Arnaldi Antonio

Antonio Arnaldi

Nato il 15 gennaio 1925 a Finale Ligure Marina

Intervista del: 10/06/2000 a Boissano

realizzata da Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n. 15 – durata: 37′

 Arresto: 01 marzo 1944 a Finale Ligure

Carcerazione: a Savona, Genova, Milano e Bergamo

Deportazione: Mauthausen, Gusen 1, Gusen 2, Steyr

Liberazione: maggio 1945 a Gusen 2

 

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sono Arnaldi Antonio, nato a Finale Ligure Marina il 15.1.1925. Arrestato il primo marzo del ’44 in base a quello sciopero generale in tutta l’Italia. Arrestato dai carabinieri di Finale Ligure il primo marzo del ’44. Portato subito all’ospizio Cremasco insieme agli altri deportati della provincia di Savona.

D: Scusa Antonio, tu lavoravi dove?

R: Alla Piaggio.

D: Alla Piaggio di dove?

R: Finale Ligure.

D: Ti hanno arrestato sul posto di lavoro?

R: A casa, di notte.

D: Ti hanno arrestato da solo?

R: Io da solo, poi portato in caserma. In tutta la notte ne han presi ventisei.

D: Lì ti hanno fatto degli interrogatori?

R: No. Mi han preso, mi han buttato in una cella dove c’era già qualcheduno; poi han fatto arrivare una camionetta imbarcati otto per volta, ammanettati uno con l’altro e portati all’Ospizio Merello.

D: Che cosa era l’ospizio Merello?

R: E’ una colonia.

D: Era gestita da chi?

R: Non so da chi. A un bel momento lì ci siamo trovati in centosessanta, tra Finale Ligure e tutte le fabbrica che c’erano in Liguria, lì, nella provincia di Savona.

D: E lì quanto sei rimasto?

R: Una notte e mezza giornata. Poi sono arrivate un treno di tradotte, caricate su due-tre vagoni e portati a  Genova alla Villa di Negro. Era una villa di un ebreo; là c’era tutto il comando tedesco con le impiegate, i dottori e tutto. Hanno fatto una selezione: cento li hanno spediti all’indomani a Sesto San Giovanni come lavoratori liberi in Germania e gli altri sessanta, ci hanno tenuto lì a far delle visite perché dicevano che eravamo malati; in Germania i malati non li vogliono. Poi invece un bel giorno ci hanno preso e ci hanno portato a San Vittore.

D: A San Vittore dove scusa?

R: In carcere.

D: A Milano?

R: Milano sì.

D: E lì cosa è successo?

R: Lì siamo stati tre notti e tre giorni. Poi hanno aperto le carceri e ci hanno mandato a Bergamo, alla caserma Colleoni. Lì siamo stati cinque o sei giorni a dormire nella paglia, con poco mangiare, finché un bel giorno sono arrivati quelli di Milano e quelli di Torino. E’ arrivato un treno alla stazione di Bergamo, caricati sui carri bestiame: destinazione Germania.

D: Scusa un attimo Antonio, il viaggio da Genova a Bergamo

R: Da Genova a Milano.

D: Da Genova a Milano, scusa, come l’avete fatto?

R: Col treno.

D: Eravate ammanettati?

R: No, non eravamo ammanettati. C’era la scorta dei carabinieri; non eravamo ammanettati perché secondo quello che avevano detto, dovevamo andare a casa.

D: Ma tu non sei mai stato interrogato?

R: No, non siamo stati interrogati; nessuno.

D: Cioè ti hanno arrestato perché avevi partecipato allo sciopero..

R: Poi a Genova dicevano che ci mandavano come lavoratori; allora “te dove vuoi andare a lavorare, in Germania?” In Germania ci sono troppi bombardamenti; abbiamo scelto di andare a Vienna, in Austria. Allora eravamo quattro del paese, ci siamo messi d’accordo tutti e quattro per fare i montatori aeronautici. Ti mettevi d’accordo con un gruppo per essere insieme a lavorare e invece cento li han mandati via e sessanta siamo andati a finire lì.

D: Antonio cosa vuol dire abbiamo scelto?

R: Abbiamo scelto di andare a lavorare in Austria perché c’erano meno bombardamenti che in Germania.

D: E questa scelta l’hai fatta a Bergamo?

R: No. Quella scelta lì l’abbiamo fatta a Genova, quando c’erano i contratti di lavoro, che poi è stata una truffa: ti dicevano che ti mandavano a lavorare quando invece, una volta che arrivavi a Sesto San Giovanni chissà dove andavi a picchiare.

D: Ma a Genova son venuti dei civili per proporvi questa scelta?

R: A Genova c’erano tutte impiegate dell’esercito tedesco, dottori e i comandanti dell’esercito.

D: Antonio scusa, ma tu hai firmato un contratto?

R: Non sono riuscito a firmare il contratto. Per quello mi hanno messo con i malati: perché se firmavo un contratto, partivo come lavoratore.

D: Poi dopo allora da Bergamo cosa è successo?

R: Poi da Bergamo, dopo tre giorni e tre notti siamo andati a finire.. No a Bergamo siamo stati lì cinque giorni, poi una mattina han portato tutti i prigionieri di San Vittore di Milano, e quelli di Torino, ci han caricato sulle tradotte di un treno, destinazione Germania.

D: Ascolta dalla caserma di Bergamo alla stazione di Bergamo

R: A piedi, scortati dall’esercito tedesco.

D: C’erano anche delle donne con voi?

R: C’erano una ventina di donne e una quindicina di preti.

D: Ti ricordi la provenienza di queste persone?

R: Guarda mi ricordo solo un prete, Don Gaggero.

D: Di dove era Don Gaggero?

R: Non lo so. Ma lo ricorderò per tutta la vita.

D: Ti hanno caricato sul treno…

R: E siamo andati direttamente a Mauthausen

D: In quanti eravate sul tuo transfert?

R: Ecco è quello lì il problema, eravamo settecentottanta o ottocentosettanta, quello non lo so; è un trasloco dei primi di marzo.

D: Ascolta ma perché ti ricordi di Don Gaggero?

R: Perché mi è capitato lì come nome, come tutto, quei due-tre giorni che eravamo lì. Poi che sia rimasto a Gusen  non mi ricordo più, ma penso che era Gusen.

D: Quanto è durato il viaggio?

R: Da Bergamo? Sarà durato due giorni, un giorno e mezzo.

D: Ti avevano dato da mangiare e da bere?

R:Alla frontiera ci hanno dato una minestrina e basta.

D: Ti ricordi più o meno che periodo era?

R:I primi di marzo, cioè i primi dieci giorni di marzo.

D: Di che anno?

R:Del ’44.

D: Siete arrivati alla stazione di Mauthausen, lì cosa è successo?

R: Lì siamo scesi; sono venuti a prenderci le SS, ci hanno messo in fila per cinque, e strada facendo siamo andati su su su, finchè siamo arrivati al campo di concentramento.

D: Come ti ricordi l’ingresso del campo?

R: Siamo entrati schierati con tutte le SS ai due lati, abbiamo fatto il giro della prima baracca e ci siamo fermati dove adesso – chi va a Mauthausen – vede quel muro che sarebbe il muro del pianto. Di lì abbiamo atteso, siamo entrati a Mauthausen verso le nove e mezza, prima delle dieci e abbiamo atteso adagio, adagio che in cinquanta per volte andassimo giù a far le docce; però i primi che sono andati a fare la doccia erano le donne poi i preti.

D: Tu avevi delle cose con te?

R: No, guarda noi di Savona… Sì avevamo il vestiario, è stata una truffa quella quando ti prendevano: mandavano a dirti “scrivi a casa, manda questo che ti portano i vestiari che poi andrai a lavorare civile, uscirai alla sera o alla domenica”; tutti avevamo indumenti, però noi dalla provincia di Savona non avevamo da mangiare, perché era già troppo che giravamo.

D: Antonio tu hai subito la spoliazione?

R: No.

D: Cioè ti hanno fatto spogliare?

R: Quelli tutti. Come entravi giù facevi la doccia, cioè prima di toglievano i capelli, i peli da tutte le parti, poi ti davano il petrolio poi facevi la doccia. Finito di fare la doccia bello nudo passavi da un’altra parte, ti sceglievi una mutanda e una camicia, e poi ti sceglievi un paio di scarpe, zoccoli olandesi, quelli che c’erano, di premura perché loro di aspettare non avevano tempo e picchiavano. E poi ogni cinquanta per volta ci portavano nella baracca.

D: Ti ricordi la tua baracca di quarantena?

R: Non so se deve essere stato il 20, mi sembra il 20, o il 18. Non mi ricordo sai adesso. Era proprio davanti alla strada, cioè alla passeggiata del campo.

D: Cioè vorresti dire alla piazza dell’appello

R: Sì.

D: E lì quanto tempo sei rimasto?

R: Lì siamo rimasti quattro o cinque giorni, forse meno. Poi un bel giorno ci han dato i calzoni e la giacca, il numero da imparare a memoria, subito,

D: Il tuo numero te lo ricordi?

R: 58673.

D: Ma quando all’appello ti chiamavano lo pronunciavano in italiano?

R: No, in tedesco.

D: Te lo ricordi in tedesco?

R: Achtundfünfzigtausendsechshundertdreiundsiebzig.

D: Ma lo hai imparato subito?

R: Per forza, perché altrimenti erano manganellate.

D: Assieme al numero ti hanno dato qualche altra cosa?

R: Ci hanno dato la striscia dove c’era il triangolo rosso e il numero lo mettevi qui, nei calzoni, e una lamiera qui al braccio.

D: E dopo che ti hanno immatricolato cosa è successo?

R: Niente. Poi siamo scesi giù a Gusen, da Mauthausen un pomeriggio ci hanno dato un paletot, un paio di calze, un pezzo di pane e un pezzo di margarina e siamo scesi giù a Gusen 1.

D: Quanto tempo sei rimasto a Mauthausen?

R: Da marzo fino al 5 maggio. Poi dopo ancora di più perché dopo la liberazione non tutti potevano rientrare. Io sono venuto a casa il 28 di giugno.

D: No no, ma prima di andare a Gusen quanto tempo sei rimasto a Mauthausen?

R: Te l’ho detto, cinque o sei giorni.

D: Il percorso da Mauthausen a Gusen, e poi di quale Gusen parli, di Gusen 1?

R: Gusen 1, però ci hanno messo in una baracca fuori in quarantena perché noi dovevamo andare a costruire un altro campo, che sarebbe Gusen 2. Poi terminato di costruire quel campo lì siamo passati a Gusen 1, facevamo già parte di Gusen 1 ma eravamo staccati.

D: A Gusen ti hanno fatto un’altra immatricolazione?

R: No, sempre il medesimo numero.

D: Cosa ci racconti della costruzione di Gusen 2?

R: Cosa vuoi che ti racconti? Fai conto di vedere un posto tutto nudo e di far uscire baracche, strade, tutto completo. In un periodo di quaranta giorni ci abbiamo lasciato quaranta morti. Perché picchiavano dalla mattina alla sera; c’erano persone che non erano capaci a lavorare a pala e piccone, gli intellettuali, quella gente lì; e sai loro picchiavano, e non c’era altro che picchiare lì.

D: Quanto tempo ci avete messo a mettere Gusen 2?

R: Quaranta giorni.

D: Cioè cosa vuol dire costruire Gusen 2?

R: Costruire un paese.

D: In grado di accogliere quante persone?

R: Non lo so quante persone tenevano, non lo so; se teneva diecimila, non lo so. Perché una volta entrato a Gusen 1, io di Gusen 2 non ho mai sentito parlare. Sentivo parlare in questo senso, che a Gusen 2 non avevano né crematorio né infermeria. Quindi i malati alla mattina li portavano a Gusen 2.

D: Che distanza c’è tra Gusen 1 e Gusen 2?

R: Ci sarà un chilometro, un chilometro e mezzo.

D: Una volta che avete finito di costruire Gusen 2 tu sei ritornato..

R: Io son passato dentro a Gusen 1.

D: Ti ricordi il numero del blocco di Gusen 1?

R: Ne ho cambiati tanti di blocchi. Sono andato alla baracca 4, sono andato al 19, sono andato al 21, perché ogni tanto ti cambiavano per le disinfezioni. Quindi in tutto quel periodo lì ne ho cambiati tanti.

D: Quando sei ritornato a Gusen 1 cosa facevi?

R: Mi hanno sistemato alla Steyr.

D: Cos’è la Steyr?

R: La Steyr era una fabbrica dove facevano le rivoltelle, canne da fucile, canne da mitragliatrice, tutto quello lì; si lavorava dodici ore di giorno o dodici ore di notte, sempre continuamente. Poi c’era anche la Messerschmitt, c’era un’altra fabbrica, e poi c’erano quelli che lavoravano nella campagna e nella cava.

D: Nella cava di Gusen?

R: Sì, c’era una cava grossa.

D: Andiamo con ordine un attimo, tu lavori alla Steyr, ma queste officine della Steyr dove si trovavano rispetto al campo?

R: Sopra il campo. In un primo tempo facevamo una strada fuori, in un secondo tempo hanno buttato giù un muraglione, ci hanno costruito una scala e si saliva di lì.

D: E tu lavoravi?

R: Alla baracca n. 2.

D: E cosa facevate voi esattamente?

R: Lì da noi facevano le canne da fucile.

D: C’erano anche dei civili?

R: Venivano i civili dalla Steyr sì. Un primo tempo venivano alla sera andavano a casa, man mano che si andava avanti le facevano dormire lì anche loro.

D: Ci puoi spiegare una giornata dal mattino quando facevi il turno di giorno?

R: Allora la mattina ti svegliavi d’estate alle quattro e mezzo d’inverno alle cinque e mezzo. Ti andavi a lavare al Wäscheräume, ti lavavi la faccia non avevi né sapone né asciugamano, una volta lavato ti mettevi la camicia, perché se non ti lavavi ti vedevano e te le davano già prima. Entravi nella baracca ti davano, se lo volevi, ma più tanti non lo volevano nemmeno, un po’ di caffè che poi era acqua del Danubio scura, quindi era questo. Il kapò ti mandava fuori perché dentro davi fastidio, prima delle sei c’era l’appello; se tutto il numero era giusto l’appello .. dieci minuti, un quarto d’ora finiva; se mancava qualcheduno finché non lo trovavano dovevi rimanere lì, quando lo trovavano lo portavano lì perché lui era un numero, quindi se eravamo a novantanove lui era cento. Finito l’appello ti mettevi in colonna e andavi a lavorare: quelli che han fatto la notte scendevano, e tu salivi. A mezzogiorno ti davano quel litro di zuppa di rape, continuavi a lavorare e alla sera alle sei scendevi nel campo; ti davano quel po’ di pane diviso in quattro o in sei, in dieci, a seconda com’era, una fettina di margarina, il caffè lo prendevi di nuovo ma non lo prendevi perché ti faceva andare al gabinetto e nient’altro, e poi quando dicevano di andare a dormire andavi a dormire, se non c’era il controllo dei pidocchi. Questa era la giornata.

D: Scusa cosa vuol dire, Antonio, il controllo dei pidocchi?

R: Sì perché ogni tanto ti facevano il controllo dei pidocchi, perché avevano paura del tifo petecchiale. “Ma cosa facevano il controllo dei pidocchi che ne avevamo tanti in corpo?”.

Allora quando dicevano “il controllo dei pidocchi”, il primo che alzava la mano andava a fare il controllo. Andavi là e gli davi la camicia e le mutande, però se avevi una sigaretta e gliela davi loro dicevano che non avevi pidocchi. Era tutto …

D: Voi che lavoravate nelle fabbriche avevate una razione alimentare diversa dagli altri deportati?

R: No, come mangiare uguale. Solo che la Steyr passava le sigarette, secondo la lavorazione. Ogni mese passava il capo del campo, insieme al direttore della Steyr e più il capo della baracca, e dicevano “questo qui fa una lavorazione grossa, questo qui meno, questo qui meno”. A quello più grosso davano due marchi, era un pezzo di carta e lo consegnavi a Schreiber quando entravi nel campo; voleva dire: due marchi, venti sigarette; un marco, dieci; mezzo marco cinque. Quando poi arrivavano le sigarette, chiamavano, ti prendevi la razione. Però di dieci una la voleva già il kapò che era lì che ti aspettava e ne rimanevano nove. Nei primi tempi qualche sigaretta qualcheduno la fumava, poi adagio adagio si tenevano per comprare le zuppe, la margarina, tutte queste cose qui. Allora se ce n’era sigarette il mercato era più debole, se non c’era diventava più alto.

Però poi il kapò un bel momento non ne aveva più, gridava, e tu dovevi dargliene un’altra. In poche parole di dieci te ne rimanevano poche.

D: Questo era il turno di giorno, e il turno di notte poi?

R: Di notte ti alzavi verso.. scendevi da lavorare come gli altri, andavi a dormire; alle tre ti svegliavano, ti davano da mangiare, facevi l’appello e andavi a lavorare fino alla mattina alle sei, sempre dodici ore.

D: Nel blocco con te, tu dormivi in castello con chi?

R: Io ho dormito in castello tanto con Gavazza di Torino, con Barbera, con Magliano no. Magliano era in un altro blocco, sempre con quei due lì.

D: Ma in quanti dormivate per ogni castello?

R: Due, tre.

D: Chi distribuiva le sigarette?

R: Il kapò con Schreiber.

D: Ti ricordi se a Gusen 1 hai trovato dei religiosi?

R: Sì, c’erano i preti con noi. Don Gaggero, poi gli altri adesso i nomi non me li ricordo, sono passati anche tanti anni.

D: Antonio, questi religiosi erano deportati come voi?

R: Come noi vestiti come noi, niente da fare, uguali.

D: Ti ricordi se c’erano anche delle donne?

R: Le donne, ti dico, le abbiamo viste i primi giorni e poi non le abbiamo più viste a Mauthausen.

D: Ti ricordi se c’erano anche dei ragazzini?

R: Ce n’era uno di Savona, il più giovane di tutti: Corrado, aveva 14 anni.

D: E di più piccoli non te li ricordi?

R: No.

D: Prima accennavi che a Gusen 1 c’era anche una cava, tu l’hai vista?

R: Sì, perché era dietro le fabbriche. Poi a mezzogiorno quando davano le mine, mezzogiorno e sera; ci lavoravano due o tremila persone.

D: Ti ricordi se c’era anche un frantoio per macinare le pietre?

R: Non lo so perché non potevamo andarci. Non ti fidavi ad allontanarti dalla baracca. Lì c’erano i binari dei treni, perché si lavorava quasi tutti sui binari, i vagoni per portare via gli scoli, tutte queste cose. Poi con tutte le sentinelle che c’erano, era difficile, io non mi son mai arrischiato di allontanarmi dalla baracca.

D: Prima dicevi che a Gusen 2 non c’era il crematorio né il Revier, perché a Gusen 1 invece c’erano?

R: A Gusen 1 c’era l’infermeria, il Revier e il forno crematorio.

D: Ma tu li hai visti?

R: Sì, avevamo anche l’impiccagione, la fucilazione tutto lì davanti.

D: Cioè, spiega bene.

R: Le ultime baracche che han portato A, B, C, erano proprio le ultime che hanno aumentato il campo, lì di fronte avevamo dove fucilavano la gente, quando c’era l’impiccagione ci portavano nel piazzale a vedere.

D: Tu sei stato testimone di queste cose?

R: Sì. Abbiamo visto l’impiccagione di due tedeschi perché dicevano che avevano sabotato.

D: E fucilazioni ne hai viste?

R: Quando c’era la fucilazione chiudevano le finestre.

D: Cosa facevano, il block …? tutti chiusi nei blocchi?

R: Chiudevano i blocchi, chiudevano le persiane diciamo, le finestre, sentivi sparare poi basta. Poi aprivano. Invece l’impiccagione ti portavano a vedere; ti portavano a vedere quello che era nel campo e quelli che scendevano da lavorare dovevano vedere anche loro.

D: Ti ricordi il Natale del 44 a Gusen 1?

R: Sì.

D: Perché te lo ricordi?

R: Me lo ricordo perché erano già quindici giorni che non si lavorava: i bombardamenti avevano rotto tutte le centrali elettriche, quindi non c’era corrente. E poi perché quelli del ’43 dicevano che allora la Germania avanzava, c’avevano dato un po’ più di pane, un po’ di margarina, e noi avevamo una fame, pensavamo già a Natale. Invece a Natale eravamo a far l’appello, l’albero di Natale nel campo, tutto illuminato, con tutti i morti appesi così, ha suonato l’allarme. Invece di portarci nelle gallerie ci hanno messo nel fossato del campo, tutti lì, tutto intorno lì così. Siamo stati lì quasi fino alle due e mezza. Quando è venuta l’ora di darci da mangiare era verdura cruda e basta.

Alla sera era di notte ho dovuto andare su a lavorare, ma non abbiamo lavorato quella notte lì, abbiamo solo scaldato dei gran pezzi di ferro per sciogliere il ghiaccio nelle macchine. E’ stata quella notte, non solo io, ma diversi dal freddo che ci credevamo di non avere più i piedi, di averli congelati. L’unica notte proprio più terribile di tutte è stata quella lì.

D: Scusa Antonio, tu parlavi di un fossato? Cioè Gusen 1 attorno aveva un fossato?

R: C’era dove passavi; poi c’era un fossato, alto 1.80 x 80; poi c’era il filo spinato, poi c’era come una passeggiata dove viaggiavano le sentinelle, ogni cinquanta metri una sentinella, poi c’era il muro col filo spinato ancora, con i fari, e poi le garritte con i fari e le mitraglie.

D: Prima parlavi di molti binari ferroviari, lì a Gusen 1 che tu hai visto. C’erano molti binari ferroviari?

R: Sì lì nella cava; per viaggiare i vagoni per portare via le pietre.

D: E a proposito di Natale dicevi che nella piazza dell’appello hanno eretto un albero di Natale?

R: C’era un albero di Natale bello grosso. E i morti sotto.

D: Cioè i deportati morti sotto?

R: Sì, i morti che trovavano nei Wäscheräume, in quei posti lì, quando il campo era sgombro diciamo, che la gente andava a lavorare …, passavano quelli addetti, cioè avevano un carro su cui c’era scritto “crema” e c’erano in tre, uno teneva le stanghe nel carretto, e due prendevano i morti e li buttavano sul carro. Quella mattina lì avevamo appena fatto l’appello quando è suonato l’allarme, quindi non l’avevano ancora tolti.

D: Tu quanto tempo sei stato in totale a Gusen?

R: Dalla metà di marzo, fino al 5 maggio.

D: In tutto questo periodo i tuoi vestiti sono stati cambiati?

R: No, io ho sempre avuto la giacca e i calzoni a zebra, quella blu e bianca; una volta solo mi han cambiato, due volte la camicia quando facevano disinfezione. E basta.

D: Hai sempre tenuto quella?

R: Sempre tenuto quella.

D: L’alimentazione ce l’hai già raccontata, cosa vi davano da mangiare. Tu al Revier sei mai stato?

R: Sì ho marcato visita due volte, mi è andata bene, mi hanno mandato di nuovo indietro.

D: In che senso ti è andata bene?

R: Mi è andata bene .. una prima volta avevo come un’epidemia qui sotto. Ho trovato un dottore che mi ha dato della pomata e in poco tempo sono guarito. La seconda volta avevo la febbre alta, il capetto dell’officina mi ha fatto marcare visita, sono andato lì e ho trovato di nuovo fortuna, un dottore, non so se era spagnolo o tedesco, m’ha dato delle pastiglie da prendere, sono andato a lavorare la notte ma m’è passata. Avevo qui che non potevo nemmeno digerire la margarina, alla gola, mi ha dato delle pastiglie e sono riuscito in due giorni a liberarmi.

D: Prima parlavi che quando c’erano gli allarmi, i bombardamenti, ti portavano nelle gallerie. A Gusen 1 c’erano delle gallerie?

R: Noi andavamo lì penso tra Gusen 1 e Gusen 2. In quelle gallerie lì, dopo le ville dei tedeschi, delle SS, andavamo lì nella seconda galleria.

D: Ma che gallerie erano quelle lì?

R: Gallerie che hanno costruito i deportati, e poi dentro c’erano anche i macchinari dove lavoravi.

D: Antonio, come ti ricordi la liberazione di Gusen 1, tu dove eri?

R: Eravamo di domenica, eravamo nel campo. Le SS erano già scappate, erano già partite. Era mezzogiorno, abbiamo sentito un carro armato, poi le voci cominciavano già a circolare perché i fronti erano vicini. Qualcheduno è salito sulla baracca per vedere se era un carro armato, è arrivata ancora una raffica di mitra. Erano gli ultimi che scappavano verso il Tirolo. Allora niente. Al pomeriggio alle cinque facevamo di nuovo l’appello, un bel momento si è aperto il portone del campo, è entrato un carro armato, sulla torretta della fortezza, come a Mauthausen. Lì sopra, è uscito fuori tutto il comando americano, il carro armato ha fatto un giro e poi è partito è andato su a Mauthausen. E di lì è stata la rovina: perché più tanti si son buttati nei magazzini dove c’era il pane, nella margarina, in tutti questi magazzini, i primi che entravano avevano il pane ma non uscivano, perché non so se eravamo quindicimila, ventimila, puoi immaginarti, tutti avevamo fame. Poi però ognuno si è disperso, io con questi quattro Magliano, Gavazza e Barbera siamo usciti fuori dal campo, ci siamo accostati nella baracche dove c’erano le SS. Ce ne siamo fatti dare un pezzo, abbiamo raccolto delle patate e hanno fatto una specie di zuppa da mangiare. Però in un raggio di tre chilometri ci abbiamo lasciato tremila morti, perché avevamo le budella piccole così, a mangiare tanto le allargavi ti prendevi la dissenteria. E così in quel raggio lì del campo ci sono stati tutti questi morti.

D: E dopo il 5 maggio del 45 tu cosa hai fatto?

R: Eravamo sempre lì nel campo.

D: Fino a quando?

R: Ci siamo stati fino ai primi di giugno. Poi ci hanno portato a Mauthausen.

D: E poi?

R: E poi siamo stati lì finché un bel giorno han fatto una autocolonna di carri, di camion e ci hanno portato giù adagio adagio. Abbiamo fatto Linz, Innsbruck, tutti quei posti lì, però ogni campo che entravamo noi ci mettevano da una parte, ci mettevano  da una parte perché per esempio arrivavi a Linz ce n’erano milioni e milioni tra civili, militari; noi deportati eravamo da una parte, ci trattavano proprio bene.

D: Tu sei entrato in Italia quando?

R: Io son venuto a casa il 26 di giugno.

D: Attraverso quale strada?

R: Fino a Linz col camion, poi da Linz con le tradotte, poi scendevi perché le ferrovie non andavano. Poi siamo arrivati a Innsbruck, poi da Innsbruck ci hanno preso, ci hanno portato lì a .. non so se il Lago di Garda o Gardesan. Lì ci hanno messo dove c’erano le suore una notte a dormire lì. Poi ci hanno portati alla stazione ma il treno partiva di lì; arrivavi magari in un posto poi non ce n’era più, poi adagio adagio aspettavi un altro treno, finché siamo arrivati a Genova. Quando sono arrivato a Genova son rimasto solo perché quei pochi alla stazione arrivavano i parenti. E poi da Genova a Savona un po’ a tradotta, un po’ una cosa e l’altra, finché sono arrivato a Savona. A Savona eravamo in due, quello là sono venuti i familiari; io sono rimasto solo, poi son passati dei camion, quelli che andavano a fare la borsa nera, uno mi ha riconosciuto, mi ha preso e mi ha portato a casa col camion.

D: Del tuo trasporto quanti sono sopravvissuti, se ti ricordi?

R: Non lo so perché leggevo nel triangolo rosso ultimamente la matricola 58, 59, sono quasi andati via tutti. Io conosco Signorelli, qualcheduno di quelli lì ma gli altri non ci siamo mai visti, io ero a Finale e loro erano a Milano. Per esempio chi vedo tanto è Maris, perché lui viene a Finale Ligure.

D: Antonio tu in tutti questi anni sei mai stato intervistato?

R: No. Nelle scuole così qualcosa, ma mai intervistato.

D: E tu non hai mai scritto nulla?

R: No. Premetto questo, che tu devi prendere atto che a dieci anni a questa parte che andiamo nelle scuole e tutto, perché fino a prima cosa contraria nessuno ci credeva a queste cose.