Marostica Aldo

Aldo Marostica

Nato il 3 novembre 1925 a Castagnaro

Intervista del: 10/06/2000 a Boissano

realizzata da Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n. 13 – durata: 63′

Arresto: 27 marzo 1944 a Sesto San Giovanni (MI)

Carcerazione: a Milano e Bergamo

Deportazione: Gusen 1 e Gusen 2

Liberazione: 5 maggio 1945 a Gusen 2

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Aldo Marostica, sono nato a Castagnaro in provincia di Verona, il 3.11.1925. Mi hanno arrestato il 27 marzo 1944. Il motivo dell’arresto è lo sciopero, come tutti gli scioperanti del 1° di marzo. Però, prima di essere arrestato contribuivo a portare le armi ai partigiani con la motocarrozzetta della FALCK, andavo a Macugnaga in provincia di Domodossola. Io avevo due denunce, uno per lo sciopero e una per le armi ai partigiani.

D: Scusa Aldo, perché tu dove abitavi allora?

R: Abitavo a Sesto San Giovanni.

D: E lavoravi?

R: Alla FALCK, Acciaierie Lombarde FALCK.

D: Chi ti ha arrestato?

R: Mi hanno arrestato, quelli dell’OVRA, i fascisti. Mi ricordo che erano in nove. Sono venuti in piena notte, hanno cominciato a battere la porta. Noi non aprivamo perché non sapevamo chi era, avevamo un po’ di paura; dopo a furia di picchiare, picchiare ci siamo accorti che eravamo obbligati ad aprirla. Abbiamo aperto e hanno chiesto di me, hanno detto a mia madre “Guardi che suo figlio lo portiamo al Commissariato, vedrà che domani mattina ritorna senza problemi”. Mi sono avviato e siamo andati al Commissariato. Strada facendo ne hanno presi altri due o tre in viale Marelli sempre a Sesto San Giovanni; lo comandava il Commissario Di Spirito; e ci siamo trovati in una quarantina di arrestati in quella notte. Erano quasi tutti della FALCK, qualcuno della Breda e della Pirelli e ci hanno portato nel carcere di San Fedele, sempre nella notte. San Fedele era un carcere vicino al Duomo. Siamo stati due giorni o tre. Erano i primi momenti che erano ricominciati i bombardamenti degli alleati e avevamo anche paura perché si vedevano fiamme dappertutto attraverso la finestra, ma andava ancora bene. Dopo due o tre giorni ci hanno portato al carcere di San Vittore, al 5° Raggio; entrati nel carcere ci hanno messo con la faccia al muro e girati per vedere se avevamo delle armi, dei coltelli, ci hanno perquisiti poi ci hanno mandato in una cella del 5° Raggio. Siamo stati lì due o tre giorni ed ogni mattina ci mandavano giù alle dieci a prendere un po’ d’aria e poi ci mandavano su. Eravamo in quattro in quel carcere, di quei quattro sono tornato solo. Da San Vittore ci hanno portato a Bergamo, non ricordo se in via Colleoni o alla caserma Colleoni… mi sembra che la caserma era il 5° Fanteria. Dopo Bergamo siamo stati lì qualche giorno e nel frattempo sono arrivati altri deportati da Fossoli.  Hanno fatto un carico unico di treno e siamo partiti da Bergamo il 5 aprile.

D: Scusa Aldo, questa caserma era gestita da chi?R: Dalle SS. C’erano i tedeschi ma delle SS. Infatti da San Vittore ci ha portato lì quel famoso Franz, quel SS. tremendo, e siamo andati in mano alle SS. Mi ricordo che lì erano sei o sette di SS.

D: Era gestito da loro?

R: Non erano i militari, era la caserma dei militari; però durante la deportazione ne sono passati tanti di deportati, sempre da quella caserma lì.

D: Scusa, da San Fedele e da San Vittore, tu non sei mai stato interrogato?

R: A San Vittore sì, a San Fedele no. A San Vittore siamo stati interrogati in quattro. Ho preso un po’ di ceffoni; io dicevo che non sapevo niente, cascavo dal mondo delle nuvole, e dato ero giovane avevo diciotto anni e mezzo, non so se ci avevano creduto; di ceffoni ne ho presi un bel po’, ma non è che mi hanno fatto questo male tremendo come certi interrogatori, quando uno usciva malandato. Volevano sapere veramente se era vero che portavo su le armi e io dicevo “No, prendevo la motocarrozzetta qualche volta e facevo un giro al lago”, perché per andare a Macugnaga bisognava passare dal Lago Maggiore e si passava da Gravellona e poi si andava a finire prima di Domodossola. Io ho sempre negato, non so se l’hanno bevuta… però l’interrogatorio a San Vittore me lo hanno fatto.

D: Ti hanno accusato di cosa?

R: Volevano sapere se era vero che portavo su le armi. Io invece ho sempre negato e basta. Volevano saperlo, non era un’accusa diretta “…Tu portavi su qua… è vero che facevi questo, è vero che facevi l’altro?”; mi hanno fatto un interrogatorio un po’ benevolo, non di quegli interrogatori che ho saputo che hanno fatto ad altri.

D: Poi a Bergamo, dicevi, sei rimasto alcuni giorni…

R: Alcuni giorni fino al 5 aprile. Hanno fatto questo treno di carri bestiame e siamo partiti da Bergamo per Mauthausen.

D: Scusami, dalla caserma alla stazione, come ti hanno portato?

R: A piedi. Erano le cinque del pomeriggio, insieme a tutta la gente che piangeva, però siamo passati a piedi.

D: Ti hanno caricato sul carro bestiame…

R: Sul carro bestiame. Durante il tragitto sul carro bestiame .. Forse potrei dire ancora prima ancora alla FALCK … Prima di essere arrestato, nel ’43 a metà febbraio facevo il meccanico; insieme ad altri eravamo andati su una gru a cambiare un riduttore – allora non c’erano le guarnizioni da mettere ma si metteva la vernice -, e un bel momento mi sono messo a fare “falce e martello”. C’era ancora Mussolini allora, perché Mussolini l’hanno combattuto il 25 luglio. E da quella volta lì ero già un indiziato perché con me lavorava uno che era un confinato sull’isola di Ponza, un politico e mi diceva “Guarda che se ti chiamano, ti fanno così…”, perché quando ho fatto la falce e il martello è venuta la polizia fascista a fare tutte le indagini, a sapere chi l’ha fatto. L’altro che ha saputo subito la faccenda dice “Guarda che se ti chiamano, dal momento che l’hai fatta te, che me l’hai detto, digli che non sai niente, però non negare che hai adoperato la vernice, di’ che la vernice l’hai adoperata però il barattolo l’hai lasciato su”. Siccome là andavano altri meccanici, elettricisti e falegnami, non si poteva dare la colpa ad uno se non eri preciso. Comunque dopo, ero già un indiziato, poi è venuta la faccenda e tutto si collegava.Tornando al discorso della partenza del treno, nel viaggio da Bergamo a Mauthausen, prima di partire sono venuti mio padre e mia madre a portare tutta la roba perché tutti pensavamo che si andava a lavorare là; però ho sempre pensato – nel mio piccolo, nella mia giovinezza -, che se andavamo là a lavorare: “Perché ci dovevano portare via di notte? Perché ci portavano nelle carceri?” E non ho mai creduto che andassimo a lavorare là; pensavo sì, di non andare a lavorare, ma non di finire in un posto così. E quando sono venuti mio padre e mia madre a portare questo sacco di roba, gliel’ho fatto portare indietro. Sono l’unico fra tutti i deportati che ha fatto portare via la roba perché immaginavo che si andava a finire male, non come siamo finiti però. Dal viaggio in treno io e Mancini, che era un amico di mio padre, Mancini Antonio, volevamo scappare; però quelli del vagone non volevano perché dicevamo “Poi vanno a prendere i nostri, poi c’è la ritorsione”, e c’era specialmente uno che diceva “…mia moglie, mia moglie”, “ma che mi frega di tua moglie, tua moglie è a letto che dorme nelle lenzuola belle e pulite e te nel carro bestiame in mezzo alla paglia”. Cerchiamo di scappare, non facciamo arrivare il treno, però nessuno ci ha creduti. Allora, avevamo una bottiglia di acqua piena. Questo Mancini mi ha tenuto su di peso in piena notte quando dormivano tutti, perché andava talmente adagio il treno verso Tarvisio che si poteva scappare fin che si voleva. Allora lui mi alza e io comincio con la bottiglia… c’erano due pezzi di legno inchiodati dall’esterno e dall’interno ho cominciato a picchiare; nella premura di picchiare mi si è spaccata la bottiglia che ha fatto baccano, è venuta giù l’acqua che ha bagnato gli altri e la fuga non si è fatta. La SS. passava sempre a vedere nei finestrini, fortuna che quando non siamo riusciti ad andare, abbiamo ripreso questi legni e li abbiamo ritirati, in modo che non se ne accorgessero. Siamo arrivati a Mauthausen, nel campo, poi tutti dicevano “Avevano ragione Mancini e Marostica, dentro là lo dicevano, ma nessuno l’aveva pensato prima”.

D: Scusa Aldo, perché tu dici che siete passati dal Tarvisio?

R: Perché il treno è passato a Tarvisio.

D: Non dal Brennero.

R: No, dal Brennero no. Il nostro trasporto è passato da Tarvisio.

D: Ti ricordi in quanti eravate più o meno?

R: Mi sembra che fossimo quattrocentoquaranta, però in certe liste che vedo c’è scritto duecentottanta; a me sembrava fossimo di più e tra noi c’erano anche quaranta donne delle quali due donne di Cinisello che si sono salvate. Non so se se ne sono salvate delle altre in qualche altro posto. E mi ricordo che arrivati a Mauthausen, ci hanno fatto scendere alla svelta: con dei calci, ci hanno incolonnato per mandarci sul campo; c’erano degli anziani che non ce la facevano a portare su tutta quella roba, io davo una mano a un paio di persone, ma più di tanto non potevo fare.  Nel frattempo sul treno c’erano quelli che avevano le valigie piene di mangiare; c’erano dei deportati che venivano da Fossoli, avevano una fame peggio della mia perché là già mangiavano poco, arrivando a Bergamo si è visto poco o niente; mio padre mi aveva portato un pezzo di pancetta e l’ho divisa con loro. Quando siamo arrivati nel campo, questi hanno aperto delle scatole di tonno, mi viene da ridere ma anche da piangere. Uno di questi di Fossoli, ha preso la scatola e gliel’ha messa in testa, tanto per dire “Potevi darmela prima, non venirmela a dare adesso perché non sai che fine fa”.

D: Scusami Aldo, ma questi di Fossoli erano dei politici come voi?

R: Politici, venivano dal campo di Fossoli.

D: Non erano ebrei?!

R: No, non erano ebrei, di ebrei non ce n’erano con noi in quel trasporto. Venivano di là. Ci hanno raccontato che a Fossoli forse era peggio che a Bolzano. Nei campi in Italia non avevano quella rigidità, come in Austria e in Germania, cioè i familiari potevano avvicinarsi, potevano dare qualcosa. Siamo arrivati a Mauthausen per andare su, la fatica che abbiamo fatto e piano piano siamo arrivati. Quello che mi ha fatto più impressione è quella specie di infermeria, che poi era più anticamera della morte che infermeria; prima di entrare nel campo si è fatto quel pezzo fianco al campo, ora c’è una distesa con un bel prato, ma allora abbiamo visto queste torrette, con le luci, e abbiamo detto “che cosa sarà quella roba lì?”. Poi abbiamo fatto il giro e siamo entrati nel portone principale. Nel portone principale, appena entrati, abbiamo già cominciato a prendere delle botte; entrando nella porta principale abbiamo girato subito a destra e poi a sinistra, a destra era quel famoso muro del pianto che adesso è pieno di fotografie. Siamo entrati lì e poi a destra e ci hanno incolonnati. Abbiamo già cominciato a prendere lì le cose. Al primo imbrunire che si cominciava a vedere c’erano degli aguzzini che ci guardavano continuamente e dicevano “se avete questo, se avete l’altro”, perché tra l’altro uno dei nostri deportati parlava tedesco, ma nessuno si fidava ad ascoltare quello che dicevano. Poi sono arrivate la SS. e hanno cominciato a gridare di mettersi in fila tutti. C’era un vecchietto che non si metteva in fila bene, mi ricordo che era cinquecento di matricola ma non ricordo gli altri numeri, era uno dei primi deportati lì a Mauthausen; gli hanno dato una sberla, a fianco lì c’era uno che si chiamava Chiona, non ho mai dimenticato il suo nome, un giovanottone che era sposato, con due bambini, e non sapendo cosa era questo campo, ha preso l’aguzzino e l’ha picchiato. Questo si è messo a gridare, ha chiamato le SS., che hanno portato fuori questo Chiona e davanti all’entrata prima delle docce, gli ha fatto smozzicare tutte le gambe dal cane … le urla che faceva questo. “Ma chi si muoveva per andare a difenderlo? Era impossibile”. Poi l’hanno rimandato sempre nella fila.

Dopo un po’ hanno portato dei sacchi di carta, ognuno doveva mettere il suo vestiario e tutto quello che aveva con l’ordine di non nascondere niente, specialmente l’oro, i soldi, questo avevano detto. Io non avevo niente. E invece questo mio amico che lavorava con mio padre, questo Mancini, aveva un orologio, un Tavanes, ricordo anche il nome, dice “piuttosto di lasciarlo a loro…” l’ha schiacciato, e poi l’ha messo dentro. Poi cinquanta per volta, come aveva detto Antonio, siamo andati nella doccia, però i primi ad entrare sono state le donne, perché loro le hanno fatte spogliare giù nel lavatoio. E quando sono tornate con i vestiti a strisce e tutte pelate, siamo rimasti sbalorditi, “Ma cosa hanno fatto?”. Poi anche noi, cinquanta per volta, abbiamo fatto la stessa faccenda e siamo andati nelle docce. Non ero nella prima fila, nella seconda fila e la seconda doccia, ogni volta che vado la vado sempre a vedere, sono andato quarantasei volte dalla fine della guerra a Mauthausen… Dopo fatta la doccia ci hanno depilato i capelli e tutte le parti del corpo; siamo tornati nell’anticamera delle docce e lì c’erano i vestiari e ci hanno dato una camicia e un paio di mutande con degli zoccoli olandesi, ma erano talmente mal fatti che mettendo il piede dentro, se non era la tua  misura ci stava male, però bisognava metterli per forza. Nel frattempo ci hanno dato anche un lamierino con il numero di matricola; l’hanno attaccato loro, l’hanno fissato con un pezzo di fil di ferro e da questo momento quello che lo metteva diceva “Guarda che tu non ti chiami più col tuo nome ma sei questo numero. Quando ti chiamano ricordati il numero”. Ma chi sapeva il tedesco?

D: Aldo, il tuo numero.

R: 61685.

D: Te lo ricordi in tedesco?

R: Se lo ricordo! Poi via di lì ci hanno mandato di corsa nei famosi blocchi di quarantena.

D: Aldo, se hai voglia ce lo dici in tedesco il tuo numero?

R: Ein­und­sechzig­tausend­sechs­hundert­fünf­und­achtzig… più o meno un affare così!

D: Scusa Aldo, insieme al tuo numero ti hanno dato qualche altra cosa?

R: Niente.

D: Il triangolo te l’hanno dato?

R: No, il triangolo non l’hanno dato a nessuno. Il triangolo non c’era, il triangolo non te lo danno. Siamo andati nel blocco di quarantena, nel blocco 18. Dal cinque  aprile siamo arrivati all’otto, era la vigilia di Pasqua; e dall’otto siamo andati via da Mauthausen a Gusen il giorno 28, 29 di aprile; mi pare il 29 di aprile.

D: Nel blocco di quarantena eravate chiusi tutto il giorno?

R: Non eravamo chiusi nel blocco. Eravamo nel blocco e nel cortiletto del blocco, non ci si poteva muovere per niente, dal blocco 18 al blocco 19. Nel 19 era pieno di francesi – non c’era il muro che c’è adesso all’aprile del ’44, l’hanno messo dopo per i falsari, per le sterline false che dovevano fare lì -. In questi venti giorni che siamo rimasti lì di quarantena, nel campo due di quarantena in cui eravamo noi, per fare il campo tre, ci hanno mandato giù in cava a portare dei massi; eravamo quattro, cinquemila, una biscia che non finiva più, diretti verso la cava a portare le pietre per finire il campo terzo; infatti adesso c’è il muro. Mi ricordo che in quel muro lì c’era un nostro amico che ho portato con noi che si chiamava Bivari, dato che lui era muratore era in cima a questo muro a mettere a posto queste pietre. Siamo andati in cava perché difficilmente quelli che erano in quarantena andavano in cava a lavorare, erano mandati in altri campi, ma al momento dato che servivano queste pietre, siamo andati. Lì ci siamo spaventati perché abbiamo visto qualcosa di incredibile, a parte la scala, a parte la strada ad andare su, che è ancora la strada, tutta malfatta, siamo andati e ci hanno mandati per non intralciare quelli di qu; in fondo alla scala per fare il giro per non intralciare quelli che venivano giù, e ognuno raccoglieva la sua pietra e se la metteva in spalla. Bisognava prenderla grossa, perché se la prendevi piccola erano fior di legnate e basta. Però per andare giù c’era al blocco 18 uno spagnolo che mi diceva “Dato che tu sei giovane, l’ha detto a due o tre giovani di noi, mettetevi sempre nella fila dei cinque, perché quando si fa la scala, difficilmente picchiano il terzo, picchiano prima il secondo, ma non rompono la fila per picchiare; e difatti mi sono messo in mezzo e non ho preso neanche una legnata, una batosta, però andando giù nella cava, facendo il giro abbiamo visto la compagnia di disciplina. Il modo in cui trattavano i prigionieri praticamente erano i famosi votati alla morte: gli facevano prendere dei massi tremendi, poi quando li avevano messi in spalla ributtarli giù e rimetterli su di nuovo e questo picchiare continuo, e urlava questa gente. Ma nel momento in cui ci passi davanti e li vedi, se dobbiamo fare quella fine lì non torniamo più a casa. Siamo rimasti sempre con lo spavento fino a quando siamo partiti per Gusen. Il giorno che siamo partiti per Gusen ci hanno dato la giacca e i pantaloni; nella giacca e nei pantaloni c’era un pezzo di stoffa che non hanno dato a noi, era già cucito col nostro numero. Sia qua che lì e siamo partiti sempre con questo numero, però a noi non hanno dato niente, alla doccia ci hanno dato solamente la targhetta e basta.

D: Scusa Aldo, parlaci della cava un attimo. Giù in cava c’erano dei macchinari?

R: No, in cava io non ho visto macchinari. C’erano scalpellini e poi c’erano dei giovani che squadravano le pietre per mandarle a Vienna; la DEST, era quella che comandava tutte queste cose delle cave e anche delle gallerie; la DEST e un’altra, due ditte; dopo nelle gallerie entrava la Messerschmitt e la Steyr, che entravano quando le gallerie erano già ultimate. Dunque nella costruzione delle gallerie non so se chi lavorava alla Steyr o alla Messerschmit potrebbe dire “Noi siamo quelli che abbiamo costruito le gallerie per quella ditta”, mentre noi della Gusen 2 costruivamo le gallerie e siamo compresi in questa costruzione.

D: Ti chiedevo della cava per sapere…

R: Non c’era niente nella cava di Mauthausen. I macchinari non li ho visti, ho visto gli scalpellini e dei carri grossi dove mettevano su le pietre e basta; non ho visto nient’altro.

D: Non c’erano treni?

R: No, non c’erano treni nella cava; neanche fuori perché li portavano con i camion. I treni c’erano a Gusen ma ci sono stato due giorni in quella cava lì. Arrivo il 29 di aprile, e ci fanno venire a Gusen 1. Qui ci hanno mandati al blocco 32, dopo di noi è diventato un blocco di convalescenza dell’infermeria. C’era un criminale polacco che picchiava anche lui; quando lo hanno mandato in infermeria in un secondo tempo era bravo come il sole però gliel’ho detto, “Tu due mesi fa picchiavi come un accidente”; si sono meravigliati tutti quelli che hanno sentito, lui non si aspettava che qualcuno glielo dicesse. Mi voleva un bene da matti questo (poi l’ho visto a fine guerra a Sankt Georgen, gli ho detto “Ti ricordi?” dice “Sì, ma poi ti ho fatto del bene”, quello è vero ma non la prima volta. Arriviamo a questo blocco 32: il giorno bisognava andare a lavorare a Sankt Georgen e bisognava prendere il treno che partiva da Gusen 1. Hanno fatto una conta, dato che eravamo sette o otto in più di deportati, hanno fatto una cifra unica e li hanno mandati a lavorare a Gusen 1 e noi in baracca tutto il santo giorno lì, pioveva un accidenti. Era l’ultimo di aprile, primo giorno di lavoro, 1° maggio, tutti a lavorare a Sankt Georgen, ma quelli che hanno lavorato il giorno prima mi hanno detto “Non torniamo più a casa perché quella bolgia infernale che c’è a Sankt Georgen è impossibile poter vivere”.

E io mi sono spaventato, finché uno non vede non si rende conto.

Primo maggio ’44, si sale tutti e si va a Sankt Georgen. Mi mettono con un kapo polacco, una delle belve peggiori di Gusen, Mauthausen, e tutti insieme. Si chiamava Iane ed era un tatuato e comandava quaranta persone alla stazione, loro lo chiamavano il “Banof”, il comando era Banof Ausladen; però delle quaranta persone non mandava tutti lì alla stazione, quindici li mandava lì, una decina li mandava là per fare le baracche di nuovo, altri sette, otto o dieci li mandava a portare i sacchi di cemento; erano suddivisi e quindi lui non era sempre in un punto per guardare tutti noi, un po’ era lì, un po’ era lì. Un bel momento siamo lì che lavoriamo, pioveva, c’era tanto di quel fango che con quei zoccoli olandesi mal messi … mentre lavoravamo è passato lui, passavano anche la SS., lui ha cominciato a picchiare, lui picchiava sempre, io mi sono sentito una botta nella schiena e dico “Ma perché mi devi picchiare?”. Mi giro e gli dò una pacca. E’ andato giù; tutti gli altri deportati cecoslovacchi, francesi, mi hanno fatto segno e parlavano… mi ricordo la parola “mort in crematorio”, poi uno spagnolo mi ha detto che il crematorio è per i morti; insomma lui è andato giù, si è alzato e non mi ha detto niente, tutti si sono meravigliati; abbiamo ricominciato a fare il nostro lavoro e se ne è andato. Dopo venticinque minuti è tornato ma non l’ho visto, perché se lo vedevo dietro di me con la pala lo uccidevo. Ma non l’ho visto e vedevo che tutti si fermavano di lavorare, ho pensato “Ma se il capo vi vede che non fate niente, che fate i pelandroni in quel modo lì ve ne suona tante…”, come dico così ho sentito una sventola poi sono svenuto, caduto, e ho preso una fila di botte, mi ha rotto la pelle, ci ho messo tre anni prima di guarire, e anche a Loano si ricordano… Me ne ha suonate talmente tante che ero tutto malandato, perdevo sangue dappertutto e lui pensava forse di avermi fatto fuori, perché rivolgersi ad un capo vuol dire morte sicura, a quello lì poi… Lui se ne va, mi hanno tirato su pian piano, sono rinvenuto, ma mi faceva un male, avevo tutta la carne indolenzita; piano piano mi alzo, e me la sono cavata così.

Nel frattempo lui non è più tornato lì, ha mandato il secondo Kapò dopo di lui e io ho fatto finta di lavorare; stavo in mezzo ai francesi perché mi hanno aiutato, e mi ha aiutato da matti un certo spagnolo che si chiamava Cardona, quello non lo dimentico mai. Mi hanno aiutato e siamo andati in baracca la sera, fortuna che il capò non mi ha più visto. Torniamo alla baracca numero 1 e c’è lo scrivano, che poi era antinazista, a cui lo spagnolo racconta la faccenda e dice “Domani e dopodomani non vai a lavorare, stai in baracca, fai finta di far qualcosa e via”. Passati i sette giorni ero tutto rotto ma mi ero un po’ ripreso, mi hanno mandato di nuovo a Sankt Georgen a lavorare, dove ho visto di nuovo quel capò lì; ho visto che è rimasto di stucco, mi guarda ancora però gli mando la pala dell’altro, allora caricavamo i vagoni, avendo la pala in mano non si è più azzardato a venire avanti. Mi ha visto parecchie volte e non mi ha detto più niente. Alla fine della guerra, parlando mentre eravamo liberi, tutti dicevano “Sei l’unico secondo noi che sei sopravvissuto essendosi ribellato a un kapò”.

Comunque si torna al lavoro; c’era da portare dei tronchi d’albero dalla stazione ai vagoni, per poi portare questi carri all’entrata delle gallerie dove c’erano dei falegnami che tagliavano queste piante in base ai pali che servivano per fare le gallerie. Perché per fare il cemento occorrevano le impalcature, queste impalcature erano tronchi così grossi, sette-otto metri con dei legni sopra adatti per mettere questo cemento. Solo che pioveva dalla mattina alla sera, essendo il mese di maggio c’era il nevischio, c’era vento, tutti bagnati fradici e andava l’acqua dappertutto. Ti fermavi quella mezz’ora per quel poco di acqua e rape, tornavi alla sera e ti stringevi tutto il vestito; mettevi sotto la testa, la mattina ti svegliavi eri metà gelato perché dormivi sul bagnato. E’ andata avanti per una quindicina di giorni. Praticamente mi sono un po’ ammalato, ma tiravo sempre avanti perché non volevo andare in infermeria: dicevano che chi va in infermeria con una puntura di benzina moriva, e invece non era vero.

Un bel giorno ero talmente malandato che dovevo andare in infermeria. Allora lo scrivano mi dice “Va bene, domani quando vengo a Gusen 1 ti porto…” e infatti mi ha portato; ma se non avevi 39 di febbre non eri adatto ad entrare infermeria, io ne avevo 39… Mi ha fatto fare la doccia, misurato la febbre e poi mi hanno portato al blocco 27. Al blocco 27 c’erano due dottori: uno si chiamava Dr. Antoni Gościński [1] e l’altro si chiamava Dr. Feliks Kamiński; e poi c’era uno spagnolo, di cui  non ricordo il nome e un aiutante paramedico, che si chiamava Stefan Malost [2]. Mi hanno operato, e sono andato avanti un po’ di giorni, sono stati bravi, erano tre polacchi e uno spagnolo. Nel frattempo lì ho conosciuto Signorelli di Sesto San Giovanni e anche il Prof. Carpi, quel famoso che faceva le pitture.

Dato che io ero talmente malandato, alla sera passava una SS che prendeva i numeri, controllava se eravamo tutti; lui si chiamava Giovannacci, parlava l’italiano e mi ha messo al vitto K, era un vitto speciale; sembrava un sogno mangiare in quel modo lì, si mangiava meglio che a casa nostra. E’ durato una settimana, ma io con la febbre che avevo non riuscivo a mangiare, e allora lo davo un po’ a questo Carpi, un po’ a uno che faceva il parrucchiere, insomma la dividevo un po’. Quando poi mi è venuta la fame, mi hanno levato dal vitto K.

In infermeria ho passato un po’ di tempo, e tra il blocco 27 e il blocco 29 che era la medicazione, poi sono passato al blocco 30 e abbiamo visto il 31. Dal 32 non si vedeva il blocco dalla parte dove buttavano giù i cadaveri poichè c’era la cameretta della dissenteria.

Dal blocco 30 vedevi tutto quello che capitava, in fondo al blocco 31 c’era una cameretta, non so quanto era lunga, dove andavano i dissenterici, chi entrava lì non usciva più perché moriva, e si vedeva che li buttavano fuori giorno e notte, quando la notte pioveva e venivano puliti come fossero raspati. Ho visto anche quell’esperienza lì che poi, in un secondo tempo, a Gusen 1, verso la fine della guerra, il blocco 31 l’hanno fatta camera a gas e lì  ne sono morti parecchi.

Via di lì torno a Gusen 2, rivado al blocco Sankt Georgen, ma ero talmente malandato che dopo pochi giorni, a causa dello stesso lavoro bestiale, non ce la facevo più. Allora mi hanno messo fuori a pulire i giardini, eravamo circa duecento deportati, ci guardavano solo le SS, trascinavamo i piedi .. “Dove vuoi andare oltre di lì?”.

Caso vuole che fuori, nel pulire i giardini, in quella baracca lì passa un generale delle SS, che poi l’ho saputo alla fine della guerra chi era, l’ho saputo in Francia a Clermont Ferrand, era niente di meno che Oswald Pohl, uno dei quattro che comandava lì: c’era Hitler, Himmler, Kaltenbrunner e Oswald Pohl. E quando veniva lui però ordinava sempre decimazioni dei più malandati, si vuotava un bel po’ il campo.

Non gli partiva più la macchina, io mi sono offerto di fargliela partire, gliel’ho fatta andare, e allora mi ha raccomandato a questi criminali che comandavano il blocco; e difatti ho fatto un mese e mezzo, quasi due che mangiavo tre-quattro volte più degli altri, ero in baracca, non prendevo freddo, né acqua, né niente, e non prendevo botte. Mi ero ripreso abbastanza bene data l’età che avevo.

Ma cosa capita? Dato che a Sankt Georgen, ebrei, non ebrei, chi a Mauthausen aveva ancora i denti d’oro, che venivano mandati a Gusen, questi criminali impiccavano questa gente e poi portavano via i denti che tenevano loro, senza darli alle SS, e giocavano a carte tra loro. Quella notte erano venticinque, ventisei nel giocare, uno ha truffato l’altro e si sono ammazzati tra loro. La mattina la SS l’ha saputo e cosa ha fatto? Pur essendo criminali che uccidevano i deportati, li hanno presi e impiccati tutti, anche quelli a cui io ero raccomandato. La SS li aveva impiccati perché non dovevano tenersi l’oro, ma darlo alla SS Questo era il motivo, e hanno dato l’esempio; da allora non si è visto più nessuno impiccato nelle gallerie.

Impiccati questi, sono arrivati altri criminali a Mauthausen, e il capo blocco, quello nuovo dice “Ma questo qua cosa fa lì?”. Io non sapevo spiegarmi bene e allora dice domani va anche lui a Sankt Georgen a lavorare. Dico: “Se mi mandano a Sankt Georgen non torno più a casa”. Caso vuole che questo scrivano mi mette in una squadra di un capò tedesco, non sapevo che era antinazista quello lì, ho visto che era politico perché i politici avevano il triangolo rosso, mi hanno messo con loro perché il giorno prima era morto uno della Lettonia, e so che hanno parlato tra loro. In quel comando, eravamo in dieci e dovevamo estrarre, dato che nelle gallerie c’erano delle gomme larghe lunghe tre o quattrocento metri; erano le gomme sopra che poi passavano anche sotto, però le gomme sopra erano con le pale e i deportati caricavano tutta questa sabbia delle gallerie che scavavano e la portavano fuori sui vagoni per poi portarli fuori davanti alla stazione. E allora quei rulli che erano ingranati bisognava sostituirli e mettere quelli che giravano perché poi consumavano anche la gomma. Era un lavoro abbastanza… che fortuna che ho avuto… però i primi tempi, non sapendo lui che ero io, i primi tempi qualche ceffone, qualche calcio lo prendevo però non mi faceva tanto male. Allora, lo stesso spagnolo, questo Cardona, dice a questo Kapò “Guarda, questo è quello che si è ribellato con Iane”, perché ne parlava mezzo campo di quella ribellione. E allora lui sapendo chi ero, faceva come con gli altri nove deportati: non mi ha più toccato e non solo, mi ha anche insegnato come dovevo buttarmi giù quando lui faceva finta di picchiarmi. Allora quando passava la SS, lui con quella voce tremenda che aveva, cominciava a darmi uno sberlone, ma te lo dava nella spalla e non nel collo, e allora tu dovevi urlare e buttarti giù; quando eri giù sembrava che coi piedi venisse lì a sfondarti la pancia come faceva con gli altri, invece lui passava sempre sopra al corpo, però diceva “Dovete aiutarmi a rotolarvi, che io faccio finta”, insomma mi ha insegnato per una settimana. Eravamo talmente perfetti a picchiare così, che abbiamo imparato tutti, quando capitava si vedeva questa cosa. Difatti quello era antinazista, deportato, di quattromila assassini che c’erano in giro ce n’erano undici antinazisti come lui; si chiamava Alvin Muller, che non ho mai saputo dov’è; l’ho cercato per mare e per terra, l’ho detto ai tedeschi, ai congressi, mai saputo dove è andato a finire. Comunque ci ha salvato tutti e dieci e tramite lui abbiamo tirato fino alla fine della guerra, perché senza lui, se era un Kapò come gli altri era impossibile.

So che una volta un SS aveva picchiato un deportato, mi pare un cecoslovacco, lui è andato dalla SS, gli ha dato una spinta sulla spalla, tra me e me ho detto “Quello è matto, se viene un altro Kapò che fine facciamo noi?” E si è messo ad urlare per dire “Tu fai le SS ma non fai il capo, il capo lo faccio io, se c’è una punizione da dare lo dici a me e poi la dò io al deportato, tu no”, urlando con le mani così, e quello sembrava che fosse spaventato. E’ andato ancora bene, tanto per dire chi era questo: ha fatto un rischio, ci siamo spaventati tutti in quel momento.

Sempre nel tragitto, perché ci sarebbe da raccontare di quello che avveniva nelle gallerie, tra i peggiori Kapò c’era uno che si chiamava Ermann che era uno grosso, era un Oberkapò, poi c’era un altro polacco che era un Oberkapò anche lui, cioè il capo dei capi. Poi una volta per trasportare la macchina che trascinava le gomme di trecento metri, sono macchine grosse, ci volevano 50-60 deportati a spostarle, eravamo in duecento nell’incrocio delle gallerie perché c’era una galleria che era da finire di scavare per mettere tutto il materiale nelle gomme. Un giorno siamo lì e lavoriamo un po’ tutti per tirare su questa roba, poi un bel momento ci scappa di andare al gabinetto, lo diciamo al nostro capo; il nostro capo non stava mai lì con noi, andava, girava, quando è passato ho detto “Senti, mi capita così e così”, dice andate. Abbiamo aspettato due o tre minuti per finire di tirare questa macchina che eravamo in tanti, prendiamo e andiamo lontano 30 metri, crolla tutta la galleria: sono rimasti sotto i duecento deportati, i due SS i loro cani, se fossimo stati mezzo minuto non saremmo qua a parlare. Il bello è venuto dopo: venendo gli altri deportati con gli altri SS e controllare, piano piano si cercava di tirare via con queste pale più terra che si poteva e non infierire, quando invece capitava ai russi e la SS non c’era, che poi sono venute a galla le teste degli SS, gli hanno portato via le due rivoltelle. Le SS non vedendo queste rivoltelle dove erano hanno voluto sapere dov’erano e nessuno parlava. Alla fine siamo andati in baracca alla sera, c’erano tutti i deportati nel piazzale  e venne il capo del campo e disse “Se non escono quelli che hanno preso le rivoltelle, bruciamo mezzo campo”. E difatti c’erano fuori delle autoblinde piccole con i lanciafiamme; invece hanno detto “No, non bruciamo mezzo campo, facciamo  così: facciamo una eliminazione, ogni dieci file fuori cinque”. Dico ma senti un po’, per capitare quella faccenda lì io devo…” ho preso il mio capo che era del comitato internazionale e sapeva le cose, sapeva anche chi rappresentavano questi russi qua, l’ho conosciuto dopo la fine della guerra perché prima  non sapevi chi erano, e gliel’ho detto al mio capo  e disse “Se sei  sicuro chi sono è meglio che ne crepi due che a crepare a centinaia a centinaia”. Difatti è finita così, questi due sono saltati fuori, hanno consegnato le rivoltelle e li hanno impiccati ed è finita lì, ma è stato uno spavento anche lì. Ma fra le tante cose da raccontare, dopodomani saremmo ancora qua a dirle tutte.

Dopo questa faccenda avviene la disinfezione del mese di gennaio, un freddo tremendo; so che c’erano certi ebrei che morivano in piedi gelati; c’è stata una eliminazione che il campo si è quasi svuotato. Dove siano finiti tutti quei morti non si sa perché noi eravamo chiusi in baracca. Il mio capo dice che questi morti sono stati portati al di là del campo e nei vagoni e poi portati via, può darsi, solo che nel campo anche se vivevi lì non potevi mica sapere cosa capitava di là! Era difficile, bisognava girare ma non potevi perché eri obbligato lì.

Abbiamo visto anche questa faccenda della disinfezione: so che sono morti a migliaia, dal cinque al dieci di gennaio. Era un freddo tremendo ma solo che ci facevano andare a piedi scalzi perché la neve era alta mezzo metro ma il ghiaccio era venti centimetri perché i deportati schiacciavano la neve. Per una mezz’ora dovevi andare a lavarti e alle volte non veniva nemmeno l’acqua, dovevi far finta di esserti lavato ed uscire. Ma cose che uno non può neanche immaginare. E dopo tutti questi morti siamo arrivati al giorno 24 di aprile. Dato che arrivavano gli altri deportati dagli altri campi, e precisamente sono arrivati anche molti ebrei da Budapest, quattrocentomila ebrei, la maggioranza sono finiti a Mauthausen, Evens e Gusen, sono finiti lì. Arriva il 24 di notte, la sera come siamo arrivati dal lavoro abbiamo visto sei, settecento deportati tutti magri, denutriti con la coperta in spalla senza vestiti e niente, e durante la sera li hanno fatti uscire. Prima hanno chiuso tutte le baracche, tutto chiuso, che non si poteva vedere niente o sentire niente, li hanno fatti uscire e li hanno portati nel campo delle patate, tra Gusen 1 e Gusen 2; non c’era un chilometro e mezzo di distanza, c’era mezzo chilometro di distanza difatti se uno va adesso lo vede che non fa un chilometro e mezzo, li portano lì… perché a Gusen 1 c’era il muro, invece a Gusen 2 non c’era il muro, c’erano i reticolati, non avevamo neanche la corrente tra l’altro, invece a Gusen 1 sì. Li hanno portati là e uccisi a colpi di ascia e a bastonate, hanno fatto una carneficina… sentivamo le urla ma le sentivi leggere perché tutto era chiuso. Quando hanno finito il mio capo mi dice “Hanno ammazzato tutti quelli che erano lì e adesso li portano via”.  Ma dove li hanno portati non si sa. E’ stata l’ultima carneficina che si è vista a Gusen 2.

Quando ci si andava a lavare al Waschräume c’era sempre la camera dei morti là; era sempre piena, perché le fatiche a Gusen 2 erano ben diverse di quelle di Gusen 1. A Gusen 1 avevi il tuo tornio ed eri lì, eri riparato dall’acqua, dal vento, dal sole, dal freddo, invece a Gusen 2 se lavoravi fuori te la prendevi tutta, invece noi lavorando in galleria, eravamo riparati e siamo venuti alla fine della guerra per questo, perché altrimenti per pura forza fisica… mi fanno ridere quelli che dicono “Io ho avuto la volontà, sono venuto a casa”; non c’è la volontà lì, quando facevi tre mesi  a Gusen 2 alla stazione la tua volontà te la mettevi in tasca, te lo dico io.

Nel frattempo lì ho conosciuto anche un sacerdote, don Narciso Sordo e disse “Sto qua con la mia gente, non vado a Dachau”… come facesse a saperlo non si sa, perché nel novembre del ’44 hanno raccolto tutti i sacerdoti di tutti i campi e li hanno mandati tutti a Dachau a fare i lavoretti leggeri. Tra essi, Don Gaggero mi pare che anche lui fosse lì. Comunque chi è rimasto a Gusen 2 c’era questo e basta, però anche lui con il lavoro massacrante che era non poteva durare tanto, e infatti è morto anche lui. Tra tante conoscenze lì, ricordo Vallardi che verso la fine della guerra l’hanno levato dall’infermeria di Mauthausen e l’hanno mandato a Gusen 2 perché avevano fatto tre baracche per l’infermeria fuori, che poi la chiamavano infermeria ma entravi lì ad aspettare di andartene di là.

Tra le tante cose che ho visto una volta, i primi giorni prima che aprissero Gusen 2, l’hanno aperto il 14 di maggio del ’44, l’apertura ufficiale. In quei giorni mi hanno mandato alla cava di Gusen, era tremenda, non c’era la compagnia di disciplina che io ho visto lì, ma era bestiale, sotto l’acqua, il freddo e il vento a portare pesi, e lì c’erano i vagoncini che portavano al frantoio, il frantoio di Gusen 1 c’era e c’è ancora adesso. Infatti l’ho visto poco tempo fa. Portavano queste pietre e le portavano lì, ma erano i Kapò che erano tremendi, che picchiavano continuamente, urlavano sempre; era la vita balorda di loro, perché oltre l’acqua, il freddo e il vento erano sempre loro che massacravano tutti.

Un mese prima di finire la guerra, il mio capo, visto che io ero bravo anche a cambiare non solo i rulli ma i cuscinetti dei rulli, mi disse “Sei capace di mettere a posto una rivoltella?” dico “Io sì, se me la dai”, ne avevo messe a posto tante prima di essere arrestato”. Me ne dà una fasulla, tutta smontata. La guardo,  mi ha portato in una baracchetta nel piazzale di Sankt Georgen, uno guardava fuori, lui, e io l’ho rimessa a posto. E’ rimasto di stucco. Mi ha fatto una prova, cinque giorni prima Himmler aveva dato l’ordine di ammazzare tutti nelle gallerie. E allora lui dice: “Io ho tre rivoltelle, una a te, una a me e una ai cecoslovacchi”; dei polacchi non si fidava, perché più criminali dei polacchi non c’è stata nessuna nazione nel campo, erano peggio dei tedeschi e degli austriaci, non tutti intendiamoci, ma la maggioranza. Dice noi dobbiamo premunirci per fare una cosa: quando verrà il momento che saremmo incolonnati per entrare nelle gallerie, a duecento metri prima di entrare, al primo sparo, se sentite uno sparo anche prima dei 200 metri non importa, al primo sparo che sentite tutti addosso alle SS, però tu, disse a me, e tu cecoslovacco, non dovete stare vicino a quelli della Vehrmacht, perché c’era Vehrmacht SS, dovete stare in fila vicino alle  SS che avevano le pistol-machine, invece la Verm aveva i fucili,  e abbiamo detto “Abbiamo capito benissimo”, ci ha istruiti in un modo… dice “Non occorre tanti colpi, quando c’è la pistola carica, con quattro cinque o colpi, più di lì non riesci ad andare se riesci a stare in vita, però cedendo quello lì tutti gli altri addosso a questi qua, sarebbe troppo stupido crepare tutti noi e loro salvarsi, è meglio che crepiamo metà di noi e tutti loro” e difatti così è partita la faccenda. Arriva la notte tra il 2 e il 3 di maggio e il mio capo mi dice “Dammi la rivoltella che non serve più”, e mi prende e mi porta fuori, in piena notte, non c’erano più le SS, ma c’erano quelli dei pompieri di Vienna, chiamiamoli così, non ci ammazza più nessuno. E’ la volontà. Allora mi è venuto in mente di dire “Ma dove le hai prese?”, dice “Tu non devi sapere niente”. Ma come faceva lui ad avere tre rivoltelle dentro nel campo? O gliele ha date i civili o c’era qualche militare, comunque le aveva, l’ha volute di nuovo.

Arriva il cinque maggio di sabato, le cinque della sera e sono passati questi americani della Croce rossa con una bandiera bianca e lì è successo il finimondo, nel senso della gioia di essere liberi. Però come qualcuno scrive di Gusen 2, a Gusen 2 non c’è stato quel linciaggio di Kapò come c’è stato a Gusen 1 e a Mauthausen, perché lì non c’erano le mura da saltare, c’erano i reticolati senza corrente, (vbabe’ che la corrente non c’era nemmeno in altri posti), e i Kapò i più svelti, erano più vicino all’uscita, perché loro erano ben tenuti e non malandati come gli altri, e ne ho visto uno solo di capò, quello che mi ha picchiato la prima volta, ma quello è stato preso il giorno 6. Il giorno dopo, nella baracca degli indumenti dei deportati, è stato preso e l’hanno inchiodato in terra e dalla parte del piccone gli hanno messo tutta la punta intera nello stomaco, un russo alto due metri, a cavalcioni, l’ha pestato. Erano le otto, otto e mezza, nove del mattino e non crepò mai, ha respirato fino alle cinque del pomeriggio, tanto che bestia che era. Ecco, l’unico che ho visto è quello lì a Gusen 2. Ho fatto il giro sempre al giorno dopo, c’era pieno di cadaveri e tutto, ma di Kapò distesi per terra… perché se uno ammazzava un Kapò lo lasciava a Gusen 1, però lì sono scappati tutti, se poi ne hanno presi qualcuno fuori… Però ho letto dei libri che hanno scritto lì,  specialmente Corazza di Bologna che ha detto “Abbiamo preso le SS…” ma come avete fatto a prendere le SS che sono andate via il giorno prima?”.

Finalmente è venuta la liberazione, ci hanno disinfettati e siamo andati tutti a Gusen 1; dopo una decina di giorni gli americani hanno bruciato Gusen 2 perché era pieno di pidocchi, cimici, era indescrivibile, e infatti mentre bruciava il campo di Gusen 2 io ero sulla strada a vedere. Mi piacerebbe trovare qualcuno di quegli americani che avesse una foto, una che brucia la mia baracca, di Gusen 1, ce l’ho su un libro che ha messo il Comune di Sankt Georgen, ma trovassi qualcuno che ne avesse, guai. Non c’è più nemmeno la pianta, però dalle fotografie dall’alto che hanno preso gli americani il 15 di aprile, ce n’ho una dall’alto che si vede bene questo campo. E’ stato bruciato e poi siamo stati a Gusen 1, siamo stati lì un bel po’. Ci hanno disinfettati con DDT e tutto e dopo un po’ ci hanno portato a Mauthausen, e dopo Mauthausen siamo partiti verso il 23, 24 e con i camion ci hanno portato a Linz, dove abbiamo preso il treno e ci hanno portati a Salisburgo, da Salisburgo ci hanno portato a Innsbruck. Da Salisburgo ad Innsbruck passavano gli altri treni e il nostro no perché si è guastata la macchina; per fortuna che su quel treno lì c’era uno che si chiamava Zerbinati di Sesto San Giovanni ed è andato a casa a dirglielo ai miei. Poi ci hanno portato a Innsbruck in un campo fuori lì, avevamo tanta fame perché siamo rimasti fermi due giorni. Siamo andati in questo campo dove  c’erano dei militari italiani, poi siamo ripartiti di nuovo da Innsbruck e siamo venuti col treno a Bolzano. A Bolzano trovo i miei amici che lavorano in garage con me alle acciaierie FALCK, e poi ci hanno portato a casa. E lì finalmente è finita.

D: Aldo, alcune cose: Da Gusen 2 a Sankt Georgen vi mettevano sul trenino?

R: Sul treno normale. In un primo tempo si doveva uscire dal campo e andare sulla linea che da Gusen 1 portava a Sankt Georgen. In un secondo tempo hanno fatto il treno che proprio parte da Gusen 2 che si collegava con la ferrovia di Gusen 1. I primi tempi era brutto perché non c’era la rampa come c’era prima che salivi normale, dovevi salire su quel gradino lì, essere in tanti e salire lì metteva un po’ male… è durata poco quella faccenda però è durata un bel po’. Poi l’hanno fatta a Gusen 2 e il treno di lì passava sotto il ponte e si collegava con la ferrovia di Gusen 1 e andavamo a Sankt Georgen a lavorare. A Sankt Georgen c’era sempre una curva e c’era una steccata, un parquet, e mentre il treno passava scendevamo di corsa; facevamo una strada e passavamo davanti una casa di una che in un primo tempo quando noi abbiamo lavorato due o tre giorni fuori dalle gallerie, lei dalla finestra buttava giù qualche pezzo di pane. Si chiamava Bürger quella donna lì… qualche pezzo di pane con la marmellata, quello che capitava, ma si doveva guardare in giro, è stata l’unica che ci ha dato qualcosa… non perché era stata l’unica, ma perché suo padre era ex deportato a Dachau. Dopo la guerra mi ha fatto vedere i documenti di ex deportato. Ecco perché lei buttava qualcosa per i deportati, perché altrimenti gli altri… Dal tragitto da Mauthausen a venire a Gusen c’erano dei bambini che gli davano di quelle bacchettate, allora dico “I bambini non c’entrano niente, ma se uno non ha il cuore cattivo anche se è un bambino non da le bacchettate agli altri”. Erano istigati dalle SS, tanto per dire che anche i bambini picchiavano anche loro.

D: Aldo, tu parlavi delle gallerie di Gusen 2, cioè di Sankt Georgen, ma erano molto grandi?

R: Non erano molto grandi come immensità, come altezza erano più basse di quelle di Ebensee, però non erano così; ho le fotografie a casa..

D: Ma a cosa servivano queste gallerie?

R: Le gallerie servivano a mettere Maschinenpistole …. Non dimentichiamoci che il primo aereo a reazione è stato fatto a Sankt Georgen, lì è stato fatto; è stato costruito a Sankt Georgen. E al di là del fiume c’erano ancora le gallerie di prova degli aerei.


[1] Detto anche “Toni” o “Dr. Toni”.

[2] Come studente di medicina faceva parte personale dell’infermeria di Gusen.