Samiolo Sergio

Sergio Samiolo

Nato il 12.12.1923 a Cismon del Grappa (VI)

Intervista del: 10.08.2000 a Feltre (BL) realizzata da
Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n. 57 – durata: 19′ circa

Arresto: il 03.10.1944 nella zona di Feltre

Carcerazione: a Grigno di Valsugana

Deportazione: Bolzano, Vipiteno

Liberazione: fuga da Vipiteno a fine aprile ’45

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Organizzazione materiali ed inserimento dati: Elisabetta Mascarello, Elena Pollastri

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sono Sergio Samiolo, sono nato il 12 dicembre 1923, a Cismon del Grappa ed ora abito a Feltre, da sempre praticamente.

Io il 3 ottobre del 1944 sono stato arrestato dalle SS tedesche nel corso di un rastrellamento che hanno fatto qui in zona, in tutto il paese di Feltre e mi hanno portato sul cortile del Metallurgica Feltrina.

Da lì poi ci hanno spostato al cinema Italia, poi caricati su un camion. Ci hanno portato prima a Grigno di Valsugana.

Lì siamo stati un paio di notti, poi la mattina dopo ci hanno caricati sul treno, per spedirci non si sapeva dove.

Io ho la fortuna di avere uno zio che faceva il capostazione a Bolzano; arrivati a Trento ho trovato, fra i militari tedeschi che facevano il servizio lì in stazione, due miei ex compagni di naia, eravamo a fare la naia assieme all’aeroporto di Ghedi.

Quando mi hanno visto si sono meravigliati e mi hanno detto che forse potevano fare qualcosa. Io ho detto loro solamente: “Avvertite il capostazione di Bolzano che sono su questo treno e che stiamo arrivando”.

Difatti il capostazione ci ha fatto arrivare, tre giorni ci ha impiegato da Trento a Bolzano questo treno.

Quando siamo arrivati alla sera lui è venuto lì ma non l’hanno lasciato avvicinare. Ci hanno caricati su dei camion e portati nel campo di concentramento.

La mattina dopo ci hanno passati all’appello, al controllo dei militari che c’erano e ci hanno fatto dare le generalità. Poi ci hanno dato una tuta e ci hanno mandato in campo con l’ordine di adoperare solamente ed esclusivamente la tuta, senza nessun capo civile possibile: praticamente solo con la biancheria intima e la tuta e basta.

Per questo motivo una mattina che avevo più freddo del solito, mi sono messo un maglione sotto, sennonché per andare all’uscita, per andare a lavorar, e ci facevano lavorare sempre, mi hanno fatto aprire la tuta e si sono accorti che avevo un maglione sotto: mi hanno dato con un tubo di ferro di quaranta, cinquanta centimetri sulla testa e qui ne ho la cicatrice. Mi hanno steso come fossi stato un vitello, buttato per terra, per fortuna che come ha detto il mio amico, avevamo il capoblocco che era un dottore e direttore dell’ospedale di Feltre; mi ha fatto portare dentro e mi ha medicato alla meglio.

Vorrei raccontare un altro episodio.

Noi andavamo a lavorare nelle gallerie di Gries, le gallerie antibombardamento di ricovero per i militari, per evitare i bombardamenti. Al ritorno da questa caserma stavamo facendo un paio di chilometri di strada a piedi per rientrare in campo di concentramento ed avevamo i parenti che ci facevano la scorta, da Feltre a Bolzano sono 140 chilometri, devo premettere che mio padre faceva il taxista e aveva la possibilità con i parenti di uno o dell’altro di questi cento e passa miei amici, di venire su spesso e mi veniva a trovare.

Un bel giorno è venuto fuori da una casa, che era in fianco a questa strada, una signora ed ha redarguito piuttosto pesantemente il militare che ci faceva la scorta; non ho capito quello che diceva, perché il tedesco non lo so.

Il fatto che è dopo dieci minuti questo militare, che era un austriaco di Vienna, forse uno dei migliori che ho trovato come temperamento, ci ha raccomandato, ha fatto mandare via i nostri parenti ed ha detto: “Mi dispiace, ma devo agire così, perché altrimenti quella signora mi denuncia e mi manda a Stalingrado a fare la guerra”.

D: Sergio, ricordi il tuo numero di Bolzano?

R: Il mio numero di Bolzano era 5.001 e triangolo rosa, per circa un mese e mezzo, forse due scarsi. Verso la fine di novembre, alla mattina durante l’adunata, hanno domandato se c’era gente che volesse andare a lavorare fuori dal campo.

Io ho approfittato dell’occasione perché avevo sentito che una squadra delle nostre era andata a lavorare verso Merano in una fabbrica di marmellata ed io pensavo: “Tento anch’io”.

C’era tanta gente; c’era gente che diceva che ci avrebbero mandati su per i passi a spalare la neve, per tenere aperte le strade per i militari. Io ho tentato, invece ci hanno mandati a Vipiteno.

A Vipiteno ci hanno sistemati in una caserma; eravamo in due stanze, in una piccola eravamo in otto, su quattro letti a castello, invece i rimanenti, ventiquattro, venticinque che erano, erano in un’altra aula o camerata che dir si voglia. Praticamente lì siamo stati. Noi avevamo che ci facevano la guardia otto militari della SS altoatesini, parlavano benissimo l’italiano, fra i quali c’era anche quello che mi aveva dato il colpo in testa, un certo Baldo mi pare si chiamasse.

Avevamo anche un po’ di paura: avevamo capito che erano cattivi, erano cattivi perché erano in pochi e dovevano sorvegliare parecchie persone.

Invece lì eravamo in meno, tanto è vero che poi eravamo riusciti ad addomesticare questi militari ed alla sera uno di noi, con la scorta di uno di loro, si andava fuori e si faceva un sacco pieno di fiaschi di vino e ce li riportavano dentro.

Infatti una sera un nostro amico è andato fuori ed è ritornato con il mitra sulle spalle, ma senza sentinella, tutti quanti siamo andati fuori in cerca e lui ed il sacco di vino erano in una cunetta coperti dalla neve, ubriaco fradicio.

D: Scusa Sergio, ritornando un attimo a Gries, tu dicevi che andavate a scavare delle gallerie… Ti ricordi più o meno dove?

R: Alle spalle della caserma c’erano le gallerie; noi si andava, si scavava. Facevano saltare le mine e si andava dentro; siccome quello è granito puro, si andava dentro e mi ricordo che per più di un mese ho continuato a sputare saliva che era come malta, perché si respirava quello.

Però anche lì non è che siamo stati proprio… E’ inutile, eravamo prigionieri e bisognava agire da prigionieri, se si voleva stare… Infatti io ed il mio amico, che purtroppo oggi non c’è più, un certo Felice Bellumat, ci hanno anche premiato perché lavoravamo: ci hanno dato un pacchetto di sigarette a testa, anche se io non fumavo allora, comunque è servito da scambiare.

D: Ricordi anche tu la celebrazione della messa nel campo di Bolzano?

R: Assolutamente non mi ricordo niente della messa. Io mi ricordo che ci si trovava fra di noi, si parlava, specialmente alla sera; bisognava cercare di buttarla un po’ alla carlona, cercare di sopravvivere e reagire. Noialtri alla sera si campava, questo mi ricordo; poi quando mi hanno mandato lassù a Vipiteno ci è andata anche discretamente.

Comunque posso dire questo: che il lavoro era quello che era.

Posso dire questo: a Vipiteno, dove eravamo noi, hanno portato tutte le macchine che facevano le rivoltelle Beretta. Mi ricordo d’aver portato su dei…. e una fatica tremenda a portarli su per le scalinate, portare ai piani superiori queste macchine, che eravamo andati a prendere. Avevamo fatto un trasbordo da un camion ad un altro, uno si era rotto e siamo andati giù noi a trasbordarlo su un camion buono; poi le abbiamo portate su ed abbiamo cominciato a mettere a posto tutto quanto.

D: Dove avete portato a Vipiteno queste macchine?

R: Nella caserma dove eravamo alloggiati noi avevamo il nostro alloggio, queste due stanze, una più piccola ed una più grande, poi c’era una caserma piuttosto grande e c’erano altre stanze. In tutte queste stanze venivano messe dentro queste macchine per fare le Beretta.

D: Come deposito o per la produzione?

R: No, per la produzione. Quando ci hanno portato su quella valle che c’è alle spalle della Caserma di Gries, la Val Sarentino, c’erano due strade, una era bassa e mi ricordo che era vecchia, e un’altra sopra. Era praticamente come la Gardesana, tutte gallerie. Loro pensavano di adoperare le gallerie per metterci dentro le macchine per la produzione di armi; avevano domandato chi sapesse guidare le macchine, allora io, siccome avevo la patente, ho alzato la mano, e ci hanno mandati sulla strada di sotto a prepararla, con pale, badili e rastrelli per inghiaiare la strada, in maniera da sistemare la strada, in maniera da lasciar libere le gallerie per adoperarle come officine meccaniche dove mettere dentro macchinari. Non so se poi questo è avvenuto, perché sono stato su due volte e basta.

D: Poi sei rimasto sempre a Vipiteno?

R: Quando mi hanno trasferito a Vipiteno sono stato là fin quasi alla fine; ad un certo punto c’è stato un rilassamento della sorveglianza ed ho approfittato dell’occasione, ho preso il treno, sono scappato e sono andato a Bolzano, dove avevo, come ho detto, mio zio che era capostazione; aveva fra l’altro due figli, miei cugini, che erano tutti e due militari ed avevano vestiti da darmi.

Insomma mi sono vestito con i vestiti dei miei cugini, sono stato tre, quattro o cinque giorni, finché sono arrivati gli americani e poi sono venuto a casa così, con i mezzi americani.

D: Quindi tu non sei rimasto fino al 3 maggio?

R: No.

D: Quando sei venuto via?

R: Adesso non ricordo, ma verso la fine di aprile o qualcosa del genere, mancavano pochi giorni ormai, c’era uno sbandamento generale, si vedeva che non c’era più una disciplina che teneva ferma la gente.

D: Sei scappato?

R: Sì, sono andato, eravamo davanti alla stazione, sono montato su un treno e mi hanno portato a Bolzano. A Bolzano sono sceso e sono andato dal capostazione che era mio cugino e basta.

Sembra facile. E’ così insomma.

D: Durante il tuo periodo di deportazione hai potuto scrivere a casa?

R: No, non scrivevo perché avevo, come ho detto prima, mio padre che andava e veniva, quindi quello di cui avevo bisogno e quello che volevano sapere loro era in comunicazione diretta; in linea di massima veniva su e stava su, perché portava su i parenti dei miei amici che c’erano lì e andavano a dormire in albergo davanti alla stazione.

D: A Vipiteno tu eri addetto a cosa?

R: Noi eravamo addetti a caricare, scaricare, portare su il materiale che serviva per le pistole e i mitra che facevamo e basta; perlomeno io facevo quel lavoro, portare su e giù il materiale.

D: Rapporti con i civili e con la gente del luogo?

R: Noi avevamo rapporto con un casellante della ferrovia, che era dei nostri paesi qui vicino, un certo Sori; per mezzo suo abbiamo potuto in qualche maniera mangiare un po’ più discretamente, in quanto attraverso lui riuscivamo ad acquistare carne, pane e qualcosa.

Certo che non c’era da mangiare per tutti, quel poco che c’era, perché anche questo signore ad un certo punto doveva cercare e non era facile trovare della roba.

Mi ricordo d’aver mangiato tanto caprone.

D: Perché tanto caprone?

R: Perché era l’unica cosa che si poteva mangiare allora, ne ammazzavano continuamente e si mangiava caprone, sempre in brodo però. Si faceva il brodo.

Un’altra cosa, quando ci hanno mandato a Vipiteno ci hanno mandato con i viveri razionati per dieci giorni per tutti e trentatre.

Eravamo tutta gente di venti, venticinque, trent’anni anni al massimo, alla fine del secondo giorno avevamo fame tutti e per otto giorni cosa si faceva? Siamo stati quattro o cinque giorni a mangiare miglio ed acqua, con il miglio si faceva il minestrone, ed un po’ di margarina. Poi, quando è arrivato, siamo riusciti a conoscere questo Sori, che ci portava la carne di capra e mettevamo dentro questo e facevamo un minestrone e così si mangiava un po’ tutti.