Valcovic Mario

Mario Valcovic

Nato il 07.04.1925 a Umago (Croazia)

Intervista del: 24.06.2000 a Ronchi dei Legionari (GO) realizzata da
Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n. 166 – durata: 61′ circa

Arresto: il 20.12.1943 a Doberdò del Lago (GO)

Carcerazione: a Monfalcone (GO), a Trieste al Coroneo

Deportazione: Mauthausen, Gusen 2

Liberazione: 5 maggio 1945 a Gusen 2

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Organizzazione materiali ed inserimento dati: Elisabetta Mascarello, Elena Pollastri

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

D: Ci dici come ti chiami?

R: Mario Valcovic, nato a Umago il 07.04.1925, allora era provincia di Trieste ma ora è Croazia.

D: Mario, quanto ti hanno arrestato, chi ti ha arrestato e perché?

R: Mi hanno arrestato le SS il 20 dicembre 1943 a Doberdò del Lago, in provincia di Gorizia.

D: Perché ti hanno arrestato?

R: Perché ero armato, ero con i partigiani; ad un rastrellamento sono venuti alla mattina e ci hanno arrestati tutti, tanto è vero che eravamo in un fienile, avevamo tirato su la scala, c’eravamo un po’ occultati, per dire la verità, ma dopo due o tre tentativi che cercavano in quella stalla o nella stalla vicina; noi eravamo armati.

Sono andato fuori, in quel momento è venuto un contadino che lavorava in questa piccola fattoria ed ha fatto cenno che i partigiani erano sopra: le SS erano andate in una stalla e con degli uncini cercavano nel fieno, ma non avevano trovato nessuno.

I partigiani erano sopra: noi avevamo tirato su la scala, eravamo in sei su ed uno, poveretto, si è fatto prendere dal timore, dal panico, tremava tutto, noi eravamo in cinque sopra di lui a tenerlo, per non far sentire di sotto.

Io ero ferito e sono andato su proprio quel giorno, sono rimasto lì per non tornare a Monfalcone.

C’era un giovane alpino di Bergamo, vent’anni aveva, è sepolto nel cimitero e non se ne sa ancora nome e cognome, partigiano ignoto, io ho cercato, abbiamo anche scritto ma non abbiamo mai saputo come si chiamava né niente.

Questo alpino, questo giovane di Bergamo, quando i tedeschi sono arrivati di nuovo lì ha tirato due colpi di pistola ed i tedeschi si sono ritirati, sono andati indietro cinque o sei metri ed hanno cominciato a sparare, da sotto e da una finestrella piccola.

Mi ricordo ancora che ho messo il viso e mi è passata una pallottola che mi aveva bruciato tutti i capelli.

Avevano sparato due, tre minuti: di sotto si vedevano questi tedeschi, avevano quelle bombe con il manico, se buttavano su una bomba saltavamo noi che eravamo in cinque con tutto il paese vicino.

Dopo un paio di minuti o secondi, noi avevamo messo il fieno, si sentiva sparare da tutte le parti, era tutto un fumo ed abbiamo gridato di fermarsi, “Veniamo giù, ci arrendiamo”.

Hanno smesso di sparare: poi dovevamo andare giù, ci aspettavano, abbiamo messo la scala di nuovo per andare giù.

Nessuno voleva essere il primo.

Mi ricordo come adesso, sono passati cinquantasei anni, ho buttato una giacca al tedesco che era sotto, l’ha presa nel mitra ed ha cominciato a sparare di nuovo, poi hanno cessato e niente da fare, nessuno voleva andare giù per primo.

Finalmente il più coraggioso, questo che è morto a Mauthausen, Giorgio, è andato lui per primo.

Com’è andato giù lo aspettavano, gli hanno dato col calcio del mitra e l’hanno portato dove c’era il comando partigiano, piccolo comando partigiano, l’hanno messo lì.

Poi il secondo, nessuno voleva andare giù, il terzo, intanto a fianco c’era una parete e c’era una piccola finestrella, si poteva tentare di scappare e poi saltare in un orto vicino.

Uno o due si sono messi a scappare da quella parte, ma intanto al secondo che andava giù è arrivata la stessa sorte e poi io ho tentato, uno è scappato, ma dove tentavano di scappare?, saltava nell’orto e lì c’erano i tedeschi che l’aspettavano e li portavano dentro nella cucina.

Mi ricordo che volevo anch’io saltare, ero già a metà finestrella, ma poi uno più grosso mi ha tirato indietro, io avevo diciotto anni, ma ero magro.

Due sono usciti, io sono uscito per terzo, il quarto è andato giù per questa scaletta e con i due che erano usciti dalla finestrella ci siamo ritrovati tutti nella stanzetta.

La stanzetta me la vedo ancora, una scatola di scarpe: noi eravamo tutti armati di pistole e bombe, hanno messo le pistole e le bombe in questa scatola, ma eravamo in sei ed avevamo cinque pistole, loro battevano che ne dovevamo averne sei.

Uno ha detto: “Ma io non l’avevo, non ero armato”.

Allora il tenente ha detto: “Se entro due minuti non viene fuori la sesta pistola venite uccisi tutti quanti”.

Sono tornati di sopra a cercare ma effettivamente non c’era.

La cucina era piccola, un tavolino e tutti sei in piedi, bianchi, cadaveri, perché non occorre neanche dire in che condizioni eravamo.

E’ venuto dentro un tedesco, era vestito da militare ma era metà civile, aveva un cappello da contadino e ha detto: “Questo è il comandante dei partigiani”; il comandante dei partigiani si chiamava a quei tempi, adesso è morto anche lui, Sirio Malega. Alla sera avevamo cenato lì, avevamo mangiato la minestra con i bigoli: il tedesco ha preso il tegame e l’ha rovesciato in testa. Come ha rovesciato questo tegame, l’ha preso per l’orecchio e gli ha tagliato l’orecchio, si immagini lì a vedere l’orecchio tagliato, fagioli, pasta nel viso e lui con mestolo che gli dava botte in testa.

Eravamo tutti pieni di paura, intanto i tedeschi avevano circondato tutto il paese e portavano tutta la gente in piazza, perché la piazza da lì a lì sono 20 metri.

E’ venuto un comandante che era lì ed ha detto: “Questo è il comandante dei partigiani”. Eravamo tutti e sei sulla porta, non hanno scelto, è venuto un tenente, ha preso il primo che era vicino alla porta, l’ha portato fuori dalla porta e gli ha sparato con il mitra due scariche, ci hanno fatto passare davanti a lui, intanto tutto il paese era portato fuori, ci hanno messo davanti alla chiesa, a quei tempi si vedevano i pini nel cimitero. Pensa che ci hanno preso alle 7.05 della mattina, siamo stati con le mani in alto mezz’ora, un’ora; tenere le mani in alto è difficile, se tu le tieni cinque minuti ti fanno male i nervi.

Noi per la paura eravamo sempre con le mani in alto.

Ha preso tutto il paese fuori, hanno tirato fuori quattro con la mitraglia e si pensava che tutto il paese era fuori e noi lì, uno era morto per terra, pensavamo che ci uccidessero tutti, invece è venuto Blechi, il famoso Blechi, lo ricordano tutti e poi ha tradito ed è andato con loro, ha combinato più danni lui finché è stato ucciso da noi. L’hanno preso qui, l’hanno ferito, l’hanno portato in ospedale e poi siamo dovuti andare lì ad ucciderlo, hanno ucciso lui ed anche la mamma che era vicino.

Perché è finito così, perché lui ha fatto uscire tutto il cantiere, uno ad uno, circa duecento sono stati fatti prigionieri da lui.

I due comandanti si sono messi d’accordo di portarci a Monfalcone. Sono cinque chilometri e mi ricordo ancora, non avevo neanche legato le scarpe, c’erano i lacci molli ed ero ferito al ginocchio.

Ci hanno messo una bicicletta a tracolla ed una cassetta di munizioni, con le mani in alto fino a Monfalcone, attraverso i monti. Prima di scendere, hanno tagliato il monte, “Adesso ci uccidono lì!” invece ci hanno portato fino a Monfalcone.

Uno lo hanno ucciso lì e noi ci hanno rinchiusi a Monfalcone, c’era una fabbrica di colori, ci hanno chiusi tutti in un gabinetto. Il primo interrogatorio: hanno domandato se eri partigiano, perché, per come, allora bisognava trovare delle scuse, perché ero andato prima, ma non l’ho detto a loro.

Ma perché un giovane così grande e bello è andato con i banditi, con i ribelli? L’8 settembre non veniva nessuno e siamo scappati, ma chi vi ha mandati, come siete andati. Parlavano in cantiere, siamo andati su come bambini.

Ci hanno preso e ci hanno portato con un camion.

Prima siamo andati in stazione a Monfalcone, il treno non arrivava mai, siamo scesi alla stazione, le SS hanno fermato un camion e ci hanno portato a Trieste.

Mi ricordo ancora che eravamo lì ed intanto si era propagata la voce, qualcuno di Monfalcone voleva tentare, a parte che di tedeschi ce n’erano venti, venticinque e noi eravamo in sei.

E’ sceso da un’auto, da Trieste, un piccolo repubblichino, parlava in tedesco ed ha chiesto: “Chi sono?” “Banditi”.

Uno di noi ha risposto: “Meglio essere banditi ribelli che un collaborazionista come te”, gli ha sputato ed andato via.

Hanno fermato un camion e ci hanno portati a Trieste.

A Trieste alla stazione, fino in Via Ghega a piedi, poi dove va su il tram ad Opicina, hanno fermato il tram, il manovratore, erano due donne e noi dentro, tutti sanguinanti, e le donne piangevano, ci hanno portato fino davanti a Piazza Oberdan, su ad Opicina, ci hanno fatto scendere e siamo andati su.

Poi ci hanno portato in una villa di SS, mi ricordo come adesso, abbiamo passato una notte con loro, loro erano lì che mangiavano, parlavano, fumavano, buttavano le sigarette vicino e si è passati la notte lì.

Alla mattina è venuto un camioncino, avevano quei camioncini gialli, che avevano pala e piccone dietro incrociate, “Adesso ci portano al poligono”.

Invece hanno fatto il giro per Trieste, siamo andati giù e siamo andati alla prigione

Ci hanno portato in Coroneo ed io mi sono fatto trentacinque giorni solo e gli altri erano assieme.

Lì Blechi era venuto, io ho subito un interrogatorio solo in piazza Oberdan.

Una camera imbottita, una grande carta geografica topografica della regione, la stenografa, due tavolini con la corrente elettrica, nome, cognome, perché sei andato con i partigiani ed io ho risposto a tutto.

Ad un certo punto hanno legato le mani.

Io ho visto le foto del Vietnam, un bastone qui, due sedie e ti capovolgi.

Poi mi hanno buttato un secchio d’acqua e sono rotolato giù e mi hanno portato nelle cellette piccole, buie.

Fortuna che io ho subito un solo interrogatorio, trentacinque giorni, intanto nel frattempo avevo trovato anche mio fratello, visto nel corridoio, perché andavo all’aria solo, gli altri andavano assieme a camminare, quella mezzora o un’ora.

Allora lì nelle celle, che eravamo isolati, sentivo, chi sei e nel frattempo avevano fatto prigioniero tutto il Comitato di Liberazione di Trieste, chi si ricorda c’erano tanti di loro lì.

Piccolo particolare, ero solo, il secondo giorno ero tutto ammaccato, ero seduto sul letto, perché ero pieno di piaghe, ad un tratto aprono la porta ed arriva un graduato tedesco, con il secondino ed io con le mani così chissà pensavano, non mi sono alzato, allora ha cominciato a gridare in tedesco a quell’altro. Gridavano tra di loro, verso me, poi mi sono alzato, tutto spaurito. È andato via il tedesco ed ho chiesto cosa avesse detto. Aveva detto: “Portati via il lettino con la coperta, perché non ti sei messo sull’attenti di fronte ad una SS”. E’ sei mesi che dormo nel bosco.

Un giorno: “Valcovic prendi la roba, vai a casa”. “Non prendo niente, perché mi portano a fucilare”. “Sul serio, prendi la roba che vai via”.

Malvolentieri ho preso quei quattro stracci che avevo e mi hanno portato giù e lì ho trovato tutto Monfalcone, che nel frattempo avevano fatto prigionieri. Intanto quei cinque che eravamo assieme e poi tutti gli altri e lì c’erano tutti: Quinto, Luciano Recnis, tutti gli amici.

“Ci portano in Germania, andiamo… forse si starà meglio”, perché qui c’era sempre la paura, ogni tanto li portavano a fucilare.

Una mattina, alle 3 di notte, lo hanno portato al Coroneo, con le lampade e siamo andati nel vagone e siamo andati a Mauthausen, almeno noi novantatre che eravamo siamo andati a Mauthausen, ma qualcuno è anche ad Auschwitz, come Giovanni.

D: Quanto sei partito te lo ricordi?

R: Penso il 30 gennaio del ’44. Mi hanno preso il 20 dicembre, trentacinque giorni ho fatto d’isolamento; penso il 28 il gennaio del ’44. Siamo arrivati a Mauthausen penso il 1 febbraio del ’44.

D: C’erano anche delle donne con voi, alla partenza da Trieste?

R: No.

D: Tutti uomini eravate?

R: Sì, tutti uomini.

D: Quanto è durato il viaggio?

R: Due giorni, perché c’erano i bombardamenti, poi ci siamo fermati. Io sento ancora il treno che fischia in quella stazione, perché siamo stati fermi un paio d’ore o anche una giornata.

Siamo arrivati a Mauthausen.

Io sono andato a Mauthausen nel ’69 ed ho trovato due giovani e cercando da dormire in paese ho detto loro: “Quando ero giovane come voi ero in campo di concentramento”. Loro mi hanno risposto di non saper niente, non aver visto niente e non sapere nulla.

I tedeschi si erano fatti furbi, avevano messi due o tre partigiani presi nei boschi in Jugoslavia, non so come erano capitati al Coroneo a Trieste e li avevano messi davanti al nostro convoglio. I bambini ci sputavano addosso, a me avevano scritto “Banditi, ribelli”, ci sputavano e ci tiravano sassi.

Siamo arrivati davanti al portone, ci siamo spogliati, tutto in terra. Abbiamo mangiato, c’era ancora qualcosa, perché quando eravamo al Coroneo qualcosa arrivava, arrivava il pacco ogni quindici giorni.

Avevamo mangiato tutto quello che avevamo, burro, zucchero ed abbiamo fatto bene, perché poi non abbiamo mangiato più per diciotto mesi, non abbiamo mangiato più.

Hanno preso il nome, a chi l’aveva la fede, qualche catenina, qualche dente d’oro e siamo passati, ci hanno tagliato i capelli, rapato a zero, messo il numero e siamo andati in quarantena.

D: Il tuo numero di Mauthausen?

R: 50.916. Me lo ricordo perché per dire la verità, quando ero a Gusen 2, chiamavano in due o tre lingue all’appello, italiano no, tedesco, francese e polacco. Anche quello me lo ricordo. E chiamavano i numeri, gli ultimi erano inebetiti e non sapevano, non rispondevano, perché bisognava rispondere.

D: Stavi dicendo della quarantena di Mauthausen.

R: La quarantena di Mauthausen è la quarantena, l’ho raccontato anche adesso, nella baracca stavamo in mille; non c’erano castelli, si dormiva per terra e per terra facevano la fila e ti sdraiavano, testa e piedi testa e piedi; tra una fila e l’altra c’era uno spazio di 50 centimetri.

Quando ci mettevamo l’uno contro l’altro, con testa e piedi, e non ci stavamo tutti, veniva il capo e ci stringeva come le sardine; il bello era che poi di notte chi doveva andare a fare la pipì, tu ti alzavi ed il posto non lo trovavi più, perché erano tanto stretti che non vedevano l’ora che qualcuno si alzasse per recuperare un po’ di spazio.

Poi anche lì avevamo la giacchettina ed il berretto raggomitolato, le ciabatte, non mi ricordo neanche se avevamo le ciabatte. Ti alzavi e camminando toccavi qualcuno, la testa o il piede, allora da quello prendevi un morso e ti buttava avanti, quell’altro ti dava un calcio più avanti, perché la baracca era lunga 20 metri, 30 non so quanto, insomma a suon di calci e morsi arrivavi fino al gabinetto, poi era un altro problema ritornare al posto, perché il posto era occupato.

Quando arrivavi lì vedevi il posto, cercavi di allargare e loro cominciavano in tutte le lingue a bestemmiare, era un problema.

La mattina quando pulivano eravamo tutti fuori, il muro c’è ancora a Mauthausen e quando c’erano da fare le pulizie del blocco ci buttavano fuori e fuori … era gennaio e febbraio, c’erano 17 gradi sotto zero, per riscaldarci ci mettevamo l’uno sopra l’altro, appoggiati al muro, addossati al muro, ma quando eri il primo era una cosa, il secondo, il terzo, ma quando ce n’erano dieci che ti pressavano, non ti veniva più il respiro ed allora era un continuo uscire fuori e metterti davanti, era un continuo girotondo di corpi umani, questo per quelle due ore intanto che pulivano e poi ritornavamo in baracca.

In baracca sempre silenzio.

Due volte ho fatto il viaggio sulla scalinata perché dovevano allargare il campo ed ho fatto due viaggi con le pietre, l’ho fatta due volte la scalinata.

Non ho fatto quaranta giorni.

Al primo trasporto siamo andati in tre: io, Ulian Andonando e Lino Furla, in tre siamo andati, del nostro convoglio, noi che eravamo arrivati, siamo andati a Loilblpass, in treno, tutti ci guardavano, ma rimanevamo isolati. Tutti ci guardavano.

Ci hanno portato lì, poi con un camion ci hanno portato su, perché da lì a sopra saranno 12 chilometri e da una fabbrica ci buttavano pezzi di pane.

Siamo arrivati nel campo; pochi si sono fermati nel campo dalla parte jugoslava, campo sud e noi, attraverso un piccolo cunicolo, perché era già bucato dove poi si costruiva il tunnel, quando sono arrivato io avevano fatto pochi metri.

Siamo andati dalla parte di là e là eravamo adibiti a spalare neve. A quei tempi nevicava e toccava spalare la neve e buttarla in una muraglia, due o tre metri di neve, sempre buttare sopra ed ogni notte nevicava.

Le SS, i giovani, cantavano tutte canzoni partigiane, per vedere chi erano partigiani da noi, perché erano sloveni o croati e le sapevano le canzoni ed uno di noi, Ulian, rispondeva: “Ma stai zitto, vedi che fanno apposta per sapere da dove vieni e cosa hai fatto?” Invece lui era un po’ intontito e rispondeva; poi buttavano le sigarette e quando andavano per prendere la sigaretta te la schiacciavano davanti.

Lì abbiamo fatto venti giorni e poi sono andato nel comando dove tagliavano gli abeti. Tagliavano gli abeti, i più dritti, per adibirli a rinforzare le impalcature del tunnel che stavano costruendo dalla parte austriaca.

Tanto è vero che c’erano cinque baracche di qua e cinque di qua, ma una, quella verso l’Austria era quasi vuota.

C’erano gli addetti che segavano i pini, poi qualcuno era adibito a pulire i rami e poi bisognava portarli sulla strada principale.

Allora lì era un bosco, buche, non era uniforme la strada e le SS erano due o tre. Ne mettevano dieci da una parte e dieci dall’altra, o quindici e quindici, poi mettevamo il tronco sulla schiena. Quando eravamo pronti le SS sfoltivano un po’, uno sì, tre no, perché sembrava che facessimo poca fatica.

Tutti gli addetti ai lavori non erano della stessa altezza, io a quei tempi ero 1,85, qualcuno era 1,70 ed il peso non era uniforme, perché pesava sulle spalle agli altri, insomma a suon di botte si portava fin sulla strada.

Era vicino il campo, ogni giorno dovevamo portare una pietra per il campo, Mauthausen erano quelle pietre e lì, invece, il male era che dovevi prendere la pietra da solo, erano accatastate le pietre, però dovevi prenderne una media, se ne prendevi una piccola … una volta sono stato fregato. Ne ho preso una piccola e la SS mi ha buttato via quella e me ne ha messa una in spalla, non riuscivo, mi è scivolata, fortuna che sono arrivato tutto graffiato, tutto sanguinato ma sono arrivato fino all’entrata del campo.

Ogni giorno era così.

Nevicava sempre. Mi è venuta la scabbia e la scabbia si allargava sempre di più, macchie, pus. Dovevamo andare in ospedale, perché nella parte sotto c’era un piccolo ospedale: mi hanno salvato due dottori, un cecoslovacco ed un francese.

Nel frattempo un polacco è riuscito a dare la pala in testa ad un SS ed è scappato; l’hanno preso dopo tre giorni.

In quei tre giorni abbiamo fatto il campo pulito come un biliardo a suon di botte e dopo tre giorni l’hanno preso, è arrivato in campo di nuovo, ma sapete come l’hanno ucciso? Siamo tornati, la SS era ancora con la benda, tutti schierati intorno, su una pietra grande; hanno dato alla SS un martello grande e l’hanno fatto picchiare, tutti in giro a guardare e lui picchiava. I primi dieci, cento colpi, con la pistola, ogni tanto si fermava, me lo vedo ancora adesso, con quei capelli, zebrato: ha fatto un buco così nella pietra, veniva su il fumo bianco ed aveva tutte le sopracciglia bianche, ogni tanto si fermava, insomma ha resistito fino a mezzogiorno.

I suoi compagni lo hanno lavato, ma con la stanchezza, sono tornati alle due, non ne poteva più, era tutto sanguinante allora le SS gli hanno tirato con la pistola davanti a noi.

A dire la verità ne ho visti tanti, anche annegare, poi pensavo, come diceva prima Mario, alla forca: pensavo che quando impiccano uno muovesse le gambe, invece inclina solo il viso, viene fuori la lingua, a parte che sono già morti prima, perché sono cose inaudite.

Ho preso la scabbia e sono rientrato nel campo A nella parte jugoslava, là era meglio, là erano organizzati, ho trovato Lino Furlan, che parlava un po’ il francese, si è messo d’accordo con il dottore cecoslovacco, sono guarito dalla scabbia. Prima di andare via è venuto vicino, si è graffiato e si è infettato anche lui; dopo un paio di giorni è venuto anche lui di là e ci siamo rimasti tutti e due. Lino ha trovato lavoro, io sono guarito dalla scabbia e sono andato a lavorare. Lì ho trovato un bel lavoretto, il cambio turno dei minatori: avevano l’elmo con la luce e si incontrava il turno di notte a metà strada dal campo a lì sarà un chilometro e si incontrava.

In tutte le lingue chiamavano, si salutava e si incontravano alle due, solamente alla domenica ci si vedeva.

Io ero in un comando a scaricare sacchi di cemento, arrivava il camion di cemento, poi c’era una baracca ed un paio di minuti portavano questi sacchi, li stivavamo lì e poi ce ne stavamo nella baracca. Se non mi veniva la febbre non avrei patito tanto come quello che mi è toccato a Gusen 2.

Sono andato in infermeria, perché il dottore imparava l’italiano, avevo sempre febbre, mi ha tenuto quindici giorni, mi cambiava; ogni mattina arrivava alle sei, controllava tutti sul letto.

Poi sono dovuto ritornare in campo, ho preso due pleuriti e solamente ad agosto o settembre sono ritornato in campo a Mauthausen.

Andando in campo, con il cambiamento d’aria e a vedere tutti quei morti mi è sparita la febbre.

Camminavo, non avevo più febbre, sono stato dieci, quindici giorni lì.

Prima Lei ha domandato se c’erano dei preti, io ne visti in baracca a Mauthausen. Non so quanti; c’era un posto per loro, avevano un rotolo di pelle come le gomme, avevano cinque o sei rotoli di pelle attorcigliata, perché si vede che prima erano abbastanza grassi.

Sono ritornato in campo.

Poi tornato in campo di nuovo abbiamo fatto la quarantena e la prima volta ho detto di essere un meccanico aeronautico e mi hanno mandato a fare la galleria, ho dormito trentatre giorni assieme ad un ingegnere, un giovane ingegnere francese ed avevo imparato abbastanza bene. “Mario, la prossima volta vieni con me”.

Cercavano ingegneri, controllori, ho detto che lavoravo in aeronautica.

Il secondo trasporto, da Mauthausen siamo andati a piedi a Gusen, attraverso i boschi, me lo ricordo ancora: era settembre e c’erano delle mele, cercavo con i piedi di poter prenderne una, la SS guardava: niente da fare.

Sono arrivato a Gusen.

D: A quale Gusen?

R: 2, ma Gusen 2 o 1 era quasi uguale. A volte durante i bombardamenti ci portavano in galleria a Gusen 1, dove c’era una galleria in costruzione. Me lo ricordo, sa perché? Perché un giorno c’era un bombardamento e mi ero appisolato, sono caduto giù, saranno stati due metri ma c’era la sabbia.

Come primo lavoro mi hanno dato la carlinga, facevamo le carlinghe.

Mi hanno dato due rotoli da disegno, non so quanti colori… “Il primo che fa sabotaggio viene impiccato subito”. A dire la verità lavoravo all’aggiustaggio, non avevo mai visto tanti fili di tutti i colori, cose che non avevo mai visto.

Mi è venuta la febbre una mattina. Sono rimasto a casa e la sera dopo ho cambiato e sono andato a controllare i pezzettini che venivano fuori, piccoli elementi che facevano questa carlinga, era facile lì.

Non avevo un disegno, contavo i pezzi, quelli avariati li mettevo in parte, firmavo e avanti, mi sono fatto otto mesi.

Io ed un ingegnere russo fino alla fine della guerra; gli altri dovevano lavorare, c’erano tre turni, dalle 6.00 alle 14.00; dalle 14.00 alle 22.00; dalle 22.00 alle 6.00. Su Gusen io ho letto una testimonianza, ma mi hanno spiegato che c’era il treno che ci portava. Quando si usciva da Gusen ci contavano e si saliva sul vagone, avevano fatto un terrapieno che saranno due chilometri dal campo a lì ed il treno a passo d’uomo si arrivava lì.

Aprivano i vagoni ed entravi a Gusen 2, a Sant Geogen sono stato a vedere ma non si vede più dove c’erano le gallerie, è tutto brutto, sporco, hanno cercato di occultare, hanno fatto saltare tutto.

Come scendevi ti contavano. Controllo sopra controllo, contare, monta in treno, torna ad uscire dal treno, entra in quell’altra gabbia prima della galleria, tutto circondato con la corrente, poi si entrava in galleria e si lavorava.

C’erano tutti i mestieri: tornitori, lattonieri, facevano la carlinga. Il 5 maggio, finita la guerra, era ancora pieno di carlinghe, non so dove le assemblassero; lì facevano le carlinghe, da un’altra parte facevano i timoni, da un’altra parte le ali, da un’altra parte i motori.

La fabbrica non ha mai chiuso un giorno, bombardamenti sempre, si restava un’ora, mezzora senza luce: solo il tifo petecchiale ha fermato la produzione. Nel febbraio del ’45 è scoppiato il tifo petecchiale ed è stata una carneficina.

Fuori, sulla neve, ci hanno dato la puntura; c’erano morti da tutte le parti.

Quattro donne hanno rimesso in piedi il lavoro, abbiamo lavorato fino al 2 o al 3 maggio.

Mi ricordo una notte, la SS aveva un cane lupo grande, è venuta vicino e mi ha detto: “Tutti i calibri ed i disegni portarli in ufficio”.

La SS si è seduta insieme, perché erano mesi che la gente scappava. Gusen è sulla strada, a quei tempi c’era una fiumana interrotta di baracche, cavalli che scappavano da una parte, l’avanzata dei russi verso gli americani: sono venuti assieme russi ed americani a Mauthausen: l’ultima casa era il confine.

La sera siamo tornati in campo, la mattina calmi aspettavamo gli americani e sulle garitte le SS non c’erano più, c’erano quattro vecchi del Comune, quei poveretti che hanno messi lì di guardia.

Alle tre del pomeriggio mi ricordo che c’era uno di Milano, non so se era il senatore Albertini, era un avvocato, non mi ricordo: “Mario, non guardare!” ma io vedevo che qualcosa non andava bene.

Guardo fuori e vedo …. dov’era il magazzino, non so quant’era largo, cinque o sei metri, erano andati in duecento e nessuno riusciva a tornare su: appena arrivava su uno era tutto sporco di zucchero, burro, i capelli, tutto ed appena arrivava su c’erano altri quattro o cinque che lo prendevano e portavano via tutto.

Sono entrati attraverso i vetri rotti, come gli affamati.

Uno era seduto in cucina con la minestra che bolliva e lui con il cucchiaio era seduto sull’orlo che mangiava.

Un altro ha preso un bidone da 50 litri, ad andare vicino a domandare una ciotola di minestra alzava il mestolo! Come dire, paura di non saziarsi con 50 litri! Non ti dava nemmeno quello.

Portavano le patate e le rape in cucina, il campo era grande, però erano tanto ben organizzati i russi, se ne toccavi uno era grave, perché non avevano niente.

Prima c’erano gli ebrei, poi i russi e terzi gli italiani i malvisti nel campo; c’erano diciannove nazioni. Capivo quasi tutte le lingue, perché avevo il numero basso; la gente aveva un po’ di riguardo per me ma io non stavo nemmeno in piedi, avevo le ginocchia così, pesavo 40 chili. Come passavo si scansavano, perché avevano paura, come dire che ero un capo grande.

Insomma i russi, torno a ripetere, andavano all’assalto per prendere una rapa o una patata. Andare a prendere venticinque bastonate con quel tubo equivaleva a mangiare tutto il carro, niente da fare, si erano messi in testa, era il senso della sopravvivenza, stavano lì attaccati. Ma poi, vedere le spartizioni! Nei castelli si dormiva in quattro, quattro e quattro e per spartirsi un pezzetto di pane, il pane al principio era a metà, quando eravamo a Gusen, perché era come a casa a confronto di là, poi in quattro, poi in otto, poi in dodici, poi in ventiquattro. A ventiquattro avevano fatto i bilancini, grammo per grammo, come le formiche. Vedere la spartizione! Poi c’erano i kamikaze.

Non so quanto spazio ci fosse da un castello all’altro, 80 centimetri, 50: con le gambe non si riusciva, due si buttavano dentro e qualcosa dovevano arraffare, poi non spartivano lì, dovevano saltare ed andavano fuori e si spartivano tra loro.

Era una cosa vedere la sera la babele di tutte le lingue.

Poi i trucchi con le sigarette, da un campo all’altro: si doveva vendere un pacchetto di sigarette, prima di buttare, nessuno voleva buttare prima il pane e le sigarette, fare il cambio, niente, volevano cercare, “Ma è sicuro che sono buone?”, “Sì, guarda”, il russo fumava e gli dava…

Quando facevano il cambio era paglia, avevano imbrogliato.

D: Mario, tu da Gusen 2 uscivi dal campo, salivi sul treno ed andavi a Saint Georgen?

R: Sempre con il treno. Si scendeva di nuovo e si entrava, anche lì era chiuso con la corrente, si passava, contavano dieci. Devo raccontare una cosa di Gusen 2: l’ultimo mese era il mese più brutto, in aprile morivano tutti, perché il mangiare non c’era, bombardamenti, scappavano… la Croce Rossa ha mandato un paio di pacchi ai polacchi, ai francesi, agli italiani no, noi eravamo i peggiori.

L’ho detto: ebrei, russi e poi noi.

Avevano spartito questi pacchi e poi la notte non si poteva dormire più, perché dove c’era un pacco si sapeva che c’era un pezzetto di cioccolata, due sigarette. Allora sentivi di notte l’assalto: levavano le assi da sotto, crollava il castello, era tutto un fuggi fuggi, sentivi, non occorreva suonare lì, le intere zone di luce erano lo spauracchio, quanto sentivi “tic” erano tutti all’erta.

Allora quattro botte e tutto ritornava normale: due giorni, tre giorni, e i pacchi avevano già cambiato residenza: dai polacchi erano andati ai russi, dai francesi dall’altra parte. Quelli che avevano più fame e che erano più organizzati avevano rubato tutto.

Gli ultimi giorni vedevi quando scendevamo dal treno, all’entrata della galleria, c’erano 100 metri, lo vedevi quello che aveva ancora un pezzettino di cioccolata, due sigarette, un pezzo di pane. Dietro vedevi come gli squali tutti quegli altri, aspettavano di entrare in galleria e quando arrivavano in galleria sentivi urli, grida e quello rimaneva tutto stracciato, sanguinante e della porzione di pacco che gli era rimasta non aveva più nulla.

Poi quando arrivava sul lavoro prendeva anche là la dose, perché era tutto sbracato, tutto sanguinante. Ogni sera portavamo a casa i morti, cinque, sei, avvolti nei sacchi di cemento.

Una notte c’era un bombardamento, mi hanno chiamato. Erano le sei e tre di noi siamo andati fuori, perché la galleria era una montagnetta piccola, come metà della rocca, non erano tanti metri.

Insomma, sono andato vicino, sotto tiro da una carretta: uno aveva tentato di fuggire ed hanno sparato. E’ venuta la luce, è tornata la corrente ed ho domando alle SS di poter prendere, aveva un bel paio, io avevo gli zoccoli, quello un paio di belle scarpe, non so come le aveva racimolate, mi sembrava di essere di nuovo…

Poi io ero controllore, seduto: non vedevo l’ora di andare in officina per stare in pace, vicino a me c’era il gabinetto e lì venivano tutti per andare al gabinetto ed i capi, perché le SS non c’erano dentro, erano tutti capi, la SS era uno, mai uno graduato in divisa, era tutto amministrato tra loro.

Noi avevamo il nostro ….. che parlava sempre il russo, ma io capivo, parlavano tra loro e sapevo tutto, raccontava dell’avanzata ecc..

Ogni giorno hanno preso questo, hanno preso quell’altro, invece il primo maggio niente, il 2 maggio “Qua si sono messi d’accordo, dobbiamo morire!”: avrebbero minato l’entrata e tutti i buchi, avrebbero fatto saltare tutto con noi dentro, non so come non siano mai riusciti.

Ancora un particolare. Quei capi, uno aveva dieci, quindici operai ed i poveretti ebrei non avevano mestiere, erano scopini, facevano i lavori più umili, scopavano ed allora io stavo a vedere, scommettevano a sigarette quanti salti si veniva a fare, come la lana, scommettevano cinque, sei e lo facevano saltare, tiravano con la pistola e poi si vedeva che si spartivano le sigarette, quello quanti salti ha fatto, cinque, tre…

D: La Liberazione come te la ricordi?

R: Una sera era il 3 maggio, hanno preso tutti i disegni e la mattina non siamo andati più a lavorare, hanno cambiato le garitte ed il pomeriggio sono passate due jeep. I russi avevano già aperto una breccia, già ritornavano in campo con mucche, capre, galline, era tutto un fumo.

Alle sei siamo scappati e verso le tre sono passate due jeep, sono andate a Mauthausen, il campo era davanti, non si sono nemmeno fermati.

Quella notte fuochi, patate, conigli, era tutto un subbuglio e la mattina era venuta la pioggia. Io ho lasciato più morti che vivi.

In pochi, in due hanno preso il comandante del campo, lo hanno impiccato con un uncino. Gli americani sono venuti in campo e filmavano.

Erano tutti vestiti in blu, cravatte ed hanno cominciato a pulire il campo.

Allora gli spagnoli con la chitarra sopra, il tedesco sotto che doveva pulire, quando tirava su il secchio dava un colpo e buttava di nuovo giù ed avanti così.

C’erano morti, cataste di morti.

Siamo partiti la mattina e vedere l’uscita di Gusen 2, migliaia di gente che torna a casa: “Dove vai?” In Italia, in Russia, altri in Polonia, altri di qua, altri là, andavano in tutte le parti d’Europa e la strada era piena di morti.

Da lì siamo andati in un fienile. Se non avessimo sentito parlare in italiano saremmo ancora lì, perché uno è morto subito per la diarrea; poi ci hanno preso e portato a Saint Georgen in alcune case che erano state abbandonate.

Abbiamo cominciato a far da mangiare, qualche gallina, qualche uovo, ma gli americani volevano che tutti i prigionieri ritornassero nel campo: non volevano che rimanessero fuori per le strade. I civili non aprivano la porta, avevano paura dei russi.

Siamo tornati in campo a Mauthausen. Intanto lì gli americani avevano detto di non fraternizzare, loro erano già con le jeep, con le “mule” tedesche e noi in campo a pelar patate, per mangiare di più. Non c’eravamo ancora saziati.

Io sono ritornato a casa il 29 giugno. Siamo partiti da Gusen, sul camion, abbiamo tirato su un nostro amico che era in ospedale, è venuto in pigiama, senza zoccoli, uno è morto a Bolzano, poi siamo andati in treno.

In treno anche lì, tre giorni, si è fermato anche nel ritorno a casa in mezzo ai campi, anche lì in cerca di mangiare.

A Bolzano in ospedale uno è morto, un nostro compagno.

Poi ancora una cosa: con il camion siamo andati a Treviso in un campo di tedeschi. Qualcuno di noi ha cominciato ad inveire contro i tedeschi, erano ufficiali, giocavano a pallone e noi stipati sul camion; a parole ci hanno gridato di tutto anche loro.

D: Poi da Treviso?

R: Da Treviso poi abbiamo sbagliato il camion e siamo andati fino a Modena, abbiamo fatto un giro, fino ad Udine