Magenes Enrico

Enrico Magenes

Nato il 15.04.1923 a Milano

Intervista del: 12.09.2003 a Pavia realizzata da
Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n. 187 – durata: 37′ circa

Arresto: l’08.01.1944 a Pavia

Carcerazione: Pavia, Milano a San Vittore

Deportazione: Bolzano, Flossenburg, Kottern

Liberazione: 23-24 aprile 1945 evacuazione campo

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Organizzazione materiali ed inserimento dati: Elisabetta Mascarello, Elena Pollastri

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Enrico Magenes, nato a Milano il 15 aprile del 1923.

D: Quando ti hanno catturato, Enrico?

R: Mi hanno catturato ai primi di gennaio del ’44, l’8 gennaio del ’44 qui a Pavia, la Guardia Nazionale Repubblicana. Ha arrestato cinque dei membri del primo CLN di Pavia, il sottoscritto, Ferruccio Belli, Luigi Brusaioli, che poi è morto a Flossenburg, Angelo Balconi, che è morto ad Innsbruck, e Alberti, Lorenzo Alberti, che invece è riuscito a rientrare.

D: Scusa, Enrico. Tu sei entrato a far parte del CLN di Pavia quando?

R: Sono entrato subito, subito dopo l’8 settembre. Dicevo, effettivamente a Pavia, è strano che la provincia di Pavia è completamente ignorata, ma a Pavia nel periodo tra il 25 luglio e l’8 settembre si erano più o meno ricostituiti i vecchi partiti.

In particolare anche il Partito Popolare, c’erano ancora alcuni vecchi rappresentanti e a questi ci siamo uniti noi giovani che venivamo dalla gioventù di Azione Cattolica. Devo dire che avevamo avuto un vescovo e dei sacerdoti molto aperti da questo punto di vista.

Uno di questi è ancora vivo, è monsignor Bordoni, che è l’assistente dell’associazione partigiani cristiani, monsignor Carlo Bordoni. E’ Bordoni, no?

Ci hanno arrestato, dopodiché denunciati al Tribunale Speciale per la difesa dello Stato. Ai primi di luglio le SS hanno fatto una razzia nelle carceri della provincia pavese, della provincia di Pavia. Sono passati da Vigevano, da Voghera, da Pavia e hanno raccolto i detenuti politici per deportarli, cosa che facevano, come sapete, d’abitudine.

D: Scusa, Enrico. Quando vi hanno arrestato, vi hanno portato nelle carceri di Pavia?

R: Di Pavia, sì.

D: Lì vi hanno interrogato?

R: Ci hanno interrogato, ma ci ha interrogato il tribunale di Pavia, il giudice di Pavia. Alle carceri di Pavia eravamo alle carceri, rispetto a quello che ci è venuto dopo ricordiamo sempre le carceri di Pavia come una specie di…

Dopo già il passaggio a San Vittore è stato più difficile, più preoccupante.

D: Ti hanno accusato di cosa?

R: Ci hanno accusato proprio perché hanno saputo che si era costituito il primo CLN. Anzi, ritenevano che noi avessimo chissà che organizzazione partigiana dietro le spalle, ma allora sapete anche voi che partigiani, anche nell’Oltrepo’ pavese, ce n’erano assai pochi.

C’erano stati i resistenti, quelli dell’8 settembre, quelli che adesso si stanno recuperando, tipo Cefalonia. Anche da queste parti c’erano dei gruppi di militari che hanno cercato di resistere. Probabilmente saprete di gruppi che hanno cercato di resistere nella Val D’Ossola, nell’alto Verbano.

Però poi sono scomparsi quasi subito, perché i tedeschi… Anche qui a Pavia…

D: Quindi a luglio svuotano le carceri pavesi, di Voghera, ecc. e vi portano?

R: A San Vittore.

D: In che raggio?

R: Nel quinto e nel sesto raggio, è chiaro.

D: Dove c’era Franz?

R: Dove c’era Franz, infatti. Lo ricordo, come ricordo anche il suo cane lupo. Io ho sempre avuto una certa quale idiosincrasia per i cani lupo, perché un cane lupo mi aveva spaventato quando avevo cinque anni. Basta, poi mi era rimasto nella testa che i cani lupo fossero cani…

D: San Vittore, cella d’isolamento oppure eravate tutti insieme?

R: No, cella d’isolamento. Eravamo ciascuno in una cella. Non c’era nessuno in camerata a San Vittore nel quinto e nel sesto raggio.

D: Siete stati di nuovo interrogati?

R: A San Vittore ci hanno semplicemente interrogati i tedeschi, quando siamo arrivati per prendere nota, nome e cognome, professione, da dove venivamo. Io figuravo come studente.

D: Tu quanti anni avevi allora?

R: Avevo vent’anni, vent’anni e qualche mese, vent’anni e mezzo.

D: Lì a San Vittore siete rimasti fino a quando?

R: Siamo rimasti fino al 17 d’Agosto. Eravamo lì quando hanno fatto l’eccidio di Piazzale Loreto, dopodiché ci hanno deportato. Siamo arrivati a Bolzano in un gruppo di qualche centinaio di persone, adesso non ricordo più bene.

Ricordo che siamo partiti poi da Bolzano, ma prendendo anche qualcuno che era arrivato a Bolzano da Forfoli per esempio, tipo Olivelli, tipo qualcun altro del gruppo di Olivelli.

Da Bolzano siamo partiti il 5 di settembre.

D: Del Lager di Bolzano cosa ti ricordi?

R: Non granché, perché si capiva che era un posto allora di smistamento a differenza di quanto invece poi è successo a Bolzano, dove sono rimasti lì, li hanno fatti lavorare, hanno cercato di farli lavorare.

A quel punto noi passavamo la giornata dentro nelle baracche, potevamo anche andare fuori. Non era una cosa…

D: Vi hanno immatricolati a Bolzano?

R: Ci hanno immatricolato, però non mi ricordo manco più il numero di matricola. Le matricole vere e proprie sono quelle che abbiamo avuto a Flossenburg e poi a Dachau.

D: Ti ricordi se c’erano dei religiosi lì a Bolzano?

R: Sì, per esempio ho incontrato lì padre Giacomo Antonio. Anzi con padre Giacomo Antonio e con Olivelli anche abbiamo avuto qualche incontro di commento del Vangelo, lì a Bolzano.

D: Nel campo?

R: Nel campo, sì, nella baracca dove si stava dentro. Non c’era niente di… Ci facevano l’appello, non mi ricordo più, una volta o due al giorno. Olivelli era già stato segnato, aveva il cerchio rosso perché aveva tentato la fuga a Fossoli.

D: A queste riunioni oltre a te, oltre a Teresio Olivelli e a padre Giacomo Antonio partecipavano altri deportati?

R: Sì, qualcuno, quelli più o meno che si potevano conoscere. Però non mi dire riunioni.

D: Incontri.

R: Un paio di volte, un incontro, tanto per dire. Eravamo lì e si poteva pensare a qualche cosa che non fosse solo la questione della sopravvivenza, del mangiare, così come è successo invece a Flossenburg.

D: In tutto questo periodo dalle carceri di Pavia, San Vittore e Bolzano tu hai potuto metterti in contatto con la tua famiglia, i tuoi familiari, scrivere?

R: Sì, certo. Da Bolzano no, abbiamo scritto, ma non credo sia arrivato nulla, non mi ricordo più. A San Vittore e in particolare qui a Pavia c’era il comandante delle carceri che ci aveva trattati in modo particolare. Per forza, eravamo cinque persone molto conosciute a Pavia. Senza essere stati dei malfattori.

D: La giornata del 5 a Bolzano, cosa succede quel giorno?

R: Sveglia presto, partenza sui carri bestiame. Siamo partiti.

D: Vi hanno chiamato?

R: Ci hanno chiamato, l’appello. Io sono finito nello stesso carro bestiame con Olivelli per una questione di alfabeto, Magenes e Olivelli eravamo abbastanza vicini.

D: Ti ricordi il Transport da dove è partito da Bolzano?

R: Lì vicino, mi sembra forse da Gries, non lo so. Non vorrei sbagliare, non mi ricordo che ci abbiano fatto fare del tragitto a piedi molto lungo, non mi ricordo.

D: Il viaggio quanto è durato?

R: Siamo partiti alla mattina presto e siamo arrivati la prima notte, eravamo già in Germania. Siamo arrivati a Flossenburg dopo due notti, due giorni.

D: Sempre chiusi dentro?

R: Sì, sempre chiusi dentro. Ci hanno dato qualche cosa, adesso non ricordo più quando, ci hanno dato qualche cosa.

D: Da bere, per mangiare?

R: Da bere, da mangiare mi sembra.

D: Sul tuo Transport in quanti eravate più o meno?

R: Era pieno zeppo, non so cos’eravamo. Trentacinque, quaranta sul vagone.

D: Tu avevi vent’anni. C’erano delle persone più anziane?

R: Certo. Per esempio, a parte padre Giacomo Antonio, anche tra i compagni del CLN di Pavia con i quali ero stato arrestato. C’era per esempio Luigi Brusaioli, che era più anziano di tutti, era un repubblicano ancora dei tempi del ’22.

Infatti poi è stato quello che è morto subito a Flossenburg alla fine di ottobre. Brusaioli credo che fosse… Se io avevo vent’anni lui ne aveva almeno cinquanta o sessanta.

Alberti lo stesso, Lorenzo Alberti era il rappresentante del Partito Socialista. Anche lui era più anziano di noi.

D: Il Transport, il treno arriva a Flossenburg, alla stazione di Flossenburg e dalla stazione vi fanno salire su al campo. A piedi?

R: Sì, a piedi.

D: Cinque per cinque?

R: Mi fai delle domande che io non ricordo più. Cinque per cinque, sei per cinque, due per due, non lo so. Probabilmente cinque per cinque. La mia memoria non è ferrea.

D: Quando arrivate dentro nel Lager di Flossenburg cosa succede?

R: Anche qui succedono quelle scene che ti dicevo, cioè ci hanno fatto togliere i vestiti, ci hanno denudato.

D: Questo fuori dalla piazza?

R: Dalla piazza, poi da lì siamo stati messi dentro nel lavatoio per farci pulire con docce al solito, dopodiché ci hanno messo nella baracca 22 0 23, 23 se non sbaglio. Erano le due baracche vicine.

D: Nel blocco di quarantena?

R: Nel blocco di quarantena, che era vicino al blocco di Revier cosiddetto, avevamo lo stesso piazzale dove c’erano quelli ormai sfiniti che non lavoravano più e morivano otto o dieci al giorno.

Quello che effettivamente era impressionante anche per noi era che i cadaveri li mettevano in attesa che passassero quelli a portarli via, li mettevano in una casetta di legno, una costruzione in legno in cui c’erano anche i gabinetti. Li mettevano lì attorno ai gabinetti.

Quindi uno andava al gabinetto e si vedeva lì il mucchio. Alcuni dei quali anche non erano proprio del tutto morti. Belli descrive una scena di questo genere su quell’articolo che è stato pubblicato da Il Triangolo Rosso.

Descrive proprio la scena di un prigioniero russo finito che lui ha visto.

D: Le baracche 22 e 23 erano vicine al muro di recinzione con la garitta?

R: Sì, con la garitta.

D: E aldilà della garitta c’era un avvallamento?

R: Sì.

D: C’era il forno crematorio sotto?

R: Sì. Ecco, qui ci sono diverse fotografie. Ecco, gli orrori di Flossenburg. Ecco qui, guarda. Qui si vede, la 22 e la 23 erano qui in fondo.

D: Certo. Lì nel blocco di quarantena quanto tempo siete rimasti?

R: Siamo rimasti lì praticamente un mese, come durava la quarantena.

D: In questo mese vi hanno fatto l’immatricolazione?

R: Ci hanno fatto l’immatricolazione, infatti. 21648 Belli e la mia era 21600… Chi se lo ricorda più, 21650 mi sembra.

D: 42.

R: La mia era 21642, grazie.

D: Vi hanno dato la zebrata lì?

R: Ci hanno dato la zebrata qui, si capisce.

D: Nell’arco di questo mese cosa vi facevano fare?

R: Come sempre nel periodo di quarantena, cioè alle cinque, a volte anche prima, sveglia, fuori per l’appello. Lì aspettare che passassero le SS per l’appello, tutti infreddoliti ma inquadrati.

Dopodiché, fatto l’appello, ci lasciavano fuori e dato che faceva molto freddo ci riunivamo in gruppi lì alle stufe, le stufe umane. Ogni tanto poi quelli che stavano all’esterno scappavano e andavano a fare…

La giornata passava così. Ci si scambiava qualche idea. La razione era la solita zuppa, alla mattina c’era il tè, c’era la zuppa a mezzogiorno con la fetta di pane. Alla sera tè con la margarina o con qualcosa del genere.

Era ancora allora il momento in cui il pezzo di pane era abbastanza consistente, perché era il pane tedesco, diviso in quattro parti. Poi andando avanti col tempo quattro parti, cinque, sei, sette. Le ultime lì a Kottern erano delle fette, lo stesso pane diviso in otto. Si capisce.

D: Dopo un mese circa lì nel blocco di quarantena?

R: Lì hanno fatto la scelta per la selezione, come facevano sempre, per mandare poi nei lavori. Devo dire che lì io sono stato molto fortunato e devo a Olivelli il consiglio, e poi a Ferruccio Belli, l’aiuto e i suggerimenti, perché alla fine della quarantena è venuto un tecnico della Messerschmitt che veniva dal campo di Kotter.

Volevano degli operai che lavorassero a Kottern, Kottern dipendeva da Dachau, però comunque il trasporto… A questo punto, poiché avevamo più o meno tutti capito che in officina era meno faticoso che lavorare a picco e pala.

Poi ce lo dicevano quelli che erano lì nelle gallerie. Quindi credo che un buon duecento e più ci siamo dichiarati operai. Io che ero scritto come studente come faccio? Lì è stato Olivelli insieme a Belli a suggerirmi: “Beh, tu di’ che eri studente operaio, studente lavoratore”. “Lavoravo dove?”. “Alla Necchi”.

La Necchi era conosciuta allora, conosciuta anche in Germania. Era una fabbrica di macchine da cucire, Singer, Necchi, più o meno erano quelle. Quindi a questo punto mi sono presentato a questo esame, c’era una commissione formata dal tecnico della Messerschmitt, poi c’era l’interprete e c’erano le SS che controllavano. Cosa vado a dire?

D: Ti hanno fatto un esamino?

R: Sì, certo. A tutti, per scartarne, per tirarne fuori ottanta dei duecento o trecento che si erano presentati. Devo dire che lì mi è stato utile il suggerimento di Ferruccio Belli, perché gli ho detto: “Ma scusa, Ferruccio, io cosa vado a dire?”. Se mi dicono se faccio il piallatore, faccio il fresatore io non ho mai preso in mano niente. Lui mi ha detto: “Guarda, di’ che hai fatto il tracciatore, l’anglaiser, perché effettivamente l’anglaiser dal punto di vista manuale ha da fare poco”.

E’ quello che col martelletto e col bulino segna sui pezzi, per esempio, non so, i pezzi di acciaio, le linee lungo le quali devono lavorare le frese, le pialle, i torni, tirandole fuori da un disegno di macchine. A quei tempi i matematici studiavano geometria descrittiva con elementi di disegno, adesso non più. Quindi geometria descrittiva con elementi di disegno, effettivamente sapevo leggere un disegno di macchina, che era una cosa abbastanza semplice.

Ho risposto anche con quel poco di tedesco che mi avevano insegnato e che ancora ricordavo, adesso non ricordo più niente. Questo subito era un fatto, perché bypassare l’interprete per i tedeschi era già un modo col quale si dimostravano più attenti.

Non c’era niente di peggio di dire: “Non capisco”, a quel punto lì ti legnavano. A quel punto sono stato fatto abile e sono finito insieme a Belli a lavorare a Kottern, nell’officina. Lavoravamo lì nell’officina vicino, dove anche Esposito…

D: E Eugenio?

R: Certo.

D: Per il viaggio da Flossenburg a Kottern vi hanno caricati sul treno?

R: Ci hanno caricato tutti in treno, mi ricordo che siamo arrivati là… Ci abbiamo messo una notte, una notte e un giorno.

D: A Dachau non vi siete fermati?

R: Si è fermato passando il treno, si è fermato, ma non ci hanno fatto uscire. A quel punto noi eravamo sotto Dachau, infatti a quel punto la mia matricola è diventata 116364, una roba di questo genere, non me lo ricordo più.

Non so se qui c’è. Ma tu come facevi a sapere la mia matricola lì?

D: Di Flossenburg perché è sul…

R: Ah, ho capito.

D: Poi sul libro di Italo Tibaldi.

R: Sì.

D: Compagni di viaggio.

R: Ho capito.

D: Quindi siete arrivati lì nel sottocampo di Dachau.

R: Sì, a Kottern.

D: Vi hanno messo a lavorare in una fabbrica?

R: Il sottocampo conteneva circa, non so, un migliaio di prigionieri di tutti i tipi, prigionieri politici, anche qualche prigioniero comune. Vivevamo in baracche lì nel campo.

Poi ci portavano, c’erano i turni di dodici ore. Ci portavano alla mattina o alla sera a seconda del turno nella fabbrica a Messerschmitt, che era lì vicina. Sarà stata ad un chilometro di distanza. Dove ciascuno di noi faceva il lavoro che gli facevano fare.

D: Lì nella fabbrica c’erano anche dei civili?

R: Sì, c’erano anche dei civili. Non solo civili tedeschi, per esempio anche lì siamo stati fortunati io e Ferruccio Belli, perché il civile tedesco che comandava il nostro gruppo di tracciatori, tutto sommato non ci ha mai molestato.

Ci lasciava anche un poco chiacchierare tra di noi. C’era con noi nello stesso gruppo anche l’ingegnere Miorin di Milano, che era il capo dei vigili del fuoco di Milano. Era stato arrestato anche lui, poi è riuscito a sopravvivere e tornare. Ormai adesso è morto.

C’erano anche dei civili, dei lavoratori italiani, quei lavoratori che erano stati obbligati ad andare a lavorare in Germania. Lì però erano liberi, nel senso che avevano lo stipendio e andavano ad abitare per conto loro.

Però li avevano obbligati ad andare a lavorare lì.

D: Quindi voi in base al turno che facevate uscivate dal Lager, facevate questo percorso a piedi di circa un chilometro, arrivavate in fabbrica e finito il turno tornavate al campo?

R: Tornavamo indietro, sì.

D: Il lavoro era sei giorni o sette giorni?

R: Era su sei giorni, la domenica eravamo lì nel campo.

D: Questo fino a quando è durato?

R: Fino alla fine della guerra. Adesso qui per le date bisognerebbe che andassi a vedere quello che mi sono scritto. Mi sembra che il 24 di aprile o il 23 di aprile hanno dato l’ordine di evacuare il campo.

Questo è stato un discorso che più o meno i tedeschi hanno fatto sempre man mano che si avvicinavano, così com’è successo ad esempio ad Auschwitz, Birkenau, la famosa camminata dove è morta un’infinità d’ebrei.

Anche a noi ci hanno obbligati a uscire e ci hanno indirizzati da Kottern, l’indirizzo era andare verso Innsbruck, ritirarsi dietro. Siamo arrivati dopo tre giorni e tre notti, siamo arrivati alla periferia di Fronten, che è una cittadina sotto Kottern nella direzione da Kottern verso la Svizzera.

Siamo arrivati lì alla sera. A un certo momento le SS di scorta sono scomparse. Ci siamo trovati lì. Devo dire che lì sempre per consiglio delle persone più anziane, tipo lo stesso Ferruccio, in un gruppetto tra italiani e francesi abbiamo detto: “Cosa facciamo?”.

“Andiamo come fanno tutti, che si sono precipitati dentro nel paese per cercare di mangiare, o stiamo qui ad aspettare che arrivino gli americani? No, stiamo qui”. Abbiamo passato una notte dentro in un bosco alla periferia di Fronten.

Alla mattina a un certo momento abbiamo sentito che arrivavano dei carri armati lungo la strada, siamo andati fuori. Io mi ricordo ancora, è un fatto che rimane in testa, che il carro armato in testa, noi siamo corsi incontro, si vede che avevano già avuto notizie, perché venivano da sopra, dell’esistenza di prigionieri politici.

Noi a salutare festosamente, il militare che era sulla torretta si è tolto l’elmetto in segno di saluto. Questo me lo ricordo. Dopodiché ci hanno portato a Fronten.

D: Il vostro gruppetto è rimasto lì?

R: Sì, poi siamo andati dentro anche noi.

D: Ma dico la notte, Eugenio e Gibillini?

R: E’ andato invece.

D: Sono andati, hanno tentato la fuga, sono scappati, no?

R: Sì, Eugenio…

D: Con Gibillini, con Venanzio.

R: Non lì, non in quell’occasione. Lì non è scappato nessuno.

D: Sono rimasti anche loro con voi? Non ti ricordi?

R: Non vorrei giurare, però non mi sembra. Nessun ha tentato di scappare, che ricordi io.

D: Tutta la marcia da lì l’avete fatta a piedi naturalmente?

R: Sì. Ci facevano viaggiare di notte, di giorno ci mettevano alla periferia accanto alle strade a dormire lì nei boschi.

D: Il ritorno com’è stato?

R: Il ritorno è stato avventuroso, perché siamo stati fessi noi che abbiamo cercato da lì di dire: “Visto che siamo vicini alla Svizzera, andiamo in Svizzera che ci accolgono”.

Siamo arrivati in Svizzera, dopo quindici giorni ci hanno fatto entrare. In Svizzera ci hanno trattati bene, chiaro. Siamo stati nei campi di concentramento che avevano lì per i prigionieri italiani.

Però siamo entrati in Svizzera per ultimi, siamo usciti per ultimi. Siamo usciti dalla Svizzera il 25 di Luglio. Sono quelle cose che…

D: Siete usciti da dove dalla Svizzera?

R: Noi eravamo finiti in Svizzera da Bregenz St. Margrethen, lago di Costanza in sostanza. Da lì dopo qualche tempo ci hanno portato a Ginevra e ci hanno tenuto a Ginevra, in una scuola che avevano adibita a campo per i profughi italiani.

Siamo stati lì praticamente fino al periodo che ho detto, siamo arrivati lì. Lì in un primo momento non riuscivamo a comunicare con le famiglie, perché c’era la frontiera chiusa.

Dopo un mese e più siamo riusciti a comunicare, almeno sono venuti a sapere che eravamo vivi.

D: Lì c’era la Croce Rossa che vi dava assistenza?

R: Dove, in Svizzera? Sì, mi sembra che erano gli svizzeri, però probabilmente era la Croce Rossa.

D: Poi sei arrivato a Milano?

R: Poi siamo arrivati a Milano passando attraverso Domodossola. L’abituale tragitto.

D: Sei arrivato a casa quando?

R: Sono arrivato a casa la sera di quel giorno, cos’era? Il 25, il giorno in cui sono arrivato. Il 25.

D: Luglio?

R: Sì. Sono venuti a prenderci a Milano.

D: Chi eravate, tu, Belli?

R : Io e Belli di Pavesi.

D: Gli altri?

R: Brusaioli è morto subito a Flossenburg, come vi dicevo, che era quello che era meno… Alberti invece non è venuto con noi a Flossenburg da Bolzano, è stato a Buchenwald e lì è riuscito a resistere, nonostante avesse già una certa età.

Era una persona serena, una persona molto forte, robusta dal punto di vista fisico. E’ riuscito a rientrare. Invece Balconi è morto a Hersbruck, dove è andato.

D: Dopo lì con Teresio Olivelli ti hanno diviso?

R: Sì, alla fine della quarantena proprio. Anzi, devo dire che io stesso avevo detto ad Olivelli: “Scusami, perché non ti spacci un po’ anche tu?”. Perché Olivelli sapeva benissimo il tedesco, faceva da interprete, quindi se avesse voluto seguire il reparto meno pericoloso, che era il nostro, probabilmente lo avrebbero in qualche modo preso.

Invece ha voluto lui proprio scegliere di stare insieme al grosso degli italiani. Del gruppo nostro di ottanta siamo tornati il 70% credo, siamo tornati quasi tutti relativamente. Mentre dell’altro gruppo sono tornati pochissimi.

E’ tornato Cognasso, l’avete mai sentito nominare? No? Sono tornati pochissimi. Olivelli, che aveva un fisico veramente atletico, di ferro, è morto nel gennaio del ’45.

D: Di quel gruppo è tornato Vittore Bocchetta…

R: Sì, che è venuto qua a Pavia proprio a ricordare. Infatti ci siamo incontrati, però naturalmente né io mi ricordavo di lui né lui si ricordava di me, perché eravamo lì in mezzo a…

Anche lui è stato uno dei pochi che sono tornati. Bocchetta l’avete incontrato anche voi? E’ venuto qua quando c’è stata quella giornata dedicata ad Olivelli. Adesso basta perché non sono più due minuti.

D: L’ultimo nanosecondo, la dislocazione qui a Pavia delle truppe germaniche, delle SS dov’era?

R: Qui a Pavia città?

D: Sì, non c’era?

R: Sì, certo che c’era. T’avevo detto, credo, che l’8 settembre un gruppetto di giovani sia dell’Azione Cattolica, sia laici ci eravamo trovati la sera dell’8 settembre in Piazza Re di Sole e avevamo coraggiosamente, ma proprio stupidamente stillato un manifesto in cui invitavamo gli universitari, gli studenti pavesi a resistere ai tedeschi, come in sostanza aveva detto il comunicato di Badoglio.

Siamo andati ad appiccicarlo proprio fuori dall’università, dopodiché a questo punto la fortuna ha voluto che il bidello dell’università, il famoso bidello che era anche amico di Freccaro, che ci conosceva bene, ha pensato bene nottetempo di tirarlo via.

La mattina dopo siamo andati in un gruppo alla caserma che c’è in fondo a Porta Garibaldi, la caserma che c’era lì a sinistra, Distretto Militare Romero. Siamo andati lì in un gruppo di ragazzi dicendo: “Siamo qui disposti se volete”. Il colonnello ci ha detto: “Non vi preoccupate, abbiamo tutto sotto controllo noi”.

Dopo un paio di ore è arrivato non so se un plotone o una compagnia, saranno stati in tutto cinquanta tedeschi, hanno occupato la città, chi s’è visto s’è visto. Naturalmente i militari se ne sono scappati, avevano tutti i motivi per scappare.

D: Questi tedeschi dove si sono insediati?

R: Qui?

D: Sì.

R: Si sono insediati un po’ dappertutto nelle caserme. Mi ricordo lì al Distretto Militare.