Gianardi Mario

Mario Gianardi

Nato nel 1926 a Vezzano Ligure (SP)

Intervista del: 08.06.2000 a La Spezia realizzata da
Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari
TDL: n. 11 – durata: 92′

Arresto: 15 ottobre 1944 a La Spezia
Carcerazione: La Spezia, nella Caserma del XXI Reggimento Fanteria; Genova nel Carcere di Marassi Deportazione: Bolzano, Mauthausen, Steyr (campo dipendente da Mauthausen)
Liberazione: maggio 1945 a Gusen 1 da parte dell’esercito americano.

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Organizzazione materiali ed inserimento dati: Elisabetta Mascarello, Elena Pollastri

Nota sulla trascrizione della testimonianza:
L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Gianardi Mario, sono nato a Vezzano Ligure il 18.9.1926, in provincia de La Spezia. Sono stato arrestato il 15 ottobre del 1944 davanti alla chiesa di Migliarina. Mentre accompagnavo un ragazzo uscito dal carcere di Villa Andreini, che era un handicappato, preso in un rastrellamento a Cegirano, questo ragazzo qui è stato, dietro interessamento mio e degli altri, doveva essere accompagnato quando è uscito a Cegirano, solo che lui non poteva sapere la strada, e allora mi hanno incaricato di accompagnarlo sino a Migliarina dove c’è la biforcazione, che va verso il Termo e una parte verso Buonviaggio. Forse voi non sapete ma la diciamo, una va verso Roma e l’altra va verso Parma.
Lui doveva prendere la strada verso Parma, senonché io partii da casa mia assieme a mio fratello Sergio ad un certo Del Nero e questo ragazzo. Erano le due del pomeriggio. Quando siamo arrivati sul Ponte della Dorgia, che è un canale che attraversa prima di arrivare alla chiesa, sulla Via Aurelia, io sentii il rumore di un camion che giungeva. Feci una corsa e arrivai proprio all’incrocio davanti alla chiesa di Migliarina, lasciando mio fratello e gli altri indietro, in maniera che se questo camion potesse andare verso Parma l’avrei fermato chiedendo il permesso di poter salire questo ragazzo, gli avrei spiegato la situazione. Senonché il camion proseguì per il Termo, quindi la mia corsa fu vana.
Mentre attendevo che loro, i miei amici e questo ragazzo, mi raggiungessero, io mi sono rivolto verso loro e vedevo che esitavano a venire, e io gli dicevo Camminate”. Ad un bel momento ho sentito dietro la schiena, con la canna del fucile “alza le mani”, io ho alzato le mani, erano due della Brigata Nera che mi avevano preso. Chi è stato? Io il giorno dopo, lunedì, perché era di domenica, avrei dovuto andare ai monti, non perché avevo un’idea politica però più che altro per la paura di essere preso anch’io che già c’erano le voci che arrestavano ecc., mi sembrava di essere più sicuro allontanarmi da casa. Ebbene il delatore, che mi ha fatto prendere, è un certo Guerra, che dalla finestra del suo appartamento era d’accordo, come si può dire, insomma era passato dai partigiani alle Brigate Nere, quindi lui era consapevole che io dovevo andare ai monti, pertanto presero soltanto me. Ma di questo mi accorsi solo quando mi portarono in casa sua, prima io non l’avrei neppure immaginato. E come lui dalla finestra, un certo Capitani, che si trovava invece sulla via Aurelia, faceva, a 200 metri da casa sua, lo stesso lavoro. Stetti in casa del Guerra fino alla sera verso le cinque o le sei, poi, una ventina circa eravamo, ci portano al 21° Fanteria. Il 21° Fanteria era la caserma dei soldati dei fanti del tempo di guerra, di cui la Brigata Nera si era impossessata ed aveva adibito certi settori del carcere a celle per i detenuti. Io mi trovai in una cella vicino alla strada che andava verso Pegazzano, eravamo in 12, ero io, in parte me li posso ancora ricordare, un certo Chiari, Ughetto, poi Gigli con cui siamo stati poi ammanettati insieme quando siamo partiti da Genova, poi c’era l’ingegner Iacchetti della Ceramica di Ponzano, il suo contabile signor Foce o dottor Foce, non so chi poteva essere, un impresario edile di cui adesso mi sfugge il nome.
Ebbene siamo stati lì una quindicina di giorni. In questo frattempo però la notte sentivamo le urla di coloro che interrogavano e ci si preoccupava un poco perché quando venivano e chiamavano qualcheduno e lo portavano a questi interrogatori di solito non lo si vedeva ritornare perché lo facevano cambiare di cella.
Successe che anche a me chiamarono, mi chiamarono e me la cavai invece con poco, mi fecero alcune domande, se ero partigiano, se conoscevo Tizio o Caio, e io risposi di no, perché effettivamente partigiano non lo ero ancora. E va bene, mi dettero qualche ceffone così, va bene. E io tutto contento sono rientrato in cella, convinto che avessi superato la fase più critica. Invece il bello doveva proprio venire, perché dopo alcuni giorni ci portarono su un camion a San Bartolomeo. San Bartolomeo è una zona vicino al mare di Spezia, cioè sul mare di Spezia diciamo. E qui c’erano alla fonda alcuni zatteroni, gli zatteroni erano da sbarco, cioè avevano il pontile che si abbassava per far scaricare la merce. Eravamo in questo zatterone circa un centinaio, 87-100 adesso non so. Ebbene lì ci hanno dato un pezzo di pane che abbiamo dovuto dividere, l’ho dato a sette persone, comunque stettimo lì un giorno fermi perché c’era mare con burrasca. Il secondo giorno di sera si partì verso Genova, via mare verso Genova. Quando siamo stati al largo di Monterosso, Monterosso è una zona vicino a La Spezia ma dalla parte andando verso Genova, Chiari con una tavola dove eravamo seduti, Chiari è quello dei parati, vendeva le carte da parati, era in cella con me ed era a bordo. Insomma abbiamo sollevato leggermente la mira e lui voleva a tutti i costi fuggire, ma sapete davanti allo zatterone, se lui si buttava andava a finire sotto, non poteva avere, non aveva uno slancio per … E lui effettivamente l’ha capita e ha desistito. Quindi abbiamo cercato di togliere questa tavola e bene o male si vedeva che non era stato forzato il portale dello zatterone.
Siamo arrivati verso la mattina alle cinque a Genova. E a Genova ci hanno portato al carcere di Marassi di Genova. Qui io sono andato, e portato con tutti gli altri, a pianterreno della quarta sezione, eravamo anche lì una decina per cella, qui avevamo la possibilità di andare a prendere l’ora di aria, così si dice nel carcere, e quindi quando io poi insieme agli altri della mia cella potevamo uscire, vedevamo, e mettevamo il nome anche noi, nei muri in maniera che potessero trovare una testimonianza del nostro percorso, perché pensavamo che non potendo scrivere a casa, e non potendo avere notizie, almeno se ci fosse stato qualcheduno un domani che avesse letto queste scritte sui muri avrebbe capito che io ero transitato lì il giorno tale ecc.
Quindi subii il primo degli interrogatori effettivamente severo. Io sono stato seviziato e torturato, per sei ore, sono stato seviziato e torturato da Battisti, Morelli, Guerra, Capitani e due marescialli della SS. I più sono stati Battisti, Morelli e i due marescialli della SS, Guerra e Capitani nell’ultimo. Allora io ero legato cavalcioni di uno sgabello a torso nudo, e cominciavano a nerbarmi. Mi dettero 18 accuse: la morte di Bergamini, l’assalto alla Flage, alla batteria di Monte Pertico, ero partigiano, avevo nascosto le armi, insomma tutte invenzioni perché fino a quel momento di ciò che mi dicevano nulla corrispondeva al vero, perché io certe azioni non le avevo mai fatte. E loro dicevano di firmare, ad ogni interrogatorio, ma il primo interrogatorio è stato forte, all’ultimo mi ruppero questo sgabello nella schiena. Il giorno dopo mi richiamarono il pomeriggio e ricominciarono altre botte, cominciarono a mettermi il tubo dell’acqua dal rubinetto in bocca, mi è venuta una pancia grossa così che scoppiavo, e poi mi storcevano le dita, il dito pollice, questo vedete com’è? me li storcevano. In più se vedete le mie unghie, queste dei piedi, hanno ancora i segni adesso, perché mi mettevano i fiammiferi di legno corti, tagliati e con la punta infilata qui e ci davano fuoco qui sul pollice destro e sul pollice della gamba sinistra, e sulle mani. Pertanto quando perdevo i sensi mi buttavano con la testa dentro il lavandino, pieno d’acqua, che era rosso del mio sangue. Pertanto io i peggiori momenti credo della prigionia per il dolore patito sono stati quelli.
Insomma io non firmavo, all’ultimo il terzo giorno, dopo ancora avuto percosse ecc., hanno preso, io ero in stato di semi-incoscienza perché quando vedevano così ti davano proprio il colpo nella testa per farti svenire, poi ti mettevano con la testa dentro il lavandino. Invece di tirarmi l’acqua in viso mi ci buttavano dentro, e ti senti soffocare, poi con questo peso che avevo già dell’acqua della pancia, che mi si era gonfiata tutta la pancia e lo stomaco, insomma stavo male, malissimo.
Adesso mi vengono le amnesie.

D: Stavi dicendo, Mario, che dopo tre giorni…

R: … dopo tre giorni mi hanno preso la mano e mi hanno fatto una scarabocchio, e mi hanno riportato in cella. Però non mi hanno portato più alla quarta sezione, mi hanno passato alla terza sezione e lì sono stato qualche giorno, facevo fatica ad entrare nella cella perché c’era il cancelletto per aprire in queste celle qui che erano più di segregazione che altro, molto strette.
Lì ho potuto incontrare gli altri che avevano preso in un secondo tempo della Pianta, della zona mia. E c’era un altro Gianardi come me, allora ho pensato che fosse mio padre o mio fratello, invece era mio zio. C’era un certo Trippini che aveva una segheria lì alla Pianta, non mi riconosceva neppure da come ero gonfio, ridotto male, avevo la faccia e gli occhi tutti tumefatti. Ah mi hanno rotto il setto nasale, mi hanno rotto i denti, questo che mi ha rotto i denti era con il calcio della rivoltella, mi ha spaccato proprio i denti qui davanti, a metà proprio rotti. Ebbene, io avevo soltanto, perché era di ottobre, la canottiera e la camicia, ero vestito estivo ancora. Praticamente si doveva, le voci, perché in carcere non c’è cosa come in carcere perché si sanno più delle altre parti dove si va a finire, si diceva che si andava a lavorare in Germania. Assieme a me in cella c’è sempre stato un ragazzo che faceva il capostazione a Migliarina, il nome ce l’ho sempre e quando lo devi dire non ti viene mai. Ebbene a lui era arrivata da casa una valigia con degli indumenti mentre a me non era arrivato niente, e combinazione questo mio zio invece era addirittura in canottiera. Sapendo che si doveva andare per la Germania, Peschiera, si chiamava Peschiera il capo. Questo ragazzo con cui eravamo diventati amici perché eravamo in cella, sia al 21°, insomma avevamo fatto tutto il percorso assieme, e siamo arrivati a Mauthausen combinazione sempre insieme. Mi ha dato un pullover blu, ma vedendo mio zio che credevo che partisse anche lui con noi, che era in canottiera, glielo cedetti, e lui si ripromise di ridarmi qualche cosa. Senonché quando partimmo da Marassi, Genova, dal carcere di Marassi per andare a Bolzano, quando arrivammo a Bolzano, al Blocco E la valigia a lui gliela presero, quindi rimase lui con i suoi vestiti e io con la mia camicia, cioè non avevamo il ricambio per nessuno.

D: Scusa Mario, da Genova per andare a Bolzano?

R: Ci siamo fermati poi, adesso torno un momento indietro. Quando siamo partiti da Genova sui camion ci siamo fermati non un giorno, abbiamo fatto una sosta al carcere di San Vittore di Milano, ci siamo fermati lì. E lì ero ancora io, i secondini lì che avevano l’infermeria, mi hanno medicato un po’ la schiena e mi hanno medicato un po’ il viso con degli impacchi, della roba, non so con che cosa, non mi sembrava acqua però sarà stato borato o qualcosa del genere. E sul camion che mi portava a Bolzano eravamo ammanettati destra con sinistra, io ero con questo Gigli, con Gigli, non ero con Peschiera, ero con un certo Gigli che era della mia età e facevamo la scuola insieme, abbiamo fatto. Io non ce la facevo a stare ancora in piedi con gli scossoni, e seduto anche tantomeno perché battevo contro la spalliera e la schiena mi doleva, cominciavo a fare, insomma le ferite ci rimarginavano però erano dolori quando toccavo la schiena. Allora mi ricordo che questo povero ragazzo, Gigli, si è messo di fianco a me per badare che non battessi contro la spalliera. E così siamo arrivati a San Vittore, che mi hanno fatto questo impacco, questo medicamento e sono proseguito per Bolzano. A Bolzano sono al Blocco E, il Blocco E è un blocco in armatura, con mattoni rossi, però è un campo recintato dentro il campo. E confinava, il muro ad una certa altezza, di là, nel solito capanno nostro c’erano le donne, erano le mogli dei partigiani, erano le mogli dei movimenti di liberazione, è stato lì che la prima volta io ho capito movimento di liberazione, insomma queste cose, perché io di politica non mi sono mai interessato, anzi sono stato sotto il fascismo e ignoravo completamente cosa voleva dire a quei tempi comunismo, socialismo, ecc.
Ebbene queste donne quando mi hanno visto che sono entrato, dato che anche il reticolato divideva dalle donne, ma eravamo recintati in un recinto unico, però divisi dal recinto per le donne, così il muro … Quando hanno visto che ero ridotto così male c’era qualcheduna che usciva già a lavorare a Bolzano, che andava negli ospedali, e allora mi vide, anche loro mi hanno medicato un pochettino, cominciava ad essere una settimana il dolore, perché i primi giorni era molto doloroso, poi col tempo si leniva lentamente, non è che stessi bene però avevo di molto migliorato. Mi sembra che siamo stati una decina di giorni a Bolzano, ora io i giorni non posso saperli con esattezza. Mi avevano dato un numero che non mi ricordo, mi pare che fosse 9.712, però questo non aveva nessun valore poi per quando sono andato più avanti in Germania. E’ successo che un giorno ci prendono tutti e ci portano alla stazione, ci imbarcano su dei vagoni merci, ci chiudono dentro. Ed eravamo anche lì un centinaio circa, senza mangiare senza bere, non avevamo né da mangiare né da bere. Questo era per noi spezzini. Però qui è successa una cosa che poi mi è molto dispiaciuta anche tra noi italiani, questo volevo dire perché questo lo dirò appena arriveremo.
Ebbene noi qui, io sono partito da Bolzano e c’era con me Nicolai, quello che era con me impresario edile. C’era Nicolai, Ughetto il tabaccaio, Nicolai, Ughetto, che ha gli apparati, quello che vendeva …, questo Chiari qui era un po’ più, se posso dire coraggioso, oppure interessato a scappare. Le donne ci avevano dato una zampa di porco, e allora sì perché c’erano anche i mariti che partivano con noi, le donne invece rimanevano lì, per scappare. Difatti tra il tratto tra Bolzano e Innsbruck sono fuggiti in cinque, Chiari, Nicolai, Ughetto, uno di piazza Brin, un altro che non so chi è, e toccava a me buttarmi giù, però non avevo il coraggio di farlo, sono sincero, dico la verità, perché non mi sentivo neppure di poter camminare in mezzo alla neve. Senonché la SS si è accorta dell’ombra, ha fatto fermare il treno, e con le lampade è venuta a vedere di dove sono scappati, e ci avevano scassato il nostro vagone alla porta quindi lo han visto, hanno aperto, sono venuti su, han cominciato a tirare calci col fucile, ci mandavano indietro, e vicino a me a uno ci hanno staccato addirittura l’orecchio con un calcio, però non era uno spezzino, era non so se era di Bergamo o di Milano, poveretto anche lui, non è che …
Però lì non eravamo tutti spezzini, da Bolzano siamo partiti milanesi, torinesi, bergamaschi, insomma eravamo di tutte le città. Solo che qualcuno di loro, molti avevano le valigie piene, sia di indumenti che di mangiare. Mentre noi ci siamo salvati un pochettino perché non tutti facevamo i bisogni dentro al vagone, perché poi han messo a bordo i due della Wehrmacht di guardia e purtroppo quando portavano da mangiare a loro, per la paura che ci ribellassimo e tutto, questi poveretti erano due anzianotti della Wehrmacht, ci lasciava qualche briciola di pane. Insomma però non abbiamo patito la sete perché con la neve e tutto ci potevamo dissetare. Successe che loro li ripresero, mentre noi si proseguì per Mauthausen.
Arrivammo a Mauthausen che erano le tre del mattino, erano le tre del mattino e c’era una temperatura più di 13 mi sembra gradi sotto zero, c’erano i candelotti alle baracche, che dal tetto arrivano per terra. Era tutta una lastra di ghiaccio, c’era tutta neve, e noi abbiamo fatto dalla stazione a Mauthausen, che è in salita, tutto a piedi. Siamo arrivati là alle tre del mattino, il campo era tutto illuminato, e quando siamo arrivati, siamo entrati dalla porta principale, pertanto noi credevamo di andare in un campo di lavoro perché effettivamente non si prestava ad essere così drastica la faccenda, avevamo, sembrava una pagoda cinese, invece c’era le garitte con le mitragliatrici, che poi di giorno si è potuto vedere, ma di notte non potevi distinguere.
Cominciamo ad intravederlo, ci fanno depositare le valigie, ce le fanno aprire, è lì che mi sono sentito mortificato, siamo stati mi sembra 4 giorni in viaggio, tutti con la fame, e loro avevano ogni ben di Dio, io ero in camicia e avevano vestiario, nessuno si è degnato di dare una maglia, un maglione, qualche cosa per coprirmi. Non è servito a nessuno perché poi quando siamo arrivati là hanno lasciato lì valigie e vestiario e tutto e lo hanno preso i tedeschi quindi… Però mentre eravamo, ci hanno messi tutti in fila, appena entrati in una porta, sulla parte destra, che ci sono le scale per andare giù agli spogliatoi e alle docce.
Lì ad attenderci c’erano le SS con i cani e più c’era una donna della SS, che aveva dei cani alani. Quegli alani bianchi ma con le macchie nere, ma erano più alti però. Difatti l’interprete ha cominciato a dire: qui siete in un campo di lavoro, noi non vogliamo che voi facciate atto di sabotaggio, noi non vogliamo che voi facciate atti di ribellione, noi vogliamo che … Insomma ci hanno fatto una predica. Perché se un domani qualcuno di voi si permettesse … allora questa donna ha fatto così al cane, e il cane era più alto con le gambe della persona che ci è saltata addosso, però l’ha preso per il collo ma non l’ha ammazzato, cioè non gli ha dato l’ordine di ammazzarlo, poi gli ha detto di lasciarlo, vi succede questo, cioè vi mandiamo i cani dietro che vi riprendono e poi… non ci ha detto del crematorio, non ci diceva mica, io non lo sapevo che c’era il crematorio.

D: Mario, scusa, quando sei arrivato tu a Mauthausen in che mese era?

R: I primi di dicembre penso (1944). Era freddo, era freddo. Soltanto nella prima decade di dicembre, perché ricordo che a natale ero lassù e la prima volta che lì che sentivo parlare proprio di comunisti e tutto, è venuto la vigilia di natale Paietta, Paietta è venuto al blocco 28, dov’ero io, la vigilia di natale. E lì c’erano anche dei dirigenti di Milano mi sembra, c’era con me, io adesso i nomi, eppure fa parte del Nazionale (Associazione Nazionale Ex Deportati), è vecchio, ancora adesso.
Insomma arriviamo a Mauthausen, e poi ci spogliamo, ci fanno spogliare, e per andare alle docce bisognava scendere una decina di scalini. Quindi nudi come eravamo c’era chi ti dava delle nerbate. Siamo andati dentro, hanno cominciato a rasare i capelli, sotto i bracci, sotto le nudità, e poi ci hanno mandato a fare la doccia. Se ci penso l’acqua era tutto ad un tratto tutta bollente, ma dovevi scappare di sotto, proprio non ti potevi nemmeno scansare perché prendevi quella di dietro, e poi tutto ad un tratto acqua fredda. Insomma non vedevi l’ora di uscire. E mentre uscivi, bagno com’eri, c’era uno col pennello che ti dava delle pennellate di roba rossa sotto i bracci, qui, sotto, sarà stato un disinfettante.
Ci portano fuori ma lì non eravamo vestiti per niente ancora, i vestiti noi li abbiamo presi al blocco di quarantena, ci han dato una camicia e un paio di mutande. Ebbene siamo usciti e siamo stati lì un’ora, un’ora e mezza, anche due ore fermi a quel gelo. Per scaldarci cercavamo di stare vicini il più possibile. Quando hanno dato il via, tre o quattro persone davanti a me hanno dato una spinta a uno che non si muoveva, questo è stato il primo spezzino che ho visto cadere a Mauthausen, a me sembrava Rossi il farmacista, se fosse stato un giovane mi sarei ricordato anche chi è, ma questo era proprio un anziano. Ebbene quando è caduto per terra ha dato un colpo come una tavoletta, fai conto che fosse caduta una tavoletta, era gelato in piedi poveretto, il primo che è morto è stato quello, che ho visto morire.
Ci portano al campo di quarantena.
Il campo di quarantena è fuori dal perimetro di armatura del campo centrale, è stato aggiunto, difatti appena si entra dalla porta principale si va diritti, e poi sulla sinistra avevano aperto che si scendeva giù in discesa, ma era una discesa di 6 o 7 o 10 metri però era molto in pendenza. E lì si trovavano i blocchi 26, 27, 28, 29 e 30. Io ero al blocco 28.
Così ci danno la camicia e un paio di mutande, zoccoli niente perché gli zoccoli servivano solo quando dovevi uscire, erano tutti sulla porta. E combinazione noi siamo stati, credo di aver sverginato questa baracca qua perché era nuova, c’erano ancora i giacigli per terra, non c’erano gli scaffali, i castelli, non c’erano i castelli. E allora questi sacchi li stendevamo per terra, e poi ci mettevamo testa e piedi, testa e piedi, testa e piedi, e lasciavamo il corridoio per il controllo.
Adesso succede che nel blocco, anche lì sarà stata una forma di non so come chiamarla, perché noi dalla parte dove si entrava si dormiva, e vicino al pane, perché c’era al centro della baracca una catasta di pane, coperto dalle coperte, le coperte le mettevamo quando l’avevamo adoperate piegate in un angolo. E quindi alla mattina c’erano gli Stubedienst che dovevano fare la pulizia. Gli Stubedienst erano persone come noi che a turno dovevano pulire. Allora la prima settimana che sono stato a Mauthausen, fino a natale o giù di lì, non si stava tanto scomodi, perché ognuno si poteva stendere comodamente per terra, e pidocchi non ce n’erano, se non ce li ha portati qualcheduno dalle carceri però non c’erano, poi sono venuti. Succedeva che i capiblocchi invece erano divisi da noi, avevano un settore della baracca per conto loro.
C’era il capoblocco, il vice capoblocco, quello che gli faceva i capelli, perché noi un giorno sì e un giorno no, una settimana sì e una settimana no, a seconda come gli girava, gli passavano tutti i giorni col rasoio una striscia al centro della testa.
Allora questo pane qui, cominciava a sentirsi anche la fame, era un pane rettangolare tedesco di patate, che faceva la muffa. Quando noi eravamo in questa baracca, le scene che si vedevano incominciavano a farci … Io ho assistito padre e figlio Boccaletti di Valeriano, il padre non mangiava la zuppa di acqua e rape che ci davano per darla al figlio, il figlio non la mangiava, sono morti tutti e due a Gusen, tanto per dire. Con me c’era anche il dottor Negri, nella baracca lì. E quando, dunque io ero giovane e insomma tiravo a campare, tiravo a vivere, mentre gli altri, chi aveva famiglia, chi aveva il figlio, anziani, si rendevano forse più conto di quello che poteva succedere, cosa invece che a me non, cioè i pensieri che avevano loro a me non mi potevano toccare. Così giunse la settimana che anch’io dovetti fare lo Stubedienst. E’ stato nel periodo sotto natale. Uscii un giorno con un russo, hanno cominciato a venire anche già, si vede che gli americani e i russi avanzavano, al Lager è cominciato a venire quelli che via via ritornavano al campo principale e che evacuavano perché c’erano le avanzate degli americani e dei russi. Così cominciammo lì i primi pidocchi. Facevo lo Stubedienst con questo russo; un giorno siamo andati a prendere, andavamo tutti i giorni ma quel giorno lì si vede che quel pendio di scarpata che c’era era più scivolosa del solito, con gli zoccoli olandesi che avevamo ai piedi, io tenevo la marmitta con la destra, lui con la sinistra, e in più aveva una scatola di legno con della ricotta scremata, era per i kapo, era l’ora del mezzogiorno. C’era quindi zuppa. Senonché scivolò e mi trascinò. Sabotaggio!
La SS che ci accompagnava, perché quando si usciva dalla quarantena per andare fuori nel campo veniva quello della SS ad accompagnarci, non erano più i kapò, eravamo seguiti da loro. Ebbene devo dire la verità che con me non è stato molto severo, anzi di fronte al kapò gli ha detto come sono andate effettivamente le cose, che io sono caduto perché il russo mi ha trascinato. Ma la punizione la dovevo subire anch’io. Così è successo che al russo hanno dato 40 nerbate e poi nudo dal giorno fino alla mattina dopo doveva stare fuori della baracca, così pure io. Io con qualche nerbata me la sono cavata, il perché? Adesso qui vi posso dire: il kapò aveva la “moglie”, ma non era una donna, era una del triangolo rosa, e questo si chiamava Hans; ebbene in parte devo proprio la vita a lui. Sì, perché quando mi hanno dato le prime frustate si è avventato contro il marito diciamo, “nein nein nein!”, perché io ero uno dei più giovani del blocco, e si vede che mi aveva preso in simpatia, perché era proprio, a vederlo sembrava proprio il viso di una donna ecco. Ebbene alla sera alle nove, non so che ora era, faceva un freddo, per combattere il freddo trattenevo il respiro, mi gonfiavo più che potevo, muovevo i piedi perché ero nudo coi piedi scalzi, e alle nove ormai sentivo proprio che non ce la facevo più. Combinazione vuole che aprano la porta, e quest’uomo qui, con due spezzini è venuto dentro, mi ha preso e mi ha portato dentro, il dottor Neri mi ha subito preso dalla neve, mi ha massaggiato, mi ha fatto rimuovere, mi han coperto con le coperte, e insomma. Però la schiena ce l’avevo già rovinata di prima, lì si erano aperte anche le altre, allora mi faceva male, non potevo stare con la schiena sdraiata. Ebbene mi spargeva, non so se era sapone o margarina, non c’erano mica medicinali, e io non per non andare al Revier, perché le voci cominciavano già, difatti il dottor Neri m’ha tenuto. Quando veniva l’appello mi accompagnava là fuori, mi teneva, e per fortuna erano giorni che, si vede che la SS era proprio, era destino che io dovessi sopravvivere, perché di solito era un’ora, un’ora e mezzo che dovevi star fermo all’aperto, invece quelle mattine lì chissà come, forse era giunto all’orecchio che avanzavano i russi, più di mezz’ora non facevano, perché dico bene lui cominciava dalla baracca 26, e quindi fino a che non aveva finito tutto dovevi stare sull’attenti fuori, e non ti potevi muovere, perché se ti muovevi erano bacchettate.
Insomma mi portarono dentro, mi misero le coperte, mi allontanarono, sapevano che io ero da quella parte lì, però cominciava a venire molta gente. E qui le razioni cominciavano ad essere molto più scadenti, perché mentre inizialmente quando siamo andati noi, io non so che ordine avessero loro perché il pane c’era, non è che non c’era, c’era una catasta di pane proprio in mezzo al blocco. Cioè alla parete del blocco, dalla baracca dove non si passava, dove non c’era la porta di uscita. Ebbene prima, quando siamo andati su, i primi giorni a noi davano un quarto di pane di questo pane rettangolare, poi via via che la gente veniva era sempre la stessa razione, e loro avevano una taglierina, avevano una tavola con lo scontro e una taglierina che facevano così per tagliare, e tagliavano le fette del pane. Quindi a seconda se c’erano 100 persone loro calcolavano che il solito pane che mettevano per i primi giorni doveva bastare per quelli. C’erano 100 persone? Dovevano venire 100 pezzi, ce n’erano 200? dovevano venire 200 pezzi, adesso esagero però grossomodo la mentalità, e i pani che dovevano adoperare erano sempre gli stessi; se erano venti venti erano sempre quelli, non è che ti dessero sempre la stessa razione, mentre la zuppa effettivamente era un litro di acqua.
E qui succedeva che inizialmente avvenivano un po’, anche tra di noi, delle ripicche, insomma poi ci siamo organizzati, anche lì abbiamo capito come si doveva fare, perché nessuno, cioè il primo giorno è successo così, come è arrivata la zuppa tutti con la fame che avevamo ci siamo buttati per prenderla, caspita! ma quando tiravi su era acqua. Allora il giorno dopo nessuno più voleva essere il primo ad andar lì perché se no ti succedeva, e quindi anche tra di noi avveniva una conflittualità. Allora c’è stato proprio il dottor Neri che aveva detto: State a sentire, noi italiani dobbiamo comportarci in maniera, facciamo così, quanti siamo oggi 80? va bene, i primi 40 vanno per primi, i secondi, gli altri 40, vanno poi. Domani vanno loro per primo e voi dopo, però non va più sempre il primo, quello che è l’ultimo dei 40 passa per primo. E così ci si metteva in fila, non andavamo più là perché ormai sapevamo a che gruppo appartenevo. Insomma ci siamo salvati. Ci siamo salvati fino a che erano ritornati i russi e i polacchi e quegli altri, perché allora lì è ritornato il caos, però noi avevamo trovato la maniera di risolvere questo problema. Per prendere poi cosa? Qualche rapa, qualche pezzo di rapa, qualche pezzo di patata, mentre alla sera ci davano appunto, perché il pane al giorno ti davano la sera, ti davano questa fetta di pane con un po’ di margarina, con un po’ di würstel, con quelle fette di quel salame che hanno loro, insomma diciamo la razione era misera, misera, misera, perché avevi sempre fame, ma se uno stava fermo magari poteva campare forse un mese in più.
Il numero: io avevo il numero a Mauthausen, il 113.986. E qui, anche qui un problema. Come facevo io a dire in tedesco “hundertdreizehntausend…” perché loro l’ultima cifra l’anticipano alla penultima. Per me è stato un supplizio, per fortuna che il dottor Neri, a forza di dirmelo è riuscito a farmelo dire, ma io non lo capivo quando, cioè io non riuscivo, perché io lo dicevo così volgarmente, invece loro lo dicono con un accento. Anche se era il mio numero io non riuscivo. Allora lì erano botte. Però invece se prima ne prendevo spesso lì ne prendevo di meno.
Successe che venne un giorno, abbiamo passato, ripeto, tutto il natale, e a natale, è giusto, credevamo che ci dessero il pranzo, almeno qualche cosa in più, invece è stata più fame delle altre volte, ci han dato tre patate e basta, e manco la sera ci han dato la razione. Sono passate tutte le feste di natale, gli spezzini, il dottor Neri dopo natale è andato al Revier, insomma del mio blocco io ero rimasto ancora lì. Poi ero in mezzo a russi, polacchi, cecoslovacchi. C’erano anche degli altri italiani, milanesi, torinesi, però degli spezzini non c’era più nessuno, erano partiti tutti.
Alle tre del pomeriggio, dopo gennaio, il 4-5 gennaio (1945), il primo dell’anno era passato.

D: Scusa Mario assieme al numero di immatricolazione ti hanno dato anche un triangolo?

R: Sì il triangolo rosso, avevo il triangolo rosso, avevo il triangolo rosso con scritto “It”, italiano voleva dire, perché gli jugoslavi avevano pure il triangolo rosso, però avevano solo la “J”, fatta differente dalla nostra. E avevo al polso il numero con la targhetta e un fil di ferro, non avevo io la marcatura come ad Auschwitz, il numero tatuato.
Quindi alle tre del pomeriggio, sarà stato il 4 o 5 di gennaio, entra dentro un graduato della SS con l’interprete, il Lagerführer – c’è il capoblocco però sopra di lui c’è quello che comanda tutto il campo – almeno credo che fosse stato lui.
Chiamano il numero in tedesco, ah no prima dicono “Transport Börze”, una cosa così, perché ogni volta che venivano per un trasporto dicevano “Transport Melk“, “Transport Gusen”, lo dichiaravano. E lì è un nome un po’, io non ci ho fatto … Un po’ preso anche alla sprovvista, più che altro quando entravano loro cominciavo ad avere la fifa, perché dico qui succede qualcosa, perché tutte le volte che venivano spariva la gente, andavano via, però solo quella volta lì è venuto, gli altri poi venivano, invece gli ordini dal kapo. Invece quella volta lì c’era questo graduato della SS. Insomma anche gli altri sentivo che bisbigliavano un po’. Quando poi chiamano Ghinardi Mario, io non so, invece in tedesco “g” pronuncia “ghi”, capito. Poi allora l’interprete “Gianardi Mario, 113.996” “Sono presente” e “Perché non hai risposto?” “Scusi, io, vede, non ho sentito, ho toccato questo orecchio qua, mi fa un po’ male, non ho capito bene, mi deve scusare”. Cominciai a tremare come una foglia, tremavo, insomma ho trovato la scusa più appropriata che mi è venuta al momento. Allora io avevo messo che facevo il saldatore elettrico autogeno, però saldatore anche di leghe da farsi al banco. E lui allora mi ha chiesto: cosa vuol dire saldatore di leghe da farsi al banco? Io ero in un’officina di artigiani e pertanto saldavo i carter delle automobili di ghisa, i cosi di alluminio, ottone, bronzo e alluminio, quando ho detto “alluminio” mi hanno detto “Ist gut” (è buono). Allora sono andato via con loro, mi hanno fatto scendere le scale, sono uscito dalla porta, dal Lager, e sono andato sotto dove ci sono i vestiari. Nella piazza dell’appello c’erano tutti i magazzini; mi danno la giacca, un paio di pantaloni militari con le strisce, io non avevo la giacca con le strisce, avevo una giacca, non ce ne avevano più di giacchette a strisce, io avevo roba militare, però avevo il triangolo rosso sia nei pantaloni che dietro la schiena. Mi danno il cappello, mi danno gli scarponi, gli zoccoli e una gamella, e poi mentre sono lì vengono altri quattro. Mi sembra che fossero due cecoslovacchi, un francese e un belga, insomma italiani non ce n’erano, ero solo io, e io ero il più giovane, loro erano già persone più mature.
Ci portano giù a Mauthausen (in stazione), ci aspetta un vagone, un treno, è passata una tradotta con un treno con dei cavalli dentro, le SS ci mette dentro questi vagoni con la Wehrmacht, i soldati che c’erano, lui è salito invece al caldo, e lì abbiamo cominciato a capire. Si faceva un percorso: di giorno quasi stavamo fermi e di notte invece si camminava. Dunque io sono partito come questa sera, sono arrivato all’indomani sera con questo treno così, mi sono venuti a prendere alla stazione con un camion, e ricordo che la fabbrica era, per entrare nella fabbrica dovevo fare un ponte di ferro che aveva le arcate curve così. C’era la neve, non sapevo il tedesco, non potevo leggere, quindi era anche sera praticamente, non sapevo dove potevo essere, se era un lago, se era un fiume, se era … E lì al mattino subito mi hanno portato dentro la fabbrica. Guardate bene che era una fabbrica che i blocchi degli operai come noi che lavoravano erano nel recinto stesso della fabbrica, non era come quando sono andato a Vienna alla fabbrica di un posto che io mi spostavo, lì era guardato da militari. Pertanto, ho pensato, dato che anche il cibo lì non era tanto male, che fosse una fabbrica bellica, di importanza non indifferente. Allora mi hanno subito a saldare delle lastre di alluminio, che erano un metro di lunghezza per due metri di larghezza. Cosa facessero non lo so perché dove c’è la saldatura ci sono i teloni dalle parti per non danneggiare, e poi io non potevo vedere quello che c’era dove andava, ma arrivava sul carrello che io dovevo saldare, stare attento alla saldatura e basta. E lì così il terzo giorno, senza nessun preavviso, è venuto un bombardamento. La fabbrica l’hanno presa, e io col Meister ci siamo messi sotto questa lastra qui. E’ caduta la fabbrica, senonché le esplosioni della bomba, io ho battuto la testa, mi usciva il sangue dalle orecchie, avevo le api, insomma non capivo più niente. La bomba è esplosa vicino. Mi hanno portato, hanno fatto un tendaggio, cioè un ospedale da campo, e lì mi hanno portato insieme a questo Meister e c’erano anche degli altri. Adesso lì io sono un po’ indeciso di quanti giorni ci possa essere stato perché non avevo la cognizione del tempo, e anche quando sono stato dimesso non ero in grado ancora di connettere come si doveva. Comunque a me sembra di esserci stato uno o due giorni, invece devo esserci stato più di una settimana, senz’altro, perché non c’erano più gli incendi, c’era molta tranquillità. Mi liberano da questo ospedale, mi consegnano ad una camionetta delle SS.

D: Ti ricordi più o meno dov’era questa fabbrica? Era lungo il Danubio?

R: Se lo sapessi. Con sincerità non lo so, però dovevo essere oltre Vienna, perché se io al mio ritorno mi sono fermato a Vienna, però c’era anche questi, mi han detto che delle volte da lì ci portavano a Mauthausen, e quindi è difficile se io ero in Austria, forse ero, insomma questo è un problema che mi sono sempre chiesto, e pensavo che la Croce Rossa Internazionale mi desse delle spiegazioni, invece non c’è, non risulta, come non risulta che sono passato da Bolzano, come non risultano altre cose.

D: Scusa ancora Mario, c’erano dei civili a lavorare?

R: Sì sì c’erano dei civili, in fabbrica lì c’erano dei civili.

D: Germanici o austriaci?

R: Per me tedeschi o austriaci tutti tedeschi, difatti il mio era un tedesco, cioè parlava tedesco ed era tedesco il Meister che mi insegnava, no no, non potevano essere slavi o russi, quello sì, perché quella era un’altra lingua che la capivo anche se non sapevo cosa dicevano.

D: Mario, non ti ricordi di aver visto delle scritte magari all’esterno di questa fabbrica, oppure su dei disegni?

R: No, perché prima di tutto, te lo ripeto, io uscivo dalla fabbrica e andavo in baracca; la baracca era recintata dentro la fabbrica, quindi non c’era un’insegna per modo di dire come a Vienna che c’era l’insegna della fabbrica dove lavoravi che io non ricordavo però tramite la Croce Rossa poi ho visto come si chiamava, io credevo fosse la Schefelde, invece è tutto un altro nome.
Io mi stavo raccapezzando, però quello è un fenomeno che dico perché mi è successo, ma non ci sono al momento documentazioni che me lo possano comprovare.
Ebbene lì poi avanzavano o i russi o gli americani, piano piano ci hanno retrocesso, i campi venivano evacuati, perché queste SS che mi hanno preso poi non mi han portato via, mi hanno consegnato ai primi militari, e ci han detto, ci han spiegato, il primo campo che trovavano di me, dei triangoli rossi, di consegnarlo, perché la SS che mi aveva preso non era del campo, transitava, era sulle camionette, capito? Però si vede che quelli dell’ospedale avevano l’ordine di mettermi, cioè di consegnarmi alle SS non di consegnarmi alla Wehrmacht, dovevano consegnarmi alla SS e poi la SS si responsabilizzava verso di me e dava mandato a piedi dove mi dovevano portare. Difatti nel mio pellegrinaggio stavo un giorno, due, tre, quattro, poi avanzavano, non so se erano russi o americani, e anche lì dovevamo evacuare.
Insomma sono arrivato registrato dalla Croce Rossa Internazionale il 29 aprile a Vienna. Adesso io tutto questo mese, dal 5, praticamente in 20 giorni ho girato ma non so dove mi trovavo. Mentre a Vienna, essendoci stato due mesi, ho potuto rendermi conto un po’ di più, anche la fabbrica cos’era e cosa non era.
Quando sono arrivato a Vienna non c’era più da andare a saldare l’alluminio, mi hanno messo a fare il saldatore elettrico in una fabbrica di autocingolati. E saldavo le ruote dei cingoli. Ero insieme a un russo, facevamo 12 ore di giorno e 12 ore di notte. Nel campo dove io mi trovavo poi per andare a dormire non c’era neppure un italiano: erano tutti jugoslavi, polacchi, russi, e io devo dire la verità che da loro, sia dagli jugoslavi che dai polacchi, non sono stato trattato per niente bene. Io stavo meglio in fabbrica che non nella baracca. Sapete perché? Perché quando ero con loro non mi han mai chiamato italiano, mi han sempre chiamato Badoglio, Mussolini, Spaghetti, Maccheroni, Mandolino, Cìngali, mai una volta che avessero detto, e quando c’era da prendere la zuppa dovevo essere sempre il primo. Quindi mi hanno trattato proprio male, non so per quale ragione, ero uno di loro, eppure questo è stato. Io, ripeto, stavo meglio in fabbrica, e anche se si mangiava poche volte, perché tutti i giorni su Vienna un giorno sì e un giorno no avvenivano dei bombardamenti, alle 11 immancabilmente saltavamo il pasto per quella ragione, perché c’erano i bombardamenti.
Ebbene sono stato in questo Lager dal 29 di gennaio al 2 di aprile, che era il giorno dell’Angelo, il secondo giorno di pasqua. Questo lo sapevo perché il Vorarbeiter, che era un austriaco, e tra austriaci e italiani c’è un po’ più di affinità che con i tedeschi, poi questa era una persona anziana, e mi lasciava sempre un po’ di roba dal tegamino, insomma oltre che quella poca razione che mi davano magari una patata, un pochettino di würstel lo lasciava nel tegamino, con la scusa di andarlo a lavare lo lasciava.
E’ stato lui che mi diceva che veniva Ostern, Ostern in tedesco voleva dire pasqua, poi l’ho saputo a suo tempo. E difatti io il 2 di aprile del 1945 sono partito da Vienna per tornare a Mauthausen, a piedi. Dunque ci hanno dato, per partire, una razione, eravamo quattro per fila, io ero capofila e mi trovavo sulla sinistra, allora il peso di pane e di questo pacco di margarina che ci avevano dato lo dovevo tenere io, ma non avevo zaino, non avevo niente, lo dovevo portare sotto il braccio in mano. Mi costava fatica. Poi la paura che mi aggredissero! Quando partii di lì subito il primo giorno, cosa facemmo? Il russo che era vicino a me aveva fatto in fabbrica un cucchiaio schiacciato con una lamiera, e da una parte aveva schiacciato bene la lama per fare una lama da coltello, cioè aveva la possibilità di tagliare il pane o qualche cosa e in più aveva la possibilità di mangiare col cucchiaio. Ebbene me lo dette e io divisi subito il pane e la margarina, così ognuno ne poteva fare quello che voleva. Il primo giorno anch’io lo mangiai convinto che al giorno dopo ci fosse un’altra razione e invece non fu proprio così.
Cominciammo, cammina cammina, siamo partiti in 1300. Appena fuori da Vienna si sono sentiti i primi colpi tum tum.

D: Mario, dicevi della partenza da Vienna.

R: Partiamo da Vienna e sentiamo i primi colpi. Adesso succede che appena usciti da Vienna non prendiamo più la strada principale ma si prese per le campagne, in maniera da non essere di disturbo forse alle truppe che passavano o che venivano che andavano al fronte.
Allora questi colpi di pistola si facevano sempre più frequenti. Domani ci daranno da mangiare, oggi non ce ne hanno dato, pensavo io, domani ci daranno qualche cosa. Invece cammina cammina ma da mangiare … Per fortuna da bere ne potevamo avere perché c’erano canali, c’era la neve, insomma si poteva, c’erano dei posti che trovavamo la neve e ci potevamo dissetare. Senonché i morsi della fame dopo 4-5 giorni si cominciavano a far sentire, senza mangiare perché eravamo completamente a digiuno tutti, allora cominciavamo a mangiare quello che ci capitava. Sapete quelle radici, quella cicoria selvatica che fanno i fiori gialli, noi le chiamiamo “piscialette” in Italia, ebbene vi posso assicurare che erano più dolci dello zucchero che mettevano la mattina nel caffè. Poi quando ci fermavamo in questi ruscelli per dissetarci c’era la terra argillosa, gialla, è dolce sì, è buona la terra gialla, e ci sono i salici. I salici: vedevo che i russi staccavano la corteccia, la masticavano, poi la rigettavano, però il succo lo inghiottivano, io ho provato, era amara, però mi sforzavo anch’io, ho detto: Se la mangiano loro la devo mangiare anch’io. Insomma poi si piantava uno stecco in terra e venivano fuori i lombrichi e mangiavamo i lombrichi. Insomma noi brucavamo l’erba come le capre, come le pecore, dove si passava noi non c’era niente che si mangiava. All’ultimo mi ricordo che ho trovato un osso spugnoso in questo campo, ah com’era buono, l’ho tenuto per un giorno intero poco poco per volta per mangiarlo.
Avevamo trovato una volta in una cascina dove mangiavano i maiali, il truogolo: ci siamo buttati tutti a capofitto, mangiavamo la roba dei porci, se ce n’era leccavamo il truogolo come fosse una pasta.
Ebbene strada facendo via via che arrivavamo a Mauthausen e morivano i nostri, però anche gli altri campi dei nostri evacuavano e si aggregavano a noi. Un bel giorno finalmente sento “Ciao italiani”. Oh signore! io ho sentito per la prima volta dopo tre mesi parlare italiano. Era un certo Panardo di Torino. Anche lui era in solitudine, si vede che veniva da un campo disgraziato come il mio per gli italiani, ci abbracciammo tutti, a me sembrava già di essere a casa, poter parlare in italiano dopo tanti mesi. Insomma ci si confidava, ci si parlava. Abbiamo dormito in un granaio la sera, cioè in un fienile e ricordo che avevamo preso dei granelli di non so di che erba, di segala, si è riempito la tasca e ce li passavamo un po’ per uno. Una notte scapparono 40 russi, 40 prigionieri. Ordine immediato: fucilazione di 10, siamo stati cinque giorni insieme. 10 per ogni nazionalità, noi eravamo in due italiani, lui ritardò a venire all’appello perché si era nel fieno, la stanchezza, si vede chissà poveretto quanto era più stanco di me, era un ragazzo biondo con i capelli tagliati come noi, era dei nostri, presero lui. Sapete dopo averlo fucilato non moriva mai? Quando gli diedero il colpo di grazia persino la SS è inorridita, credo, quando gli dettero il colpo di grazia le sue cervella, eravamo tutti insieme … col triangolo rosso qui, ebbene sono venute ai miei piedi, davanti a me, adesso non dico sui piedi …
Insomma l’hanno fucilato insieme agli altri e non moriva mai, quando gli han dato il colpo di grazia le sue cervella volevano quasi stare ai miei piedi, io ero italiano e quindi lui era un italiano, perfino la SS mi sembrava che fosse rimasta in quel momento.
E così mi ritrovai solo, disperato perché il cammino da Vienna a Mauthausen è stato molto lungo, io non so i chilometri che ci potevano essere, soltanto che quando arrivavamo nei paesi o nelle città, noi non attraversavamo il paese, ma ad esempio se io per andare a La Spezia dovessi venire da Migliarina andare a Porto Venere avrei fatto la via più breve, mentre loro invece mi facevano passare in periferia dai monti addirittura, avrei fatto San Venerio, avrei fatto Buonviaggio, avrei fatto insomma poi Parodi e via. Quindi se c’erano per modo di dire cento chilometri ne abbiamo fatti il doppio. E quindi sono arrivato alla bell’e meglio a Mauthausen.
Arrivo a Mauthausen che ero sfinito: non c’è più posto. Ci portano indietro e ci fanno andare a Gusen, Gusen 1. Io quei 4-5 chilometri lì li ho fatti un po’ in piedi e un po’ carponi, porto ancora i segni nelle gambe, le abrasioni …
La debolezza non ti coglie le gambe, prima di prende alla testa, tu cammini con gli occhi chiusi, sembri un sonnambulo, non so, una foglia e un ragno, una pietra e un serpente, poi chiudi ancora gli occhi: vedi sfilarti i piatti di pastasciutta, il desiderio di mangiare. E poi ti prende le gambe, cioè prima mi ha colpito la testa, sarà perché ho avuto anche l’esplosione io non lo so, ma a me prima vedevo tutte queste cose prima di perdere le forze. Allora dato che è intervenuta la Croce Rossa Internazionale da Mauthausen a Gusen sulla strada erano sospese le esecuzioni, non sparavano più, non davano più il colpo di grazia, ma li caricavano sui carretti e li portavano a Gusen.
Allora guardi un po’, io sfinito com’ero non ci sono salito sul carretto, cioè sentivo che la liberazione doveva essere ormai vicina perché le voci bene o male… Resistevo, resistevo resistevo, fino a che sono arrivato a Gusen. Ebbene a Gusen era sera, pioveva quel giorno, ebbene a me sembrava di andare sotto l’acqua di morire, ma pensate un po’ ero fuori all’acqua e al freddo eppure mi sembrava di morire. Io sono stato uno degli ultimi a entrare nella baracca della doccia a Gusen, però di acqua io non ne ho vista, e vi posso dire una cosa, che nella baracca c’erano delle ditate macchiate di sangue nelle pareti, dopo circa un’ora che eravamo dentro ci hanno aperto, ci hanno abbracciati ma io non mi rendevo conto di che cosa era successo, però io vi assicuro che di docce io non ne ho fatte, e ancora nudo così sono andato ad un blocco di cemento di mattoni rossi, ce ne erano due nel Lager di Mauthausen, uno era della Messerschmitt e l’altro della Steyer, io sono andato nella Messerschmitt, nella Steyer c’erano Natali e Pistelli.

D: Scusa tu adesso stavi dicendo Mauthausen ma intendevi Gusen 1?

R: Sì Gusen 1 e Gusen 2, Gusen 1. Da Mauthausen ci han portato a Gusen perché non c’era più posto.

D: Sì sì ma dico quando tu sei entrato in baracca?

R: A Gusen, sì, la baracca delle docce.

D: Ecco, e dopo sei uscito.

R: Io l’acqua non l’ho fatta, non ho fatto la doccia.

D: E sei andato a finire in questo blocco di muratura ma a Gusen però.

R: A Gusen a Gusen, erano due, la Messerschmitt e la Steyer, io sono andato alla Messerschmitt. Questo l’ho saputo poi quando ho cominciato a riprendere conoscenza e sono stato nel campo. E lì ho conosciuto Pistelli e Natali. Io sono arrivato il 30 di aprile a Gusen, il 5 maggio siamo stati liberati, però io ero così sfinito che una volta che sono entrato nel blocco mi sono adagiato sui, c’erano questi castelli qui così, il primo al pian terreno vicino alla stufa io mi ci sono adagiato e non mi sono più mosso. E’ successo che due-tre giorni prima le SS il 2 di maggio credo, la SS ha evacuato il campo, se ne è andata, ha preso la Wehrmacht a Gusen, cioè non era più la SS. E allora hanno cominciato qualcheduno anche a scappare.
Difatti i russi che potevano camminare, tutti, per loro quasi la guerra era finita, ma la liberazione proprio del campo è avvenuta alle cinque del (5 maggio) 1945, perché a mezzogiorno ricordo che era passato un aeroplano a buttare i manifestini “Siete liberi”, però dalla parte del fiume del Danubio, cioè io ero dalla parte di Mauthausen, che non è dalla parte di Linz, dalla parte di Linz sono arrivati i russi e dalla parte di Mauthausen sono arrivati gli americani, c’era un ponte.
Quindi è venuta la liberazione, è arrivata dentro una camionetta. Una camionetta americana con, mi sembra, un militare e una militaressa o due militari erano, io non lo so perché non l’ho visti, però poi per sentito dire. Han lasciato però lì la camionetta. Questa camionetta aveva i menù del mangiare, però c’era anche il sapone in polvere, che a quei tempi io non avevo mai visto, l’Omo quello che usano adesso. C’erano anche quei detersivi lì.
Allora noi, anche io un po’ in piedi, saputo che c’era da mangiare ci siamo precipitati verso questa camionetta, come potevamo. Uno sopra, fino a che avevamo da prendere qualchecosa e ce lo mettevamo in bocca. Il giorno dopo la camionetta era coperta di cadaveri. Infatti l’hanno sepolti insieme a quelli che c’erano nel Lager, fuori dal campo. Quelli io li ho potuti vedere. Appena arrivati poi gli americani io avevo preso la dissenteria, gli ultimi giorni.
Tornando un passo indietro a Gusen, io avevo trovato Natali, Pistelli un certo Elefante e Ruggia, un ragazzo di Migliarina figlio del macellaio della Pieve, lui è morto dentro i gabinetti negli ultimi giorni, il 1° maggio o il 2 di maggio del 1945, è morto dentro i gabinetti, l’unica persona che ho visto del mio trasporto morire nel campo a Gusen.
Ebbene gli americani hanno fatto dove c’era la SS fuori dal Lager, diciamo un ospedale da campo, e così è successo che a me.
Io non mi reggevo in piedi, mi hanno preso mi hanno fatto delle flebo. Ero 32 o 35 chili; lo dico perché gli americani mi hanno fatto una fotografia con tre giacche da una parte sulle anche. Mi sono rivisto al (Cinema) Monteverdi (a La Spezia) con quei filmati che davano dei campi. Ebbene mi facevano queste flebo e il secondo giorno stavo ritto in piedi. Camminavo, barcollavo ma camminavo, dopo sei o sette giorni camminavo abbastanza bene, e mi dicono, dato che avevo riconosciuto un americano figlio di napoletani emigrati in America, questo mi aveva detto se gli facevo da attendente, gli pulivo le scarpe, tenevo a posto la sua roba, e mi aveva promesso che mi avrebbe portato in Italia quando lui sarebbe partito. Mi aveva regalato una fisarmonica.
Un giorno mi dicono “Vai a prendere insieme a degli altri le patate alla Kartoffelmiete”. I tedeschi mettevano le patate nei campi coperte dalla paglia. Era già caldo, insomma c’era odore, io non mi sentivo tanto bene, però tanto per evadere dal campo, ho detto: Vengo anche io. Sono andato. A mezzogiorno mi portano una zuppa di ceci, e non l’ho potuta mangiare: avevo già la febbre alta. Ritorno a Gusen e combinazione c’era la partenza per l’Italia. Dovevamo andare a Mauthausen. Io ero febbricitante ma pur di andare in Italia sono partito per andare a Mauthausen. Arrivo a Mauthausen e lì la febbre è salita e allora mi danno qualche aspirina, perché avevo i brividi di freddo e tutto.
Ci portano con i camion a Linz; ci fanno fare una scarpata dove c’era della carbonella, della ferrovia con i vagoni merci in attesa; quando salgo ho perso i sensi, sono rotolato giù, e mi hanno portato all’aeroporto su un trimotore della Croce Rossa Italiana. Portavano gli ammalati in Italia con l’aereo della CRI. Senonchè quando io sono sull’aereo il medico si accorge che la mia è una malattia infettiva, e allora per non far fare la quarantena agli altri, mi ha fatto sbarcare e sono andato a finire all’ospedale di Haide, non so come si pronuncia. Comunque qui era un ospedale di donne, infettivo, solo donne; eravamo io in camera e un certo Simonelli di Tortona, che era un soldato della guerra del 1915-18. Avevo preso il tifo, prima la dissenteria poi il tifo.
A lui arrivavano i pacchi, perché era un militare, e allora mi aiutava un po’. Mi è venuta una fame, poi il tifo più il campo di concentramento, sono riuscito a mangiare 13 piatti di riso al latte, di quell’orzo che fanno loro. Mi portavo dentro le caramelle addirittura, le portavo via alle donne ammalate che erano chiuse nelle gabbie, non so perché erano chiuse nelle gabbie, adesso penso se era un manicomio.
Lì feci la quarantena e fu la mia salvezza perché mi poterono curare e tutto. Ma dal mangiare e dai patimenti della prigionia sono diventato da magro che ero a pesare 70-80 chili, ero un mostro, avevo gli occhi … non ho più quella fotografia perché l’ho stracciata per non farla vedere ai bambini e a mia moglie perché era… avevo le sacche nere! Faccia conto di avere due mele qui, ero così, una pancia, gonfio, la reazione del cibo. Ero pieno d’acqua, mio papà quando mi faceva i massaggi, schizzava… va bene!
Sono uscito dall’ospedale e di fronte a questo ospedale c’era un campo di lavoratori coatti, diciamo, e c’erano ancora giacenti tutti i greci. Quando io mi sono presentato perché c’era un centro di raccolta, si accorgono di chi sono, questa donna qui una anziana che aveva dei figli: “Italiano, italiano!” Poveretta, la mattina mi dava sempre un uovo da bere. Quindi guardate con quello che abbiamo fatto noi in Grecia, i greci nei miei confronti mi hanno trattato bene.
Passa una camionetta “Se ci sono degli italiani si preparino a partire!”. Venivano dalla Russia nei camion i militari che rimpatriavano; allora io chiamo questo Simonelli, che tra parentesi era ancora in giacenza all’ospedale, lui viene giù e ci imbarcammo subito su questi camion. E abbiamo fatto.
Ci hanno portato alla stazione, dalla stazione siamo arrivati a Bolzano, da Bolzano siamo arrivati a Pescantina. Ed infatti siamo arrivati fino a Tortona, da Tortona a Genova in treno. Quando sono arrivato a Genova, la ferrovia di Genova non funzionava e allora abbiamo aspettato sulla strada un mezzo che ci portasse verso Spezia, difatti passò un camion targato Livorno, in blu con rimorchio. C’era un amico da ragazzo che conoscevo che abitava vicino a me che veniva dalla Russia e quindi ci ha fatto salire.
Io penso che siano state le ore più lunghe della mia vita. Non si arrivava mai a Spezia!
Quando finalmente sono arrivato alla Foce e ho visto la città, mi è venuta l’ansia proprio. Arrivo in via Chiodo, c’erano tram che funzionavano, tram che andavano a Migliarina. Salgo su un tram e c’è un bigliettaio proprio di casa mia. Gli chiedo: Come stanno i miei? Mi ha detto tutto bene (SI COMMUOVE). Mi sono rilassato, mi sono rilassato. Ma non sono andato direttamente a casa perché mio papà soffriva di cuore, allora mi sono fermato da uno zio, però la voce è arrivata prima di me e allora quando ero lì dopo un po’ è arrivato il mio papà e sono andato a casa. E’ stato lì che mi sono reso conto della tragedia di noi spezzini. Io non immaginavo che fosse stata una simile catastrofe!
Tutta la gente ad aspettarmi perché io ero l’ultimo che sono rientrato dalla Germania, io sono rientrato il 1° di agosto (1945), dopo di me non è rientrato più nessuno. Tutti a chiedere “Hai visto mio marito?” “No, era con me fino a Mauthausen” “Hai visto mio figlio?” “No”. Insomma questa gente dove è andata, io non lo so. Ho visto soltanto il povero Lucio morto a Mauthausen, non l’ho detto a loro, l’ho detto a suo fratello che lo dicesse poi a sua madre. Poi gli altri…
Io ero astemio, il primo bicchiere di vino della mia vita l’ho bevuto il primo d’agosto, adesso cosa succede? Succede che io ero come vi dico gonfio, e mio papà, un po’ con la farina di granoturco, un po’ con il borotalco, faceva i turni al Felettino che è una zona di Spezia.
Tempo due o tre mesi sono riuscito a tornare quasi alla normalità, senonchè dò un colpo di tosse (SI COMMUOVE) e sono andato in sanatorio perché avevo la tubercolosi, un fatto cavitario all’apice (del polmone) e va bene!
Ho saltato un pochettino, perché vi racconto un po’ la commedia di quando sono arrivato a casa che non avevo i capelli. Non c’è cosa peggiore per noi giovani, almeno per me, di non avere i capelli.
Prima che fossi arrestato si spaviciava con una ragazza che lavorava in farmacia. Senonché appena venuto, questa ragazza è venuta è rimasta perché effettivamente sembravo un mostriciattolo, poveretta mi ha detto: “Va bene ti preparo io” e io ho detto “Ma non ho i capelli” – mi preoccupavo più dei capelli che della persona – “Ti preparo io delle lozioni, vedrai che ti ritorneranno”. Allora lei mi preparò queste lozioni e mi diceva “Bevi il rosso dell’uovo, il bianco te lo sfreghi in testa”. Effettivamente io facevo così, in casa mia c’era un odore di freschino!
Insomma dal 1° di agosto alla fine di febbraio che è carnevale metà febbraio inizia il carnevale, ebbene non mi erano ancora nati i capelli. Una mattina tolgo questo strato di cerone che avevo in testa con il cotone, questa lozione, avevo la testa tutta nera e ohhh i capelli! Pensate che io da giovane ho sempre avuto i capelli dritti, non avevo le onde, se pioveva maccheroni erano tutti miei. Ebbene tempo due mesi mi è venuta una testa di capelli che se vi faccio vedere una fotografia voi non mi riconoscete. Finalmente ho potuto riprendere la tranquillità, la serenità.
Quando poi ho cominciato a tossire e a buttare il sangue avevano fatto la diagnosi che io avevo la tubercolosi, e ancora oggi devo dire che sembro il rappresentante della salute, invece sono pieno di acciacchi. Pensate che ho avuto tutte e tre le epatite A B C e D, ho la cirrosi, sono stato operato di stomaco, sono stato malato ai polmoni, sono diabetico.

D: Sei un ospedale.

R: Sì, ambulante! Mi si sono bloccate le dita che non posso stringere, sono stato operato sotto perché avevo un polipo, adesso ho avuto una trombosi all’occhio, all’occhio destro e non ci vedo, sono un ospedale viaggiante. Perché io vado sempre in giro con i ragazzi. Sarà conseguenza della prigionia o destino chissà? Chiuso.