Coppolecchia Mario

Mario Coppolecchia

Nato a Schipella (FG)

Intervista del: marzo 1998 a Desio (MI) realizzata da
Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n.74 – durata: 62′

Arresto : in Val Varaita (Piemonte) nel 1944

Carcerazione : alla Castiglia di Saluzzo, a Le Nuove a Torino.

Deportazione : Bolzano, Mauthausen.

Liberazione : a Mauthausen

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Organizzazione materiali ed inserimento dati: Elisabetta Mascarello, Elena Pollastri

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

D: Come si chiama?

R: Chi, io?

D: Sì.

R: Mario.

D: E di cognome?

R: Coppolecchia.

D: Di dove siete originario, Mario?

R: Di Schipella Foggia, Gargano.

D: Però vi siete trasferito?

R: Sono stato undici anni in Piemonte.

D: Dove in Piemonte?

R: Cuneo città.

D: Proprio Cuneo città?

R: Cuneo città. Poi sono stato tre anni a Torino.

D: In Piemonte dove vi hanno arrestato?

R: In Piemonte a Val Varaita, in Val Varaita a Torretta e Casteldelfino.

D: Come mai eravate lì?

R: Dai partigiani.

D: Quanti anni avevate?

R: Vent’anni.

D: Perché avete fatto la scelta del partigiano?

R: Ho fatto la scelta del partigiano perché non ho voluto aderire alla Repubblica di Salò. L’8 settembre ’43 ero a Venezia, nell’ospedale di Venezia. C’è stata la visita della duchessa di Genova, ha visitato gli ammalati.

Com’è arrivata da me, mi fa: “Tu, piccolo soldatino, cosa fai?”. Dico: “Sono qui ricoverato che ho la bronchite”, un sacco di storie, ma io l’ho fatto apposta, sigari sotto le ascelle. Mi sono arrangiato per non partire, per non andare in guerra.

Allora ha chiamato il primario e dice: “Vuoi andare a casa? Ci terresti ad andare a casa?”. “Caspita, eccome”, dico io. Allora fa al primario: “Propongo al soldatino due mesi di convalescenza”.

Mamma mia, appena è andata via mi sono messo a ballare sul letto io. Due mesi di convalescenza. Quel disgraziato cosa ha fatto, com’è andata via lei, la duchessa di Genova, al posto di due mesi ha messo il due davanti e ha fatto venti giorni.

Comunque a me è andata bene, perché al 5 settembre ’43 sono uscito dall’ospedale e sono andato con venti giorni di convalescenza, l’8 settembre c’è stata la disfatta e mi sono trovato a casa.

D: A casa dove?

R: A casa a Cuneo.

D: Ah, Cuneo.

R: Sempre a Cuneo, via Fossano 30. Che è successo? Dopo era pericoloso perché c’erano i rastrellamenti. Per mezzo di un mio paesano che era maresciallo degli alpini, mi ha portato in ufficio assieme a lui.

Dice: “Tu stattene qua, facciamo il libretto di presenza … per i dispersi di guerra”, ecc. Aiutavo a fare qualcosa, la mattina andavo e accendevo la stufa, era pieno inverno. Però mi prendevo lo stipendio, ho fatto un paio di mesi.

Nascosto sempre. Dopodiché la vita diventava impossibile in quanto c’erano i rastrellamenti continui della Wermacht e più della Monterosa. Allora un certo maggior Giannandrea mi ha detto: “Guarda che la vita diventa impossibile, qui non puoi più starci perché è pericoloso anche per noi”.

Cosa faccio? D’accordo con due fratelli, Tassoni si chiamavano questi tizi, di una frazione vicina, a tre chilometri da Cuneo. Ci siamo messi d’accordo, loro conoscevano un ex tenete dell’esercito che si chiamava Santino.

D’accordo con questo mi ha fatto pervenire due bombe a mano con la pistola, praticamente noi per andare in montagna dovevamo attraversare tutti i posti di blocco. Abbiamo fatto così.

Quei due e io siamo andati in montagna in Val Varaita. Abbiamo trovato questo tizio e ci ha assegnato il distaccamento, poi il comandante della valle era un certo Giannardo, un capitano dell’esercito anche lui.

D: Eravate una brigata quindi?

R: Una brigata, sì.

D: Che si chiamava?

R: Brigata alpini, brigata del secondo alpini. Qui ho le carte e tutto.

D: Dopo le vediamo. Lì quanto tempo siete rimasto in brigata?

R: In brigata siamo rimasti due o tre mesi.

D: Nel ’44?

R: ’44. Dopo quando mi hanno preso, mi hanno preso di sorpresa, ero di guardia, di notte mi hanno preso. Mi hanno fatto l’accerchiamento. Da là mi hanno portato alla caserma degli alpini di Casteldelfino. Sono stato dodici giorni.

D: Ma chi vi ha preso?

R: La Monterosa assieme ai tedeschi della Wermacht. Dopo dovevano fucilarmi. Mi hanno fatto fare persino la fossa con le mie mani, picco e pala.

D: Hanno preso solamente Voi?

R: Solo me, gli altri sono riusciti a scappare. Ho dato un fischio io, di corsa nel vallone proprio, c’era a picco un vallone. Uno è stato colpito però, questo l’ho saputo dopo. E’ stato colpito e dopo è morto, un certo… Come si chiamava questo tizio? Era di Vigevano. Era un ex carabiniere.

E’ stato colpito e dopo un paio di mesi è morto questo. Adesso per finire il mio racconto, sono stato dodici giorni là. Quando mi hanno fatto fare la fossa con le mie mani, dovevano fucilarmi. Dopo è venuto un contrordine.

E’ venuto un contrordine e mi hanno portato giù. Sono stato dodici giorni che mi interrogava la Monterosa. Ma io, veramente il mio racconto è troppo lungo…

D: No, non è lungo.

R: E’ successo che prima di venir via dalla caserma degli alpini mi sono procurato una licenza falsa. Dato che ero all’ufficio maggiorità, questo maggior Giannandrea, io avevo tutti i bolli a portata di mano, tutti i timbri e mi sono procurato una licenza per venti giorni di convalescenza, ho timbrato.

Però la firma del maggior Giannandrea l’avrò fatta duemila volte, ero riuscito a farla talmente precisa che nessuno si accorgeva che non era la firma di Giannandrea. Quando mi hanno preso nei partigiani, per quello mi sono salvato ancora, ho presentato questa licenza.

Guarda che io mi trovo così e così perché mi hanno preso. Ho fatto vedere la licenza e quella licenza mi ha salvato.

D: Con la firma falsa?

R: Con la firma falsa. Da Casteldelfino è venuto un contrordine e mi hanno portato a Saluzzo. Ho fatto sessantasei giorni alla Castiglia di Saluzzo sotto gli interrogatori, volevano sapere tutti i nomi dei partigiani, tutti i comandanti.

Io: “E’ poco che sono qui, non conosco nessuno”. Ho sempre negato, praticamente. Mi torturavano, con la pistola puntata sulla fronte mi facevano gli interrogatori. Di più quando mi hanno trasferito a Torino, a Le Nuove di Torino, là sono stato diciassette giorni a Torino.

D: Invece a Saluzzo siete rimasto?

R: Sessantasei giorni.

D: In cella da solo?

R: No, eravamo in due. Tutte le mattine ci tiravano fuori per sapere, per interrogare sempre, sempre la stessa storia che volevano sapere i nomi. Io ho sempre negato: “Non conosco nessuno, non conosco nessuno”.

Dopo, un bel giorno è venuto l’ordine del trasferimento da Saluzzo a Torino, alle Nuove di Torino. Diciassette giorni sotto l’interrogatorio.

D: Il trasferimento con cosa ve l’hanno…

R: Con le camionette. Sì, camionette dei tedeschi e della Monterosa. Dopo diciassette giorni anche là mi hanno trasferito a Bolzano, al blocco dei criminali. Ventitré giorni.

D: Ma quando eravate lì alle Nuove…

R: Sì.

D: Anche lì in cella d’isolamento?

R: In cella d’isolamento.

D: In cella?

R: Sì.

D: Vi ricordate il numero della cella?

R: No, quello no. Non c’era nessun numero, non siamo riusciti neanche noi, non sapevamo la cella. Eravamo all’oscuro.

D: Dopo vediamo i documenti.

R: All’oscuro di tutto.

D: Lì vi interrogavano?

R: Interrogavano ancora, sempre sotto i tedeschi, quelli della Wermacht.

D: Vi hanno portato anche all’Albergo Nazionale?

R: No.

D: Dentro, quando eravate lì alle Nuove, avete trovato altri compagni?

R: Ma noi eravamo isolati, non potevamo confabulare con gli altri. Con nessuno.

D: Questo che periodo era quando eravate lì?

R: Era… No gennaio, un momento. Dicembre.

D: Del ’43?

R: ’44.

D: Dicembre del ’44?

R: ’44, precisamente. Poi da Torino ci hanno portato lì a Bolzano, sono stato ventitré giorni al blocco dei criminali.

D: Il viaggio com’è che…

R: Camionetta sempre, sempre con camion italiani.

D: Da Torino a Bolzano in camion?

R: Da Torino a Bolzano in camion.

D: Quanti eravate?

R: Eravamo una trentina più o meno. Venti, trenta. Camion con i sedili laterali e ci portavano lì con le sentinelle dietro. Naturalmente sentinelle armate col fucile.

D: Quando siete arrivati a Bolzano cos’era? Mattina o giorno?

R: Mattina.

D: Mattina?

R: Mattina, sì.

D: Vi hanno messo dentro nel campo?

R: Mi hanno messo nel campo. Ci hanno destinato il blocco.

D: Vi hanno spogliato?

R: Spogliato completamente. Poi quando siamo andati a Mauthausen, all’arrivo di Mauthausen… Dopo ventitré giorni.

D: Vediamo lì a Bolzano. Siete entrati e vi hanno spogliato?

R: Spogliato completamente.

D: Vi hanno ritirato tutti i…

R: Ritirato tutta la nostra roba e ci hanno dato i vestiti. Ma non erano vestiti zebrati grigi, i vestiti a righe ce li hanno dati a Mauthausen. Lì ci hanno dato dei vestiti grigio-verde, disinfettati ai forni. Non è che erano lavati neanche.

D: Vi hanno dato il numero lì a Bolzano?

R: A Bolzano nessun numero.

D: Niente?

R: Niente.

D: Dove vi hanno messo? In quale blocco vi hanno messo?

R: Al blocco ventitré.

D: A Bolzano?

R: A Bolzano. Blocco ventitré.

D: Non aveva una lettera?

R: No, almeno, io non mi sono accorto di nessuna lettera. Eravamo cintati dentro. Poi un tredici o quattordici persone c’eravamo messi d’accordo di sfondare sotto il blocco.

Si faceva a turno, un’ora per uno sotto i castelli, perché lì si dormiva in castelli. Sotto il castello con certi ferri, un cucchiaio, qualcosa. Piano piano. Mancava sì e no mezz’ora a sfondare. Di notte si lavorava, a turno, un’ora tu…

C’era anche un ingegnere allora, un ingegnere di Milano, non mi ricordo più il nome.

D: Vi ricordate altri vostri compagni lì in quel blocco?

R: Sì. In quel blocco c’era con me un certo Ciamarra Michelangelo, era un ex carabiniere abruzzese questo tizio. Anche lui collaborava a sfondare questa…

D: Poi chi c’era d’altro?

R: Lì c’era un certo Pezzini, colonnello italiano. Quello ci ha fatto la spia. Non gliene dico, botte da orbi. Loro volevano sapere il responsabile, ci hanno tenuto tre giorni fuori.

D: Come fuori? Fuori dove?

R: Fuori all’aria aperta. Si entrava soltanto di sera, in pieno gennaio fuori all’aria aperta, lì in fila inquadrati. Volevano sapere il responsabile.

Visto e considerato, tre poverini sono usciti fuori, siamo stati noi i prematuri, i responsabili dell’idea di sfondare il recinto. Uno l’hanno legato al palo, parlando con molta decenza se la faceva addosso, tutto.

Dopo tre giorni è morto.

D: Come si chiamava questo?

R: Vattelapesca.

D: Non ve lo ricordate?

R: Non me lo ricordo. Un altro l’hanno messo addirittura in una specie di gabbia grande lì dentro. Dopo è stato liberato, dopo tre giorni c’è stata la partenza.

D: Quando eravate lì a Bolzano, cosa facevate lì a Bolzano nel campo voi?

R: Niente. Ci tenevano lì prigionieri, ci davano la minestra. Diciamo minestra, acqua calda con tre fagiolini dentro, quando si trovavano questi fagioli.

Non si lavorava, si era in attesa della partenza. Quando si raggiungeva il numero esatto per il trasporto, si andava.

D: Poi è successo quell’episodio lì che vi hanno preso?

R: Mi hanno preso dove?

D: Quando stavate facendo lo scavo…

R: Sì, ci hanno preso. Per il giorno del compleanno mi sono trovato a Mauthausen già. Lì per punizione ci hanno messo all’aria aperta, al freddo. Si moriva di freddo. Eravamo quasi a sei, sette sotto zero.

D: Con niente addosso?

R: Con niente addosso.

D: Una cosa, Mario. Lì a Bolzano c’erano anche delle donne?

R: No, con noi no.

D: Ma dentro nel campo?

R: Sì.

D: Le avete viste voi le donne?

R: Le abbiamo viste. Le abbiamo viste di sfuggita, ma non si vedevano, perché le facevano vedere.

D: Ah no?

R: No, no. Non le facevano vedere. Di sfuggita.

D: Avete visto per caso anche dei bambini lì a Bolzano?

R: No, bambini non ne ho visti.

D: Un’altra cosa, lì c’erano già le SS però?

R: Sì.

D: Vi ricordate il comandante di Bolzano?

R: Il comandante di Bolzano era un certo Frizzi, Frizzi si chiamava, sì.

D: Dei tedeschi non vi ricordate?

R: No.

D: Haage, questi nomi?

R: As.

D: As?

R: Questo sì, adesso mi viene in mente.

D: Vi ricordate del blocco celle lì a Bolzano?

R: No, il blocco celle no.

D: Non ve lo ricordate?

R: Non me lo ricordo.

D: Vi ricordate dei due ucraini che c’erano?

R: Non erano assieme a noi forse.

D: Erano assieme alle SS, Misha e Otto.

R: Misha e Otto, quelli sì, quelli me li ricordo.

D: Perché ve li ricordate?

R: Me li ricordo perché certi nomi si tengono, specialmente quelli che facevano parte delle SS e della Wermacht, si tenevano in mente di più, erano quelli che ci torturavano.

D: Vi ricordate di una donna tedesca?

R: No, la donna no.

D: E di una donna italiana piccolina?

R: La donna italiana piccolina si, però non so il nome. Quella lì sì, me la ricordo.

D: La chiamavano la Cicci.

R: Cicci. Sì.

D: Invece la tedesca la chiamavano la Tigre.

R: Quella no, ma della Cicci sì. Quella me la ricordo.

D: Ve la ricordate la Cicci?

R: Sì. Quella me la ricordo.

D: Quando eravate a Bolzano, potevate scrivere a casa Voi?

R: No, guai, per l’amor di Dio. Niente.

D: Potevate ricevere, non so, dei pacchi?

R: No. Niente. A Bolzano non potevamo ricevere né pacchi né niente. A Mauthausen i pacchi della Croce Rossa.

D: Fermiamoci ancora a Bolzano un attimo, se non Vi dispiace.

R: No.

D: Altri Vostri compagni uscivano a lavorare dal campo?

R: No, no.

D: Che Voi Vi ricordate no?

R: Che io mi ricordi non usciva nessuno.

D: Vi ricordate se c’erano dei sacerdoti lì a Bolzano?

R: C’era qualche sacerdote, sì.

D: Ve lo ricordate?

R: Il fatto è che i sacerdoti erano trattati come noi, non c’era distinzione di ceto, no. Loro avevano lo stesso trattamento.

D: Uguale al Vostro?

R: Uguale a noi.

D: Dopo ventitré giorni cos’è successo?

R: Dopo ventitré giorni fanno l’appello, ci mettono inquadrati fuori dal blocco, nudi completamente. Però noi siamo riusciti a far scappare un ferro così ricavato da un cucchiaio.

D: Cioè?

R: Una specie di lama. Se ci mandano via, perché si sentivano un po’ voci del popolo che ci mandavano via da là e ci spedivano in Germania, allora noi se capitiamo nei vagoni ferroviari tenteremo di sfondare il vagone, a potere.

Tant’è vero che abbiamo tentato di sfondare il vagone.

D: Ma lì vi hanno messo in fila…

R: Ci hanno messo in fila, nudi. Poi ci hanno rivestiti naturalmente dopo della stessa roba.

D: Vi hanno chiamato per nome o per numero?

R: Per nome. Là per nome, sì. A Mauthausen chiamavano per numero.

D: Lì a Bolzano per nome?

R: A Bolzano per nome, sì.

D: Poi cos’è successo?

R: Dopo è successo che ci hanno portato lì alla stazione, ci hanno caricato sui vagoni bestiame.

D: Alla stazione di Bolzano?

R: Alla stazione di Bolzano.

D: E con cosa vi hanno portato dal campo?

R: Sempre con la camionetta. Con questi camion, sì.

D: Quanti eravate più o meno?

R: Adesso di preciso… Ci sono stati due o tre… Noi siamo partiti per primi, una ventina. Poi ci sono stati dietro gli altri che dovevano partire assieme a noi. Adesso non so di preciso il numero. Questo non lo so.

D: Allora siete andati alla stazione?

R: Siamo arrivati alla stazione e ci hanno caricato sul carro bestiame col vagone piombato.

D: In quanti eravate dentro?

R: Lì eravamo una cinquantina.

D: E non sapevate voi dove…

R: No. La destinazione no. Sa che al Brennero sale un po’ la strada, il treno lì andava adagio con le sentinelle esterne sulle pedane in tutti i vagoni. Arrivata la notte, si incominciava a scarpellare un pochetto il vagone, un briciolo alla volta.

Siamo riusciti a tirare via una mezza tavoletta. Avevamo visto con la candela, avevamo la candela per vedere un po’. I tedeschi si sono accorti, hanno fermato il treno. Sono venuti nel vagone.

Nel vagone, parlando con molta decenza, si faceva tutto, lì si faceva la pipì, si faceva la popò, un odore che si moriva. Come le bestie, lo stesso. Hanno fermato il treno e sono venuti, hanno aperto il vagone.

Non gliene dico lì, botte da orbi col frustino.

D: A voi?

R: A noi, sì. Volevano sapere chi è stato, chi non è stato. Lì nessuno ha parlato, noi ci facevamo ammazzare però non parlava nessuno. Difatti è stato così.

D: Questo quando è stato? A gennaio?

R: A gennaio, undici gennaio mi sembra. Le date sono qui.

D: All’undici gennaio?

R: Undici gennaio.

D: Del ’45?

R: Del ’45. Dopo basta.

D: Lì vi hanno picchiato?

R: Ci hanno picchiato. Dopodiché si è avviato il treno di nuovo e arriviamo a Mauthausen. Arrivati a Mauthausen ci mettono fuori inquadrati di nuovo, fanno l’appello in attesa di fare la doccia fredda, gelata.

D: Siete arrivati a Mauthausen giù alla stazione?

R: Alla stazione. Dopo dalla stazione ci hanno portato sempre con questi camion, ci hanno portato lì al campo di Mauthausen.

D: Con i camion, non a piedi?

R: No, con i camion. Ci hanno portati là e ci hanno messo fuori dal blocco con la doccia fredda, lì tre o quattro alla volta. Come si veniva fuori, ci vestivano con questa roba zebrata, rigata, col numero di matricola.

Ognuno aveva il suo numero.

D: Vi ricordate il vostro numero?

R: 115450.

D: Vi hanno dato anche un triangolo?

R: Sì.

D: Di che colore?

R: Rosso.

D: Perché?

R: Perché eravamo prigionieri politici. Fuori dalla doccia ci destinavano il blocco, la baracca, baracca 21, 22, 23, ecc. Ci facevano trovare la minestra calda, acqua calda con due o tre fagioli, bisognava cercarli, con una mezza carota.

Là per i primi giorni ci tenevano dentro, dopo hanno incominciato che tutte le mattine verso le cinque e mezza, le sei, prima che facesse giorno, ci mandavano in trasporto a Amstetten, sgombero macerie. Dodici chilometri, a piedi. Tutte le mattine.

Dodici chilometri a piedi sotto i bombardamenti. Io ricordo un episodio, l’episodio è questo. Viene la pelle d’oca. Uno della nostra baracca ha trovato una pagnotta di pane così sotto le macerie, Dio ce ne liberi.

Ricordo un episodio che c’era un polacco, uno dei più vecchi del campo, erano i polacchi e gli spagnoli i più vecchi del campo, del ’35 c’era della gente, pochissimi, rari erano. Ma avevano i migliori posti.

Chi era addetto alla cucina, chi era addetto alle pulizie. Erano lì per comandare noi. C’era un polacco, un disgraziato questo tizio, un piccoletto di uno, non mi ricordo neanche il nome. Addirittura era peggio dei tedeschi, era feroce proprio, nonostante fosse prigioniero anche lui. Assieme alla SS.

Mi ricordo un episodio. Questa pagnotta di pane, naturale, affamati come eravamo l’avremmo divorata in due secondi. Cosa ha fatto questo qui? L’ha portata via, dopo ha preso una bacinella di quelle grandi, grandissima, piena d’acqua.

Hanno preso uno dei prigionieri, uno che era un po’ più scalmanato, che si è rivoltato contro di loro. Hanno preso quattro prigionieri di noi, lo tenevamo chi con le braccia, chi con i piedi. Siamo stati costretti a farlo affogare in quella bacinella. Col fucile puntato sulla fronte, sulla nuca, tutti e quattro.

D: Questo a Mauthausen?

R: Mauthausen, sì.

D: O ad Amstetten?

R: No, a Mauthausen questo.

D: Quando siete rientrati nel campo?

R: Quando siamo rientrati nel campo. Un momento scusi, adesso mi sbagliavo io. Proprio lì alla stazione di Amstetten.

D: Di Amstetten?

R: Precisamente. Questa bacinella, siamo stati costretti a far affogare questo tizio. Erano in quattro col mitra puntato sulla nuca a tutti e quattro noi, siamo stati costretti a farlo affogare questo povero cristo.

D: Non vi ricordate il nome di questo?

R: No, non so neanche se era del nostro blocco. E’ difficile che era del nostro blocco. Hanno preso questo tizio che era scalmanato, hanno preso quattro di noi per dare l’esempio agli altri di comportarsi in una certa maniera. E’ finita lì.

Dopo ritorniamo al campo, sempre la solita storia tutte le mattine, per dodici giorni ho fatto questa vita. Questo è stato prima della Liberazione. Nella nostra baracca c’era Piero Caleffi, eccolo qua, senatore. Era assieme a noi.

Questo siccome era il più vecchio del campo riusciva ad avere qualche notizia esterna. In segreto veniva nel blocco: “Guardate che gli americani sono a tanti chilometri di distanza”. Noi per mezzo suo si riusciva a sapere tutte le notizie fuori.

Quando poi sono arrivati a dodici chilometri, si sentiva il rombo del cannone. Questi tedeschi, quelli che erano sulle cuccette, incominciavano ad andare via. Loro si camuffavano, andavano in aperta campagna e si camuffavano, vestiti da contadini. Facevano finta naturalmente di arare il terreno.

Gli americani questo trucco lo conoscevano già, assieme ai russi, lo conoscevano già e allora facevano i rastrellamenti ogni tanto e li portavano al campo. Prima di essere rimpatriati siamo stati un mese.

D: Un momento, Mario. Quando siete arrivati a Mauthausen, vi hanno adibito a fare questo lavoro, sgombero macerie ad Amstetten?

R: Sì.

D: Questo per quanto tempo?

R: Per dodici o tredici giorni.

D: Dopo altri lavori?

R: No, altri lavori vari, lavori di pulizia interna. A Mauthausen per quindici giorni mi hanno messo addetto ai forni crematori, trasporto dei cadaveri con la carretta a mano. Mi davano una zuppa in più per fare questo lavoro.

D: In cosa consisteva questo lavoro?

R: Consisteva che tutti i morti, tutti i giorni ne morivano, si caricavano sulla carretta, quei carrettini che usavano i contadini, larghi, per caricare il letame, si caricavano cinque o sei alla volta e si portavano nei forni crematori.

Lì venivano bruciati. C’era della gente che non era ancora del tutto morta, proprio scarni completamente, ma li portavano nei forni crematori. Non è che li mettevo io.

Li portavo fin là con la carretta per avere una zuppa in più, finito questo lavoro è uscito un… Chiedevano dei barbieri, Friseur. Io, che ho fatto quel lavoro, ho alzato la mano.

Ho alzato la mano e mi hanno messo a fare quel lavoro. Quando arrivavano in trasporto a qualunque ora bisognava saltare su, alle due, all’una di notte, alle tre, alle quattro del mattino. Italieni Friseur, bisognava saltare. Come arrivava la gente del trasporto, bisognava pulirli. Pulizia generale.

D: Cioè?

R: Pelati in testa, sotto le ascelle, davanti, nel sedere, tutto completamente, proprio a zero, pelati. Per quello mi davano una zuppa in più.

Tant’è vero che questo avvocato Bonelli, che era amico del professor Ballaro della clinica Fatebene Fratelli di Milano, come mi davano questa zuppa, io avevo un rimorso di coscienza, dicevo: “Io devo mangiare questa zuppa e quelli che crepano di fame”.

Allora la distribuivo, addirittura la metà della mia la davo all’avvocato Bonelli. Si è salvato anche lui con questo. Io mi sono salvato proprio per quello, altrimenti… Facevo il Friseur. Sono andato a casa che ero trentaquattro chili e trecento grammi.

Alla Liberazione, quando siamo stati liberati, lì ci hanno dato carta bianca. Purtroppo mancavano le forze, noi potevamo fare quello che volevamo. Allora questo professore, m’ingarbuglio un pochetto perché mi incomincio a…

D: Ci fermiamo, se volete.

R: No. Questo professore mi ha detto: “Adesso puoi vendicarti di quello che hai passato”, mi ha dato un bastone di ferro addirittura, mi dice: “Il primo che ti capita dagli, ammazza, fai quello che vuoi”.

Io non avevo neanche il coraggio, m’è capitato uno e gli ho dato una bastonata, non è che l’ho ammazzato. Abbiamo tralasciato quel lato di quando ero nei partigiani che mi è capitato un maresciallo della SS che ho ammazzato.

D: Cioè?

R: Sì.

D: Ma dove? Su in Val Varaita?

R: Val Varaita.

D: Ma avete fatto un’azione?

R: No, lì c’è stata un’imboscata. Quando la valle era occupata dai tedeschi e dalla Monterosa noi eravamo sopra Torretta e Casteldelfino.

Noi si vedeva il movimento su e giù, in basso. Io mi sono appostato dietro a un cespuglio, stava passando con la moto questo maresciallo tedesco. Mi sono appostato e gli ho dato una raffica. L’ho ammazzato. Perché loro avevano un senso di coscienza contro di noi?

D: Quella era guerra.

R: Era guerra, se non ammazzavi tu, ammazzavano te, scherziamo.

D: Dicevate?

R: Tant’è vero che io gli ho sfilato il portafoglio, tre dollari aveva appena. Gli ho tirato via perfino la cinghia e me la sono messa io. Fino a qualche anno fa ce l’avevo ancora.

D: Ma dai? L’avete conservata?

R: Conservata, sì. Quel lato lasciamo stare.

D: A Mauthausen….

R: Ogni tanto quando venivano ai blocchi… Mi hanno rotto l’osso della gamba.

D: Cioè?

R: Qui.

D: Cos’è successo?

R: E’ successo che quando venivano nei blocchi, loro non guardavano… Entro cinque minuti anche il braccio qua.

D: Com’è che sono successi questi episodi?

R: Quando venivano nei blocchi loro col frustino alla mano volevano che in cinque minuti si doveva mettere a posto. Si dormiva in un materasso da una piazza in sei. Lei può immaginare in che maniera si dormiva.

Si dormiva di lato così, in costa in tre. Tre da una parte e tre dall’altra. Lì bisognava mettersi a posto in pochi minuti, altrimenti erano frustate a non finire. Io ho cercato di reagire, poi mi hanno spezzato l’osso qui della gamba e il braccio ferito.

Quando sono venuto in Italia andavo tutti i giorni a Cuneo alla Croce Rossa Italiana a farmi le medicazioni.

D: Là non vi hanno curato?

R: Curato? Menomale che c’era quel professore, lui andava in giro in tutti i blocchi. Però medicinali non gliene davano, gli davano la carta igienica.

D: Come bende?

R: Come bende, precisamente. Sono guarito in qualche maniera. Quando sono ritornato in Italia per il cambiamento, avevo cominciato a mangiare leggero, le ferite incominciavano a purgarmi.

Allora tutte le mattine andavo alla Croce Rossa a fare le medicazioni sia al braccio che alla gamba e sono stato un anno senza poter lavorare, anche se avevo le forze.

Menomale che avevo qualche soldino ancora da parte allora che mi sono curato. Per i danè di guerra mi hanno dato 94.000 lire. Tutto lì.

D: Una cosa, Mario. Quando eravate lì a Mauthausen, voi sapevate dei forni crematori?

R: Certo. Siamo stati informati, non ce lo dicevano loro. Quando li portavano via, prima di essere addetto io ai forni crematori, mai più si pensava che venissero passati ai forni crematori.

Poi c’è stato anche questo senatore Caleffi che ci ha informato: “Guarda che lì ci sono i forni crematori, così e così”.

D: Anche le camere a gas non lo sapevate che c’erano?

R: Non lo sapevamo, le camere a gas non lo sapevamo neanche.

D: Lo sapevi che c’era la cava? Tu non sei andato alla cava a lavorare però?

R: Alla cava no. Alla cava per fortuna no.

D: Perché per fortuna?

R: Per fortuna che facevo il barbiere, ero a disposizione. Sennò mi mandavano là.

D: C’erano invece…

R: C’erano.

D: Che andavano alla cava?

R: Che andavano alla cava, settanta chili.

D: Come settanta chili?

R: Gli mettevano un peso di settanta chili sulle spalle, praticamente bisognava salire una scalinata. Uno che non ce la faceva, non aveva più le forze, gli davano una raffica di mitra a bella posta e lo finivano del tutto.

D: Ascolta, Mario. Quando tu sei stato a Mauthausen ed eri nella baracca hai detto?

R: 21.

D: 21, hai assistito ad azioni di violenza quando sei stato lì a Mauthausen?

R: No, violenza vera e propria… Quando venivano nei blocchi ci trattavano come animali, frustati a non finire. Un altro episodio, questo adesso me lo sono ricordato.

Quando eravamo nel blocco, noi eravamo comandati dai criminali tedeschi borghesi, quelli usciti da galera, quelli condannati all’ergastolo, che per loro ammazzare una persona era come ammazzare una mosca, non gli interessava niente, li mettevano a comandare il blocco.

Mi è capitato un episodio, viene questo tizio, modestia a parte, prima ero giovane, quando uno è giovane, io avevo i capello ricci, è venuto da me. Loro dentro nella baracca stessa avevano una specie d tenda, dormivano separati, una tenda piccola.

Mi ha portato nella tenda, mi ha tirato fuori da mangiare finché volevo, salame, prosciutto. Questo tizio era un pederasta e volevano a tutti i costi che ci andassi assieme. A sentire quelle cose che mi sono capitate, mi è capitato perfino un prete in Piemonte, tre me ne sono capitati.

Questo tizio è il quarto. Voleva a tutti i costi che io… Io a sentire quello mi veniva il vomito addirittura. La prima volta non mi ha detto niente, mi ha richiamato la seconda, la stessa cosa. La terza, la stessa cosa. La quarta volta è diventato una bestia.

E’ andato fuori di sé, ha preso il frustino e bam, me ne ha date un sacco e una sporta. Però io non uscii tutto, per l’amor di Dio. Anche volendo, per me per l’amor di Dio, non avevo neanche le forze.

Per quello lui ha aperto lì, lo metto in forze così me ne servo, invece… Per fortuna che è stato negli ultimi tempi, prima che arrivassero gli americani. Se non fosse stato, non mi sarei salvato mica, quello mi avrebbe ammazzato senz’altro.

Quando arrivava quella gente…

D: Questo era un Kapò?

R: Un Kapò. La mattina quando venivano lì, bisognava andare alla Wascheraum addirittura a frustate. Si andava lì tutti in fila, lì c’era la fontana con tanti rubinetti, grande e tutta in giro. Lì a via di frustini si andava a lavarsi.

Lavarsi, mica lavarsi. Sciacquarsi e via, con uno straccio d’asciugamano. Si tornava nei blocchi così tutte le mattine.

D: Quanti eravate in un blocco?

R: Lì variava, perché tante volte andavano via, li mandavano via da Mauthausen e andavano a Buchenwald, andavano via anche là.

D: Ma più o meno quanti eravate?

R: Eravamo in sessanta, settanta.

D: Per blocco?

R: Per blocco, sì. Sessanta o settanta. Per ogni baracca, sì, settanta o ottanta.

D: Cosa avevate voi a disposizione, solamente il letto a castello?

R: Il letto a castello. No, che letto a castello! Per terra. Materassi per terra, mica materassi di lana, s’intende, materassi di…, tutto per terra, a tavolaccio.

D: Non avevate un armadietto dove mettere…

R: Non avevamo niente là. Nelle baracche non avevamo niente.

D: La Miska l’avevate, la ciotola per mangiare?

R: …. Contemporaneamente.

D: Cucchiaio?

R: Cucchiaio, cucchiaio e stop.

D: E basta?

R: Basta. Portavano via tutto. Al momento ci davano la roba.

D: Poi siete andati a lavorare dove? Prima parlavamo di Gusen, siete stato voi a Gusen?

R: Sì, sono stato a Amstetten e Gusen, erano lì vicino. Sono stato pochi giorni. Dodici o tredici giorni in tutto, fra Gusen e Amstetten.

D: Per fare?

R: Sgombero macerie.

D: Sempre sgombero macerie?

R: Sempre sgombero macerie, sì.

D: Poi siete entrato nel giro dei parrucchieri.

R: Poi sono entrato nei parrucchieri e mi hanno ritirato, tutti i momenti gliene arrivavano e allora bisognava essere disponibili con una zuppa appena al giorno. Arrivavano in tutti i momenti i trasporti, noi si faceva questo lavoro.

D: Lì a Mauthausen donne ne avete viste?

R: Le donne non erano vicine dove eravamo nel blocco di quarantena noi, no. Le donne erano appena entrate a Mauthausen sul lato destro, se ne servivano anche i tedeschi per fare i comodacci loro. Non si sapeva che fine facevano.

D: C’erano anche dei ragazzini?

R: Ragazzi sì, ragazzi giovani. Io ragazzi piccolini piccolini non ne ho visti, comunque ho visto dei ragazzi di sette, otto anni, dieci anni a Mauthausen. Quando morivano dovevano buttarli.

Questo episodio, quello che ho passato io l’ho raccontato all’avvocato Cappucci, intimo amico di Papalettera.

D: Di Vincenzo?

R: Si, di Vincenzo.

D: C’erano degli ebrei lì?

R: Gli ebrei erano separati da noi, loro erano in campo di quarantena. Però noi sul lato sinistro, sul fondo del piazzale e loro erano al fondo di là, sul lato destro. Quelli poveretti erano martirizzati.

Quando arrivavano i pacchi della Croce Rossa…

D: Lì arrivavano dei pacchi della Croce Rossa a Mauthausen?

R: Sì.

D: Anche per voi?

R: Anche per noi. I polacchi erano i primi, dopo i polacchi erano i francesi, dopo i francesi eravamo noi. Però in quei piccoli pacchi prima che arrivassero a noi non c’era quasi più niente. Ci davano un pezzo di pane, una fesseria, roba da niente.

Saranno arrivati due o tre volte sì e no i pacchi della Croce Rossa. Io li ho visti due volte, mi hanno dato un pezzo di pane e un pezzo di salame così e non mi ricordo più altro. Basta.

D: Una giornata dentro nel Lager com’era? Sveglia alla mattina alle?

R: La mattina all’alba ti svegliavano.

D: Poi cosa succedeva?

R: Succedeva che bisognava alzarsi, contemporaneamente al Wascheraum, al lavaggio. Dopo ci mettevano inquadrati fuori dalla baracca e facevano l’appello. Dopo ognuno era addetto ai lavori vari.

D: Anche se pioveva fuori?

R: Fuori, sempre fuori.

D: Sotto l’acqua?

R: Sotto l’acqua.

D: E poi al lavoro?

R: Poi al lavoro, ognuno aveva il suo…

D: Ma non c’era la colazione, non vi davano la colazione al mattino?

R: Ci davano un filone di pane in dodici, un mattone da chilo diviso in dodici, con un pezzettino di margarina, tanto così. Una tavolettina piccola, dieci grammi di roba.

D: E poi al lavoro?

R: Poi al lavoro.

D: Fino?

R: Fino a mezzogiorno. A mezzogiorno si rientrava, prima facevano l’appello di nuovo e dopo la distribuzione della zuppa. Per trovare tre fagioli bisognava mettersi gli occhiali, il binocolo.

D: Poi al lavoro ancora?

R: Poi al lavoro ancora fino a sera.

D: Dopo rientro nel campo?

R: Dopo rientro, l’appello ancora e dopo ognuno al suo posto. Bisognava mettersi a letto.

D: In baracca?

R: Inquadrati, un materasso in sei, in questa posizione. Alla sera la solita zuppa, la solita acqua calda. E basta. Con questo pezzo di pane diviso in dodici. La carne col binocolo.

D: Ascolta, Mario. Un atto di solidarietà all’interno del campo era possibile?

R: No.

D: Non era possibile?

R: No, no.

D: Perché non era possibile?

R: Non era possibile perché noi non eravamo liberi, come si faceva? Un atto di solidarietà con chi?

D: Con altri deportati?

R: Mai più. Ognuno la sua baracca. Quando si andava in trasporto lì a Amstetten e Gusen, a parte che c’erano i tedeschi con i cani poliziotti e se uno si permetteva di calarsi per terra per prendere una pelle di patata che si trovava in strada oppure un ciuffetto di erba lo fucilavano.

Un colpo di mitra e via, basta.

D: Quindi un atto di solidarietà era impossibile?

R: No, no. Non c’era solidarietà, era impossibile.

D: In quanti eravate dentro in tutto il campo di Mauthausen?

R: Da tremila a cinquemila, dipende. Tanti li mandavano via da Mauthausen, li mandavano a Buchenwald, dove avevano bisogno per il famoso V2, V1, precisamente.

Allora venivano trasferiti là. A me per fortuna non mi hanno trasferito.

D: Il giorno della Liberazione tu dove ti trovavi?

R: Io mi trovavo proprio nella baracca.

D: In baracca?

R: Sono arrivate tutte le camionette degli americani. Loro per la distribuzione del vitto davano la zuppa di piselli e farina di granturco.

Il professor Vallardi, Dio ce ne liberi, dato che eravamo un po’ in buona armonia con l’avvocato, dice: “Guai al mondo, non toccate questa zuppa”.

In media i morti erano sulla base di quattrocento, quattrocentocinquanta al giorno prima che arrivassero gli americani. Quando sono arrivati gli americani, i primi giorni addirittura eravamo arrivati a novecento.

La trachea era chiusa, la zuppa era troppo pesante. Poi l’hanno capita anche loro, basta, hanno sospeso. Quando sono arrivati loro, da mangiare ce n’era finché volevamo.

Il professor Vallardi ha detto: “Non toccate niente”, eravamo in quattro. Mi ha portato sulle spalle, pensi, fuori Mauthausen in aperta campagna, presso una cascina.

E ha dato ordine con la pistola in mano ai tedeschi: “Non dateci da mangiare niente, roba pesante. Esclusivamente pastina glutinata leggera e latte scremato”.

Però che è successo? E’ successo che tre giorni appena siamo stati là. Poi ognuno ha preso la sua strada. Il secondo giorno ho incominciato a mangiare qualcosa, o il cambiamento del mangiare… Mi sentivo un mal di pancia che crepavo.

Sono arrivato al punto che non ne potevo più, ho chiesto ai tedeschi se avevano una pistola, mi sarei sparato. Un male tremendo proprio. Dopo invece pian piano…

Loro non si sono permessi perché erano già minacciati, se commettevano una cosa simile, per l’amor di Dio, lì facevano una strage. Dopo invece pian piano ha cominciato a passarmi.

Dopo è venuto il professore, siamo rientrati al campo e c’è stata la Liberazione. Dovevamo essere rimpatriati per il confine svizzero. Arriviamo al confine svizzero, siamo stati tre giorni e gli svizzeri non ci hanno dato il passaggio.

Siamo dovuti ritornate indietro per il Brennero.

D: Con cosa vi spostavate?

R: Sempre con le camionette.

D: Quindi siete arrivati al Brennero?

R: Siamo arrivati al Brennero. Quando siamo stati liberati, dato che eravamo vestiti in quella maniera, c’erano dei capannoni pieni di roba italiana, stoffa, confezioni, vestiti, scarpe, l’ira di Dio, suole da scarpe…

D: Ma lì a Mauthausen?

R: A Mauthausen. Siamo andati in questi blocchi, in questi capannoni, io mi sono vestito. Mi sono messo una giacca che mi ricordo ancora, color… Questo colore, più o meno, un po’ più chiaro.

D: Marrone?

R: Marrone, questo colore, sportiva. Ho trovato la giacca e me la sono ficcata addosso, un paio di pantaloni, un paio di scarpe. Lì incominciavano a dire: “Per l’amor di Dio, gli americani non lasciano passare niente”.

Siamo capitati in una camera piena di soldi, soldi italiani, 10.000, 5.000, 1.000 Lire, 500 Lire, di carta allora, che potevamo caricarci come volevamo, addirittura un camerone pieno di soldi.

Io avevo uno zainetto, mi sono preso appena 6.000 Lire, stupido. Mi dicevano: “No, non lasciano passare”, porca di una miseria. Qualcuno è stato più furbo e qualcosa in più ha preso.

Io mi sono preso un paio di suole da scarpe, qualche rocchetto di filato, sempre roba italiana, buono, roba da niente. Quando siamo arrivati a Bolzano, siamo andati in un bar in compagnia di un genovese.

Siamo entrati in un bar e abbiamo detto: “Valgono ancora questi soldi?”. “Valgono ancora? Eccome!”. Ci siamo mangiati le mani, perché non ci hanno fatto nessun controllo. Quelli che sono stati più furbi hanno portato via, ma mica troppo perché anche loro avevano paura. Dicevano: “E’ inutile che ci prendiamo questi soldi che ce li portano via”.

D: A Bolzano siete arrivati e dove vi hanno messo?

R: A Bolzano appena arrivati là ci hanno messo dalla parte della stazione, ci destinavano: “Tu devi andare a Torino”, ad esempio, e ci destinavano. Ci facevano il lasciapassare, il foglio di rimpatrio.

D: Dopo li vediamo i documenti.

R: Il foglio di rimpatrio e ognuno prendeva la sua strada. Sono arrivato a Torino, dovevo cambiare treno, avevo il lasciapassare, il foglio di rimpatrio. Là è stato bello.

Prendo il treno per Cuneo, perché abitavo a Cuneo con mio fratello, e sul treno il controllore…

D: Perché con tuo fratello?

R: Abitava a Cuneo già mio fratello.

D: Ah, abitava a Cuneo.

R: Lui era impiegato. Mio fratello non era a Cuneo, sul treno Torino – Fossano c’era un mio paesano, mio fratello aveva battezzato una figlia di questo tizio, un ferroviere. Appena mi ha visto, io ero seduto con i bastoni, è venuto davanti e mi guardava.

Io guardavo lui e lui guardava me. Mi dice: “Ma tu non sei Mario?”. Ho detto: “Sono Mario”. Mamma mia, appena ha sentito così mi ha abbracciato. Il treno era fermo alla stazione di Fossano e mi ha portato al bar della stazione. Io non potevo mangiare niente, non potevo bere niente.

Ho preso, non so, un succo di frutta, ne ho bevuto tanto così. Questo mi fa: “Guarda che tuo fratello non è a Cuneo, non è a casa”. E chi c’è a casa? C’è la nipote, che lui andava a Torino per fare delle spese, allora mio fratello si curava per l’ulcera.

Arrivato a Cuneo, c’è la nipote. Poi mio fratello non sapeva niente che arrivavo, la sorpresa appena è entrato in casa, mi sono presentato. Si figuri un po’ quello, non aveva saputo niente di che fine avevo fatto. Là c’era la nipote in attesa che arrivasse mio fratello, siamo stati là.

Tutto lì, è finita lì. Dopo ho cominciato la tragedia di andare alla Croce Rossa per fare le medicazioni man mano che… Per un anno intero, un anno mangiare leggero, riguardato. Per lavorare chi aveva le forze? Quando mi sono rimesso ho incominciato a lavorare.

Lì a Cuneo non ho trovato più niente, nella casa, nel negozio. Avevo il negozio, la pescheria. Purtroppo me l’hanno bruciato, mi hanno portato via tutto. Ho dovuto incominciare da zero alla lettera, però io nauseato del Piemonte…

D: I genitori?

R: I genitori ce li avevo in bassa Italia. Erano giù.

D: Nauseato dal Piemonte?

R: Quando mi sono ripreso sono stato un po’ di anni là, ma non lo so, non mi trovavo più. Dico: “Vengo via”. Sono capitato per caso qui a Desio, per caso. Sono capitato a Desio e cosa facevo?

Facevo il barbiere a tempo perso, tre giorni alla settimana, era difficile anche trovare lavoro. Dopo è uscita una circolare che prendevano tutti i prigionieri di guerra, avevano la preferenza a entrare negli stabilimenti.

Io ho fatto domanda all’Incisa qui a Lissone, fabbrica di compensato. Però volevano una conferma, sono dovuto andare a Cuneo per farmi rilasciare una dichiarazione dal maresciallo dei carabinieri che io realmente ero stato…, nonostante avessi i documenti, il foglio di rimpatrio.

Ho dovuto fare quello, andare a Cuneo, farmi rilasciare la dichiarazione, il maresciallo dei carabinieri mi conosceva e subito l’ha fatta, per l’amor di Dio. Sono venuto qua e mi hanno assunto, sono stato due anni all’Incisa.

Siccome noi siamo di stirpe degli antenati tutti commercianti, mio padre commerciante, mio nonno, mio fratello, tutti quanti, le mie sorelle, dopo lavoravo ancora all’Incisa quando mi sono sposato, sono restato disoccupato quando hanno chiuso lì alla villa vicino a Lissone.

Hanno chiuso la fabbrica, ho lavorato fino all’ultimo giorno, dopo sono restato senza niente. Ho dovuto assoggettarmi e andare qui a Varedo, ho lavorato undici mesi. Dopo sono venuto a diverbi col capo turno, con un certo Galbiati, gliene ho dette di tutti i colori e sono venuto via anche di là.

Dico: “Basta padrone, non voglio più saperne di padroni, neanche se m’impicco”. Mi sono messo a lavorare subito per conto mio. E’ stata dura. Il pescivendolo facevo io, io lavoravo fuori, facevo i mercati. E lavoravo a casa, a casa avevo un negozio.

Non le dico i sacrifici che ho fatto, per l’amor di Dio, le ore io non le ho mai contate, erano dodici, erano quindici, erano sedici, erano venti anche. Pian piano ho fatto la mia carriera. Tutto lì.

D: Mario, tu non sei più ritornato a Mauthausen?

R: No. E’ quello che volevo dire. Quando vi capita l’occasione, perché per la malattia di mia moglie ho avuto un sacco di guai, mi piacerebbe venire.

D: Adesso a maggio…

R: Verso maggio?

D: A maggio vado.

R: A maggio?

D: A maggio, sì.

R: Vengo anch’io.

D: C’è la delegazione che va su con il pullman.

R: Mi tenga presente.

D: Ti mando l’invito, ti mando il programma. Tu non sei più ritornato?

R: Non sono più ritornato.

D: Perché?

R: Perché ero troppo impegnato per causa lavoro.

D: Ascolta un attimo, quando sei tornato a Cuneo i tuoi amici di un tempo…

R: Si, qualcuno.

D: Quando sei arrivato da Mauthausen…

R: Sì.

D: Hai provato a raccontare della tua deportazione?

R: Ho provato a raccontare, ma chi non prova… Bisogna provare certe cose. Ci credevano sì, ci credevano no.

D: Non ci credevano?

R: Non ci credevano. Dopo naturalmente venendo a conoscenza di tutte le mie peripezie, via via si sono ricreduti. A casa mia non sapevano niente, niente, niente.

Alla Liberazione, mi sfuggiva un particolare, quando siamo stati liberati, sempre per mezzo di questo professore mi ha portato al microfono e abbiamo dato comunicazione: “Io, Tizio e Caio, nome e cognome, abitante a Cuneo in via Fossano 30, comunico ai miei familiari che sto bene e ci rivedremo presto”, tutto lì.

Mio fratello, che quel giorno lì era a Torino, combinazione un amico, un certo Pompilio ha sentito per radio e si è ricordato: “Mario, mamma mia”. Glielo ha comunicato a mio fratello: “Guarda che tuo fratello ha dato comunicazione al campo di Mauthausen così e così”.

“Ma no, mio fratello, ma scherziamo, chissà che fine ha fatto mio fratello”. Poi quando sono arrivato immaginiamo la festa, anche mio fratello. Poi ho dato comunicazione a lui. Pesavo 34 chili e 400 grammi.

D: Quando sei tornato? E avevi quanti anni?

R: Avevo ventidue anni, giovane.