Militello Rosario

Rosario Militello

Nato nel 1925 a Piazza Armerina (EN)

Intervista del: 05.09.2000 a Roma realizzata da
Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n. 116 – durata: 47′ circa

Arresto: fine settembre, inizio ottobre 1944 nelle Langhe

Carcerazione: carceri Le Nuove, a Torino

Deportazione: Bolzano, Mauthausen, Gusen II

Liberazione: 5 maggio 1945

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Organizzazione materiali ed inserimento dati: Elisabetta Mascarello, Elena Pollastri

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Militello Rosario, sono nato nel 1925 a Piazza Armerina, provincia di Enna. Di famiglia molto povera e molto numerosa.

All’età di 5 anni andavo a lavorare, andavo a raccogliere le nocciole, essendo Piazza Armerina un produttore di nocciole e mandorle, sicché si finiva di andare a scuola e si andava a cogliere le nocciole poi le mandorle e poi quando finiva la stagione si ritornava a scuola.

Comunque andiamo un po’ avanti per stringere. All’età di 14 anni lavoravo nelle miniere di zolfo di Grottacalda, a 14 anni. Lì avevo sempre paura perché continuamente scoppiava il grisou e faceva molte vittime.

Mio padre era un calzolaio che faceva le scarpe nuove, era proprio calzolaio artigiano, però non poteva avere un posto di lavoro perché non pagava la tessera fascista. Eravamo sette figli, man mano che si andava avanti eravamo in tre che andavamo a scuola. Gli altri erano ancora piccolini perché dovevano raggiungere l’età per andare a scuola.

Noi che eravamo in tre si pagava la pagella, la pagella costava una lira. Poi si pagava la tessera, la tessera costava cinque lire. Sicché cinque e tre facevano otto, e per guadagnare otto lire a uno toccava lavorare, se aveva la fortuna di poterle guadagnare. Sicché non poteva, non si pagava la tessera perché ogni volta che si parlava a mio padre di tessere… Tanto più che mio padre era una ex guardia regia. Allora si entrava nella guardia regia anche con la terza elementare. La guardia regia fu sciolta proprio da Mussolini.

Mio padre e suo zio, che erano tutti e due della guardia regia, al momento dell’occupazione di Roma da parte dei fascisti a Piazza del Popolo riuscirono a fuggire e se ne andarono in Francia, emigrarono in Francia.

Però mio padre era purtroppo troppo mammolino perché era figlio unico: è stato in Francia per qualche anno, dopo è ritornato a Piazza Armerina. Avevamo il podestà che era un fascista. Il podestà allora era il sindaco di oggi ed aveva tutto il potere nelle mani, del paese.

Questo sapeva che mio padre era qui e non pagava la tessera, non aveva diritto; per farci vivere si arrangiava anche a riparare le scarpe invece di farle nuove.

Così se lui non riusciva noi non potevamo avere niente. Pensate che davano la refezione scolastica a quelli che erano un pochettino in condizioni disagiate. A noi non davano la refezione scolastica, eravamo io e mio fratello, quello più grande di me, perché? Perché non pagavamo la tessera.

Fortunatamente nella cucina ci stavano due donnette di buon cuore: invece di darci la minestra insieme agli altri ragazzi ce la davano di nascosto, e riuscivamo ad avere… Perché noi avevamo fame, a casa non è che avevamo tanto.

Insomma, andammo avanti e lavoravo nelle miniere di zolfo. Avevo tanta paura, tanta paura che un giorno ho deciso: Adesso me ne vado via di casa”. Avevo 14 anni, e me ne vado via, dove? A Torino. Difatti me ne sono andato via, ho preso il treno e me ne sono andato a Torino. A Torino ho trovato lavoro in una fabbrica dove c’era una fonderia, ed ho lavorato nella fonderia. Questo è stato nel ’39. Nel ’40 c’è stata la dichiarazione di guerra. Mio padre dal podestà fu chiamato, non doveva fare il militare perché aveva prima di tutto famiglia numerosa, e poi aveva già una certa età, e lo sbatterono in Africa. Difatti alla prima ritirata di Montgomery fu preso prigioniero, lui e tutta l’armata italiana, portata via.

Io sono andato a Torino, ho lavorato con questa ditta; a Torino c’erano fabbriche piccole che fondevano il metallo e noi si lavorava lì. Lì ho cominciato a respirare, prendevo trentasei lire alla settimana ed erano dei bei soldini.

Comunque, andiamo avanti: c’è la dichiarazione di guerra. Comincia la guerra, mio padre parte. A Torino c’erano dei bandi emessi dal Ministero dell’Aeronautica, dove dicevano che chi voleva andare ad imparare un mestiere poteva andare nell’aeronautica.

Io sono andato in Aeronautica, ho fatto la domanda, tutto, mi hanno preso, e facevo la scuola aeronautica alla Dalmazzo – Birago a San Paolo. Avevo allora, è stato alla fine del ’42, avevo già 16 anni, qualcosa così, ed ho cominciato a studiare.

Purtroppo gli interventi della guerra andavano sempre peggio, bombardamenti da tutte le parti insomma, gli americani erano scesi in guerra per aiutare anche la Francia.

Arrivato l’8 settembre del 1943 io stavo sempre sotto le armi; alla caduta di Mussolini c’è stata una grande manifestazione a Torino. Vicino a Piazza Maria Vittoria ci stava la sede del Partito Fascista, lì c’era l’emblema, mi ricordo ancora, e fecero cadere tutto il fascio. Comunque è venuto questo 8 settembre e l’esercito si è sfasciato. Sicché noi non sapevamo dove andare, noi meridionali che eravamo su in alta Italia siamo rimasti imbottigliati, e non sapevamo dove andare. Essendo settembre, il mese della vendemmia, molti di noi furono presi dai contadini, perché i contadini avevano i figli che stavano a fare la guerra, e c’erano soltanto i contadini anziani. Sicché noi li abbiamo aiutati a vendemmiare e tutto.

Quando è arrivato ottobre-novembre del ’43, vicino all’inverno insomma, e si era fatta la semina, si era fatto tutto, si preparava il terreno per il ’44, Mussolini aveva rifatto la Repubblica Sociale. Emisero dei bandi nei quali dicevano che dovevamo andare in servizio o saremmo stati passati per le armi come disertori.

Quello ci aveva messo paura, noi altri non si sapeva come fare, i meridionali, volevamo andare via. Di fatti alla famiglia dove stavo io dicevo: “Signori io vado via” “Ma no stai qui, stai qui”. “Va bene”, sono stato lì. Con insistenza perché avevano bisogno anche loro del lavoro; aiutavo, anche non sapendo fare il contadino li aiutavo e facevo il contadino.

Ad un certo punto tra marzo ed aprile del ’44 la Repubblica Sociale aveva preso una bella consistenza. Allora che cosa succedeva? Succedeva che loro andavano tramite le spie, giravano, eravamo a Nizza, nel paesetto piccolo di Castel Boglione vicino a Nizza Monferrato. Si erano cominciate a formare delle formazioni partigiane su per le montagne. La Repubblica Sociale già si era così formata bene, aveva le spie a cui tutti andavano a dire quello che facevano. Un giorno nel mese di febbraio o marzo mi sembra, i contadini avevano una sorgente d’acqua circa un chilometro lontano dalla casa dove abitavano, avevano cinque vacche, ed avevano fatto una specie di slitta con una botte grossa con cui si andava a prendere l’acqua e poi si dava alle mucche, si faceva la pulizia, si pulivano le stalle e tutto.

Un giorno andando a prendere l’acqua, avevamo già riempito la botte, sentiamo sparare. Allora ci siamo messi paura. Con me c’era una nipotina di questo contadino e si è messa paura anche lei. Poi sentivamo strillare, da lontano sentivamo gli strilli perché loro avevano organizzato di andare casa per casa dai contadini dove trovavano quelli come noi, sbandati, che non si erano presentati, li prendevano, li arrestavano. Io non ho avuto la disgrazia di cadere nelle loro mani, non so perché.

Sapevo che tanti di questi qui venivano uccisi, dopo, sia perché scappavano sia perché li avevano arrestati.

Così io non mi sono mosso dalla sorgente ed ho detto alla bambina, si chiamava Luciana: “Luciana, vai a vedere che cosa è successo”. La bambina, io intanto stavo lì ad aspettare con questo bue, un toro era non un bue, va lì e vede che piangevano il nonno con la nonna, gli avevano dato un sacco di botte perché volevano anche me. Non me come personalità o cosa, ma perché sapevano che ero uno sbandato ed allora volevano che facessi… O mi volevano uccidere o volevano che facessi il militare con loro. Non lo so perché. Infatti questi avevano preso delle botte.

Vedendo questo io ho detto: “Senta Signora Assunta” si chiamava Assunta “mi dispiace che voi abbiate preso le botte per colpa mia, vuol dire che adesso me ne vado.” “Ma no, non te ne devi andare via perché devi stare qui…” “Però vede, se mi prendono questi mi ammazzano”. Avevo saputo che a circa dieci, dodici chilometri c’era una formazione partigiana che si era formata, ho detto: “Io me ne vado con i partigiani, vado a vedere”.

Così sono andato. Poi ce n’erano anche altri, calabresi, ci siamo riuniti in tanti e siamo andati con questa formazione.

Siamo andati su, ci siamo presentati al comandante che era un comunista. Allora ho detto: “A noi è successo così e così”, dice “Bene, bene, così infoltiamo”, però non avevamo armi. Le armi ce le avevano fatte buttare via dopo l’8 settembre, non è che abbiamo trovato un comandante che dice “Mettiamoci le armi da parte per un domani che non sappiamo”.

Così è cominciata la guerra partigiana. Abbiamo cominciato la guerra partigiana, si facevano delle sortite, e si moriva l’uno e l’altro, sia i fascisti sia noi. Lì c’era la Brigata Nera Ather Capelli, erano dei fascisti, quelli criminali. Non facevano prigionieri fra i partigiani, li ammazzavano subito sul posto.

Alla fine di settembre del ’44 cominciarono a fare i rastrellamenti in grande stile, perché noi altri eravamo sempre in minoranza, non avevamo tante armi, invece loro ci seguivano con una cicogna che veniva a bassa quota e vedeva tutti i nostri spostamenti.

Per nostra sfortuna siamo capitati sotto questi fascisti. Comandavano i tedeschi e avevano bisogno di manodopera, anche loro avevano tutta la gioventù che stava a fare la guerra, chi stava in Russia chi in Italia.

Si vede che avevano avuto l’ordine di non doverci uccidere. Ci hanno preso, ci hanno impacchettato bene bene, ci hanno chiusi in certe auto…

D: Scusa Rosario, dove vi hanno arrestato? Dove vi hanno preso?

R: Adesso lo dico. Era tra la provincia di Asti e la provincia di Cuneo, nelle Langhe. Io mi ricordo, ho guardato sempre le montagne sulla carta geografica, comunque mi ricordo ancora che vicino avevamo Santo Stefano Belbo, avevamo Canelli. Mi sembra che la montagna fosse il Monte Rosso, penso sia questo, dovrebbe essere il Monte Rosso. Insomma ci hanno rastrellato e ci hanno preso, ci hanno portato dentro degli autobus e ci hanno portato a Torino. A Torino ci hanno portato alle Carceri Nuove.

D: Questo quando?

R: L’ho detto, verso la fine di settembre del ’44, primi di ottobre, una cosa così.

D: In quanti eravate quando vi hanno preso?

R: Eravamo in tanti, perché erano parecchi gli autobus chiusi ermeticamente; in ogni autobus c’era un tedesco che aveva un cane, un pastore tedesco, che ci guardava bene. Allora ci hanno portato in questo carcere. Ci hanno chiuso in una cameretta, una cameretta di queste carceri, c’era una brandina con delle catene che si teneva sul muro e c’era un ergastolano. Ci hanno messo con quest’ergastolano.

L’ergastolano quando ci ha visto… La cella era tutta sua, poi in un angolino c’era un piccolo… per lavarsi, e poi c’era un rubinetto che buttava continuamente l’acqua a fil di spago. Sotto il lavandino ci stava la tazza per fare i bisogni.

Pareva che avessimo colpa di esserci presi tutta la cella per noi. Invece dormivano per terra perché non c’erano letti e lui dormiva nella branda. Sicché ci dava qualche schiaffone, ci dava dei calci, noi eravamo ragazzi, che dovevamo dire? Se la prendeva con noi.

Comunque in questa cameretta dormivamo, come ho detto prima, in una ventina, tutti per terra, senza pagliericcio, senza niente.

Ci siamo stati parecchio, eravamo in tanti e i tedeschi cercavano il comandante, la personalità, sicché ci facevano inchieste, interrogatori. Però noi meridionali, non si sapeva, conoscevamo le persone ma mica sapevamo, non sapevamo niente. Io sapevo soltanto che il comandante dove stavo io era uno che era stato vent’anni in galera all’isola di Ponza, ce lo diceva sempre. Sicché era molto arrabbiato di quello che aveva passato, ed era molto arrabbiato con i fascisti che ci venivano…

Così siamo stati lì quasi un mesetto, loro hanno fatto le selezioni da dentro, volevano sapere le persone che mansioni avessero, chi comandava. Ma noi altri eravamo all’oscuro di tutte queste cose perché a noi dicevano: “Guarda, domani passa un treno e dobbiamo andare a prendere…” Molte volte ci è andata male, molte volte ci è andata bene.

Una cosa volevo ricordare, forse in Italia nessuno lo dice. Avete sentito la Anselmi una volta? Lei era una staffetta, non so se la conoscete. Nessuno ha scritto del valore delle ragazze che facevano le staffette, facevano chilometri, le corse, ci avvisavano continuamente: “Arrivano i tedeschi, arrivano i fascisti, mettetevi in guardia”, tutte queste cose.

Che sappia io non ho visto niente, mi è dispiaciuto parecchio, potevano fare un bello scritto di queste ragazze perché molte sono morte, sono morte.

Comunque siamo stati lì parecchio. Verso i primi di ottobre ci hanno trasferito a Bolzano. Siamo andati a Bolzano, anche lì c’era un campo molto pieno di prigionieri, però ancora non avevamo la divisa dei prigionieri deportati. Tanto più che noi non sapevamo neanche che cosa fosse.

Era in una baracca di Bolzano dove stavano facendo un tunnel. Avevamo i pagliericci, erano tutti di paglia, invece questi li avevano riempiti tutti di sabbia. Allora sentendo gli altri che stavano prima di noi lì avevamo paura: “Questi ci acchiappano qualche giorno e faremo una brutta fine”.

La fortuna mia e di qualche altro, venti o trenta, è che ci hanno trasferiti da questa baracca ad un’altra. Lì c’è stata un po’ di liberazione. Dopo abbiamo saputo, quando stavamo a Mauthausen, che hanno trovato quelli che avevano organizzato il tunnel, mi pare che li hanno fucilati, pure. Allora ci hanno mandati in un’altra baracca e siamo rimasti lì in questa baracca. Poi c’è stato il trasporto a Mauthausen, dove le date sono un po’…

D: A Bolzano ti hanno immatricolato?

R: No, non ce l’hanno data la matricola.

D: E tu sei rimasto a Bolzano più o meno quanto tempo?

R: Posso dire una mesata, così, perché siamo arrivati a Mauthausen alla fine di novembre, e faceva molto freddo. Sono un po’ in discussione queste date perché è passato molto tempo e non mi ricordo. Comunque un giorno ci hanno preso, ci hanno…

D: Scusa ancora, Rosario, non sei mai uscito dal campo di Bolzano?

R: No, no.

D: Siete rimasti sempre dentro nel campo?

R: Sì, sempre nel campo siamo rimasti.

D: Fino a quando vi hanno chiamati…

R: Ci hanno chiamati, ci hanno messo in fila, ci hanno portati alla stazione di Bolzano, e ci hanno fatto entrare dentro questi vagoni. Non ci hanno dato né pane né acqua, niente. Ci hanno chiusi ermeticamente, e poi questo treno si è avviato. Non sapevamo dove andasse.

Arrivati, io penso fosse Innsbruck ma non sono sicuro, gli americani bombardavano il nodo ferroviario tra l’Austria e Monaco. Allora hanno preso il treno e l’hanno messo su un binario morto e ci hanno lasciato lì tutta la notte. Avevamo fame, non ci avevano dato niente, battevamo su questo vagone, che poi era un treno, non so quanti eravamo, dieci o undici vagoni, in ogni vagone c’erano sessanta persone, perciò pensa un po’… Stavamo stretti l’uno vicino all’altro, piangevamo come bambini. Non sapevamo che fare.

Poi gli americani hanno finito di bombardare. Il giorno dopo verso mezzogiorno o l’una, ma il tempo ormai non potevamo più misurarlo perché eravamo stanchi tutti, qualcuno aveva l’orologio e si guardava l’orario, ma non sapevamo più, eravamo diventati proprio dei …, siamo arrivati a Mauthausen, o verso pomeriggio, sarà stato l’imbrunire, c’era un freddo tremendo. Ci hanno fatto scendere, eravamo tutti sporchi di tutte le nostre scorie. Ci hanno messi in fila con dei cani da una parte e dall’altra, e ci hanno fatto attraversare questo paesetto in ordine, molto pulito, persone molto per bene stavano lì, passavamo noi ma nessuno ci diceva niente.

Dalla stazione ad andare a Mauthausen, al campo, ci sono circa quattro, cinque chilometri, non lo so. Pensate un po’, stanchi come eravamo, stanchi dovevamo salire, ed ancora non sapevamo che cosa ci attendesse.

Saliamo questa collina e da lontano vediamo il primo muro. C’era un bel portone con un’aquila con la svastica che quest’aquila teneva con le zampe. Era fatta così bene.

La parte dentro invece era un luogo di morte. Entriamo e vediamo tutti gli altri prima di noi, tutti smagriti, i morti per terra, le botte che davano e lì abbiamo cominciato a dire: “Signore mio, qui che cosa si fa?”

Allora uno ci ha detto: “State attenti, siete entrati di là ed uscirete da lì” ci disse. Vicino a noi c’era un avvocato, era di Nizza Monferrato, preso prigioniero anche lui. Questo era il più grande di tutti noi perché aveva fatto la prima guerra mondiale ed era stato prigioniero a Mauthausen, poi è morto a Gusen. Pensate poveretto, prigioniero nella prima guerra mondiale, portato a Gusen e poi è morto perché era anziano. Allora ci disse: “Cari ragazzi, da qui non si esce più.”

Ci fecero spogliare nudi, ci levarono tutto. La Kopfstrasse. Ci fecero andare sotto lì dove c’erano le docce, siamo entrati lì, ci buttarono subito l’acqua calda, bollente, sul corpo. Gli strilli che facevamo… Non so, li avete visti? Io e qualche altro, siccome nelle docce buttavano in mezzo l’acqua cercavamo di andare ai lati … invece questi ci spedivano di là.

Poi dopo la calda quella fredda, gelata, e questo si è fatto per quattro o cinque volte. Finito questo usciamo, c’era una porticina e c’era uno con un prigioniero che teneva un secchio, dentro questo secchio ci stava la creolina, e ci disinfettavano sotto le ascelle, qua sotto. Il bruciore che ci dava questa creolina! La creolina bruciava gli insetti, si pulivano le stalle. Poi dopo tutto questo ci diedero la divisa con il numero di matricola, ci dettero tutto.

D: Ti ricordi il tuo numero?

R: 115.615.

D: Ascolta, oltre al numero vi hanno dato…

R: Il triangolo rosso, la matricola qui, era con il fil di ferro, e poi c’era un pezzetto di alluminio con impresso il numero. Però questo numero sarà stato di qualche altro, perché era arrugginito, i pantaloni miei erano pieni di sangue sulla sinistra, perché loro non è che bollivano, quando uno moriva gli levavano la divisa. Sa il ribrezzo che ho passato pure io a vedere quell’affare là? Dopo ci hanno mandato al blocco, al blocco n. 20 mi pare, perché dietro ci stavano gli altri che morivano diversamente. Siamo stati lì penso cinque o sei giorni, sette giorni, dieci giorni, adesso non lo so.

Un giorno ci hanno chiamati, eravamo una trentina, ci hanno messi in fila, ci hanno fatto uscire dal campo, e non ci hanno portato lì dalla scala della morte, ci hanno fatto fare un giro in largo.

Siamo arrivati in uno spazio, c’erano trenta o quaranta morti per terra, moribondi, e ce li hanno fatti caricare sulle spalle, ognuno si caricava il suo. Quello che portavo io ancora rantolava, aveva preso una pietra. Però loro che cosa hanno fatto? Dove c’era la scala della morte c’è il piazzale, l’hanno levato da lì e l’hanno portato in quell’altro piazzale di dietro, non l’abbiamo vista la scala della morte. Noi non abbiamo dovuto salire sulla scala ma ci hanno riportato dalla strada attorno attorno che gira con il viottolo e ci hanno fatto risalire su.

Quando siamo ritornati in baracca piangevamo. C’erano pure gli spagnoli: “Avete visto la scala della morte?” Noi abbiamo detto: “Quale scala della morte? Noi non abbiamo… Che cos’è la scala della morte? No, ci hanno portato dall’altra parte.” Non sapevamo neanche di questa scala, io non l’avevo vista, capito?

Comunque abbiamo preso poi questi e li abbiamo portati dietro i crematori. Noi dentro i crematori non si poteva entrare perché c’era quello all’interno; si lasciavano davanti, li prendevano loro e li portavano dove li dovevano portare.

Siamo ritornati in baracca. Siamo stati in baracca. Stringiamo ancora. Passa il tempo e da Mauthausen a piedi ci portano a Gusen. Facciamo la strada, eravamo in parecchi, e si passa da Gusen 1.

A Gusen 1 si sta un’oretta o due, c’erano quelli che dovevano rimanere a Gusen 1, poi dopo hanno preso quelli che erano rimasti e ci portano a Gusen 2. Arrivati a Gusen 2 a me mettono nel blocco n. 5. Di lì comincia la nostra odissea. Morti continuamente. A Gusen 2 non avevamo i crematori perché quelli che dovevano essere cremati si portavano a Gusen 1 dove c’era il crematorio.

Lì comincia la nostra odissea. Alla mattina sveglia alle quattro sulla piazza del campo, ci contavano. Ci chiamavano Stück, dicevano Stück, Stück. Ci contavano, ci preparavano, c’era un trenino che ci portava, era lontano dove si andava a lavorare. A mano a mano che si entrava la mattina, dopo un’ora e mezza con quel freddo, con quella divisa senza nessuna protezione: quello che avevamo addosso non ci proteggeva il corpo, niente.

Il freddo a 24/25° sotto zero. Poi ad uno ad uno quando ci avevano contato ci facevano entrare sul trenino. A mano a mano che si entrava ci davano un pezzetto di pane, una fettina. Si entrava con questo pane, pane nero, non sapevamo neanche di cosa fosse fatto, e si andava via, a lavorare.

Mi misero in un reparto che si chiamava Platz planieren: allungavano le gallerie per mettere altre fabbriche, perché lì facevano gli scheletri del V1 e V2 dei missili. Allora si allargava sempre.

Sicché mano a mano che si facevano le gallerie io facevo organizzare le linee con i vagoni, si metteva la terra dentro e poi si portava fuori e si scaricava. A mano a mano che si allungava si saliva sopra la montagna dove c’era un deposito di rotaie che stavano messe l’una sopra l’altra.

Quando c’era bisogno di venti, trenta di queste eravamo in dieci, dodici, ce le caricavamo sulle spalle e le portavamo giù, si allungava la linea man mano che si andava avanti.

Prendendo le rotaie, c’era la neve alta in mezzo alle rotaie ed aveva creato un vuoto sotto: pensate che c’era la cicoria, certa cicoria alta, tutta la prendevamo! La prendevamo e ce la mangiavamo così, cruda com’era. La mettevamo dentro al petto. La cicoria fa latte, sicché questo latte ci si attaccava addosso, ci faceva bruciore. Comunque mangiavamo la cicoria, ma certo questo non succedeva tutti i giorni. Per ritornare a prendere altre rotaie dovevi aspettare quindici, venti giorni, in modo che si facesse un altro po’ di spazio, e non è che si potesse fare tutti i giorni. Perciò la fame c’era sempre.

Quel giorno per noi era festa perché ce la mettevamo pure sotto i piedi per nasconderla: c’erano i tedeschi e non ci dovevamo far vedere a prendere questa cosa. Così tutti i giorni.

Si andava a lavorare dodici ore al giorno. Alla sera quando si usciva, praticamente lì era un posto di lavoro, ma era guardato dalle guardie, c’erano le torrette, c’era tutto, perciò non si poteva fuggire, ci contavano: doveva essere la stessa somma che era uscita la mattina. Invece quando era sera mancavano sempre cinquanta, sessanta persone, settanta, dipende.

Allora che cosa si faceva? Si entrava di nuovo per andare a cercare questi che mancavano, e si trovavano quelli moribondi e quelli già morti. Perché ormai quando si lavorava non è che ci interessassimo se uno era morto, cadeva e non sapevamo. Noi ormai avevamo perso il lume della personalità, non avevamo più un interesse. Tra noi non c’era più neanche comunicazione perché eravamo ad un tal punto, ridotti come eravamo.

Fatto sta che alla sera toccava andare dentro, si portavano i morti, quelli vivi li avevano contati, si contavano i morti, combaciavano con il numero? Si caricavano sul trenino e si portavano via, di nuovo al campo.

Noi altri vivi ci mettevamo in fila e ci ricontavano quanti eravamo rimasti. C’era un momento in cui non funzionava più il crematorio, c’era una grande baracca dove c’erano i tubi dell’acqua, dove si andava a lavarsi. Tutti questi morti venivano messi attorno ai tubi e si mettevano l’uno sopra l’altro, a cataste. Sicché non avevamo neanche più voglia di entrare là dentro, vedendo tutti questi nostri compagni, questi ragazzi, eravamo tutti giovani, la maggior parte.

Ci faceva orrore, perché questi morti morivano tutti con gli occhi aperti dalla paura, nessuno aveva gli occhi chiusi. La paura era tanta, le botte erano continue, le scudisciate, ventiquattro scudisciate, l’inginocchiatoio dove ci facevano mettere… Non le dico quello che abbiamo passato.

Quando ci facevano queste torture dovevamo essere tutti presenti a vedere ciò che si vedeva. Quello che capitava a quello poteva capitare a noi.

Purtroppo avevamo due Oberkapo, uno era uno spagnolo ed uno era polacco. Il polacco era cattivo.

Questa prigionia è durata quasi sei mesi; all’ultimo sono arrivati gli americani, fortuna mia c’era l’armata del generale Patton dei carristi. C’era un americano figlio di siciliani, si chiamava Caruso Antonio, ancora mi ricordo, sicché quando sono entrati nel campo e hanno visto tutta questa gente, i morti che c’erano ancora, tutto il campo pieno, noi altri che eravamo diventati… Io pesavo ventiquattro chili, pensi un po’.

Allora lui non ha detto: “Chi è italiano?” ma ha detto: “Chi è siciliano qua dentro?” Io ridotto in quelle condizioni gli ho detto: “Sono io”. Mi ha visto in quelle condizioni come ero, mi ha preso in braccio, mi ha messo sulla jeep e mi ha portato a Linz, mi ha portato in una clinica della San Vincenzo.

D: Ti ricordi quando vi hanno liberato?

R: Il 5 maggio del ’45. Così è finita la nostra odissea. Mi hanno portato in clinica, c’erano le suore di San Vincenzo. Suo padre era siciliano, ecco perché, pensi che lui come americano parlava il siciliano. Suo padre era di Sambuca di Sicilia, provincia di Agrigento. Si ricordava della Sicilia. Lui parlava proprio il siciliano.

Mi porta in questa clinica e le suore della San Vincenzo quando mi hanno visto in quel modo dicono: “Che gli facciamo? Noi non abbiamo…” Allora ha detto loro: “Pulite questo ragazzo bene bene, poi lo mettete…” “Sì, va bene, noi lo puliamo, però non abbiamo da mangiare”. Dice: “Non vi preoccupate”. Questo se ne va via. Prima di uscire ha detto: “Scusi sorella, avete una bilancia?” Dice: “Sì”. Così ho saputo quanto pesavo, se non l’avessi saputo non avrei potuto dirlo…

Così sono stato lì. Nel pomeriggio è venuto, faceva parte della sanità americana che curava i feriti al fronte. E’ ritornato nel pomeriggio ed ha portato un dottore, mi ha fatto visitare: avevo un’infiltrazione polmonare, poi avevo l’ulcera. Abbiamo aspettato dopo la Liberazione, sono rimasto per quasi un mese ricoverato, non potevamo dormire con le lenzuola perché ci facevano male le ossa. C’erano solo le ossa, carne non ce n’era.

Dopo ci hanno rimpatriato, sono arrivato a Roma e mi hanno ricoverato all’Ospedale del Celio, sono stato un anno ricoverato là dentro.

D: Ma quando sei rientrato in Italia?

R: Il 25 luglio del ’45. Sono uscito, mi sono presentato al Comando dell’Aeronautica a cui appartenevo, mi hanno dato la divisa, mi hanno dato tutto, e dovevo essere mandato in licenza. Invece mi mandarono alla stazione Ostiense dove si formava un treno che andava in bassa Italia, in Sicilia: volevo andare a vedere i genitori. Mi è incominciata la tosse, non potevo respirare, hanno chiamato la Croce Rossa e mi hanno portato all’ospedale, e lì sono rimasto. Sono entrato il 26/27 di luglio 1945 e sono uscito il 4 marzo del ’47.

D: Rosario, quando dicevi che da Gusen 2 vi portavano a lavorare, vi portavano nelle gallerie di Sant Georgen?

R: Sì, lì vicino a San Giorgio.

D: Lavoravate nelle gallerie?

R: Noi lavoravamo nelle gallerie, però noi San Giorgio lo sentivamo nominare, c’era uno che dirigeva i lavori, sentivo sempre Sant Georgen, sentivo nominare questo paese. Però non mi ero fatto idea.

Dopo, quando l’americano mi ha portato al campo, mi sentivo un po’ meglio, in forze, ho visto che c’era San Giorgio, il paese, poi c’era San Valentino, poi c’era un altro paese, adesso non mi ricordo come si chiamava. Insomma dopo che sono stato ricoverato e poi dimesso sono andato al campo ed ho trovato queste cose.

D: Un’altra cosa Rosario; ti ricordi il nome di qualche ditta? Voi lavoravate per qualche ditta?

R: La Messerschmitt, alla Messerschmitt si lavorava. Io sapevo che si facevano gli scheletri di duro alluminio, ed ho saputo, se è vero o non è vero non lo so, che vicino c’era una miniera di bauxite. La bauxite dicevano che si cola e fa il duro alluminio. Di fatto loro facevano il duro alluminio. Noi altri ogni tanto si prendeva qualche pezzo, si faceva un coltellino, si facevano queste cose così.