Longhi don Daniele

don Daniele Longhi

Nato a Pedemonte (VI) il 10.03.1913

Intervista del: 11.02.1996 a Trento realizzata da
Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n. 104 – durata: 52′ circa

Arresto: a Bolzano il 19.12.1944

Carcerazione: a Bolzano, al Corpo d’Armata

Deportazione: Bolzano

Liberazione: 30 aprile 1945 a Bolzano

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Organizzazione materiali ed inserimento dati: Elisabetta Mascarello, Elena Pollastri

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

D: Don Daniele, cosa è un Lager per lei?

R: Un Lager, per me? Quello che era in passato era appunto un luogo di penitenza, di soddisfazione, di riparazione. Ma adesso i Lager sono nella storia, sono nella memoria di noi e nella memoria di quelli che come voi se ne occupano, perché non si dimentichi il passato e perché il passato possa essere anche una guida, un sostentamento spirituale per l’avvenire, se non per noi che oramai siamo anziani, almeno per le generazioni che ci seguono e capiscano che sia finita con queste guerre, sia finita con queste rivalità ecco, diversamente tutto il mondo diventa un Lager. Tutto il mondo, non soltanto gli ambienti che voi conoscete a memoria, meglio di me. Tutto il mondo finisce se non c’è la pace, il mondo finisce per diventare un Lager che durerà sempre. Se mi riferisco alle ultime parole del Papa recitate e proclamate con forza proprio in questi giorni nel Nicaragua e in Venezuela “Finalmente basta con la guerra, che non si ripeta”; queste sono le parole del Papa. Ed ecco, confidiamo che questo sia un auspicio per questi pochi anni, fino a quando non andremo, voi certamente entrerete nel nuovo millennio, e allora che queste parole siano un auspicio lungo almeno per tutto il secondo millennio.

D: Cosa avvenne, Don Daniele, il 19 dicembre del 1944?

R: A me? Il terzo arresto che ho avuto. È andata com’è andata, ero lì, basta, chiuso, me lo ricordo bene. Sono stato arrestato. Ai tempi di Andrea Gaggero, poveretto, quando l’ho visto venire giù dalla soffitta del quinto piano, tutto insanguinato tutto rovinato, eravamo d’accordo nel dire: “Guarda che se succede qualcosa tu cavatela, di che la colpa è mia e che tu non c’entri” e allora io ho dovuto fare il fintone e ho detto “Io questo qui non lo ho mai conosciuto”, ma non è giovato a niente perché mi hanno portato via e basta. Dopo ci siamo rivisti con Gaggero, poveretto è morto anche lui, ci siamo rivisti in cella per diverso tempo, e poi la sua memoria è finita, e se me lo ricordo proprio il 19 dicembre ’44. Tre arresti. Tutti mi dicevano: “Perché non sei scappato?” Io ne ho portato via qualcheduno, nascosto, appena c’è stato un accenno, un prete, Don Giacinto Carbonari, che era a Bolzano, era di notte con il treno merci, l’ho portato a Padova, dopo sono tornato indietro, sono tornato altre volte giù a rivederlo ecco lui, lui se n’è andato. Altri, l’ingegnere Saul ecc… tutta gente che ha preferito andare, ma allora io ero quasi giovanissimo e avevo soltanto l’entusiasmo davanti, avevo in testa i fratelli Bandiera, Antonio Scesa di Milano. Quando lo portavano i tedeschi allora, ma i tedeschi di Maria Teresa, quella gente là, gli Asburgo che avevano occupato il lombardo veneto, ecco avevo in mente Antonio Scesa durante il percorso per andare verso il suo calvario, è passato davanti a casa sua, voi lo sapete, e li hanno detto, “Vuoi qui?” e lui ha detto: “No, no, tirem innanz”.

Quindi io avevo queste idee e questi entusiasmi giovanili, oggi non sarei più in grado di comportarmi in quella forma, ma allora, sì. Allora sì perché tanto dicevo: “Tanto a Bolzano mi dedicheranno una piazza o una via o una scuola” Ecco, si era un po’ invaghiti, o imbevuti non so, di gloria passeggera, ecco. Ecco il perché per me quel 19 lì era la conclusione ecco.

D: È stato arrestato da chi?

R: Sono stato arrestato due volte, sempre dal medesimo, era un alto altesino, ma io non ricordo più, un piccoletto, ma non mi ricordo più i nomi. Il primo arresto c’è stato quando ero nella zona industriale, a Bolzano sempre, il secondo arresto, mi pare il 15 dicembre, poi il 19 il terzo, forse era meglio scappare ma Don Guido è rimasto, diceva: “Stiamo qua noi”. Altri sono andati via, diceva: “Restiamo qua noi due, a Bolzano alla zona industriale bisogna rimanere, ci sono le famiglie disperate, tutto l’insieme”. E allora sono rimasto volentieri anche, anche in ossequio al mio ministero sacerdotale, ero cappellano della zona industriale.

D: Per aiutare quanti erano già dentro nel Lager di Bolzano, voi come vi siete organizzati per procurarvi il cibo da portare poi dentro?

R: Noi abbiamo avuto molti soldi da Milano, dal cardinale Schuster, molti soldi, ci mandavano le banconote, mi pare che fossero da 500 lire, o da 5 lire non mi ricordo più, ma a rotoli. Quindi bisognava tagliarli, uscivano dalla zecca direttamente e noi li si tagliava e c’erano tutti quei soldi. Il cassiere era Don Guido Pedrotti, soldi per il sostentamento delle famiglie e anche dei prigionieri, li prendevamo specialmente da questa fonte. Immaginate che ad un certo momento, io ero appena tornato da Roma in quel periodo, e io non lo so non esagero ma alcune centinaia di donne, mamme, spose, fidanzate, sorelle, quindi in prevalenza donne, venivano giù dall’ambiente di Carpi, di Fossoli dove era il campo di concentramento, sapendo che i loro cari erano deportati a Bolzano e venivano su. Quindi era un afflusso giornaliero, con tutti i mezzi, treni, mezzi pubblici, mezzi privati, arrivavano e finivano per venire lì da noi due. Lasciavano anche soldi, lasciavano lettere da consegnare, ricordi e tutto un insieme di cose e quindi come sede eravamo lì, in via Torino e ci si dava da fare utilizzando anche queste forme assistenziali, proprio in aiuto, a conforto di questa gente che veniva a trovare i propri cari.

Dopo li vedevamo nel corteo, chiamiamolo corteo, anche se è una parola piuttosto elevata questa, il gruppo che usciva tutte le mattine rientrava nel mezzogiorno, usciva di nuovo, erano tutti prigionieri nostri, ma file anche di 200, 300 persone che andavano al lavoro e quindi lungo questo percorso si aveva il coraggio di avvicinarne qualcuno, domandare: “Chi è il tale? Dove trovo il tal altro?” Come sul posto del lavoro, specialmente sotto la galleria del Virgolo, ai margini di Bolzano, al di là del fiume Isarco e c’era la maniera di avvicinarli perché lavoravano dentro in questi ambienti, come lavoravano anche per le pulizie, per la manutenzione, proprio negli ambienti delle SS che avevano occupato per esempio il Corpo di Armata. L

Lì c’erano i vari Gaggero, lì abbiamo trovato Gaggero e gli abbiamo dato il primo rotolo di soldi e poi alla sera lui è rientrato come sempre, ma o c’era una spia o chissà, non sappiamo, comunque appena lui è entrato è stato perquisito e hanno trovato i soldi, e quindi è andato di mezzo per primo Don Guido Pedrotti e dopo il sottoscritto.

D: Dopo l’arresto cosa avvenne?

R: Dopo il terzo arresto? Intanto ci hanno tenuti là quella mattina, nello scantinato del Corpo di Armata di Bolzano e poi, sempre tutti, saremmo stati là almeno una ventina, tutti con la faccia rivolta al muro in piedi tutta la mattina fino a quando dopo a gruppetti di tre o quattro con le macchine ci hanno portati giù in campo di concentramento. Per me, non so per gli altri, ma per me hanno usato una vettura lussuosa, veramente lussuosa. Mi ricordo che era foderata di rosso dentro, forse per non creare sospetti o per evitare incidenti o ribellioni della gente, a me hanno portato giù con questa macchina. Appena dentro alla baracchetta, era una vera casa di mattoni, ecco, allo sportello, è lì a domandarmi i dati. Tutti i miei dati, dove, quando ero nato, dove vivevo ecc… e poi questo è stato una tribolazione per me, quando mi hanno domandato chi erano i miei parenti più vicini. E ho dovuto fare il nome della mia mamma. Quello è stato per me il momento che non dimenticherò, mai. Ho dovuto dare il nome e l’indirizzo della mia mamma, il motivo voi lo sapete, che cercavano appunto non delle vittime ma almeno dei capri espiatori, in caso che noi fossimo fuggiti o fosse successo qualche cosa, e allora loro si rivalevano sui parenti, la mia mamma, non gliel’ho mai detto poveretta, perché ho sempre avuto paura, d’altra parte quello ho dovuto dire. Allora da quel momento sempre con la mia veste da prete e con il mio colletto di allora che si usava, lo sapete no, allora via, blocco celle. Mi hanno buttato lì quelle due striscette, il numero 7459, e mi hanno perquisito, mi hanno lasciato l’orologio, è stato il mio grande amico e compagno, se no non sapevo come passava il tempo e ho avuto l’orologio, da tasca però, quello mio, quindi è stato per me un amico che mi ha aiutato, in quelle condizioni dovevamo sempre tenere la fisionomia nostra, quindi ognuno il proprio vestito appunto in caso di confronti con altri operatori di libertà, partigiani e così via, allora nel confronto dovevano confermare: “Sì questo lo conosco, questo non lo conosco”, quindi per confronti praticamente e mi è rimasto l’abito mio, la veste.

Anche il giorno quando, se ricordo bene, deve essere stato forse il 25 di febbraio, ci hanno incolonnati e ci hanno portato al treno, tra gli stabilimenti della zona industriale, e lì sul treno era di domenica, e non so se eravamo una ottantina dentro un carrozzone bestiame, ma io mi ricorderò sempre questo episodio.

Qui i prigionieri mi vedevano forse qualche volta passeggiare in fila come i bambini dell’asilo fuori dal blocco celle è lì sul vagone del treno ricordo che hanno detto: “Ma qui ci deve essere un prete con noi” e allora io rispondo: “Sì, sono io, sono il parroco della zona industriale, io prego per voi, voi pregate per me è vi do la benedizione a voi e a tutti i vostri cari”. Era molto commovente, c’è stato un momento di silenzio assoluto quando ho detto queste parole. Dopodichè c’era un vecchietto, ma io ho perso i nomi oramai, c’era un vecchietto anche lui prigioniero, di Belluno, il quale aveva un bel sacchetto pieno di pane, di pezzi di pane e lo ha distribuito a tutti, fino a che ce ne era di questo pane, e allora abbiamo detto: “Ma adesso lei rimane senza”, e lui dice: “Ma tanto non ne abbiamo bisogno” “Perché no?” Perché dice, ma questo è storico: “Noi non saremo deportati in Germania”, “Ma come? Siamo sul treno chiuso, bloccato, piombato, che cosa avverrà?” “Niente, ci riporteranno al nostro posto, al campo di concentramento di Bolzano, noi non andremo in Germania”. Questo è storico, peccato che non posso dire il nome perché non me lo ricordo più, ecco i due episodi. Quindi alla sera del giorno dopo, quindi di lunedì sera, eravamo a febbraio e quindi la notte è arrivata presto come sempre, e ci hanno riportati. Quella era una bella occasione per me, siccome abbiamo attraversato a piedi, come potevamo farlo, perché ce ne erano diversi dei nostri che venivano sostenuti dai propri compagni perché non potevano neanche camminare, e abbiamo attraversato la zona industriale che io conoscevo palmo a palmo, quella sarebbe stata una bella occasione per me di infilarmi in qualsiasi ambiente, cioè negli stabilimenti della zona industriale. Non l’ho fatto, e sono tornato in carcere. E abbiamo tirato avanti fino al 30 di aprile.

D: Ma quando è stato messo nel blocco celle, in quanti eravate nel blocco celle, e poi perché lei è stato messo nel blocco celle?

R: Il blocco celle, tutto sommato, non lo so se erano 19 o 20 celle, adesso non mi ricordo più, so che sono andato dentro, chiuso, e basta. Sono sempre rimasto là, questo fino il 25 gennaio forse, finalmente mi hanno levato da quella cella dove ero solo, isolato e mi hanno portato sempre nel blocco celle nella parte sud. E’ lì che ci siamo incontrati anche con Don Gaggero dopo, e quindi ero insieme ad un gruppo, 3 o 4 dentro, siamo rimasti per un certo periodo, non so quanto, siamo rimasti anche in 14 in una sola cella. C’era il posto per uno, eravamo in 14 persone e ci si alternava per riposarsi, un’ora stavano in piedi loro, un altra volta buttati giù noi, 14 persone. Quindi è roba da morire anche asfissiati, senza più ossigeno, e quella era la cella di un grande partigiano, Arnaldo Colleselli, era preside del liceo classico di Belluno. Adesso è morto però, prima era parlamentare europeo, dopo ho sentito che è scomparso, e così abbiamo continuato la nostra vita.

D: Don Daniele, l’alimentazione in che cosa consisteva quando era nel campo?

R: Dunque davano a mezzogiorno una brodaglia, era sempre quella, praticamente si beveva perché non c’era dentro altro e davano un panino, con la forma di questo recipiente qui, questo portacenere, ecco, così grande era la pagnotta che era fatta con farina di orzo ma certamente anche con la paglia, paglia tagliata, sminuzzata, l’avevamo vista, vera paglia. Lì però io commettevo giorno per giorno una imprudenza, cioè invece di mangiarmela tutta questa pagnotta come facevano gli altri, niente io me ne tenevo lì metà, perché dicevo: “In caso mi venga uno svenimento che abbia qualche cosa da mettere in bocca”, quindi per me era una tribolazione, ero disteso sul letto a castello, e il pane lo mettevo lì, tutta notte sentivo il profumo di quel pane, era una tribolazione per me, però dovevo resistere e non mangiarlo per paura di rimanere senza.

D: Per un sacerdote essere dentro il Lager cosa voleva dire? Voi potevate celebrare?

R: Neanche a parlarne, no. Mai celebrato. Mai. È escluso. Io non ho mai celebrato dentro. È venuto a suo tempo, nel periodo di Pasqua del ’45, è venuto da Belluno, da Feltre mi pare, era monsignor Bortignon, l’ho rivisto dopo la guerra, lui ha celebrato fuori, nel campo all’aperto, e noi attraverso quella bocca di lupo, quella finestra ascoltavamo. Mi ricordo che ha detto: “Coraggio che anche il sacrificio di Cristo pareva vano e sorpassato e invece da quel sacrificio del calvario è nata la Chiesa e tutto l’intero movimento cristiano e cattolico”. Questo mi ricordo. So che il clero di Bolzano ha insistito presso questo monsignore, diceva: “Guardi che abbiamo dentro un sacerdote che era il cappellano della zona industriale, a noi interesserebbe che potesse riprendere il suo ministero, veda se può avvicinarlo”. Nel blocco celle c’erano molti della sua diocesi ma non lo hanno lasciato entrare. Abbiamo seguito la messa all’aperto ma mai noi, non c’è stata nessuna volta che abbiamo potuto celebrarla, insomma eravamo diversi preti dentro, ma la messa neanche a parlarne, no, mai.

Io non ho mai chiesto e poi chiedere per sentirsi o per essere colpiti magari con uno schiaffone. La botta che ho preso qua io, da Schiffer… Aveva un anello, ho detto di no, mi hanno fatto una domanda dell’interrogatorio, era il giorno dopo Natale del ’44, il pugno che mi ha dato qua, era qui e “Boom”, io ho fatto così, l’interprete tedesco della Val Gardena dice: “Non si muova”, io mi sono ribellato, quindi il trattamento era non certamente umano, era meglio tacere. Come quella volta, accanto alla mia cella c’era l’onorevole Colleselli, lo ho detto prima, gli ho detto: “Cerca se trovi un pezzetto di sigaretta o qualcosa, dai da bravo dammi”, io ne avevo in tasca, ma dopo nel giro di pochi giorni sono andate e ricordo che siamo riusciti quella sera tardi a congiungere la mia cella con la sua, c’era il pavimento, pochi centimetri più alto perché entrasse l’aria, c’era la porta, ebbene abbiamo preso la cintura mia e la sua e l’abbiamo messa fuori sul piccolo corridoio, lui ha agganciato la sua cintura dei calzoni alla mia e ha attaccato dentro una cicca così, di sigaretta, e allora piano piano, tanto c’era un freddo enorme, si è irrigidita anche, è stato facile tirare piano piano fino a che io ho raggiunto la cicca e allora lui ha ripreso la sua cintura, io la mia e qualche minuto dopo è entrato dentro il comandante del Lager, il maresciallo Haage insieme a quello della Val di Non, come si chiamava? Che era dentro custode, le verrà il nome, ci pensi un poco.

D: Novello?

R: No, Novello no, era quell’altro, io ho ancora tutta la sua corrispondenza a casa, insomma sono venuti dentro con il nervo di bue, prima hanno tirato fuori dalla cella Colleselli poveretto, lo hanno bastonato fino a quando hanno voluto e poi hanno chiuso e hanno aperto la mia cella, fuori, là sono stato io, ho tirato fuori la cicca e gliel’ho fatta vedere. Loro pensavano che fossero biglietti magari che ci mandavamo, io sono rimasto là, visto questa cicca brutta e consumata il comandante Haage so che mi ha salutato così: “Schwein” che vuole dire “porco”, “Schwein” e giù, qui di dietro sul collo, mi è venuto un collo grosso così, e qui mi ricordo la botta che ho preso, e ha aggiunto anche “Sau ” vuol dire “troia” quindi “porco” e “troia” e mi hanno bastonato ancora, dopo basta, chiuso la porta, dentro, silenzio assoluto tutta la notte.

La mattina dopo arrivano i nostri falegnami e con una tavola a tutte le celle hanno ostruito questo passaggio di aria, hanno messo lì così, come un piedistallo, hanno ostruito il buco da dove entrava l’aria, noi due abbiamo taciuto ma la colpa era nostra, era inutile perché pensavano appunto che di notte si lavorasse a trasportare biglietti o qualche cosa. Quindi chiuso anche quell’incidente. Quello è stato proprio provocato da me e dall’onorevole Colleselli.

D: Il 3 maggio, Don Daniele cosa avvenne?

R: Avvenne questo, allora il 3 maggio appena uscito fuori io, il 30 aprile lei sa meglio la data, quando sono uscito fuori al pomeriggio, alla stessa ora quando si è suicidato Hitler, lì è avvenuto l’ultimo massacro da parte delle SS perché ne hanno presi non so se erano 32, erano 32 mi pare e li hanno massacrati. Dopo abbiamo messo una lapide anche lì sull’angolo della cinta della Lancia, lì sull’angolo davanti alla Montecatini ci deve essere una lapide, quella l’ho inaugurata io, a ricordare questi che sono stati massacrati.

Dopo siamo tornati nella normalità, morti questi gli altri si sono dispersi e quindi abbiamo istituito quello che è stato il Governo del Comune di Bolzano, in attesa poi della forma democratica per la nomina del responsabile del Comune e ci siamo radunati come poi ogni settimana ci si radunava sempre per problemi. Io ho avuto come compito, non so se glielo ho detto altre volte, sono stato nominato Assessore all’Assistenza e alla Scuola e ho nominato io il primo Provveditore agli Studi, che era preside in un liceo di Merano e quindi ha accettato e sono andato a prenderlo su in Val di Fiemme e gli abbiamo fatto la proposta: “Guardi mi hanno indicato che lei potrebbe essere adatto” e tutto l’insieme, lui ha accettato e quindi io ho avuto questo incarico che è durato diversi mesi.

Dopo io sono tornato nella mia zona industriale a fare il prete e il Comune è andato un po’ per conto suo. Ci siamo trovati lì nella sede, come si chiama quel palazzo di fronte al monumento alla Vittoria, il Palazzo della Provincia?

D: Palazzo INA?

R: INA, ecco, lì ci si trovava per quello che riguardava l’andamento del Comune, mi hanno inghirlandato diverse volte, avevo le porte aperte in questura, dappertutto, quanti francesi del governo di Pétain, quanti erano lì a Bolzano e io li proteggevo, li difendevo anche in questura, “Ma no questo lasciatelo libero, lasciatelo vivere” ne ho avuto parecchi, non so quanto tempo è durata questa forma assistenziale. A questi di Pétain in modo particolare, e poi anche due degli ex comandanti del campo di concentramento, che venivano da me. Uno poi, mi verrà il nome, molto conosciuto allora, mi ricordo che è venuto da me a chiedermi protezione, perché non so se è stato processato, non mi ricordo, e gli ho detto: “Ti metto a posto io”. Prima di arrivare a Bolzano, dov’è quel paese, c’è una valle che va dentro.

D: Val Gardena?

R: Prima di Chiusa, c’è una valle andando verso nord sulla sinistra che va dentro, in fondo c’è un castello anche, ecco lì c’era una colonia venuta su da Bologna in cui c’era un gruppetto di ragazzi, lo ho messo lì. “Stai tranquillo che ti terranno nascosto”. Lui è vissuto lì, mi ricordo che poi ho partecipato anche al suo processo, quindi anche quello è venuto da me.

Sapevano che io male non potevo farne, anche perché avevo il mio ministero quindi non avrei fatto del male. Sono venuti dopo a chiedere a me aiuto e protezione specialmente davanti alla questura, dove in questura c’era un maggiore, già delle SS, ma qualche anno prima è diventato amico degli italiani, era della questura e questo maggiore aveva l’incarico di rintracciare un po’ i vari comandanti delle SS e processarli. Quante volte mi ha fatto vedere tutti i verbali di gente che aveva trovato, aveva trovato a Essen in Germania, aveva trovato nientemeno che il maggiore Schiffer, “E come lo ha trovato?” “L’ho trovato sul viale della Stazione ferroviaria, ho visto uno che veniva con due valigie, l’ho riconosciuto subito, mi sono avvicinato, si è fermato e ha messo giù le valigie”. Ha detto: “Prendimi”. È stato arrestato da lui, portato via, poi che sappia io.

D: Torniamo al Lager. Entrato le hanno fatto l’immatricolazione, quindi è iniziata la spersonalizzazione della persona

Ecco, vi chiamavano per numero, no?

R: Sì, matricola tale, matricola tal altra.

D: Quindi lei veniva chiamato con il suo numero di matricola?

R: 7459

D: Poi aveva anche un triangolo rosso lei?

R: Certo, tutti noi. C’era il pezzettino qua.

D: Che lei ha conservato ancora.

R: È sotto, è qui.

D: Dopo lo vediamo.

R: Il triangolo rosso.

D: Triangolo rosso perché poi c’erano diversi tipi di triangolo?

R: Certo, c’era il triangolo rosso per i politici, noi, giallo era per gli ebrei, per esempio, e per gli ostaggi c’era un altro triangolo, non ricordo il colore.

D: Lei diceva Don Daniele che il suo abito, la sua veste gliel’hanno lasciata.

R: Sempre, come hanno lasciato gli abiti degli altri, intatti come sono stati arrestati.

D: Quindi non è che glieli hanno tolti.

R: No, per niente.

D: Però lì con il numero di matricola che le hanno attribuito, lì è iniziata proprio la spersonalizzazione della persona.

R: A un certo momento sì, eh.

D: Quindi il Lager era anche l’inizio della spersonalizzazione della persona, avvilirla il più possibile, e anche attraverso forme di violenza.

R: Beh, lasciamo stare la violenza.

D: Don Daniele, dentro nel campo, nel Lager la gente che c’era, c’erano uomini, donne, anziani, bambini anche? Si ricorda anche di bambini?

R: Certo. Mi ricordo uno, avevo tutti i nomi in testa una volta, lui veniva molto spesso, una volta due alla settimana sotto le finestre, ma non dalla parte dell’interno del campo, ma tra il recinto e il blocco celle, quel ragazzetto lì, ebreo, passava sotto a darci notizie: “La radio ha detto questo”.

D: Vi informava, vi teneva informati.

R: Era un bambino così, avrà avuto undici anni penso.

D: Poi diceva che nel Lager c’erano anche altri sacerdoti.

R: Sì, ma si succedevano, andavano, non è che ci incontravamo noi, insieme. Mano a mano che c’era il convoglio che partiva ogni tre settimane, ogni ventun giorni partiva sempre un treno carico fra le settecento, ottocento persone e andavano verso la Germania.

D: Nei campi di sterminio?

R: Nei campi di sterminio.

D: In Austria, Germania?

R: Dove, noi non lo sapevamo dove.

D: Ecco, questo voi non lo sapevate?

R: Si sapeva che andavano via.

D: Ma all’interno del campo i deportati erano addetti anche a dei lavori, facevano dei lavori?

R: Tutti erano, sì, il blocco A e il blocco B, per esempio erano tutti lavoratori, che venivano la mattina in fila, io ho detto corteo ma insomma in fila andavano ai posti di lavoro. C’era uno stabilimento vero e proprio di meccanica dove c’era l’ingegner Bertinetto, erano là sotto il Virgolo, vero? Nella galleria grande, li assorbiva dentro qualche centinaio di questi operai, specializzati, perché si presentavano come specializzati.

D: Che lei ricordi, Don Daniele, all’interno del Lager di Bolzano sono avvenute anche delle uccisioni, delle forme violente molto forti?

R: Abbiamo avuto quei due ragazzi là, mi pare quando è venuto il vescovo, quello che dicevo prima il monsignor Bortignon, lì c’era uno di questi ragazzi che aveva tentato la fuga, due erano, quei due sono stati uccisi, tutti e due, se mi ricordo lì, avevano la loro cella e dopo noi ci hanno radunati tutti fuori all’ingresso del blocco celle e una donna, una donnaccia là, che parlava abbastanza bene il tedesco, ha detto però una frase che forse i tedeschi non hanno capito, dunque, “Il comandante dice che da qui in avanti se ci sarà un tentativo di fuga, quello viene ucciso”. Ed ha anche aggiunto queste parole: “Bada adesso, quelli che hanno il coltello in mano sono loro”, così, me le ricordo ancora queste parole. Basta, ci hanno avvertiti, guardate che c’è la pena di morte immediata. Per chiunque. I due ragazzi hanno tirato avanti fino a che hanno potuto, era il giorno che era venuto a celebrare il vescovo di Belluno e Feltre, quello, e poi abbiamo avuto quella altra, quella ebrea, eh i nomi, mi pare che avevo fatto i nomi a suo tempo, questa signora, poveretta, allora, eravamo alla fine, sarà stato non so marzo o aprile, c’era l’ingegner che era direttore allora del Centro Turistico a Bolzano, Marcello Caminiti, so che lui ha conversato molto dalla sua cella con questa donna che è sopravvissuta una giornata e mezza praticamente, perché ogni tanto, intanto era nuda, e ogni tanto entravano dentro con la pompa dell’acqua, gelata, si capisce, è vissuta un giorno e mezzo praticamente. Questi tre me li ricordo perfettamente, più abbiamo avuti morti il nostro Magni Longon vero? È stato ucciso la sera dell’ultimo dell’anno, e poi io successivamente sono andato proprio in questura e all’anagrafe a fare cambiare la data che avevano messo sulla lapide … la notte dal 31 al 1 gennaio del 1945, lì avevano scambiato la data, quindi sono già quattro i morti, in più, quella però non c’entra con il campo di concentramento, il conte Manci di Trento, però lui non ha visto il campo di concentramento, lui è rimasto dentro sempre, che sappia io, nell’ambiente là, nelle celle del Corpo di Armata, e poi durante un interrogatorio ha fatto il salto e si è buttato giù, è morto il conte. Qui c’è una grande via davanti alla chiesa nostra, c’è una via dedicata al conte Gian Antonio Manci. Ho conosciuto le figlie perché nelle commemorazioni che abbiamo fatto una delle figlie ha sposato il rettore magnifico dell’Università di Trento quindi le ho conosciute in quel senso li, ma lui si è buttato giù, io ho fatto il funerale suo a Bolzano, alla chiesa di Cristo Re e ho arrischiato a dire che è morto martire, ma non sono andato avanti perché effettivamente si è suicidato, ma quello che non ho fatto io lo ha fatto il vescovo ausiliare di Trento Monsignor Rauzi a Trento, nel Duomo, dove hanno fatto il funerale, ma parlo mesi dopo che era morto. Lui però ha detto chiaro e tondo: “Questo è un martirio” cioè martirio di amore, quando uno come il naufrago che si afferra su un tronco di legno in mare, sono in due allora stanno per essere inghiottiti, uno però rinuncia per amore dell’altro, quell’altro può essere sostenuto da questo tronco e quindi è la stessa cosa che ha fatto il conte Manci il quale piuttosto che tradire, perché non è stato fatto un nome da lui eh, non è uscito un nome da lui, niente. Poteva fare il nome mio, il nome dell’ingegnere Saule e di tutta quella gente lì. Ha preferito suicidarsi per non compromettere gli altri.

D: Don Daniele, all’interno del Lager di Bolzano si ricorda qualche episodio ulteriore di solidarietà umana tra i deportati?

R: Tra i deportati tanto non ci si conosceva più da partito a partito, che era un partito solo, il partito della libertà e dell’amicizia, quindi non c’erano più comunisti, democristiani, socialisti queste erano cose superate, quindi tra di noi c’era questa piena armonia e solidarietà. Chiunque si sarebbe prestato per agevolare fughe e tutto l’insieme.

D: Si ricorda se c’erano anche delle religiose all’interno del Lager di Bolzano?

R: No, c’erano proprio nell’ambiente dove abitavo io in via Torino, lì c’era un asilo infantile con delle suore. Quelle avevano la radio clandestina che era in collegamento con Londra, quelle erano le suore che io poi ho rivisto ma adesso non so più, la loro sede è a Venezia, non ho più avuto rapporti con loro. Ma che siano state in campo di concentramento questo non mi risulta.

D: Un’ultima cosa, Don Daniele, il 19 dicembre ’44 siete stato arrestato per la terza volta, il 28 dicembre invece che data è?

R: Ah, il 28!

D: Era già stato stabilito il 28 dicembre?

R: Sì, ma l’ho saputo dopo io.

D: Ma che cos’era?

R: Niente, la mia fucilazione.

D: Perché, Don Daniele?

R: Grazie, perché ero membro del Comitato clandestino di Liberazione.

D: Quindi dovevate essere fucilato voi?

R: Ma certo, quella mattina là. Ero anche disinvolto da quel lato lì, ma io l’ho saputo successivamente, non ricordo quando. Tra le altre cose il 28 è la festa dei santi innocenti nella Chiesa. Quella era la data della mia morte. E invece sono ancora qua.