Visintini Ermes

Ermes Visintini

Nato a Tricesimo (UD) il 10.07.1927

Intervista del: 26.06.2000 a Udine realizzata da
Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n. 170 – durata: 53′ circa

Arresto: dicembre 1944

Carcerazione: ad Udine, in Villa Spezzotti ed in via Spalato

Deportazione: Mauthausen, Ebensee

Liberazione: 05.05.1945 a Ebensee

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Organizzazione materiali ed inserimento dati: Elisabetta Mascarello, Elena Pollastri

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

D: Tutti presenti?

R: Si, Visintini Ermes, nato il 10.7.1927 a Tricesimo.

D: Che è in provincia?

R: Di Udine.

D: Ermes, quando sei stato arrestato?

R: Il mese di dicembre del ’44.

D: Dove, perché e da chi?

R: Dove, perché? Lei mi domanda una cosa che è un po’ lunga. Di fatti io sono stato arrestato nel bivio di Buia per una delazione fatta da una signora di Magnano in Riviera, alla quale era successo nel suo ambiente che sono entrati dei partigiani. Hanno trovato dei tedeschi nel suo ambiente. Questi tedeschi, vedendo arrivare questi partigiani, sono andati per prendere le armi che avevano appoggiato al muro. I partigiani hanno falciato uno e uno ferito. Poi sono andati, non so io, non so chi erano. Di fatti lei per poter mantenere l’ambiente aperto ha fatto una delazione che mi conosceva. Non so perché. Un giorno mi incontra venendo giù da Bilerio, mi incontrano lei e sua figlia. Vorrebbe parlare con me. Io mi fermo e le dico: Cosa ha?”. Mi dice: “Lei sa che io ho due figli a Tolmino, della Repubblica di Salò. Vorrebbero venire a casa, certamente hanno paura dei partigiani. Cosa potrebbero fare per poter rimanere tranquilli a casa?” Le ho detto: “Cosa posso dire io?”. “Ma lei è delle forze partigiane, potrebbe anche insegnarci qualcosa”. Di fatti io come un beone gli insegno cosa dovrebbero fare, gli insegno che quando scappano dalla Repubblica di Salò, scappino con delle armi, un poco di armi, e che vadano a un qualche comando partigiano per poter consegnare queste armi e farsi rilasciare un documento che hanno collaborato con le forze partigiane. Mi dice: “Non potrebbe venire lei?”. Ma io? Mica sono un comandante io! “Mi faccia una cortesia, ci porti lei in qualche comando”. Insiste, insiste, insiste. “Si”, le dico dopo, “cercherò di far qualcosa, però i suoi figli quando vengono giù portino tante armi”. “Quando può venire?” “Non so io”, le ho detto, “un giorno verrò”. Insisteva per sapere il giorno che potevo andare da lei. Io le dico: “Verrò mercoledì da lei, cercherò di vedere cosa hanno portato almeno. Poi vi indicherò dove potete andare”. “Mercoledì a che ora?” “A che ora? Come, mi domandate anche l’ora?”. Insiste questa qua. Io come un beone, come ho detto prima, le dico: “Verrò verso le nove”. “D’accordo, verso le nove.” Il mercoledì vengo giù da Bilerio dalla montagna, vengo qua dalla strada di Tarcento, vengo giù dalla strada diretta che va a Buia e al crocevia c’è Buia, Tarcento, Tarvisio e Udine. Nell’incrocio c’era un comando tedesco. Pensavo che avevo i documenti rilasciati da un’impresa di Tricesimo che lavoravo con l’impresa. Ho pensato che con i documenti potevo passare. Invece passando, arrivando a quell’incrocio ho visto dei tedeschi fermi che aspettavano. Ho detto: “Dio mio, aspettano me quelli lì, garantito”. Non sapevo se andare avanti o ritornare indietro. Ma ritornando indietro potevano falciarmi. Proseguo, ho i documenti. Quando sono all’incrocio mi puntano le armi, mi fanno scendere dalla bicicletta e mi portano dentro al comando. E lì legnate da orbi. Ad un certo punto io non capivo più niente, botte da orbi. Mi buttavano da un angolo all’altro. Io non sentivo più niente, se mi ammazzavano era meglio. Mandano a chiamare un’interprete, ho la fotografia in tasca. Mandano a chiamare un’interprete a Magnano in Riviera che gestiva un forno. Viene giù. Vedendo come mi trattavano questi tedeschi, s’è buttata contro il comandante per potermi salvare dalle legnate che mi davano. Io non sentivo più le botte. L’interprete ha cercato di difendermi, veramente. Di lì dopo mi hanno portato nella Villa Spezzotti, mi hanno portato là. Erano dieci tedeschi in bicicletta con cani lupo. Sul cancello trovo un compagno già arrestato su un carro della Repubblica di Salò. Michi Runi, Giacomer Alessandro, lo trovo sul carretto pieno di botte anche lui e lo portano via. Adesso questo qua, mi mettono di fronte a questo qua. Ragionavo con la testa, ma avevo tante di quelle botte. Mi portano dentro e mi dicono: “Tu conoscere partigiano, questo qua?”. “Nicht partigiano, nicht partigiano”. Mi portano su, mi legano per il dietro così e mi portano su nella torata, c’è una torata di due e mezzo per due e mezzo sopra questa villa. Mi hanno legato su un letto di tavole per didietro, per fare i bisogni: tutto addosso. Mi hanno fatto due interrogatori ancora sotto, ma sui due interrogatori quando andavo giù io venivo su dopo, chiamavano l’altro, Giacomer Alessandro. Giacomer Alessandro quando andava su ha detto: “Io ho visto una signora sotto, chi era?”. Era la vedova allegra, la chiamavano, la Revelan di Magnano in Riviera, quella del bar. Allora ho capito chi era che ha fatto questa delazione. Lì sono stato un cinque giorni, mi hanno fatto due o tre interrogatori. Mi hanno portato in via Spalato, ho fatto trentatré giorni in via Spalato. In via Spalato poi si aspettava sempre di partire, partire per la Germania. Quelli che andavano fuori, andavano fuori fucilati. Ho visto uno che era di Binduno, Grafitti Gino, che non voleva andare a morire. Sono venuti su i tedeschi e lui si teneva per la scala, non voleva andare giù per le scale. Sono venuti su i tedeschi col calcio della Mauser, gli davano giù nelle mani per poter tirarlo fuori. Interrogatori nessuno, una sera ci hanno detto: “Domani partite”. Difatti l’indomani mattina siamo partiti. Per farla corta, sennò viene troppo lunga la cosa, l’indomani mattina due di Pordenone, siccome ero giovane, mi hanno detto: “Tu porti fuori un ferro dietro la schiena per poter aprire il vagone, un coltello e una borraccia”. Mi hanno attaccato una borraccia piena di acqua e un coltello dentro per tagliare, in caso che mettono il lucchetto. Nelle perquisizioni che ci hanno fatto prima di partire, mi hanno perquisito, ho fatto vedere l’acqua, dietro ho fatto così che vedevano il ferro che avevo dietro la schiena e mi hanno lasciato passare. Quella sera ci hanno messo cento per vagone, in piedi, da non poter neanche muoversi. Si stava su uno con l’altro, ci si teneva su come dei pali. Sui cento l’indomani ci hanno divisi, cinquanta per vagone. Abbiamo pensato subito di scappare durante il viaggio. Hanno incominciato a tagliare il vagone col coltello che si aveva nella borraccia e di fatti tac, tac, tac, tac, un paio d’ore e l’intagliatore bravo ha fatto l’intaglio e durante la notte ha spaccato il lucchetto col ferro. Ha tirato su il gancio. E’ arrivato un altro convoglio di vagoni, di prigionieri da Gorizia e Trieste. Nell’agganciare i vagoni si era tirato via il gancio e si è aperto il portellone. I tedeschi quando hanno visto così hanno cominciato a gridare e hanno preso una sedia, un seggiolone, quelli che mettono nei giardini, doppi, le panche doppie. L’hanno infilato a metà vagone e hanno messo due cosacchi di qua e due cosacchi di là col Parabel che ci guardavano. Ci hanno divisi metà da una parte, metà dall’altra e via fino a Mauthausen. Siamo arrivati a Mauthausen.

D: Scusa un attimo, Ermes. Quand’è che ti hanno portato alla stazione per partire? Che mese era?

R: Il mese di febbraio. Il 2 febbraio.

D: Del? Di che anno?

R: Del ’45, il 2 febbraio del ’45.

D: L’arrivo a Mauthausen come te lo ricordi?

R: Brutto. Partendo in quella forma lì coi cosacchi dentro, sa com’è, è una cosa orribile. Non si poteva muoversi né fare i bisogni lì, niente. Sempre col Parabel contro di noi. Si voleva assalire questi cosacchi, ma si aveva due gioppi dentro a cui hanno detto: “No, non potete farlo, noi rimaniamo qua e dopo ci ammazzano a noi”. C’era un certo Venini di Paderno. Insistevano, “Non fatelo, non fatelo sennò ci ammazzano a noi”. Noi siamo rimasti fermi e siamo arrivati a Mauthausen. Arrivati nel campo, dalla stazione ferroviaria abbiamo fatto il giro su fino al campo. Avevamo visto questo cancello. Abbiamo detto: “Qua non si esce più”. Ci hanno messo contro il muro, gli spagnoli venivano a vedere. “Se avete qualcosa, mangiate tutto e questi anelli dateceli a noi, non vi servono”. Nessuno aveva da mangiare sul vagone prima. Là sono usciti fuori salami, formaggio. Per un pezzo di formaggio loro ci davano un bicchiere d’acqua. E ancora calda. Quelli che avevano la refurtiva, perché avevano nascosto tutto, credevano di vivere con quello che avevano in valigia. Arrivati poi nel punto che mandano dentro venti alla volta, venti, venticinque nella scalinata del bagno, si vedevano uscire questi prigionieri nudi, via nelle neve che andavano al blocco. Chi sono quelli lì? Non si conoscevano più questi qua. Forse erano prima insieme con noi. Arriva il nostro turno, andiamo giù nel bagno. Si comincia a svestirsi, a buttare la roba di qua, scarpe di là. Cominciano i cosiddetti barbieri, cominciano a rasarti dappertutto. Ti tagliavano dappertutto, sangue dappertutto. Pregavi il Signore di andare sotto l’acqua per poter lavare fuori il sangue. Viene il punto di andare al bagno, prima ti lasciano correre l’acqua calda. Si stava da Dio. Si lavava il sangue, anche se si era tagliati. In giro a questo bagno c’era un piccolo muretto da sessanta centimetri tutto in giro e sopra questo muretto erano i capi blocchi con gomme da un metro, sessanta centimetri, che ti aspettavano. Tutto ad un momento dall’acqua calda ti lasciavano l’acqua fredda, tutti cercavano di evitare quest’acqua fredda, cercavano di andare sul muretto. Vedevi come nella gabbia dei leoni, colpi nella testa, vedevi per terra cadere i prigionieri, cose adesso anch’io non arrivo a raccontarle bene come dovrei raccontarle. Usciti fuori da questo bagno di corsa, nudi, su alla quarantena. A piedi, nudi, di corsa, su in quarantena. Siamo stati lì un po’ di tempo. Dopo tre giorni, quattro, ci hanno dato i vestiti. Una camicia che arrivava qua, non arrivava proprio neanche… Una giacca di quelle lì che non arrivava neanche… Zoccoli che forse erano grandi o piccoli che non si arrivava a star dentro. Sono qui a raccontare adesso. Quando si aveva da fare i bisogni si doveva uscire fuori dalla baracca. C’era un pozzo al di fuori. Tutti uscivano, pieni di dissenteria. Tutti uscivano per andare a prendere il posto con il sedere su questo pozzo. Li hanno chiusi adesso, ho visto che li hanno chiusi. Non si sa neanche dove sono. Ognuno che faceva un movimento lì, uno cadeva dentro. E chi lo andava a prendere? Nessuno. Rimaneva dentro.

D: L’immatricolazione a Mauthausen quando te l’hanno fatta?

R: Quando mi hanno dato il vestito.

D: E il tuo numero te lo ricordi?

R: 726000… Ce l’ho a casa, non mi ricordo… 900 e qualcosa.

D: E il blocco te lo ricordi che numero era?

R: Il blocco della quarantena dove poi ci hanno mandati, pochi qua, pochi là, la prima uscita che ho fatto l’ho fatta a Wels, a levare macerie. Da Wels sono andato ad Ebensee.

D: Da Wels ti hanno mandato a Ebensee. Questo in che periodo? Te lo ricordi?

R: Non mi ricordo.

D: Non ti ricordi quando sei arrivato a Ebensee?

R: Non mi ricordo. Ho fatto poco a Wels, avrò fatto un mese a Wels, neanche: venticinque giorni, un mese. Mi ricordo un fatto strano a Ebensee, che il mio amico Barnaba, eravamo sempre vicini io e il mio amico Barnaba Alfredo, siamo lì vicini uno all’altro e mi consiglia… Perché andando di notte a lavorare nella stazione ferroviaria di Wels si aveva freddo. La camicia che non arrivava ai calzoni. Mi ha detto: “Sai cosa fai? Metti su una coperta, te la piego io dietro la schiena, te la piego io bene e te la metto su nella schiena. Così durante la notte nella stazione ferroviaria non sentirai freddo”. “Fammi, fammi quel lavoro lì”. Allora mi ha messo questa coperta e al rientro dalla stazione c’erano i tedeschi sulla scalinata di questo grande… Si voltavano e ci guardavano, ci contavano e ci guardavano. Al rientro io ero mezzo addormentato, vedo un maresciallo tedesco che vede la coperta uscire dal didietro della mia schiena, qua. Mi fa così, mi chiama e mi dice, non so come si dice in tedesco, di levare la giacca. La coperta cade. Chiama due prigionieri, prendono uno scagnetto, prendono due prigionieri, quelli più ruffiani che avevano solo voglia di mangiare una minestra in più, mi mettono sullo scagnetto e lì venticinque frustate. Uno con un affare così e l’altro con una tavola. Io ho sentito tre, quattro. Poi sono svenuto. Mi sono ripreso che ero sul braccio del mio amico Barnaba Alfredo che mi bagnava le labbra e i timpani. Non sapevo cosa fare, certamente credevo di essere morto. So che il mio amico mi ha salvato, non una volta, mi ha salvato tre, quattro volte questo mio amico. Barnaba Alfredo. A Ebensee è morto sul braccio a me. Chiuda, chiuda.

D: Ermes, no, stai tranquillo. Ermes, quello che tu hai raccontato della coperta, è successo a Wels o…?

R: A Wels, a Wels.

D: Dopo ti hanno trasferito a Ebensee?

R: A Ebensee, sì.

D: Eravate in tanti italiani?

R: Eravamo pochi.

D: Ascolta, a Ebensee ti ricordi in che blocco ti hanno messo?

R: No, non mi ricordo.

D: A Ebensee eri lì a lavorare anche a Ebensee?

R: Sì, alla galleria. Alla galleria lavoravo. Lì un ebreo mi aveva consigliato, mi aveva fatto capire che nel carbone, questa macchina che stava fuori, i carrelli pieni di materiale, c’era un carbone che era come quella sedia là, un marroncino chiaro. Quello lì era buono. I tedeschi facevano della margarina con quello. L’ebreo mi aveva consigliato, mi ha detto: “Mangia di quello, non avere paura, vedrai che quello ti salverà la vita”. Di fatti io mangiavo tre quarti di chilo, un chilo al giorno. Rubavo, andavo su alla macchinetta quando si fermavano e lo mettevo via nel seno per poter mangiare continuamente, quando avevo bisogno di mangiare.

D: Ma tu nella galleria cosa facevi?

R: Non so neanche cosa facevo. Ero nella galleria, facevo il manovale. Non so cosa facevo, cosa ero addetto a fare, i lavori, scaricare, non saprei neanche più cosa dire, cosa facevo là. Essendo in questa galleria, mi ricordo ancora che erano robe pazzesche, perché là pioveva di sopra. Era la morte sicura sopra, morte sicura. Si faceva a turni, turni di notte e turni di giorno.

D: E il tuo amico era sempre con te?

R: Non voleva mangiare il carbone il mio amico.

D: Ascolta un attimo, ritorniamo indietro un attimo alla stazione di Wels. Lì c’era un campo a Wels oppure vi portavano lì alla stazione?

R: No, era un campo fatto provvisorio sembra. Sembra che sia stato provvisorio, un grande palazzo era, con delle scalinate enormi. Ci buttavano là, ci mettevano là in questo camerone, ci mettevano in piedi così e si doveva dormire così, ci buttavano giù. Così a taglio si dormiva, ci buttavano una coperta sopra. Per quello quella coperta che dicevo.

D: Questo palazzo adibito a campo era vicino alla stazione, era nel centro della cittadina?

R: Si passava, si faceva un chilometro, un chilometro e mezzo per la città. E’ per questo che odio gli austriaci.

D: A piedi?

R: A piedi. Eravamo otto per otto, ci si teneva su per non cadere, eravamo già allo stremo. Si passava otto per otto e di dietro c’erano le portantine, quelli che portavano i cadaveri che cadevano per strada. Erano con bastoni, un bastone qua e un bastone di là, uno davanti e uno di dietro. Quando cadevano, buttavano su. Portavano i cadaveri.

D: Quindi attraversavi la cittadina?

R: La cittadina.

D: E i civili vi vedevano?

R: I cittadini ci vedevano e mi ricordo bene che, è per questo che odio gli austriaci, quando ci vedevano passare cadaveri viventi aprivano la porta di casa o la finestra e ci sputavano. Non sapendo che eravamo prigionieri di guerra. Non eravamo dei delinquenti. Ci sputavano. Io ho un ricordo brutto sugli austriaci ed è per questo che li odio, li odio veramente.

D: A Ebensee tu lavoravi in galleria, non ti ricordi il blocco?

R: Non mi ricordo, il diciannove mi pare, non so, il diciannove, il ventuno, il ventidue… Non mi ricordo.

D: Ti hanno cambiato il numero o ti hanno lasciato il numero?

R: Sempre il mio numero.

D: Quello di Mauthausen?

R: Quello di Mauthausen, sì.

D: Lì, mentre tu mangiavi il carbone, il tuo amico ti ha aiutato ancora?

R: Sì, sì. Mi ha aiutato più volte. L’unica volta veramente che mi è restato nel cuore il mio amico è quando mi hanno dato queste venticinque frustate, io non sapevo dov’ero, mi trovo sul braccio suo che mi bagnava la fronte, le labbra per farmi rinvenire. Un ricordo che non posso dimenticare.

D: Ascolta, lì a Ebensee fino a quando sei rimasto tu?

R: Sono rimasto lì un dieci giorni dopo arrivati gli americani.

D: Dov’eri tu al momento della Liberazione?

R: Nel campo.

D: Come te la ricordi la Liberazione?

R: Una cosa stupenda, veramente. Quando prima che mi morisse il mio amico ci chiamano tutti nella grande piazza e lì nella grande piazza avevano fatto un palco i tedeschi. Lì in tutte le lingue ci hanno detto: “Adesso arriveranno gli americani, vi daranno da mangiare di più”. Vedevi che tutti i prigionieri, uno che rideva, uno che piangeva, l’altro che cadeva, quell’altro che moriva, cadeva, moriva. Per la contentezza. Io ridevo dalla contentezza. Ero mezzo impazzito. La sera prima il mio amico doveva andare a lavorare e non si sentiva di andare a lavorare. Uno di Spilimberg mi pare che gli abbia detto: “Buttati giù per terra, fai finta che hai male. Se ti senti male, fai finta che hai male”. Doveva andare a fare il turno di notte. Lui si butta per terra. L’hanno portato dentro in quattro, l’hanno pestato fuori, calci nel ventre, calci nello stomaco, nella testa. Robe da non ricordare. L’hanno portato dentro, l’ho fatto mettere io nel mio castello, ero ancora io nel castello lì che aspettavo. Gli dicevo: “Alfredo, dimmi un po’ cosa hai. Cosa ti hanno fatto?”. Non rispondeva. “Alfredo, dimmi, dimmi, dimmi per favore, dimmi cosa hai”. Niente da fare. L’indomani mattina che sono arrivati gli americani hanno voluto tutti al campo nella grande piazza. Abbiamo portato fuori questo Alfredo, anche lui. L’abbiamo portato là, lui è caduto ed è morto lì. L’abbiamo portato nella baracca, io gli fregavo la testa. “Alfredo, dimmi un po’, dimmi, rispondimi. Cosa devo dire a casa se arrivo prima di te?”. Per non fargli capire che era dietro a morire. Gli fregavo la testa e lui non mi dava risposta. Mi è morto lì.

D: Dopo sono arrivati gli americani?

R: Sono arrivati gli americani e hanno dato quarantotto ore di carta bianca. Chi aveva la forza? Io non avevo la forza. C’erano certi russi che avevano la forza, cercavano i capi blocchi. Tutti erano già travestiti al pari di noi, ma c’erano quelli che li conoscevano. Vedere correre dietro a questi capi blocchi era una soddisfazione per me. Era stata una gran soddisfazione, gli correvano dietro e giù botte. Ho visto uno ammazzarlo di legnate e poi l’hanno buttato dentro nella piscina. Lui cercava di nuotare e io non avevo forza di vederlo morire. Sono andato dentro con la testa in mezzo a tutte queste gambe che volevano vederlo morire. L’ho visto che annaspava nell’acqua, ho visto che gli buttavano dentro dei sassi fin quando è rimasto dentro con un sasso sopra la testa, questo capo blocco. Ho visto uno ucciderlo con la Miska, l’affare in cui si mangiava dentro, con quella là. E’ morto quello lì sul rivale, lo hanno lasciato lì due o tre giorni prima che morisse. Sono successe certe cose che è bello raccontare, ma fa male oggi la fine com’è stata. La fine doveva essere non so come io, doveva essere guidata da qualcuno, perché quarantotto ore di carta bianca… E’ successo quello che non doveva succedere. Anche per le case andavano a Ebensee i prigionieri. Chi aveva la forza, la grande forza l’avevano i russi, non noi italiani.

D: Tu a Ebensee dopo la Liberazione sei rimasto fino a quando?

R: Sono rimasto lì dieci giorni. Quelli che mi avevano fatto portare fuori il coltello a Pordenone e il ferro dietro la schiena mi hanno preso e mi hanno detto: “Vieni, vieni con noi”. Ma non arrivavo a camminare io. Allora si sono messi d’accordo in quattro di portarmi uno di qua e uno di là con loro, si davano il cambio. Pesavo vent’otto chili. Sono andato a finire a Hanau, mi ricordo ancora, a piedi a Hanau, io e un ragioniere. Non so gli altri, sono spariti, sono rimasto io e Sergio si chiamava, un ragioniere era. Eravamo rimasti io e lui. All’inizio del paese io non arrivavo più a camminare, mi tenevo su per il muro di una casa. Sono venuti fuori gli austriaci a vedere cosa… A vedermi così hanno detto: “Qua bisogna chiamare qualcuno”. Hanno chiamato quest’infermiera di vicino a Orciano, un paese vicino a Orciano. Era infermiera italiana. Quando sono venuti fuori mi hanno detto: “Di dove sono?”. Italiani, allora hanno chiamato un’infermiera, quella di Orciano. E’ venuta vicino: “Di dove siete?”. “Di Udine”. “Oh, di Udine”. Ci ha parlato in friulano. Questa mi ha preso, non potevo camminare, perché io ho evitato la Croce Rossa Internazionale sei volte, volevano mettermi nell’ospedale. Io avevo paura più di entrare nell’ospedale che di camminare e morire per strada. La signorina mi ha detto: “Stai fermo che io non ti porto in ospedale, ti porto con due italiani che sono qui in piazza a Hanau”. Io e questo mio amico, Sergio. Ha chiamato questi due italiani, prigionieri militari. Gli ha detto: “Dovete fare un posto a questi due.” Erano titubanti ancora, hanno cercato di darci il posto in questa casa. Ci hanno fatto il letto, uno di qua e uno di là. Siamo stati lì un paio di giorni, non so quanti giorni siamo stati lì. Durante la notte avevo il tifo pitecchiale, mi grattavo, mi grattavo. Mi vergognavo a farmi vedere grattare, aspettavo che loro si addormentassero per poter grattarmi durante la notte. E giù, giù, giù a grattarmi fin quando loro si sono accorti e hanno detto a questa signorina: “Vedete, noi non possiamo tenerlo perché è così, così e così, bisogna farlo vedere ad un dottore”. L’indomani l’infermiera mi ha portato da un dottore,. Mi ha detto: “Tira giù i calzoni”. Andavano giù da soli i calzoni, avevano uno spago legato al ventre. Slegato lo spago, giù i calzoni. Quando mi ha visto, ha detto “Aaaah” il dottore, si è spaventato. Mi ha preso, mi ha messo in una vasca di cemento, mi ha messo non so cosa dentro, mi ha messo dentro fino a qua. Non so quanto tempo sono stato dentro in questa vasca. L’ho fatta per tre volte questa roba. Obbligo eh. Mi cadevano non so cosa, uscivano fuori. Facevo così alla testa, usciva una bestiolina con le gambe così. Facevo sul ventre così e uscivano le bestie, erano i pidocchi penetrati. Passata questa storia dei pidocchi, del tifo pitecchiale, arrivano gli americani in piazza. Io vado là, gli americani a vedermi in quelle condizioni cercavano di farmi mille feste. Mi avevano messo come capo della cucina e io guardavo il mangiare, ma non potevo mangiare, non arrivavo a mangiare. Stavo lì a fare il capo della cucina. Quello che rimaneva nei grandi recipienti della cucina, mi avevano dato l’ordine di farne quello che volevo. A vedere gli austriaci che venivano a domandare da mangiare, con l’odio che avevo buttavo giù tutto nel canale, facevo buttar giù tutto nel canale. Non davo niente agli austriaci. Non so se facevo bene o male, avevo un odio tremendo.

D: Ermes, ti ricordi il giorno della Liberazione che giorno era? Quando eri lì a Ebensee che sono arrivati gli americani?

R: Il 5 maggio. Mi ricordo, quello sì. Perché il 4 ci avevano chiamato nella grande piazza, può dirlo anche Tibaldi.

D: Ascolta, lì gli americani ti hanno nominato capo cuciniere.

R: Sì.

D: Dopo quando sei rientrato in Italia?

R: Sono rientrato in Italia…da lì mi hanno portato a Klausenbach, in un campo di smistamento, là erano tutti prigionieri militari, prigionieri politici e via discorrendo. Mi hanno portato là gli americani, mi hanno portato in questo campo a Klausenbach. Lì nessuno ci guardava, se avevi male, se avevi bisogno di qualcosa, nessuno c’era. Eravamo come all’arrembaggio. Siamo stati lì non so quanto tempo a Klausenbach. Ero andato al secondo piano, terzo con prigionieri militari, dormivo sopra. Un giorno siamo andati a rubare il latte nella cucina dell’infermeria. Con un alpino sono andato, un alpino mi ha preso, siccome avevo bisogno di latte, sapevo che avevo bisogno di latte. Gli domando all’alpino: “Fammi una cortesia. Prendimi un po’ di latte”. E’ andato nel grande bidone e mi ha preso una gavetta di latte. Me la sono bevuta tutta, ma durante la notte dissenteria. Infatti, avevo paura di disturbare i vicini che avevo lì, non sapevo cosa fare. Andavo giù, dovevo andare giù per le scale. Non sapevo se dovevo fare ancora uno scalino o fermarmi, fin quando ho detto: “Faccio lo scalino”. Avevo gli scarponi, avevo pieni gli scarponi perché andava giù dritta. Non sapevo cosa fare dopo. Cosa dovevo fare? Sono andato sotto nelle cantine a cercare qualcosa per potermi cambiare e lavarmi con quella forza che avevo. Nelle cantine ho trovato qualcosa. Latte lasciarlo, ho detto, non si può bere più latte qua. Da lì mi hanno portato ad Innsbruck. Si doveva fare la quarantena entrando in Italia. Mi hanno detto che se trovavo una persona che mi accompagna in Italia, io sarei andato via direttamente senza far la quarantena. Difatti ho trovato uno di Treppo, un certo De Luca Ivano. Trovo questo qua, gli dico: “Se vieni con me non fai la quarantena”. Lui “Magari” dice, e mi ha accompagnato lui. Almeno non mi avesse accompagnato. Ho fatto venti scale, nessuno poteva rientrare in Italia, era tutto interrotto. Dicevano che sul Tagliamento c’erano i fascisti che ci aspettavano, era un casino hanno detto in Italia. Sono arrivato il 16 giugno in Italia.

D: Dove sei arrivato?

R: A Udine. Siamo arrivati col treno fino a Basiliano. A Basiliano io e questo De Luca la polizia partigiana ci ha fatto smontare, perché non si poteva andare coi macchinari che avevano sopra. Ci hanno fatto smontare giù a piedi, io non potevo camminare. Ogni venti metri, ogni venticinque dovevo sedermi, perché non arrivavo. Siamo arrivati in quel paese dopo Basiliano, come si chiama… Campoformido. A Campoformido è venuto fuori un vecchietto e ci dice: “Dove andate?”. “A Udine”. “Aspettate, aspettate che vado a prendere io il mulo”. E’ andato dentro nel suo cortile, ha preso il mulo con la carretta e ci ha portati fino in Piazza Vittorio a Udine. Quando sono arrivato là, abbiamo ringraziato questo vecchietto e via a casa. A Udine, in Piazza Vittorio. L’elettricista di Tricesimo Mansutti, lo chiamo “Mansutti!”. “Chi sei tu?”. Ha cambiato vagone, non è venuto sul nostro vagone dopo, ha preso paura. Ero in condizioni che facevo proprio… Gli inglesi a Treviso mi hanno fatto smontare, levare la camicia e mi hanno ripreso con la cinepresa, mi hanno fatto delle fotografie, di qua, di là, almeno che avessi un ricordo di quelle robe. Per aver concesso loro di fare queste fotografie sulla mia personalità mi hanno regalato cioccolata e lire. Credevo che fossero dollari, gli dicevo: “Prendi, prendi tu” al mio amico Ivano. Aveva un sacco Ivano e le metteva dentro. Siamo diventati signori. Non valevano niente, robe da pazzi.