Ciceri Ambrogio

Ambrogio Ciceri

Nato a Milano il 17.11.1917

Intervista del: 18.01.2004 a Milano realizzata da
Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n.195 – durata: 67′

Arresto: 12 settembre 1943 a Verona

Carcerazione: a Verona, al Forte San Leonardo

Deportazione : Dachau, Flossenbürg

Liberazione: 27, 28 aprile 1945

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Organizzazione materiali ed inserimento dati: Elisabetta Mascarello, Elena Pollastri

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Ciceri Ambrogio, nato a Milano il 17/11/1917.

Dico anche la via dove sono nato?

D: Sì, se te la ricordi.

R: Via Pisacane 38.

D: Ambrogio, a settembre del ’43 tu dov’eri?

R: A Verona.

D: Come mai? Cosa facevi a Verona?

R: A Verona io ero staccato all’auto centro.

D: Eri militare, quindi?

R: Ero militare però io al 25 di luglio mi sono congedato da solo.

D: Come al 25 luglio?

R: Del ’43.

D: Come ti sei congedato da solo?

R: E’ quello che è successo. Allora è stato il Duce e s’eri stuf de fa il militar, ero stanco di fare il militare e sono andato a casa.

D: Sei venuto a Milano?

R: Sono venuto a Milano e mi sono preso i vestiti borghesi e sono ritornato a Verona perché a Verona avevo degli amici: uno di Rovigo, uno di Padova.

Abbiamo preso un appuntamento, prima che arrivasse l’8 Settembre e ci trovavamo in una trattoria di via XX Settembre a Verona.

Decisi di andare a Brescia, io conoscevo gente a Brescia e si sarebbe andati in Val Trompia, si sarebbe andati in montagna praticamente, invece purtroppo il 10 Settembre del ’43 siamo andati alla stazione per prendere il treno e andare a Brescia, ci hanno fermati, ci hanno chiesto i documenti, c’erano tedeschi, c’erano fascisti e ci hanno portato su al Forte San Leonardo .

Ci hanno arrestati e ci hanno portato al Forte San Leonardo, il 12 settembre.

D: Scusa Ambrogio, voi eravate decisi, te e i tuoi amici, di andare in Val Trompia per aggregarvi ad una formazione…

R: Sì ad una formazione partigiana che già cominciava a formarsi.

D: E voi avevate già i contatti?

R: Avevamo già i contatti.

D: Non ti ricordi il nome di questa formazione?

R: No, non mi ricordo, non mi ricordo.

D: Comunque siete lì alla stazione di Verona…

R: Sì di Verona.

D: Eravate in stazione di Verona e lì vi hanno arrestati?

R: No ci hanno fermati e chiesto i documenti.

Abbiamo dato i documenti, i documenti fasulli, avevamo creato dei documenti fasulli e ci hanno arrestati e ci hanno portati su al Forte San Leonardo.

D: Ecco e dicevi scusa, questo è importante: oltre ai germanici c’erano anche degli italiani?

R:I fascisti c’erano, le pattuglie fasciste c’erano e ci hanno portati su al Forte San Leonardo perché tu sai a Verona ci sono due forti: San Mattia e San Leonardo.

Ci hanno tenuti lì fino al 22 e dopo al 22 …

C’era un camerone, ci hanno interrogati, anzi ci hanno proposto di andare in Germania a fare l’istruzione per aggregarsi al nuovo esercito fascista che avrebbero fatto se firmavamo una carta, sai qualche sberla l’hai presa perché io non ho mai firmato niente, al 22 ci hanno portati giù alla stazione.

Alla stazione arrivava una cosa da Peschiera.

D: Un treno.

R: No un treno, era già carico di …

D: Sì ma era un carro bestiame?

R: Sì un carro bestiame logico mica me dan la prima clas per l’amor di Dio, ci mancherebbe altro e di lì ci hanno caricato su questo carro bestiame e ci hanno portati a Dachau .

D: Scusa Ambrogio, lì a forte San Leonardo sei rimasto dal momento che ti hanno…

R: Dodici giorni circa.

D: Lì ti hanno interrogato, ti hanno chiesto se volevi firmare per …

R: Se volevi firmare per andare…

D: Ecco oltre al vostro gruppo, oltre al tuo gruppo c’erano altre persone?

R: Sì sì, eravamo circa venticinque, trenta persone che c’erano già quando io sono arrivato.

Quel giorno, il 22, ci hanno portati giù.

E’ arrivato un convoglio da Peschiera che poi ho saputo che erano quelli che erano miliari arrestati, non so per che cosa e che io sul convoglio poi tra parentesi ho trovato un mio carissimo amico Robbiati Libero, che era di Milano, che era stato arrestato perché lui faceva il militare a Pavia, era della classe 1917, della mia classe. Eravamo amici da bambini, da ragazzi, andavamo a scuola assieme e lui è entrato in un bar una sera, c’era dentro un gruppo di gerarchi fascisti, gli hanno detto una parola in più, lui ha picchiato perché era uno che…, ha picchiato uno di quelli, l’hanno preso e gli hanno dato dieci anni di prigione perché ha picchiato un gerarca, un fascista e l’ho trovato sul carro che andava anche lui a Dachau, ma lui veniva da Peschiera.

D: Il viaggio ti ricordi quanto è durato?

R: Dunque siamo partiti al 22, siamo arrivati a Dachau circa il 25 o 26 mattina.

D: Quando tu dici che sei arrivato a Dachau il treno dove è arrivato?

R: A Monaco.

D: Poi?

R: Poi a piedi ci hanno incolonnati perché da Monaco a Dachau ci sono 10 chilometri circa e ci hanno portati a Dachau.

D: Con le guardie.

R: Con le SS in fianco, tanto è vero che prima di entrare nel campo tu leggi: il lavoratore mobilita ma stanca meno stanca…

D: ” Arbeit macht Frei”.

R: Io sto scherzando.

D: “Il lavoro rende liberi”.

R: Rende libero. Sì infatti è una libertà che non finiva più.

D: Come ti ricordi l’ingresso di Dachau quando siete arrivati?

R: Un ingresso che c’era questo scritto, un ingresso che sembrava che tu entravi in una tenuta, in un ranch, ecco una cosa così perché c’era un grandissimo piazzale che lì ci hanno fatto spogliare tutti nudi.

D: Fuori?

R: Fuori, fuori, all’aperto.

Ci hanno sequestrato tutti i panni, tutto quello che avevamo.

Siamo stati lì, perché noi siamo arrivati alle 6 a Monaco e siamo arrivai alle 7,30.

D: Alle 7,30 del mattino?

R: Del mattino. Sto parlando del mattino.

Ci hanno tenuti lì fino alle quattro di sera nudi, in piedi, tanti si sono sentiti male e poi ci hanno mandati a fare la doccia .

D: Scusami, allora, dalle 7 del mattino tutti spogliati…, il vostro trasporto eravate in tanti?

R: Eravamo in 1.500 circa.

D: Come entri in Dachau dove vi hanno messo lì nudi.

R: Entrati in Dachau sulla sinistra c’erano delle baracche dove c’erano dentro delle SS e noi ci hanno messo in faccia e ci hanno detto di spogliarci nudi, allineati, una fila di qua, una …., setto o otto file, dieci file, non mi ricordo, messi tutti i vestiti per terra, hanno spazzato via tutto, poi verso le 15,30 del pomeriggio circa perché non c’era più l’orologio, te lo hanno portato via, siamo andati dentro a far la doccia.

Mentre andavamo dentro ti facevano l’interrogatorio: “Cosa facevi di mestiere?”.

Io non sapevo cosa dire perché io non ho mai lavorato a dir la verità.

Io sono stato al Gonzaga per cinque anni, ho fatto il Gonzaga perché mio padre aveva la possibilità e poi sono andato a fare la commerciale Zaccaria in via Commenda.

Dopo in via Commenda, la seconda commerciale si doveva andare vestiti da avanguardista e io non ci sono più andato non perché io …, perché ho visto mio padre…, mio padre avendo uno stabilimento con cento operai, una pelletteria in via Giulio Carcano 26, padrone di tutta la casa e di tutto il coso, doveva avere il quadro del Duce nell’ufficio e costava 500 lire il quadro del Duce.

Non era per le 500 lire ma mio padre era socialista e non lo ha mai comperato.

Un giorno sono venuti lì, l’hanno preso, l’hanno portato fuori e lo hanno picchiato; io venivo in quel momento a casa da scuola, l’ho visto e sono andato dentro anch’io in mezzo a cercare e le ho prese anch’io, ma non perché ho preso qualche schiaffo ma perché ho visto picchiare mio padre, da lì ho odiato i fascisti.

Quando sono andato a scuola ancora a fare la seconda commerciale che mi hanno detto: “Bisogna venire vestiti…” perché c’erano i saggi ginnici e tutte quelle palle che inventavano i fascisti, dovevo andare vestito da avanguardista.

Io? Ma non spendo nemmeno una lira.

Non sono andato più neanche a scuola; oltre che non andare più a scuola, forse tu lo sai che allora si doveva andare al sabato a fare il premilitare, non andavo più neanche a fare il premilitare e mi cercavano a casa, mi venivano a cercare.

Io avevo una fidanzatina in corso S. Gottardo 40 che suo padre era un comunista sfegatato e mi teneva lì a dormire, io gli avevo raccontato tutto il fatto e lui mi teneva lì a dormire.

Lui è stato fucilato al campo Giuriati.

Si chiamava di cognome Moiraghi, invece la mia fidanzatina si chiama Moiraghi Carla, si chiama, io penso che sia ancora in vita.

Dopo lei è andata in montagna, lei ha fatto tempo ad andare in montagna a fare la partigiana.

Andiamo avanti da Dachau.

D: La doccia?

R: Prima della doccia mi hanno chiesto cosa facevamo di mestiere; l’importante è il mestiere perché se tu non avevi un mestiere …

Io non sapevo cosa dire e mi è venuto in mente e ho detto: il meccanico.

Mi ha salvato perché allora i meccanici li…, ma io non ero capace di fare il meccanico, non sapevo niente di meccanica.

Ad ogni modo ci hanno tenuto due mesi nel campo 23.

D: Nel blocco 23?

R: Nel blocco 23.

D: Ma ascolta oltre alla doccia ti hanno rasato …?

R: Sì mi hanno rasato, mi hanno lasciato in mezzo la striscia , ci hanno dato la casacca, doccia fredda senza sapone, senza salvietta, senza niente, intendiamoci bene, ti sei vestito ancora bagnato, non c’erano maglie, non c’erano mutande, non c’era calze, ci hanno dato gli zoccoli olandesi di legno e ci hanno mandato al blocco 23.

D: E ti hanno immatricolato ?

R: Sì, la mia matricola è …., deve essere su lì, 53 mila…

D: …765. Quella di Dachau?

R: Invece quella di Flossenbürg è 4958.

D: Ti hanno immatricolato e ti hanno dato anche il triangolo ?

R: Il triangolo rosso. Era già preparato sulla giacca.

D: Sulla zebrata ?

R: Sulla zebrata. Sono stato lì due mesi poi una mattina ci hanno chiamati…

D: Sei stato lì due mesi al blocco 23?

R: Senza fare niente.

D: Non facevate niente?

R: Niente dalla mattina alla sera.

D: Il blocco era diviso in due Stube ?

R: Sì praticamente c’era una cosa di rete, adesso non mi ricordo, so che noi si dormiva…, ad ogni piano di castelli eravamo in tre con una coperta, beh faceva caldo, era settembre, ottobre, non è che faceva tanto freddo.

Era lavarsi che…, tu ti dovevi lavare così senza sapone, senza salvietta, senza niente e il mangiare, perché abituarsi al mangiare è un problema.

E’ un problema quel cibo che ti davano, io adagio adagio l’ho mandato giù, quelli che non l’hanno mandato giù purtroppo ci hanno lasciato la vita e questo è successo anche a Flossenbürg.

D: Ma ascolta, lì a Dachau facevate gli appelli ?

R: Tutti i gironi, per l’amor di Dio, alla mattina, al pomeriggio.

D: Però dal campo non sei mai uscito?

R: Mai uscito, sono uscito soltanto per andare a lavorare, perché dopo due mesi ci hanno chiamati, da meccanico mi hanno fatto fare l’idraulico in un castello in riva al Danubio che doveva essere ristrutturato perché doveva servire al Fuhrer per fare le cose.

C’erano muratori, c’erano idraulici; io dato che facevo il meccanico mi hanno chiesto se sapevo qualcosa di idraulica e ho detto sì, perché poi ero riparato dal freddo, là faceva freddo, dopo ha incominciato a venire novembre, dicembre e non so come ho fatto io.

Per fortuna che c’erano…

D: I Meister .

R: Sì i Meister e io ne ho avuto uno buono che ha capito che non capivo proprio niente e mi ha fatto vedere qualcosa, è stato lì tutti i giorni fino alla fine di dicembre, il Natale lo abbiamo fatto lì.

D: Ambrogio ma da Dachau ti hanno portato solo te del tuo gruppo in questo castello?

R: Sì quel gruppo che eravamo dentro lì.

D: Ma c’erano altri italiani?

R: No italiani lì non ce ne erano, erano tutti russi, sloveni, polacchi, cecoslovacchi, un po’ di tutto.

D: Italiano eri solamente te?

R: Italiano solo io.

D: Vi hanno portato come da Dachau a questo castello?

R: Con i camion. Siamo andati via alla mattina e siamo arrivati al pomeriggio. Ci hanno messo dentro in una baracca tutti assieme, eravamo un centinaio, non di più e dalla parte di la c’era la SS, non c’era il Kapò , c’era la SS e hanno fatto un discorso che hanno detto: “Il primo che scappa lo prendono e lo fanno sbranare dai cani”.

Infatti tre li hanno riportati indietro sbranati dai cani e li hanno fatti vedere, li hanno tenuti lì fino alla sera quando siamo rientrati dal lavoro.

Lì ho passato tre mesi poi il mangiare era discreto perché lavoravi.

Poi c’era quel Meister che veniva da fuori che ogni tanto ti portava un pezzo di pane, si capisce che lo faceva anche lui per salvarsi la vita, tra parentesi, difatti dopo Natale, a febbraio…

D: Scusa, Natale lo hai fatto in campo?

R: No Natale l’ho fatto lì.

D: Al castello?

R: Al castello.

D: Al campo non sei più rientrato?

R: A Dachau no, mi hanno portato direttamente a Flossenbürg.

D: Dal castello?

R: Dal castello. Erano già in… a Flossenbürg.

D: Tutto il vostro gruppo?

R: Tutto il nostro gruppo.

D: Come vi hanno portato?

R: Con il camion.

D: Anche lì?

R: Con il camion, sì.

D: E questo è avvenuto quando, gennaio, febbraio?

R: I primi di febbraio del ’44 e hanno fatto anche lì la selezione .

Praticamente ai quei cento chiedevano e lo sapevano che io ero un meccanico, c’era poco da fare e mi hanno mandato il giorno dopo a lavorare sulle ali di apparecchi di …

D: Ascolta, arrivi a Flossenbürg e lì cosa succede?

R: Fanno la conta perché quando scendi fai la conta poi mi mandano al blocco 9. Al blocco 9 sono andato; poi dopo il Kapò alla mattina ti dice che devi andare a lavorare.

D: Ti hanno cambiato numero.

R: Sì il 4958. Se non dicevo questo non mi davano da mangiare.

Lo dovevo dire in tedesco. Ormai lo so ancora dopo sessant’anni, lo ricordo ancora questo numero, non posso dimenticarlo, non si può dimenticarlo.

D: Il giorno dopo subito a lavorare?

R: A lavorare, sì.

D: Ma l’officina era all’interno del campo?

R: No, fuori il campo, si doveva fare quasi un chilometro circa; una stradina che andava, c’erano dei capannoni, il capannone dove hanno portato me c’erano dentro delle strutture, su ogni cosa c’era su un’ala di apparecchio e tu dovevi ribattere i cosi di alluminio però non dovevi lasciare l’aria perché se lasciavi l’aria non andava bene.

Io non l’ho mai fatto.

Cosa ho fatto? Ho fatto un buco così nell’ala.

Mamma mia quante botte ho preso perché dicevano che ho fatto apposta per fare danno alla….

“Mi è scappato il trapano”, io ho detto in italiano, il kapò che parlava un mezzo italiano, aveva su il triangolo nero, “Come ha fatto a scappare?” “E’ scappato il trapano nel tirar fuori il coso ho fatto il buco”.

Mi hanno messo là e 50 nervate sul sedere e dopo dovevo lavorare ugualmente.

Lavoravo con un polacco che era un gran sporcaccione perché faceva la spia, un gran sporcaccione.

Allora ho detto: “Guardate io tengo la cosa e quello la ribatte con la cosa che è più pratico di me, io faccio il meccanico ma non ho mai fatto queste cose qua”. Infatti siamo andati avanti e sono andati bene.

La giornata era sempre quella, rientravi alle quattro e mezza, li mettevano tutti inquadrati, facevano l’appello, poi chiamavano chi doveva essere impiccato; tutti i giorni ce ne erano, una volta undici, una volta c’erano dentro anche tre italiani e poi lasciavano lì gli impiccati fino alla mattina fino a quando noi si andava al lavoro per farci vedere che chi faceva gli sgarri venivano puniti in quel modo.

Poi dopo l’impiccagione, prima c’erano 25 nervate sul sedere, poi ce n’erano 50 a secondo le cose che hai fatto e poi c’era l’impiccagione.

Poi c’era questo, adagio adagio, io avevo un numero basso, ero uno dei primi assodati a Flossenbürg, siamo andati fino a 60.000, 70.000, non si poteva più dormire nel blocco.

Un giorno sì e un giorno no si andava giù al Wäscheraum a fare la doccia e ti tenevano lì dalla sera fino alla mattina nudi; alla mattina ti davano i vestiti perché dicevano che li disinfettavano, tu dovevi vestirti e andare a lavorare e tutti i giorni era quello.

L’unico rispetto che avevano era la vigilia di Natale.

La vigilia di Natale del ’44 ho mangiato un pezzettino di carne, l’hanno data a tutti, nel brodo, hanno fatto il brodo con dentro un po’ di farina nera e c’era dentro un pezzo di carne e non ci hanno fatto lavorare, né la vigilia né Natale.

Il giorno dopo siamo andati a lavorare, ma tutti i giorni era quella stessa cosa: la conta, giù al bagno un giorno sì e un giorno no.

C’erano sempre queste cose qua.

Il forno crematorio andava dalla mattina alla sera.

Poi noi italiani eravamo dei traditori e allora la domenica noi non si riposava, si doveva portare il carbone al forno crematorio; dalla mattina alle 7 con le cose si andava giù poi si andava su poi si andava al forno crematorio fino a mezzogiorno, poi si andava al blocco.

D: Una giornata tipo di Flossenbürg, la sveglia a che ora era?

R: La sveglia era alle 5,30, 6,00.

D: Estate e inverno?

R: Estate e inverno lo stesso, non esisteva né inverno né estate, là il giorno era tutto quello all’infuori della domenica un’ora in più.

D: Alle 6 anche se pioveva, nevicava?

R: Se pioveva dovevi uscire, dovevi uscire.

D: Tu sei sempre rimasto nel blocco 9?

R: No, sono andato al blocco 7, al blocco 3, al blocco 5.

D: Anche lì Ambrogio i blocchi erano divisi in due Stube?

R: Qui a Flossenbürg c’è una scalinata, c’era una scalinata, forse non c’è più.

D: No, la scalinata c’è ancora.

R: Una di blocchi di qua e una di là.

Cominciava con il blocco 1, blocco 3, blocco 5 e andava avanti così fino al blocco 9…

Perché io quando ero al blocco 3 ero a posto perché mangiavo, perché alla notte io uscivo. Sotto il blocco 3 c’era la cucina e io andavo giù, io e un certo Esposito.

D: Eugenio?

R: No, Esposito lo conosco, quello che è morto, il pompiere, l’è un me amis, ci siamo trovati là a Flossenbürg insieme a Camia.

Andavo giù in cucina a rubare le patate e le portavo su un po’ per tutti e non si poteva farle cuocere, si mangiavano crude. Cosa vuoi fare, almeno mangiavi qualcosa no?

Le mangiavi crude fino a quando hanno pescato il mio amico, io ho fatto in tempo a scappare, lui invece lo hanno pescato i tedeschi.

E’ morto a botte dentro nel gabinetto.

Lo hanno ammazzato a botte nel gabinetto.

Si chiamava Esposito, era un napoletano.

Di lì ci hanno spostato, non so perché hanno scelto anche me, mi hanno spostato al blocco 7.

D: Nel blocco in quanti eravate più o meno?

R: Si dormiva ai castelli in tre…

D: Anche lì?

R: Sì, sì. Prima in uno, dopo in due, dopo in tre.

Dopo alla fine c’era troppa gente.

D: E di quanti piani erano?

R: Tre piani. In un blocco ce n’erano tre di là e tre di qua; si entrava, appena fuori dall’entrata c’era la guardiola del Kapò, dove dormiva il Kapò, c’era un piccolo spazio dove c’era una piccola stufa che all’inverno andava per un’ora, un’ora e mezza, dove noi si tentava di tagliare le patate con la buccia e si mettevano lì a scaldare, appena che erano calde le mettevamo in bocca per mangiarle, fino a quando ho potuto grattare le patate, quando non si poteva più niente.

Io e quello lì abbiamo rubato tutto il pane al Kapò.

È successo un disastro, è successo un disastro.

Ci hanno messo tutti in fila, una parte di Kapò e di polacchi, che erano aggregati, di là con in mano un coso a correre avanti e indietro a picchiare per un’ora e volevano sapere chi è stato.

Se ero stato io … ma chi gli diceva qualcosa, ti impiccavano, ti ammazzavano.

Mi sono sempre arrangiato così fino a quando un bel giorno lì ho trovato Camia ed Esposito.

Mi è venuta la dissenteria.

Non puoi andare al Revier perché il Revier è l’anticamera del forno crematorio e allora cosa facevo? Andavo a lavorare lo stesso, legavo i pantaloni perché la diarrea…, alla sera quando entravo mi levavo i pantaloni sotto il Wäscheraum li lavavo, li mettevo sotto il cuscino ma alla mattina erano ancora bagnati poi la dissenteria non passava, allora cosa facevo? Davo via il pane per l’acqua bollita.

Mi davano l’acqua bollita e io davo via un pezzo di pane, era poco, ti davano tanto così di pane alla sera con un cucchiaio di marmellata, un cucchiaio di margarina, a secondo, non tutti e due marmellata e margarina, una sola, fino a quando dopo venti giorni mi è passata però non sono andato alla Revier.

D: Ascolta Ambrogio, quindi sveglia alle 6, Wäscheraum per lavarsi.

R: Diciamo lavarsi.

D: Poi?

R: Poi fuori.

D: Vi davano il caffè, qualcosa?

R: Sì, acqua sporca, fuori, un mestolo poi giù da basso conta, poi accoppiati si andava fuori per andare a lavorare alle 7,30 circa.

Si andava a lavorare e si arrivava alle 8 sul lavoro, a mezzogiorno ci davano un mestolo…

D: Lì in officina?

R: In officina.

D: Quindi la Miska, la gavetta ve la portavate…

R: Per forza, se non avevi quella non mangiavi.

Portavi la gamella qua attaccata, ti davano un mestolo di minestra, non c’era dentro né riso né niente, c’era dentro verze e bucce di patate. Un mestolo e con quello lì tiravi sera; la sera andavi a casa, un pezzo di pane o un cucchiaio di marmellata o un cucchiaio di margarina o un pezzo di salame avvolto nella carta, non so che salame era e basta.

Poi se ti capitava dovevi andare giù al Wäscheraum tutta la notte perché dovevi fare la doccia per disinfettare i vestiti, un giorno sì, un giorno no, un giorno sì, un giorno no.

Ne sono morti tanti.

D: Ascolta ti ricordi oltre agli italiani che dicevi, l’Esposito il Camia, ti ricordi altri italiani lì a Flossenbürg?

R: Degli altri italiani non mi ricordo più i nomi perché io sono stato uno che ha fatto la marcia di eliminazione .

D: Lì a Flossenbürg tu sei rimasto fino a quando?

R: Fino al 19 aprile del ’45.

D: Sempre lavorando in questa…

R: No. A febbraio non ci hanno mandati più a lavorare perché già la guerra… e allora ci tenevano ai blocchi.

Il 19 Aprile del ’45 è arrivata la Croce Rossa Internazionale, sulla salita però non l’hanno fatta entrare.

Hanno incolonnato chi poteva stare in piedi, eravamo circa 1.500, 2.000 e quelli che proprio erano quasi morti e non potevano camminare li hanno lasciati lì e intanto che noi si andava giù si vedeva la Croce Rossa e l’hanno fatta entrare nel campo perché hanno lasciato libero in campo.

Ci hanno fatto fare quattro giorni a camminare senza bere, senza mangiare, chi cadeva gli sparavano alla tempia fino a Darvin ai confini della Cecoslovacchia.

Lì una mattina, il 23 di aprile, dei carri armati americani hanno fatto una puntata e i tedeschi sono scappati e ci hanno abbandonati su uno spiazzo ma gli americani non sono venuti perché gli americani sono venuti quattro giorni dopo.

Noi vedendoci liberi siamo scesi tutti, ero con quattro italiani, uno che suo padre faceva il casellante a Casale Monferrato che poverino è annegato, c’era un fiume è andato dentro a fare il bagno ed è annegato, poi c’erano altri tre italiani che non ricordo il nome perché adesso ti spiego tutto quello che è successo.

Siamo andati giù e siamo andati in una cascina vuota, c’erano delle galline, tu puoi immaginarti, eravamo quattro italiani, tre russi, due polacchi e basta.

Abbiamo preso una gallina, l’abbiamo spennata ma non l’abbiamo pulita, la abbiamo fatta cuocere; non ci ricordavamo più però l’abbiamo mangiata tanto è vero che dopo mi è venuto il paratifo.

I russi andavano in paese e requisivano tutto, portavano lì il mangiare, ce n’era di mangiare che non finiva più.

Una mattina, il 27 o il 28 mattina, alle 4 o alle 5 del mattino, era estate era il mese di aprile, ma era chiaro, si spalanca una cosa, vediamo uno nero, erano gli americani; di lì ci hanno portati al campo di aviazione che avevano creato perché loro sapevano che c’era questo trasporto e avevano trovato tutti i morti dietro la strada che hanno lasciato i tedeschi e ci hanno portato al campo di aviazione dove c’era un ospedale da campo e lì ci hanno ripulito, fatto le punture, siamo stati lì un bel po’ per tirarci su perché io pesavo 36, 37 chili.

Il campo era diretto da un ufficiale, da un tenente colonnello italo americano e allora io sono andato da questo qua e gli ho detto: “Senta una cosa, non si potrebbe dare vita agli…, siamo qua a fare! Siamo qua in quattro”, “E con che cosa vai?” “In paese sequestro un cavallo e un carretto e andiamo” ” Ma è pericoloso!”.

Dopo un po’ mi hanno fatto un permesso però dice: “A Innsbruck voi vi dovete presentare nel centro di raccolta che loro vi mandano in Italia”.

Io ho fatto tutta l’Alta Baviera, tutte le volte che ci fermavamo, poi eravamo armati perché lì non potevi andare…, poi ci hanno dato le rivoltelle, le munizioni per fare il viaggio e si andava a dormire nelle case.

Quando si andava a dormire nelle case noi si dormiva nell’ultima stanza, mai nella prima o nella seconda o in mezzo, nell’ultima. Avevamo paura che i tedeschi…

Ad ogni modo siamo arrivati ad Innsbruck.

A un certo momento quelli là mi dicono: “Allora andiamo a presentarci…?” “Io no. Io vado alla ferrovia, il primo convoglio che passa per l’Italia io me lo prendo e vado in Italia perché se andiamo dentro là stiamo quattro o cinque mesi prima di andare in Italia a casa”.

“Ma io non so, io vado”. Insomma loro sono andati, io cosa ho fatto: ho girato un po’ Innsbruck fino a quando ho trovato da vendere i cavalli.

Ho venduto i cavalli ma non per i soldi, per loro, poi mi sono fatto dare anche delle fedi perché le avevano portate via a mio padre e a mia madre i fascisti e sono andato alla stazione.

Dopo un’ora che ero lì passa mica un’altra tradotta di alpini che andava in Italia; sono saltato su e l’ho presa.

Sono andato fino a Bolzano; a Bolzano hanno riconosciuto subito da dove arrivavo.

Il giorno dopo è arrivato un pullman dell’ATM perché lì era tutto bombardato, da Bolzano fino a Verona la ferrovia non andava e mi hanno portato a Milano.

Sono arrivato a Milano il 21 luglio del ’45.

D: Luglio?

R: Luglio del ’45 a mezzanotte, dodici meno un quarto in Piazza del Duomo mi hanno scaricato.

Dovevo prendere il 24 perché abitavo in Via Ripamonti e ho preso l’ultimo tram ma ero vestito da americano con i pantaloni corti.

Il tranviere quando mi ha visto ha detto: “No, non pagare il biglietto”, tanto al pagavi no il bigliet, non potevo pagare il biglietto come faccio, non ho neanche una lira!

Sono arrivato a casa. Era estate, era il 21 luglio.

Fuori col caldo che faceva, c’era fuori una mia vicina.

Quando mi ha visto ha detto: “L’Ambrogino! Spetta ad andà in cà se no fai morire di crepacuore tua mamma perché tua mamma ti pensa morto”.

Avevo la fotografia alla chiesa di via Ripamonti, l’Annunziata come si chiama, quella mia fotografia perché io ero morto.

D: Allora te se venu a ca e la tua vicina…

R: Mi ha detto di aspettare perché doveva almeno preparare la famiglia, erano le dodici e mezza circa, poi c’era in casa mia sorella e c’era in casa, che io lo chiamavo fratellastro, un ragazzo, Giaele si chiamava, che era il figlio della portinaia della casa di mio padre in via Giulio Carcano 26, erano morti il papà e la mamma, mio papà e mia mamma lo hanno preso e lo hanno tenuto come figlio e dormiva nel mio letto, io ormai erano otto anni che ero via, lui non era nemmeno andato a militare.

Ad ogni modo poi entro in casa, ci abbracciamo, si mettono a piangere, insomma tante belle storie, tante belle balle, gli do le fedi a mio papà e alla mia mamma, mi faccio il bagno, mi vesto e me ne vado.

“Come te ne vai!”

Avevo voglia di andare in giro, di andare a vedere le vecchie cose che ho lasciato otto anni prima, non sono quasi mai venuto a casa da militare e sono andato, sono stato via quattro giorni.

Sono andato, ho trovato la mia ex fidanzata che ormai era con un capitano dei partigiani che era in montagna, non mi interessa perché non è che mi faceva dispiacere.

Poi ho trovato un’altra mia ex fidanzatina che poi l’ho sposata.

Sono stato lì in casa, abbiamo parlato, abbiamo mangiato, ho visto tutte le cose, ho visto chi è morto, chi è vivo.

Volevo essere libero e fare quello che volevo.

Poi sono andato a casa e ho cominciato a ragionare perché mio padre la fabbrica l’ha persa perché ha avuto un incidente con la centrale del latte nel ’39 quando io ero a militare.

E’ stato in coma tre mesi, quando è uscito dal coma non era più mio papà, non era più Ciceri Luigi.

Mio papà è questo.

Andavo a dormire a casa di un mio amico, non dormivo in casa, andavo lì dai miei ed a un certo momento ho detto: “Ma che vita sto facendo io, quasi quasi mi sposo”.

Quella li mi tirava per la camicia e allora mi sono sposato a ottobre del ’45, ma non mi sono sposato il 28 ottobre, mi sono sposato il 27, mai il 28 ottobre e siamo andati avanti un po’ fino a quando poi è nata mia figlia.

Mia moglie era troppo gelosa, scene da baraccone, una cosa terribile.

Io chi è geloso lo compatisco.

Io non potevo ritardare mezz’ora. Se dicevo vengo a casa alle 7, dovevo essere a casa alle 7, non potevo fermarmi con un amico a parlare, era il colmo dei colmi poi a me che piaceva la libertà era una cosa assurda.

Ad un certo momento ho detto: “Senti…”.

Una sera che sono venuto a casa, se non faccio a tempo a tirar via la testa prendevo un bottiglione che mi spaccava la testa, perché avevo ritardato un’ora o due, diceva che avevo la morosa, tute le stupidate delle donne, cosa si inventano.

Mi sono diviso, ho preso la valigia e sono andato via.

Mia figlia aveva cinque anni.

A casa di mia mamma non ci volevo andare, non volevo tornare perché dopo mia madre, Giaele era andato via, si era sposato, mia sorella si è sposata anche lei, mio padre era morto nelle mie braccia nel ’50, gli è venuto un tumore allo stomaco.

Non volevo andare a casa di mia madre a dare fastidio, poi poverina anche lei aveva tante cose, poi dopo mia sorella ha cominciato ad avere dei bambini, poi c’era mia figlia.

Insomma sono andato via, mi sono messo con una qua in corso Magenta; siamo stati lì un bel po’ assieme fino a quando ci siamo lasciati e dopo sono sempre stato solo.

D: Ma Ambrogio quando sei tornato hai iniziato a parlare della deportazione?

R: Sì ero con Papalettera, non so se ricordi Papalettera.

I primi a fondare che l’abbiamo fatto in corso Matteotti, io e Papalettera. Poverino adesso è morto.

C’era un altro, Beretta, è sempre stato anonimo, faceva l’usciere alla banca d’America e d’Italia, dietro la Scala, mi sembra.

D: Ma raccontavi ai tuoi amici, a casa?

R: Sì raccontavo, ma guarda sembravano barzellette.

Dopo tanti anni, adesso cominciano a capire qualcosa ma non tanto.

Sono andato nelle scuole anche quando c’erano i miei nipoti perché una delle mie nipoti adesso fa l’Università, io andavo quando faceva le elementari, quell’altra fa il liceo.

Quando facevano le scuole elementari mi chiamavano e andavo là a spiegare com’era la deportazione, cosa è stato, come è stato il fascismo e tante belle cose, ma vedi ho sempre visto che la gente adulta non si è mai interessata, non si è mai interessata.

Noi abbiamo un capo del Governo, scusami, che non ha mai presenziato una volta, una volta al 4 novembre ai monumenti dei deportati, non dico andare di là dagli ebrei ma al monumento dei deportati, ma nessun capo del Governo, anche democristiano, nessuno.

L’unico, quando c’era il socialismo a Milano, che mandavano un rappresentante del comune; adesso il comune manda uno che non sai nemmeno chi è a portare una corona e basta, ma non fa come Albertini che va a Musocco e poi va anche…

Ma io dico sono morti e non metto in dubbio, un morto cerchiamo di rispettarlo, lasciamo stare come la pensavano, come non la pensavano, ma che adesso mi vengono qua a raccontare che …

Da quando c’è stata la Repubblica, l’unico che ha difeso è stato Pertini.

Io ero con il fratello di Pertini a Flossenbürg e poverino hanno detto che l’hanno fucilato; non è vero, è morto poverino di dissenteria, non l’hanno fucilato Pertini perché non c’era motivo di fucilarlo, è morto come sono morti tanti altri, come tre colonnelli che venivano dalla Grecia, sono morti anche loro perché non volevano mangiare.

C’erano là anche dei generali, c’era là anche padre Gianantonio, che adesso è morto anche lui ma è morto qua non è morto là.

Praticamente non si sono mai interessati, i democristiani non si sono mai interessati di queste cose, mai, l’unico che ha fatto qualcosa, se abbiamo qualcosa è Pertini perché è stato Presidente della Repubblica, ma gli altri…

D: Ascolta Ambrogio, a Dachau o a Flossenbürg ti ricordi se hai visto anche delle donne deportate?

R: No. C’erano le donne perché si sapeva che c’erano le donne.

D: Dove questo?

R: Fuori dal campo, sia a Flossenbürg che a Dachau, ma servivano per tante cose. Per esempio a Flossenbürg c’è stato anche Canaris e l’hanno fucilato lì a Flossenbürg, Canaris.

Sai chi era?

D: Quello di Roma dici?

R: Canaris il tedesco che ha tradito Hitler.

D: Sì, sì, …quello che … di Roma.

R: Il maresciallo Canaris quando lo hanno arrestato lo hanno portato a Flossenbürg ma non con noi, fuori, a parte.

D: E le donne c’erano?

R: Sì c’erano ma fuori dal campo.

D: Non deportate come voi?

R: Non so.

D: Questo non lo sai. Ascolta, un’altra cosa, ti ricordi per caso come si chiamava la ditta dove tu andavi a lavorare lì a Flossenbürg?

R: Non ce l’hanno mai detto questo.

D: Non ve l’hanno mai detto.

R: Io penso sia la Messerschmitt perché gli aeroplani…

D: Lì eravate in tanti a lavorare in questa fabbrica?

R: A fare le ali eravamo in diversi perché c’era uno, due, tre, quattro, cinque, sei, dieci, dodici cose di ali, dodici di qua e dodici di là; ce ne erano due ogni ala, dunque eravamo ventiquattro, venticinque, ventisei lì, poi di là c’erano quelli che sceglievano le viti, c’era lì anche quello di Cuneo, un dottore di Cuneo.

D: Deportati?

R: Deportati.

D: Questi capannoni dicevi che erano distante un chilometro e mezzo dal campo.

R: Un chilometro non di più.

D: Non erano giù alla cava?

R: Sì noi andavamo giù ma non lo so se erano alla cava.

D: Non te lo ricordi?

R: Non me lo ricordo perché noi non vedevamo nessuna cava a dir la verità.

D: Ma quando andavate lì a questi capannoni attraversavate il paesino di Flossenbürg o…?

R: No, no, direttamente fuori da Flossenbürg prendevamo la stradina e si andava giù.

No, no, nessun paesino.

D: Quindi Flossenbürg non lo passavate?

R: No, no.

D: Quindi con i civili non avete ….?

R: Mai avuto contatto, mai.

D: E in fabbrica invece c’erano dei civili?

R: Sì c’erano dei civili, c’erano dei civili che verificavano il lavoro finito.

D: Una volta che voi avevate finito il lavoro ecc., quelle ali lì venivano portate via?

R: Venivano portate via, sì.

D: Ma non ti ricordi come, chi le caricava …

R: Quando le finivano le portavano via alla sera quando noi si andava via e alla mattina già trovavamo un’altra ala da ricominciare.

D: Quindi tu il tuo turno di lavoro era durante la giornata?

R: Sì era dalle 7.30, 8.00 fino a mezzogiorno, poi mezz’ora per mangiare, poi fino alle 16.30, poi ci portavano dentro.

D: Nel campo?

R: Nel campo.

D: Quindi di sera o i turni, mai?

R: No di sera mai, mai fatto i turni, mai fatto niente, mai mai mai, mai fatti i turni.

D: Ti ricordi se c’erano deportati più giovani di te o molto più anziani di te lì a Flossenbürg?

R: Più anziani di me c’erano tanti cecoslovacchi, non italiani, degli italiani forse ero io il più vecchio, che avevo ventisei anni, perché gli altri erano molto più giovani di me, Camia era molto più giovane di me, aveva vent’anni, Esposito aveva vent’anni, c’era quello che adesso non mi ricordo più, quello che ci siamo trovati lì…

D: Venanzio.

R: Venanzio aveva vent’anni. Erano tutti giovani, solo io che avevo ventisei anni. C’era Esposito, quell’altro di Napoli che aveva vent’anni, quello lì che è morto annegato che non mi ricordo il nome di Casale Monferrato, suo padre faceva il casellante, so che ce l’ho detto quando sono venuto a casa.

Perché dopo quando sono venuto a casa sono venuti a trovarmi diverse persone per sapere.

Ma guarda sono passati tanti anni che non mi ricordo.

D: Tu a Flossenbürg non sei più tornato?

R: No.

D: Neanche a Dachau?

R: No. E’ andata mia figlia per me.

D: Tu perché non sei più ritornato?

R:Guarda prima cosa perché io sono ammalato e dovrei ogni quarantotto ore fare una certa operazione che mi serve acqua calda, mi serve un bagno, mi serve…

D: Va beh le tue cose.

R: C’è una cosa che ti senti fuori…

D: Certo.

R: Capito? Ecco perché non sono mai andato né a Flossenbürg né a Dachau.

Ci vorrei andare a Flossenbürg perché forse io sono l’italiano più vecchio di tutti, come tempo, perché ci sono stato dal febbraio del ’44 fino al 19 aprile del ’45, un anno e qualche cosa.

Vorrei vedere come è combinata adesso.

D:Come si fa a sopravvivere per sei mesi e più in un Lager nazista?

R: Si fa che hai voglia di vivere, hai voglia di tornare, devi imparare a subire qualsiasi cosa e mandar giù senza mai avere una razione, senza mai …, c’è poco da fare se vuoi vivere.

D: E conta molto anche la fortuna?

R: Conta molto anche la fortuna e l’arrangiamento. Uno si deve arrangiare come è messo.

D: ” Organizziere “.

R: “Organizziere”, esatto, perché io mi ricordo quei tre colonnelli che sono arrivati dalla Grecia che non hanno aderito alla Repubblica di Salò , che come sono arrivati rifiutavano il cibo.

Io gli ho detto: “Mangiate, date retta a me se non mangiate non sopravvivete, bisogna adattarsi a tutto”.

Dopo quindici, venti giorni sono morti.

C’erano là anche due generali, uno un siciliano che mi ha scritto dalla Sicilia, non mi ricordo il nome, un generale era.

Loro mangiavano quello che gli davano se volevano vivere, c’era poco da fare, forse a loro davano qualche cosa in più, adesso non lo so, non ho mai visto niente, ma noi nei blocchi ci si doveva arrangiare, c’è poco da fare e non fumare.

D: Ambrogio ti ricordi se erano possibili all’interno del Lager atti di solidarietà fra voi deportati?

R: Non ce n’erano atti di solidarietà, non ce n’erano, ognuno pensava per se stesso, non ce n’era e bisognava anche stare attenti con chi parlavi anche, specialmente se erano polacchi perché i polacchi hanno forse nel sangue, forse adesso no ma so che là erano quasi tutti degli sporcaccioni, tutti facevano la spia al Kapò e quando succedeva qualcosa la colpa era loro.

D: La maggior parte dei Kapò che tu hai avuto di che nazionalità erano?

R: Tedeschi, tutti tedeschi.

D: Triangoli?

R: Neri.

D: Neri?

R: Neri. Criminali.

D: Dentro lì a Flossenbürg oltre ai politici e ai criminali ecc. ti ricordi anche dei testimoni di Geova?

R: No.

D: Triangoli viola?

R: No.

D: E degli ebrei ti ricordi?

R: Ebrei sì ce ne stavano ma poca roba, sono stati pochissimo tempo perché dopo li hanno levati tutti e non li hai visti più.

Io mi ricordo che quando andavo su a portare il carbone al forno crematorio, perché noi portavamo anche i morti al forno crematorio, noi italiani, alla mattina quando tu trovavi nel tuo blocco nel Wäsheraum un morto lo spogliavi nudo, dovevi scriverci il numero qua e portarlo su, lo buttavi là dentro nello stanzone, era pieno di morti e lo buttavi là.

D: Tu avevi ventisei anni e hai fatto il militare…

R: Guarda che il militare l’ho fatto come ho voluto io non come ha voluto il Duce.

D: No, no io dicevo questo per dire: il rapporto con la morte.

Quando qui si parla di morte nei Lager non si dice un cadavere, dieci cadaveri ma si inizia a contare da 100 a 500, 1000 cadaveri ed è una cosa quotidiana, no?

Ecco come cambia questo rapporto con la morte?

R: Guarda ti dirò non voglio essere…ma non mi interessava, non mi interessava, ero indifferente a tutte queste cose qua perché io sono stato anche nel blocco dove è scoppiato il tifo petecchiale.

Sopra c’era il forno crematorio e sotto c’era il blocco, eravamo in 400 circa, in tre siamo usciti.

Lì è, scusi il gesto, lì è questo…

Io non ho preso né un raffreddore invece qua continuo a prenderli, né un raffreddore né la tosse, niente; quando ho finito tutto mi sono preso: bronchite cronica, enfisema polmonare, paratifo, tutti mi sono venuti, meglio dopo che là, intendiamoci bene.

L’unica cosa che mi è venuta è stata la dissenteria, ma il rapporto morte ere indifferente, io pensavo solo di venire a casa e basta, di farcela.

La mia fissazione era questa e ce l’ho fatta.

D: E’ quello che ti ha aiutato molto, pensare…

R: Sì, sì è quello che ti aiuta molto e trattenerti anche in tante cose. Certe volte anche sul lavoro, per esempio quando mi hanno picchiato perché ho fatto quel buco, la sensazione di rivoltarsi, è stato meglio così se no sarei morto, perché nel frattempo che ti picchiano tu pensi e se gridi fanno apposta, devi stringere i denti e sopportare.

D: Ambrogio secondo te è importante che i giovani di oggi conoscono cosa è stata la deportazione?

R: Molto importante. Molto importante perché devono pensare che può succedere ancora. Sì, sì, sì.

Il mio povero padre mi diceva sempre, quando c’era il fascismo, parlo in milanese: “Ti te vedaret cosa te cumbina quest chi. Te cumbina una guera che fa muri tant di chi persun che finis pu, po ta vedaret quel che sucet”.

Ha avuto ragione, su questo ha avuto ragione.

Io dico una cosa sola: se andiamo avanti di questo passo, qui siamo già in mezzo a regime, non pensate che siamo liberi, poi voi se siete giornalisti lo sapete che non siamo liberi, che non si può scriver quello che si vuole se no guai.

Ma se andiamo avanti così non lo so quello che può succedere perché noi abbiamo un capo supremo che è l’America e l’America ha un capo supremo che è un criminale di guerra. Bush è un criminale di guerra, dovrebbe essere processato per quello che ha fatto; ha fatto morire un sacco di persone inutilmente come ha fatto il Duce.

E’ come se gli dessero il permesso di fare anche questo qua.

D: Quindi secondo te è importante che i ragazzi…

R: Che i ragazzi sappiano che possono succedere ancora queste cose qua, possono succedere, dico io che possono succedere e non credere che non…

Noi diciamo che siamo un popolo civile, non penso che noi siamo un popolo civile.

Va bene hanno commesso dei reati, la gente, capisco, ma trattiamo reati con reati.

Ci sono dei reati che sì sono dei reati però c’è la differenza perché c’è quello di B, quello di A e quello di C e noi non abbiamo un’uguaglianza, non c’è l’uguaglianza per nessuno qua.

Prendiamo nelle carceri: cosa c’è dentro poverini.

Noi prendiamo il nostro Parlamento, Bossi è condannato, Maroni è condannato, Berlusconi è sempre stato condannato, Previti non parliamone, Dell’Utri…

Prendiamo tutto questo, ma cosa abbiamo noi?

Ma perché loro no e questi poveretti sì?

Non abbiamo neanche la giustizia, non abbiamo nemmeno la giustizia e abbiamo un Presidente buono ma un pappamolla, ma molto molla, non ha polso, non ha niente.

D: Comunque ascolta una roba: se dovesse proporsi l’occasione, fermo restando con i tuoi problemi delle 24 ore, 12 ore, quello che è 48 ore ecc, tu ha i bisogno di…, una capatina su a Flossenbürg ci staresti?

R: Sì la farei quest’estate, la farei volentieri, ma l’avrei già fatta anche molto volentieri la farei, molto volentieri, sperando che non mi venga più niente, ho anche il diabete, ho un sacco di cose.

Io non so perché sono ancora vivo!

Ho avuto nel ’45 un tumore alle corde vocali destre, mi hanno fatto la radioterapia all’ospedale dei tumori…

D: Abbiamo finito.