianco, con tutto il bello che abbiamo avuto fino ad adesso? Lì c’era una sbarra come i passaggi a livello, hanno alzato questa sbarra e ci hanno fatto entrare. I due tedeschi che ci accompagnavano sono entrati negli uffici, hanno consegnato la loro cartella con tutti i nostri documenti, poi sono spariti e non li abbiamo più visti tanto che anche lì siamo state ingenue, perché non sapevamo niente e abbiamo detto: guarda che maleducati quei due, sono andati via e non ci hanno neanche salutate. Durante il tragitto su questa strada asfaltata bellissima, avevamo una compagna, la Carletti Cesarina cosiddetta “nonna Mao”, aveva due valigie, grosse, piene zeppe, perché i tedeschi avevano detto a sua mamma di procurarle tanta roba di lana perché dove andava faceva freddo. Effettivamente era una zona fredda perché il mese di luglio, al mattino alle sette quando si andava all’appello si battevano i denti, faceva freddo, si battevano i denti un po’ per la paura ma si battevano i denti per il freddo, tanto è vero che la chiamano la piccola Siberia perché è proprio una zona fredda. Allora ci hanno fatto entrare; lungo questo percorso lei chiede a questi due tedeschi di aiutarla a portare queste valigie: figuriamoci! Loro che sapevano cosa c’era in quella villette, non lo facevano anche per loro.

Allora lei si è arrabbiata e dice: sì, non mi aiutate, e io le metto qui e non mi muovo più. Ha messo quelle due valigie in mezzo alla strada, si è seduta sopra, noi a cercare di convincerla, dai ti aiutiamo noi; andavamo incontro all’incognito e non sapevamo cosa poteva succederci, lei: nient’affatto, sono loro che mi devono aiutare. Ad un certo punto da una di queste villette si apre una finestra e viene fuori una che si mette a sbraitare in tedesco, quello che diceva per noi era tabù perché non capivamo, e ha sbraitato. Finito lei ha cominciato la nostra compagna, la Carletti, tutto quello che le è venuto in mente, tutto quello che si può dire di brutto a una persona, lei glie l’ha detto. Alla fine le abbiamo strappato quelle valigie, l’abbiamo tirata fino a che l’abbiamo fatta partire e siamo arrivati lì. Loro hanno consegnato i documenti e poi se ne sono andati, ci hanno fatto entrare nel piazzale, quando siamo lì vediamo, a un certo punto, una carabiniera che arriva, vestita in divisa, in mano da una parte aveva la bustina, dall’altra il frustino, entra tutta marzialmente; entra dentro e non si sbaglia, va a beccare la Carletti. Era riconoscibile perché aveva dei bei capelli neri ed era pettinata alla Rita Hayworth, con quell’onda, perciò era riconoscibile, non si è sbagliata, è andata, l’ha presa, l’ha tirata fuori, quelle che non ha voluto gliele ha cambiate, poi l’ha presa subito e l’ha portata dentro, e lì dice che l’hanno di nuovo picchiata e poi le hanno tagliato i capelli. Quando è uscita fuori siamo rimaste stupefatte a vederla, la testa sotto i capelli neri ancora più bianca, quella testa tutta bianca, poi lei aveva gli zigomi grossi, aveva una faccia… era una bella donna però con quella testa pelata. Ed io ho avuto… non so perché mi è venuto quello, glie l’ho detto e non me l’ha mai perdonato, quando era arrabbiata me lo rinfacciava sempre. Lei si chiamava Cesarina ma noi la chiamavamo Cesi per fare più in fretta, le ho detto: Cesi sembri il duce! Non gliel’avessi mai detto! Ho fatto male a dirle questo, lo so, ma mi è venuto così spontaneo, ho visto la testa più grossa del solito, la testa pelata, sarà che poi il giorno dopo l’hanno fatto a noi. Comunque, quando il giorno dopo, perché poi ci hanno fatto fare tutto il giorno lungo quel muro, sotto il sole perché c’era una giornata come fosse oggi, tutto il giorno sotto quel sole cocente, alla sera quando già veniva buio hanno aperto una porta e ci hanno fatto entrare dentro, ma non abbiamo visto cosa c’era là dentro perché era buio, non c’era luce, ci hanno fatto entrare e poi hanno chiuso la porta e ci hanno lasciato lì. Abbiamo capito che era una doccia perché c’erano le pedane ed erano bagnate. Allora ci siamo rannicchiate tutte in un angolo e abbiamo cercato di stare vicine l’una con l’altra piene di paura perché non sapevamo cosa succedeva; durante la notte abbiamo sentito un fracasso della malora, è arrivata altra gente, sono arrivate altre donne, hanno aperto quella porta e le hanno fatte entrare, noi non capivamo una parola, l’unica parola che capivamo (era) quando chiamavano mamma. Mamma è una parola internazionale, poi abbiamo saputo al mattino che erano russe, 540 russe, il giorno dopo tutte in fila lungo quel muro e lì una per una si andava dentro.

Noi l’abbiamo definita l’immatricolazione quella: tagliavano i capelli, guardavano se avevamo i pidocchi, poi ti passavano la visita, una visita schifosa, sputavano per terra, noi non eravamo abituate a quelle cose lì, una volta era tutto diverso, poi anche fosse adesso essere trattate come ci hanno trattato allora sarebbe sempre schifoso. Poi più avanti c’era anche la parrucchiera che tagliava i capelli, poi c’era la disinfezione. Erano sempre deportati che facevano quei lavori, non erano tedeschi, deportati col triangolo rosso anche. Cosa facevano? Avevano un secchio, dentro il secchio c’era un pennello e un liquido che te lo passavano dalla testa ai predi che bruciava, e una delle prime, non so se la .. o Irma di Biella che non lo sapeva, non ha chiuso gli occhi e le è andato negli occhi! Quella era creolina, puzzolente che non finiva mai, le è andata negli occhi e le ha dato problemi per un po’ di giorni perché quello brucia e può anche rovinarti gli occhi, e allora sapendo quello quando si entrava l’unica cosa si cercava di tenere gli occhi e la bocca chiusa.

Finita la disinfezione c’era poi la vestizione. Ho dimenticato di dire che tutto il giorno mentre siamo stati lì lungo quel muro, ci hanno fatto spogliare, togliere tutto quello che avevamo indosso, piegare tutto per bene, mettere tutto ammucchiato vicino a quel muro, per ultimo le scarpe sopra perché questo mucchio non andasse per terra e siamo rimaste nude, allora alla fine ci hanno vestite. Siamo state fortunate che ci hanno dato uno di quei vestiti rigati tipo quella bandiera.

D: Quando sei entrata nel campo hai visto se sul campo c’era una scritta, un nome del campo?

R: Non abbiamo visto niente, scritte non ce n’erano, c’era soltanto quella sbarra come c’è nel passaggio a livello.

D: E il nome del campo quando l’hai scoperto?

R: L’abbiamo scoperto quando già eravamo là in quarantena, che poi non era quarantena, che continuavamo a chiedere “che cosa è questo, è una fabbrica?” e allora c’era una professoressa greca, una bravissima persona, parlava molto bene l’italiano, il tedesco, e questa ci ha salvate tante volte dalle botte, perché quando ti chiamavano ti chiamavano col numero, ma lo chiamavano in tedesco, tu che non capivi il tedesco non uscivi e allora erano botte. Allora lei: hanno chiamato il tuo numero, esci fuori, rispondi! Ma nomi io non ne ricordo, non ho visto nessun nome quando siamo entrate, abbiamo visto solo quella sbarra che si è alzata e ci hanno fatto entrare su quel piazzale, il nome del campo l’abbiamo saputo dopo.

D: E l’hai saputo. Il campo era?

R: Ravensbrück. Allora per noi Ravensbrück aveva un nome insignificante, perché non sapevamo cosa voleva dire, Ravensbrück vuol dire in tedesco “ponte dei corvi”, ma noi non lo sapevamo questo, l’abbiamo saputo in seguito. Abbiamo avuto delle lezioni e abbiamo imparato tante cose, abbiamo passato cose brutte, ma abbiamo avuto anche delle cose belle, soprattutto si è creata in mezzo a noi la solidarietà, io oserei dire, forse dico una cosa di troppo, la solidarietà è stata il 50% di aiuto per la sopravvivenza, chi ti dava solidarietà non è che ti dava un pezzo di pane perché non poteva darcelo, però l’aiuto morale che tu ricevevi da quelle compagne più anziane di te, che noi eravamo giovani, lei aveva 16 anni io quasi 20, ma eravamo giovani e inesperte. Noi credevamo di sapere tutto, io credevo – con la casa bruciata, sono andata nei partigiani, ho imparato a fare questo – credevo di sapere tutto ma quando sono arrivata là ho capito che non sapevo proprio niente, che dovevo incominciare da capo e non era facile perché incominciare a lottare contro queste belve umane non era facile; le nostre compagne più anziane, sua sorella, un giorno Irma, la Beltrando Lucia che erano tutte persone anziane e che avevano un’altra esperienza della vita, vuoi sia familiare che politica, e allora cercavano di insegnare a noi il modo in cui si doveva agire per sopravvivere, perché per loro il capo essenziale era sopravvivere, ritornare, raccontare al mondo quello che succedeva là dentro, perché succedevano delle cose talmente inverosimili che ancora oggi, a parte che quelli che non vogliono capire oggi è perché non vogliono, non che non riescono; ancora oggi mi trovo a domandarmi: ma come facevano delle persone che si dicevano umane a fare quello che facevano ad altre persone umane. Come facevano? Eppure lo facevano. C’erano le kapò, le kapò chi erano? A parte che erano avanzi di galera, erano persone tolte dalla galera a vita, ergastolo, perciò quando uno prende un ergastolo non ha rubato una gallina, ha fatto qualcosa di peggio, ebbene hanno tolto dalle galere tutta questa gente, uomini e donne, e hanno dato loro il potere di fare quello che facevano a noi, questa gente aveva il potere nelle mani di farti vivere, farti morire come e quando volevano loro, e quando ti picchiavano godevano se tu soffrivi; ecco perché le nostre compagne ci dicevano quando ti picchiano non gridare, tanto il male lo senti lo stesso, ma il grido viene spontaneo, perché senti male e gridi. Loro dicevano: non gridare ma non era facile fare quello ed avevano ragione perché se tu non gridavi loro non avevano la soddisfazione di vederti soffrire e allora smettevano prima, invece se tu gridavi voleva dire che soffrivi, loro erano talmente contente di vederti soffrire che continuavano a picchiare a sangue. Io ricordo che sono arrivate un giorno tre suore, erano vestite come noi, noi abbiamo poi saputo che erano suore perché erano francesi queste suore, due erano anziane, avranno avuto circa 80 anni più o meno, là erano tutte così malmesse che a dire l’età era difficile da poter indovinare, arrivano due anziane e una era giovane, avrà avuto 30-32 anni ma era minutina, piccola, magrolina, dice che gestivano un asilo nido e in questo asilo nido c’erano tutti i bambini, in Francia, figli di partigiani, maquis, in Francia si dice machì, che avevano bambini e loro prendevano questi bambini e li guardavano, li gestivano. I tedeschi sono venuti a saperlo, loro hanno avuto una spiata che i tedeschi sarebbero venuti su e avrebbero preso loro e tutti i bambini, hanno fatto in tempo a far sparire i bambini, però loro sono rimaste lì: i tedeschi sono arrivati ma i bambini non c’erano più. Loro hanno chiesto dove erano i bambini, dice li avevamo qui provvisori ma adesso i genitori sono venuti a prenderseli e li hanno portati via, perché dice che andavano via dalla città per i bombardamenti. Loro non ci hanno creduto e allora hanno preso queste tre suore, le hanno deportate e le hanno portate a Ravensbrück. Da Ravensbrück le hanno portate dove lavoravamo noi, perché a Ravensbrück siamo rimaste dal 1° luglio, quando siamo arrivate fino verso il 20 di agosto, poi hanno formato il comando e ci hanno portato a lavorare. Ci hanno portato a lavorare in una fabbrica dove facevamo apparecchi da bombardamento; Volkanblum si chiamava questa fabbrica, e facevamo i Messerschmitt 709, facevamo tutto meno l’impianto elettrico, l’impianto elettrico arrivava già tutto predisposto, era solo da montare ma non era compito nostro, era in un altro reparto.

D: Anna scusa, il tuo numero di Ravensbrück te lo ricordi?

R: Sì, il primo era 44145, poi però quando siamo andate in quella fabbrica, a Schönefeld, vicino al campo d’aviazione e c’è ancora adesso, perché io nel ’70 sono andata con la Regione, abbiamo preso l’aereo e siamo scesi proprio lì e la fabbrica era dietro ma adesso non c’è più perché nel ’79 io sono andata a cercarla e non c’era più e mi ha detto il direttore del museo di Ravensbrück che la fabbrica l’hanno spostata ma che esiste ancora, lavora ancora, però forse non ci ho pensato, non mi sono fatta dire dove l’hanno spostata, adesso la prima volta che vado a Ravensbrück voglio indagare. La Volkanblum era una fabbrica grande, noi quando siamo arrivate lì ci hanno dato un altro numero, che era il numero di lavoro, perché leggendo quel numero loro sapevano qual era il mio posto di lavoro: ho avuto 1721, detto in tedesco siebzehnhunderteinundzwanzig, comunque io ero 1721. Siamo arrivati a 4500, tutte donne e la maggior parte erano francesi; noi italiane eravamo poche e siamo anche state sfortunate, perché essendo poche siamo state un po’ mandate una da una parte una dall’altra, non è che siamo riuscite a stare tutte in gruppo; quello vuol dire volere o no che ti parli assieme, ti consoli l’una con l’altra invece una era da una parte e una dall’altra, questo era già brutto ma quello che era più brutto di tutto è che noi quando siamo entrati in campo, non avevamo solo i tedeschi come nemici ma avevano le prigioniere stesse, perché ce l’avevano con gli italiani, ce l’avevano perché gli italiani erano dei traditori, e allora a noi ci chiamavano sempre “musulinì” e “macaronì”, e noi dicevamo magari ne avessimo un bel piatto, sì che andrebbe bene, ma quel “musulinì” non andava bene perché se eravamo là non eravamo con Mussolini, questa è la verità, eppure soprattutto le più giovani ce l’avevano a morte con noi. Per fortuna che quelle anziane, vuoi anche francesi, che capivano più delle altre, sapevano che se noi eravamo là non eravamo con Mussolini perché fossimo state con Mussolini saremmo state in casa, in Italia perlomeno. Poco per volta sono riuscite a far capire questo e allora la cosa è cambiata, anche noi ci siamo trovate meglio, anche se c’era la difficoltà della lingua perché quella è stato un handicap grossissimo: tu non capivi quello che ti dicevano loro e loro non capivano quello che dicevi tu.

D: Anna, dicevi di quelle tre suore che poi hanno portato…

R: Queste tre suore sono arrivate, il primo giorno sono rimaste lì tutte e tre, noi abbiamo saputo che erano suore perché c’erano le francesi e siscome queste suore erano francesi … bisogna dire che le francesi si aiutavano in un modo stupendo, erano solidali l’una con l’altra, una cosa incredibile. Loro hanno cercato subito di fare qualcosa per queste tre, vuoi perché erano suore, vuoi perché erano francesi, le due anziane però il giorno dopo le hanno portate via subito ed è rimasta la più giovane. Era vestita come noi, l’avevano messa a lavorare, non ricordo che lavoro faceva, fatto sta che questa era una suora, tutte le sere o tutte le mattine, perché noi si lavorava 12 ore al giorno, una settimana di giorno e una di notte, allora questa finito il lavoro, prima di andare nel letto a castello, diceva le preghiere, si inginocchiava ai piedi dei castelli e diceva le sue preghiere, questo non era permesso perché dire le preghiere voleva dire farti animo da sola, metterti nelle mani di Dio, va a sapere cosa pensavano loro, fatto sta che era proibito. Loro, le kapò, le cablò, le stubò, ma soprattutto le kapò cosa facevano? Sapevano che lei era una suora e diceva le preghiere, allora aspettavano che lei fosse in ginocchio a pregare, venivano fuori dal loro harem, perché loro avevano il loro harem, venivano fuori e la pestavano di santa ragione. Queste nostre compagne più anziane, vuoi russe, tutte, non c’era differenza, tutte si prestavano, tutte. C’erano le italiane che si prestavano per noi, tutte si prestavano, e allora tutte a dire a questa suora: vai nel castello, prega tutto il giorno, prega tutta la notte, non metterti lì, queste un giorno o l’altro ti uccidono, e lei diceva: le preghiere vanno dette così, sarà la volontà di Dio e ha continuato, e loro hanno continuato a darle le botte, tanto che un giorno, facevamo la notte, lei era di giorno che stava pregando in ginocchio per terra, sono arrivate e l’hanno caricata di botte, noi eravamo nel castello, dormivamo già in due, ero con la Irma Bianco, si guardava; dice: questa qui la uccidono perché non è possibile, poi lei è caduta per terra, ha incominciato a venirle fuori il sangue dal naso e dalla bocca, allora hanno chiamato le sue compagne, le altre francesi, portatela all’infermeria, e loro l’hanno presa, l’hanno portata là, quando è arrivata lei era già morta. Questa è stata la storia di una suora, e le altre due le hanno portate via. Non hanno detto dove le portavano ma abbiamo capito, sapevamo già dove le portavano. Quella è un po’ la storia di come si viveva, poi c’è la storia del mangiare, il mangiare era una cosa schifosa, un mestolo di zuppa, loro la chiamavano zuppa ma era acqua sporca con qualche pezzo di barbabietola o di rapa che galleggiava sopra; erano rarissime le volte che trovavi un pezzettino di patata e toccavi il cielo con le dita, anche solo bollita, senza sale senza niente ma riempie la bocca ti da quale senso di…..perciò il mangiare era quello. Poi ti davano un filone di pane diviso in otto ma non era mai un chilo quel filone perché le kapo prima di dividerlo se ne tagliavano una bella fetta per loro; perché loro dovevano fare le loro orge perché alla sera o al mattino, ma soprattutto alla notte questo lo facevano perché di giorno potevano arrivare i tedeschi da un momento all’altro.

(Fine prima parte intervista)

D: Nella vita del campo nella vita del Lager cosa vi davano da mangiare?

R: Quello era il problema, però il problema grave anche per noi, soprattutto io parlo per noi giovani era quella che quando siamo arrivati ci hanno tolto il ciclo mensile. No? E in mezzo a tutto quel frastuono riuscivamo ancora a pensare a quello, riuscivamo ancora a dire, ritorneremo come prima? Quella era una incognita, una cosa che non si era mai sentita. Per fortuna che c’erano appunto queste persone più anziane che ci dicevano, non dovete pensare a quello, non dovete pensare a queste cose, queste cose abbiamo tempo a pensarci quando arriviamo a casa. Era facile dirlo. Ma non era facile a metterlo in pratica, perché quando arrivi a casa, intanto non sapevi se arrivavi a casa, prima cosa, seconda cosa, eri ancora in tempo quando arrivavi a casa a metterti a posto? Quella era una incognita che ti tormentava; ogni tanto ti veniva in mente quello e ci pensavi e quello ti dava quel senso di scoraggiamento ti faceva venire di cattivo umore, e quella era la cosa peggiore che potevi avere dentro di te, perché essere di cattivo umore voleva dire tu che eri già debole, fisicamente ecc. voleva dire cadere proprio nell’abisso completo, ecco perché le nostre compagne dicevano non pensate a quello, adesso pensate a vivere, domani penseremo a quello. Ma malgrado che ce lo dicevano loro, sapevamo che avevano ragione, non era facile mettere in pratica quelle cose. E’ stato difficile. Quando siamo riuscite tanto abbiamo capito abbiamo detto: qui non c’è niente da fare, o facciamo come dicono loro sperando che ci vada bene e se non ci va bene loro hanno fatto tutto quello che hanno potuto e non ci sono riuscite e allora abbiamo cercato di dare retta a quello che loro ci dicevano quello che loro ci insegnavano, perché tanto non avevamo altre vie di uscita che quelle e nel medesimo tempo si cercava di girare al largo e cercare di non incontrare pericoli, anche se i pericoli ti venivano a cercare, ovunque tu ti trovavi, tu dovevi sempre cercare di girare l’angolo, cercare di allontanare il pericolo.

D: Anna, ti ricordi a Ravensbrück o in quest’altro sottocampo se c’erano anche dei bambini?

R: A Ravensbrück sì nel sottocampo no, perché nel sottocampo ti passavano la visita prima, e allora prima di mandarti loro già sapevano quelle che arrivavano in stato interessante, perché d’accordo, (nel caso degli) gli ebrei prendevano tutta la famiglia, c’erano bambini anziani ammalati ecc. ma anche (nel caso delle) politiche c’erano donne che erano in stato interessante e le portavano lì e che cosa facevano.

Intanto le obbligavano a lavorare, a fare come facevano tutte le altre, senza nessuna distinzione senza nessun riguardo per quello, poi la obbligavano a partorire, all’inizio non c’eravamo ancora, però questo ce l’hanno raccontato quelle che erano già lì all’inizio facevano partorire la donna, poi la mamma stessa doveva uccidere suo figlio o annegarlo in un secchio, prendere la testolina e metterla nel secchio e farlo annegare o in un altro modo strangolarlo, ma dovevano. Pare che qualcuna si sia rifiutata di fare quello e hanno ucciso prima la madre e poi il bambino.

A Ravensbrück c’erano i bambini; io grazie a quella professoressa greca che come ho detto era una bravissima persona, una volta perché noi a Ravensbrück ci facevano lavorare, ci chiamavano mangiapane a tradimento perché non si faceva un lavoro produttivo, come siamo andati a fare dopo ma finché siamo stati lì al primo di luglio circa al venti di agosto, non è che ci hanno lasciate lì in panciolle a fare niente, ci facevano lavorare, ci facevano pulire i gabinetti, ci facevano pulire la piazza d’Appello, ci facevano pulire le baracche, ci facevano andare a prendere i bidoni della zuppa, quello era l’unico lavoro che facevamo volentieri, perché quando arrivavamo avevamo la speranza di prendere quel mestolo di brodaglia; non sempre ce lo davano, perché dicevano che noi eravamo mangiapane a tradimento, non ci guadagnavamo niente e allora a volte ce lo facevano anche saltare.

Allora un giorno siccome io mi lamentavo sempre, ero quella che borbottavo sempre, non accettavo il sistema che avevano era una cosa talmente brutale, talmente non era facile accettarlo anche se tu eri lì eri obbligata, non avevi nessuna (TOSSE)

E allora un giorno eravamo col carretto e andavamo a prendere i bidoni della zuppa, avevamo sopra (TOSSE) allora un giorno questa professoressa greca che mi vedeva sempre, un giorno dice: la prima volta che ci mandano assieme a prendere i bidoni della zuppa, ti faccio vedere una cosa che tu quando l’hai vista non protesterai più. E io dicevo: mah, chissà cosa mi fa vedere. Un giorno o due dopo ci chiamano e ci mandano col carretto, avevamo quattro bidoni vuoti sopra, due dietro spingevano il carretto e due davanti tiravano e si faceva proprio la strada lì dove, a un certo punto lei ha guardato che non ci fosse pericolo, poi mi fa: vai a quella finestra e guarda dentro cosa c’è. Allora io vado a quella finestra e guardo: c’era una camera grossa il doppio di questa, dentro c’erano tutti bambini, ma piccoli, bambini che avranno avuto dai tre ai cinque anni, ma forse cinque non li avevano, nudi come erano venuti al mondo, quella camera era disadorna non c’era un tavolo, niente, questi bambini erano messi in quella camera da soli. Non è che ho potuto stare tanto a guardare questi bambini però c’era una bambina che piangeva, si era avvicinato un bambino, ho capito che era un bambino perché aveva il suo pistolino, caro va! si è avvicinato, le ha fatto una carezza a questa bambina, le ha detto qualcosa, ma io ero fuori non ho sentito quello che ha detto, si può immaginare le avrà detto di non piangere, adesso arriva la mamma, una cosa del genere, ma vedere quel bambino che poi avrà avuto un anno di più di quella che piangeva non di più, vederlo con quella carezza con quella affettuosità, ecco ho detto, ha ragione; se i bambini così piccoli si comportano in quel modo non è giusto che io debba sempre (lamentarmi), e da quel giorno ho cercato di evitare, ho fatto fatica, ma ho cercato di evitare proprio questo modo di protesta, questo modo di ribellione che non riuscivo ad accettare quello che loro facevano.

Quando non avevano niente da farti fare, fuori, tutti fuori. Eri fuori, cinque minuti dopo tutti dentro, tanto per tenerti, non volevano a nessun costo lasciarti tranquillo. Quella è stata.

Ci saranno stati, io non li ho contati, il tempo era limitato anche dal fatto che bisognava fare attenzione che non arrivasse nessuno, saranno stati una quarantina, non so quanti erano, soli abbandonati, quelli erano i bambini di Ravensbrück, poi ci sono quelli che han dovuto farli morire, che li hanno fatti morire. Un’altra volta sempre con questa professoressa greca, quando si andava a prendere questi bidoni – la cucina era dietro alla piazza dell’appello, e si doveva fare il giro, passare di fianco alla piazza e andare dietro dove c’era la cucina. Arriviamo quasi all’altezza della piazza Appell, lei sempre più esperta di noi perché era più tempo che era lì, poi sapeva parlare il tedesco; ha visto che la piazza Appell era piena di gente, e allora ha detto: rallentiamo il passo, non fermiamoci, perché non possiamo fermarci, ma andiamo piano e vediamo cosa c’è là sopra; la piazza era piena era piena di donne, stavano facendo la selezione, gli uomini da una parte le donne dall’altra. E lì abbiamo visto una donna che aveva un bambino in braccio piccolo piccolissimo, e poi abbiamo poi saputo dopo il comandante tedesco ha dato ordine alla Hauserin di prelevare quel bambino, la mamma naturalmente lo teneva stretto e non voleva darglielo, allora è andato, in quel mentre noi arriviamo proprio all’altezza di dove erano loro; il comandante tedesco va, strappa via il bambino dalle mani della mamma lo butta in aria: a fianco c’era uno con la pistola e ha fatto il tiro a segno. Il bambino è caduto, ed è caduta anche la mamma, ma questo noi l’abbiamo saputo dopo, noi abbiamo solo visto il bambino che cadeva, poi siamo andati via perché lei ha detto: andiamo via perché qui se ci vedono andare piano! Allora abbiamo pedalato un pochino e siamo andate via. Questa greca, questa professoressa greca aveva stretto amicizia con una tedesca prigioniera, perché le prime ad andare nel campo sono state le tedesche, perché non hanno accettato la politica di Hitler; allora i campi non erano di sterminio, ma erano campi di rieducazione, speravano di rieducarle, di riportarle e quando siamo arrivate noi al mese di luglio del ’44 c’erano delle donne tedesche che erano quattro o cinque anni che erano lì. Allora questa greca ha stretto amicizia con una di queste tedesche che essendo le prime ad andare in campo, essendo tedesche, sapendo la lingua, perché era la sua lingua, le hanno messe nei punti chiave a segnare tutti i trasporti che arrivavano, a segnare chi moriva e chi non moriva, insomma tutti quei lavori, loro li chiamavano lavori di fiducia; tramite questa tedesca la professoressa greca era venuta a sapere che il bambino è morto e quando è caduto l’han colpito è morto, la mamma è caduta anche lei è morta sul colpo, come il bambino è venuto giù è caduta anche la madre ed è morta anche lei, l’ha saputo appunto da questa tedesca, ecco perché abbiamo saputo che, il bambino l’abbiamo visto, con i nostri occhi, ma la mamma no, perché poi abbiamo pedalato perché abbiamo detto se, cioè lei ha detto se ci prendono ad andare piano pensano che noi guardiamo lì e ci portiamo le conseguenze, andiamo in fretta, ormai quello che abbiamo visto abbiamo visto.

D: C’erano anche degli uomini?

R: Per gli uomini c’era un campo dietro, io questo l’ho saputo dopo anni che ero a casa, questo non lo sapevo; c’era un campo dietro di uomini, ma da noi non venivano gli uomini; da noi gli unici uomini che vedevamo erano gli ufficiali tedeschi, poi c’erano i Meister, quelli che quando si lavorava in fabbrica avrebbero dovuto insegnarti a lavorare ecc., quelli erano civili; altri noi uomini non ne abbiamo mai visti.

D: Anna, tu quanto tempo hai trascorso nel Lager?

R: Nel Lager ho trascorso dunque dal primo luglio ’44 al 27 aprile del ’45, perciò tredici mesi, più i mesi di prigionia sempre sotto i tedeschi, totale circa 15 mesi.

D: Anna, come è possibile spiegare con parole la vita quotidiana dei lager, cosa era un Lager?

R: Non è facile spiegarlo perché i ricordi sono talmente tanti, talmente tanti che uno non riuscirà mai e poi mai a raccontarli tutti, e questo ti rende già difficoltà, perché salti, da una cosa salti all’altra, perché ti sembra che sia più importante quello di questo, mentre invece se uno potesse fare una didascalia, le cose sono tutte importanti uguali, perché erano tutte brutalità che questi mostri facevano su persone umane. Qualsiasi cosa, anche un pizzicotto era già una brutalità che vale la pena di ricordare. Ma non è facile dire tutto.

D: La fame, le malattie.

R: Ma noi ti dirò.. Almeno io l’unica cosa che ho avuto (è stata) la pleurite secca bilaterale, però non lo sapevo, la pleurite non è che ti da una febbre alta; tu non potevi andare all’infermeria se non avevi quaranta di febbre e tutti si cercava di non andare all’infermeria, chi andava era perché proprio era obbligato altrimenti si cercava di non andare. Io ho fatto questa pleurite ma non lo sapevo perché mi sentivo stanca, mi sentivo fiacca, mi sentivo molle, ma si dava la colpa a tutto meno che a quello, si dava la colpa al mangiare niente e male, lavorare 12 ore, ma lavorare sodo, e quello era un logorio giorno dopo giorno della tua vita, del tuo corpo, e davi la colpa a tutto questo; io ho saputo poi che ho fatto la pleurite secca bilaterale quando sono tornata a casa. Avere qualche cosa per essere aiutata ho dovuto fare un mucchio di visite e la prima cosa mi hanno fatto i raggi: ma tu hai fatto la pleurite secca bilaterale! Ma che ne so io; ma non sei mai andata all’ospedale?; no, mai! Perché? Perché uno attribuiva tutte queste cose al modo in cui ti facevano vivere, ma non andavo a pensare. Invece chi gli venivano il tifo, chi aveva il tifo petecchiale, ad esempio c’era una francese, ecco questa era una cosa, c’era una francese aveva la mia età, Audette, si chiamava, e all’inizio era una accanita contro di noi “Mussolinien maccaronian”, non ci accapigliavamo perché ci avevano tagliato i capelli, altrimenti tutti i giorni ci saremmo accapigliate. Poi come ho detto sono riusciti a far capire che se noi eravamo lì non eravamo con Mussolini e siamo diventate amiche. Lei mi raccontava quello che faceva quando era a casa, che amava le pietre, andava in giro cercava quelle pietruzze belle colorate. Quando andiamo a casa, era di Parigi, quando andiamo a casa, se andiamo, vieni a trovarmi, ti faccio vedere, mia mamma non mi butta niente, mia mamma lascerà la mia camera come è adesso e si parlava di questo. A questa viene la dissenteria, non riusciva a farla cessare e dalla dissenteria le è venuta la tubercolosi intestinale. E le sue compagne, perché l’ho detto all’inizio, le francesi si aiutavano in un modo stupendo, queste compagne la portavano di peso all’appello, poi di peso la portavano sul posto di lavoro, le facevano loro il lavoro bastava solo che lei restasse in piedi quando c’era pericolo, restasse in piedi; loro magari una era lì che le faceva il lavoro faceva finta che era andata a prendere un martello o qualche cosa per fare il suo lavoro, le facevano il lavoro, le facevano tutto. Finché hanno potuto l’hanno portata lì, ma un giorno le gambe non la tenevano più in piedi, e sono state costrette a portarla all’infermeria. Caso strano, caso strano, quando c’era qualcuna che moriva, o c’era qualcuna che stava male che non guariva più tipo questa, allora arrivava quando c’era un numero tot di persone da prendere, sia morte che vive, arrivava – noi lo chiamavamo il carro funebre – era un camion coperto da un tendone nero, arriva lì: caricava le morte, c’era uno sgabuzzino, era una camera come fosse quella con le piastrelle bianche, e allora quando moriva una la portavano lì, quando c’erano circa dieci, meno di dieci no, quando c’erano circa dieci persone da prendere, sia morte che vive, vive parlo di quelle ammalate che non c’era più niente da fare, perché finché riuscivano a sfruttarti ti sfruttavano, allora arrivavano caricavano, tutte morte vive, mettevano tutto su quel camion, e le portavano via, caso strano questa non l’hanno mai portata via, non si sa il perché. Dentro l’infermeria c’era una dottoressa francese, che era una prigioniera anche lei e l’hanno presa perché portava avanti un ospedale da campo dei maquis, dei partigiani francesi, e l’hanno arrestata, l’hanno portata a Ravensbrück, poi siccome quando arrivavi ti chiedevano cosa facevi, da civile, a lei hanno chiesto e ha detto: dottoressa. Si vede che avevano bisogno e l’hanno mandata all’infermeria, lì dove eravamo noi. Bravissima era. Io tramite il suo aiuto andavo a trovare questa compagna francese, andavo sovente a trovarla, anche perché avevo il permesso di andare all’infermeria a medicarmi, non aveva niente da darmi, mi dava un bicchiere d’acqua e basta per sciacquarmi la bocca che mi avevano tolto i denti e avevo tutta la bocca, e mi avevano dato il permesso a fine lavoro, vuoi quando si faceva la notte che quando si faceva il giorno potevo andare all’infermeria a sciacquarmi la bocca, andavo lì e mi dava quel bicchiere d’acqua. Sembra una stupidaggine, mi dava quel bicchiere d’acqua mi sciacquavo la bocca e mi passava il male, avevo tutte le gengive rovinate, perché poi quello che mi ha tolto i denti non era un dentista; avevo le gengive brutte, io mi sciacquavo con quel bicchiere d’acqua mi passava il male, poi tornava, perché il male c’era, però mi passava il male. Ora vuoi perché l’acqua era fresca, vuoi anche perché era il modo in cui ti veniva dato quel bicchiere d’acqua con garbo con gentilezza con affetto, cosa che noi là non conoscevamo più da nessuna parte, perché da nessuna parte tu trovavi il rispetto, da nessuna parte tu trovavi, niente, trovavi soltanto brutture, soltanto persone che facevano di tutto per poterti picchiare, tutto quello che noi si trovava in giro, ed arrivare lì e avere una persona che ti dà quel bicchiere d’acqua con garbo con gentilezza, per me era anche quello il motivo che mi sciacquavo la bocca e mi passava il male.

D: Anna, quando eri lì nel sottocampo nella fabbrica, fino a quando siete rimasti lì?

R: Dunque la fabbrica ha funzionato fino verso i primi di febbraio (1945), poi cominciava a mancare i pezzi; il materiale arrivava ma non arrivava tutto, e allora ai primi di febbraio la fabbrica praticamente ha chiuso, non si lavorava più in fabbrica.

Allora ci portavano a tagliare le piante, c’è ancora adesso, una grossa pineta tra dove c’era la fabbrica e il campo e il campo d’aviazione. Allora ci portavano lì, ci facevano tagliare le piante, loro dicevano, per me era una balla quella, che si tagliava le piante per fare la strada, che così loro gli apparecchi che c’erano sul campo, gli apparecchi che venivano finiti in questa fabbrica, poi li collaudavano su quel campo di aviazione; allora dice che gli apparecchi che venivano finiti venivano collaudati, potevano portarli via dal campo per evitare il bombardamento del campo d’aviazione. Ma se noi tagliavamo le piante la strada che si faceva per portare questi aerei era allo scoperto lo stesso. Quello era un modo come un altro per farti lavorare, per non lasciarti in ozio, secondo me poi posso anche sbagliarmi perché magari era..

D: E questo lavoro è continuato fino a quando?

R: Noi abbiamo fatto quello e poi ci hanno portato a fare le trincee, per i militari tedeschi che indietreggiavano, trincee che non servivano a niente, perché quando avevi fatto mezzo metro di profondità, la terra dai lati franava, perciò non servivano a niente quelle trincee. Mi ricordo che era Pasqua, stavamo andando giusto in uno di quei campi dove ci facevano fare le trincee, c’erano delle baracche di legno, e abbiamo visto che dalle finestre, avevano le finestre aperte, perché eravamo già a Pasqua, abbiamo visto dalle finestre aperte, c’erano dei militari dentro. Questi militari hanno sentito, noi abbiamo cercato di parlare italiano per farci sentire, loro hanno capito che c’erano degli italiani, e allora ci hanno gridato: va a pochi! Allora noi quello ci rallegrava, perché se ci dicono loro che va a pochi vuol dire che la guerra finirà presto, e allora anche quella era una medicina per tirarti su il morale perché ti facevano girare come delle ciotole. Da quando non hanno più potuto lavorare in fabbrica perché non arrivava più il materiale ci faceva girare come delle stupide e ci facevano fare dei lavori inutili, inutili erano quei lavori, pur di non lasciarci lì a non far niente, finché un giorno hanno deciso di riportarci a Ravensbrück per la soluzione finale, come loro avevano stabilito. Noi abbiamo viaggiato per tre giorni e tre notti ma non avevamo mai viaggiato, non sto a dire quanti chilometri abbiamo fatto, ma pochissimi, perché ormai c’erano i bombardamenti su Berlino. Era una cosa! Gli aerei erano così, facevano il setaccio proprio. E ogni volta che, specialmente di giorno, ci facevano buttare per terra nei fossi ecc. mi ricordo che siamo partiti di lì erano, dicevano eravamo in 550, quando siamo arrivati che i russi ci hanno liberati eravamo ancora 250, le altre le abbiamo perse per la strada in pochissimi chilometri perché era più quello che stavamo ferme buttate giù nei fossi in prati che quello che si camminava, solo che tante buttarsi giù si buttavano, poi non riuscivano più ad alzarsi e quando loro ordinavano di alzarsi se tu non ti alzavi più che in fretta ti sparavano, ecco perché abbiamo perso tutte quelle compagne.

D: Come ti ricordi la liberazione?

R: Eh, eh, devo dire una cosa, la ricordo strana perché ci hanno chiusi in un locale e noi avevamo anche delle russe con noi, e ci hanno liberato i russi, siamo state liberate dai russi noi, e in quel locale non sapevamo, le russe però che parlavano il russo e sentivano fuori a parlare, hanno capito che c’erano i russi fuori e allora si sono messe a gridare in russo, chiamare ecc. Han fatto la scala, perché c’erano tutte finestre però che si aprivano così, han fatto la scala sono andati da quella finestra e poi hanno chiamato questi militari russi che erano fuori dicendo: siamo chiuse qui dentro! Loro sono venuti per entrare ma non potevano perché c’erano quelle porte che sembravano porte blindate di alluminio ma spesse così, tanto è vero che hanno gridato di toglierci davanti alla porta di andare in un angolo e loro hanno sparato contro la serratura e hanno aperto questa porta, poi ci hanno prese e ci hanno portato in un magazzino, ci hanno detto di stare lì e di non muoverci, perché c’era ancora pericolo, c’erano i cecchini che sparavano e c’era pericolo. E noi siamo rimaste lì, però lì è successo un fatto gravissimo. E’ successo un fatto gravissimo, perché là c’era la camera dove ci han messi loro, poi in un angolo c’era una porta, questa porta era chiusa; per noi ormai vedere le porte chiuse era un dilemma, e siamo state talmente tanto chiuse in mezzo insomma quella porta doveva venire aperta, perché non si poteva lasciare quella porta chiusa, e allora le russe che erano più robuste, perché le russe avevano un temperamento diverso dal nostro erano più robuste resistevano di più, anche loro si aiutavano molto erano tante, si aiutavano molto, ma avevano un temperamento molto più forte del nostro, noi eravamo… vicino a loro, a dirla proprio, allora con le spallate hanno aperto quella porta, dietro quella porta cosa c’era? Un magazzino di patate. Si sono buttate tutte su quelle patate, patate sporche con la terra vicino, era tanta la fame che uno non la vedeva la terra e tante lì sono morte proprio per aver mangiato quelle patate. E ci ho provato anche io, c’era la Irma quella di Biella, mi diceva (fermati)…. E’ una parola, fai presto a dirlo ma quando uno ha fame, e sono andato ho provato anche io, per fortuna da una disgrazia è stata una fortuna: a me mancavano i denti, avevo solo questi pochi davanti, però avevo tutto male alle gengive ancora, anche se era dal mese di gennaio che mi avevano fatto quello, e allora non ho potuto mangiare quelle patate, ho tentato ma non riuscivo. Allora mi ha preso anche la rabbia perché vedevo le altre che mangiavano volente o nolente, terra o no, si tolgono la fame ma io non potevo; allora con un po’ di rabbia, allora poi sono arrivati i russi, ci hanno preso, ci hanno portate in una casa, di lì i tedeschi erano scappati tutti, erano scappati tutti i tedeschi.

D: Ecco questo quando è avvenuto e dove se te lo ricordi.

R: Il nome del paese non lo ricordo, non lo ricordo affatto.

D: E quando?

R: Il 28 di aprile (1945) e questo sarà successo il 29 o il 30 di aprile, quando i russi ci hanno preso e ci hanno portato lì in questa casa disabitata abbandonata dai tedeschi perché avevano paura dei russi, e allora sono scappati tutti e hanno abbandonato le case, e i russi quando ci hanno liberati non avevano niente da darci, perché loro hanno combattuto da Stalingrado fin a Berlino, ma han fatto veramente la guerra, non erano come gli americani, gli americani sono arrivati in Germania con gli aerei, con tutto ogni ben di Dio dietro, giacché gli americani avevano tutto da darti, ma i russi non avevano niente, erano laceri, non dico come noi, però loro l’acqua l’hanno sempre trovata e si sono sempre lavati, invece noi neanche quello. Però ci prendevano, ci portavano nelle case, se gli armadi erano chiusi li spaccavano con i fucili, prendetevi la roba, cambiatevi, toglietevi ‘sta puzzolenza da dosso e tutto finiva lì.

Allora ci hanno sistemate in questa casa, e da quel momento siamo state un po’ sotto controllo, c’era un ufficiale russo anziano, te lo ricordi? Una bravissima persona, ci aveva fatto un documento che era intestato a tutte e due, è andato a finire nelle mani di un fiorentino che si interessava di un gruppo di italiani e questo documento è rimasto, io l’ho cercato questo fiorentino, non sono più riuscita a trovarlo e così questo documento è sparito, era un documento che era, allora non si pensava …

Allora lì i primi due o tre giorni quasi quasi non credevi di essere libero, io mi ricordo che avevo freddo e sono andata a sedermi ai piedi di una pianta al sole, e poi ho chiuso gli occhi, questo sole mi scaldava le ossa. Dicevo: Ah sì sto bene, questa volta sento proprio il caldo. A un certo punto sento parlare straniero, c’era un russo che passava, ha visto che io ero lì appoggiata la testa contro la pianta con gli occhi chiusi, non sapeva se ero viva o se ero morta, allora è venuto lì per vedere se ero viva o se ero morta, quando l’ho sentito mi sono … Subito ho detto: Ah, ma è stato un sogno, sono di nuovo qui. Mi ci sono voluti due o tre giorni, poi poco per volta ci siamo rese conto che effettivamente eravamo libere e dovevamo poi pensare a ritornare, a ritornare a casa, e l’avevamo fatto. Eravamo arrivati fin lì, speravamo anche se avevamo tutta la Germania da attraversare, perché noi eravamo a 80 chilometri dal Mar Baltico, oltre 80 chilometri sopra Berlino, avevamo tutta la Germania da attraversare. C’è voluto del tempo ma ce l’abbiamo fatta.

D: Come è stato il ritorno Anna?

R: Il ritorno è stato bello, perché ho trovato mia mamma viva, pensavo di non trovarla più viva, questo è stato bello, però ho saputo poi di mio fratello che l’avevano preso e l’hanno fucilato e poi…

D: Partendo da Berlino…

R: Proprio da Berlino non siamo più passate, però a distanza abbiamo visto Berlino era distrutta, ma non solo Berlino Dresda, noi che l’avevamo visto prima e l’abbiamo vista dopo era una cosa spaventosa, era rasa al suolo, Berlino era rasa al suolo. Quegli aerei che facevano il setaccio che andavano e venivano …

D: Con cosa sei ritornata, con che cosa siete ritornate.

R: Ah, ah abbiamo fatta più strada a piedi che con tutti i mezzi che abbiamo trovato, ma i mezzi più grandi erano le nostre gambe.

D: E siete rientrati in Italia da dove?

R: Da Bolzano. Poi ci hanno detto: Quando entrate in Italia vi danno un pacco, noi tute contente, oh meno male, siamo arrivati a Bolzano una domenica mattina, piovigginava, c’era la nebbia, ma faceva un freddo! Eravamo ad agosto, faceva un freddo cane, e il pacco sa cos’era? Era tre rosette di pane, quelle rosette dure così, e cinque mele, quelle mele che cadono da sole dalle piante. Poi a noi donne ci hanno dato un mestolo di latte caldo e agli uomini cinque sigarette. Lei assaggia il latte prima di me e poi mi fa. “E’ andata a male, l’è acido” l’abbiamo bevuto lo stesso, eh?

D: Ma questo dove?

R: A Bolzano alla stazione, sotto la tettoia della stazione.

D: E chi c’era a distribuire lì?

R: C’erano degli uomini, delle donne, però non erano crocerossine, erano gente del posto, tre rosette grosse così dure come non so cosa, e cinque mele di quelle lì tarate, perché poi dentro erano guaste, quello è stato il pacco che ci hanno dato. Poi ci hanno portato a Pescantina, lei è stata fortunata, perché ha trovato subito un treno che veniva a Torino e allora con degli internati militari ha preso il treno con loro ed è arrivata a Torino. Io invece purtroppo mi sono fermata più di una settimana lì a Pescantina, perché poi mi ero gonfiata tutta, non ci vedevo più, ero gonfiata, allora non mi hanno fatto partire. A Pescantina dalla provincia di Asti venivano su coi camion a caricarci e lì ero in quelle condizioni, volevano ricoverarmi all’ospedale e io ho detto: vado a casa a piedi ma all’ospedale non ci vado. Fossi andata in ospedale forse avrei preso la pensione, invece io volevo andare a casa e allora ho sentito che il dottore ha detto alla suora: facciamo queste iniezioni poi se non le passa la portiamo di brutto all’ospedale. Eh beh dobbiamo fare i conti assieme, gli ho detto. Non vedevo ma la lingua parlava. Invece mi ha fatto quelle iniezioni e dopo tre o quattro iniezioni ho cominciato a vedere il buio che si diradava, ho cominciato a vedere delle ombre che passavano: Ma io vedo già le ombre” “Eh beh allora andiamo bene, continuiamo le iniezioni”. Finita la scatola di iniezioni io non è che proprio ci vedessi chiaro, ma comunque vedevo, vedevo cosa avevo davanti a me cosa avevo nel piatto ecc,ecc,

D: Ma Pescantina dentro l’ospedale?

R: No, era un asilo nido quello dove raggruppavano tutti gli internati che arrivavano dalla Germania passavano di lì e poi ognuno andava per la sua direzione; quello che andava nella bassa Italia prendeva il treno per la bassa Italia, loro che venivano a Torino prendevano il treno che andava a Torino ed io che andavo ad Asti c’erano i camion della Curia di Asti che venivano a caricarci che ci portavano ad Asti, solo che io ho dovuto stare una settimana.

D: Allora una settimana dopo finite le iniezioni …

R: Ho cominciato a vederci e allora sono andata a casa.

D: Anna tu parlavi dei denti

R: I denti è stata una storia quella! Il mattino facevamo la notte, siamo alla piazza Appell: chiamano il mio numero e io che non sono mai riuscita a imparare il mio numero di Ravensbrück a memoria, come il solito, quella greca, quella professoressa, mi tocca: chiamano te! E allora esco fuori, quando ti chiamavano dovevi uscire fuori, in un angolo c’era un angolo apposta, eravamo in cinque. Ci hanno portate davanti all’infermeria, ci hanno fatto entrare una per una, io quando sono entrata mi hanno guardata in bocca ma io i denti li avevo tutti sani, non avevo male in bocca male ai denti. Loro dicono krank e lì c’era la signora Berna, non so se te la ricordi, quella che faceva da interprete che aveva la fascia rossa, e loro dicono “krank”, voleva dire che eri ammalata in bocca; io dico all’interprete: io non ho male in bocca, i denti sono sani cosa dicono che sono ammalata? E lei si vede che sapeva e mi ha detto: bisogna aver tanta pazienza! Parlava bene l’italiano, era di Lubiana la signora Berna, bisognava avere tanta pazienza.

Usciamo fuori, quando arrivano anche le altre quattro ci caricano su un camioncino e partiamo.

Ci hanno portato a Sachsenhausen. Siamo arrivate davanti a una casetta, una casetta fatta di pietra non di legno, che c’è ancora adesso con scritto sopra “Patologia” e dentro ci sono ancora tutti i ferri nelle vetrine come allora, entro dentro c’era un signore grande e grosso che ungeva da dentista ma non sapeva nemmeno come tenere le pinze in mano, si vede che voleva imparare. Loro erano convinti di vincere la guerra, voleva imparare per aprire uno studio dentistico alla fine della guerra, non so, e allora mi fissa le braccia su questi braccioli delle poltrone, mi fissa la testa, mi fa mettere i piedi dietro la traversa della sedia perché non gli dia calci, e poi va alla vetrina: vedo che viene avanti con le pinze per togliere i denti e incomincia, e incomincia dai molari, resto dietro, di sopra non ne ho più. Solo che è quello che mi ha rovinato tutte le gengive; fatto sta che da quel giorno dal mattino verso le dieci, dieci e mezza, fino alle quattro e mezza del pomeriggio ne ha tolti sette, poi ha smesso mi ha dato un pezzo di carta per pulirmi la faccia, e poi fuori c’era di nuovo il camioncino che ci aveva portate, ma non c’era nessuno, c’ero solo io, le altre non sono più tornate. Ero tutta frastornata: togliere sette denti senza iniezione e senza niente, non so se mi spiego; poi ero tutta sporca qui davanti per la bava, tutto quello che veniva fuori dalla bocca, non è che mi hanno messo qualcosa qui davanti.

Fatto sta che arrivo fuori lì c’era quello lì del camioncino e mi fa segno di salire su quel camioncino, ma io non ero capace a salire, non ero capace perché non gliela facevo, ero distrutta, allora lui mi ha presa, ora pesavo poco mi ha presa così mi ha buttata sul camion, come si fa a un sacco di patate, il camioncino è partito e mi ha riportato.

Vado lì, loro si stavano già alzando perché siamo arrivati lì erano le cinque cinque e un quarto, vado a fare un’altra notte, era già la seconda notte che facevo senza dormire, vado a fare un’altra notte, il mattino dopo mi chiamano di nuovo, questa volta mi chiamano da sola, mi caricano un’altra volta su quel camioncino e mi riportano a Sachsenhausen. Allora mi è venuto in mente che il giorno prima quel famoso dentista, nel mandarmi fuori, mi aveva detto “Auf Wiedersehen” che vuol dire arrivederci, e io subito non ci avevo fatto caso, mi è venuto in mente il giorno dopo quando mi hanno riportata lì. Ecco perché mi ha detto “Auf Wiedersehen”! Lui sapeva che io il giorno dopo dovevo ritornare. Allora sono tornata, la medesima cosa: mi ha fermato le braccia, la testa e tutto mi ha tolto altri otto denti, in tutto quindici denti, infatti io i molari non li ho più.

Nel ’79 quando sono andata per la prima volta in Germania con mio marito, abbiamo visitato tanti campi, tra i quali anche Sachsenhausen, adesso no, c’è solo l’emblema, ma allora c’era un tavolo che era più lungo di questo, pieno di denti, perciò non è che, ce n’erano d’oro, certo se li prendevano subito, ma i denti non d’oro non gli servivano a niente, perché erano tutti lì, ce ne erano una montagna, tanto che io scherzando ho detto a mio marito, guarda bene perché lì dentro ci sono anche i miei! Perciò toglievano questi denti ma non si sa il perché, lo sanno solo loro; forse per vedere quanto una persona resiste, per vedere, non lo so, non lo so! I denti erano tutti lì, adesso c’è ancora nel museo poca roba, non c’è più tutta quella quantità di denti come c’era allora. Ma nel ’79 c’era un tavolo pieno, l’abbiamo visto noi, perciò perché l’hanno fatto non l’ho mai saputo, e non lo saprò mai.

D: E’ difficile raccontare il Lager.

R: E’ difficile perché non si racconta bene, si salta da una parte e dall’altra perché comunque, io ho fatto del mio meglio…

D: No, sto dicendo tu sei brava, ma spiegare.

R: Rivivi quello che hai passato, rivivi.

D: La vita di un giorno nel Lager come si può sintetizzare, come si può…

R: Non è facile dirlo.

D: Perché non sai quale giorno prendere.

R: Ecco, bravo. Perché tutti i giorni erano brutti poi c’era quello più brutto ancora, c’era quello che magari avevi un momento, hai avuto un momento di solidarietà, hai avuto un momento che ti ha dato un po’ di forza e non sai quale prendere.

D: Parlavi delle francesi, con le francesi cantavate?

R: Loro cantavano, fra di loro facevano tante cose. Poi c’è un fatto: loro ricevevano i pacchi, cosa che noi non avevamo mai ricevuto, loro scrivevano, noi non avevamo mai scritto.

D: Tu non hai mai scritto?

R: Mai, mai, mai.

D: Loro invece sì.

R: Loro ricevevano dei pacchi, scrivevano e diciamo che dai pacchi che ricevevano qualcosa saltava sempre fuori. Ho mangiato tanto di quell’aglio, ricevevano delle teste di aglio così, e allora … Quella compagna che poi è morta, l’ultima volta che sono andata a trovarla grazie a questa dottoressa che io andavo con la scusa dei denti, poi andavo a trovare lei, lei stava sulla porta, se vedeva che c’era pericolo, allora eravamo già d’accordo, lei diceva: Achtung, e io venivo lì.

C’era già il mio bicchiere di acqua, prendevo il mio bicchiere, mi sciacquavo i denti, avevo il permesso di fare quello … Sono andata a trovarla lei mi ha detto con un fil di voce, perché non riusciva nemmeno più a parlare mi ha detto: Io sono alla fine, la mia liberazione arriva prima della tua.

Ecco, questa è una cosa molto importante, queste persone sapevano di morire…..