Maris Gianfranco

Gianfranco Maris

Nato il 24 gennaio 1921 a Milano

Intervista del: 19/07/2000 a Milano

realizzata da Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n. 33 – durata: 114’

Arresto: 20 gennaio 1944 a Lecco

Carcerazione: a Lecco, Bergamo, Milano

Deportazione: Fossoli, Bolzano, Mauthausen, Gusen 1

Liberazione: 5 maggio 1945 a Gusen 1

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sono Gianfranco Maris, sono nato a Milano il 24 gennaio del 1921. Se debbo affrontare nel suo sviluppo e nelle sue radici la mia esperienza concentrazionaria ritengo che sia necessario che io parta un poco da lontano. Io voglio partire da quando avevo 17 anni e frequentavo la seconda Liceo a Milano presso il Liceo Carducci. Qui conobbi un mio compagno di scuola, il quale a sua volta mi fece conoscere ad un certo momento un suo fratello. Come accade fra giovani si chiacchierava, ci si incontrava, si discuteva e il fratello cominciò a passarmi dei libri perché io leggessi e trattassi e conoscessi dei temi di cui avevamo parlato a voce.

Inizialmente ero abbastanza stupito perché questi libri portavano un timbretto, Ventotene; io non capivo bene cosa volesse dire questo Ventotene, soltanto in un momento successivo capii che erano i libri che questo fratello aveva avuto mentre era a Ventotene confinato politico, dopo essere stato carcerato politico. Questa conoscenza mi portò alla conoscenza di altri che erano tornati dal confino di Ventotene e che erano invece clandestini a Milano. Questo rapporto mi portò non dico ad una militanza operante e responsabile all’interno del Partito Comunista, ma mi portò ad una dimestichezza con il Partito Comunista o quanto meno con dei militanti clandestini del Partito Comunista. Questa vicenda per una infinità di complicate ulteriori vicende mi portò ad essere preso, io come gli altri, sotto particolarissima attenzione dai fascisti del gruppo rionale di Oberdan, di Via Cadamosto che era in Porta Venezia a Milano; io abitavo ed ero nato in corso Buenos Aires. Costoro quasi con cadenze ravvicinate o sempre più ravvicinate, ogni tanto ci convocano nel gruppo rionale per sapere cosa facevamo e le cose si concludevano con delle grandi violenze e delle grandi percosse.

Per uscire da questa situazione particolarmente difficile ad un determinato momento, ritenni, raggiunta la maturità classica, di chiedere di frequentare il corso allievo ufficiali. Così feci, e a vent’anni ero sottotenente. Sottotenente con una coincidenza particolare: ero diventato sottotenente quando il 10 giugno del 1941 l’Italia era entrata in guerra. E così senza soluzioni di continuità io partii per la Grecia prima, e poi passai alla guerra di Croazia; e fui prima in Slovenia poi in Croazia praticamente per il ‘41, ‘42, ‘43 fino all’8 settembre.

Intervento: La dichiarazione di guerra è del ’40?

In Croazia trascuriamo le vicende drammatiche e dolorosissime per chi aveva invece una cultura della libertà dell’uguaglianza e del rispetto fra i popoli.

L’8 settembre mi coglie in Croazia in una situazione che era diventata particolarissima in quei tempi, proprio nell’ultimo mese, perché in Croazia vi erano anche dei battaglioni della milizia volontaria sicurezza nazionale, fascisti. Anche loro dopo il giugno del ‘40, dopo l’entrata in guerra dell’Italia, erano stati mandati al fronte ed erano in Croazia. Il 25 aprile del 1943 io operavo nella zona di Bromoravizze; fui chiamato ad Ogulin dal comando di reggimento e mi si impose di prendere sotto il mio comando una compagnia di milizia volontaria sicurezza nazionale del battaglione San Giusto che doveva essere ricondotta nell’ambito dell’esercito in quanto non potevano più avere la camicia nera, non potevano avere più i fascetti alle mostrine, dovevano avere le stellette, e anche i loro ufficiali diventavano soldati semplici. Per cui io inglobai nel reparto che comandavo anche questi cento uomini.

D: Scusa questo è avvenuto quando esattamente?

R: Questo avveniva il 25 luglio del 1943.

L’8 settembre del ‘43 questi uomini erano inquadrati nel mio reparto, ormai da un mese e quindici giorni. Quando io mi resi conto, dopo l’8 settembre, il 9, 10, 11 che ormai il comando di reggimento era scomparso, i comandi non esistevano più, che si era dissolto tutto e tutti avevano preso disperatamente la strada di casa con tutti i mezzi immaginabili possibili, io mi trovai lì solo, centinaia di chilometri lontano dai confini d’Italia, senza sapere cosa fare. Allora io presi contatti con i comandanti partigiani della zona. Perché? Perché avevo questo retroterra politico che mi sospingeva verso una presa netta di posizione a favore dei partigiani perché volevo schierarmi a fianco a loro nella lotta che io avevo ritenuto e conosciuto come una lotta sacrosanta.

Qui si inserisce il dramma per me, perché mi dicono che tutto ciò è possibile, però vogliono la consegna di quei cento uomini della milizia volontaria sicurezza nazionale che erano stati inglobati nel mio reparto; evidentemente senza che io abbia necessità di spiegare le ragioni, per me ciò non era assolutamente possibile. Quindi io fui costretto a iniziare, credo unico nella storia dell’esercito italiano dopo l’8 settembre, una ritirata militare con tutte le regole della sicurezza per poter in questa ritirata garantire sia la sicurezza degli uomini del mio reggimento, che avevo sotto il mio comando sia quelli che avevo poi cooptato, diremo così, dopo il 25 luglio del 1943. Cioè con marce molto lente, con fiancheggiamenti, avanguardia, ecc., per un centinaio di chilometri in una situazione disperata perché avevamo soltanto poche gallette, basta dire che noi ogni giorno mangiavamo mezza galletta bagnata nell’acqua, per giorni e giorni, fino a quando siamo riusciti ad arrivare prima a Fiume e successivamente a Trieste. Fra Fiume e Trieste tutti presero la strada che ritenevano più conveniente per garantire la propria sicurezza, per poter tornare a casa ecc., finalmente poi io solo riuscii a rientrare in Italia.

Premetto: qui c’è una parentesi che io devo aprire. Insieme ad un certo gruppo fui accerchiato da un reparto delle SS armato e noi eravamo tutti armati ancora, ed era ormai quasi la fine di settembre .. era il 20 settembre, avevamo impiegato molto tempo, fummo catturati, fummo chiusi in un vagone ferroviario e fummo portati a Przemyśl, in Polonia. La situazione era per me ragione di un vero furore; per cui quando alcune settimane, dopo vennero degli ufficiali tedeschi e ci dissero che era stato ricostituito l’esercito italiano in Italia e chiesero se qualcuno di noi volesse aderire, io ravvisai in questa scelta la possibilità di realizzare situazioni nuove e diverse delle quali avrei potuto operare quella scelta finalmente volontaria di lotte di collocazione nella lotta che avevo pensato di realizzare l’8 settembre, quand’ero ancora in Croazia.

Dissi che ero disponibile, ci presero, eravamo proprio uno, due, tre tanto è vero che fu angosciosa anche questa scelta di fronte a tutti quanti gli altri che ritenevano che noi fossimo addirittura dei traditori; dei traditori perché la massa, pur avendo l’angoscia della prigionia e l’angoscia della lontananza dalla famiglia, pur intravedendo attraverso quella scelta la possibilità di tornare a casa, la rifiutarono. Fui molto fermo, io dissi di sì; ebbi una piccola prudenza, presi un compagno che era un ufficiale notaio di Venezia, e gli dissi: “Guarda tu mi conosci, sai cosa potrebbe capitarmi; qualunque cosa mi possa capitare ove io morissi prima sappi che questa è la ragione della mia scelta”. Comunque fui portato, mi pare, a Ulm, poi di lì, nella fine di ottobre, primissimi di novembre su un treno e portati in Italia. Questo treno passa il Brennero, passa naturalmente Verona, arriva a Bologna di notte. A me pare che quello sia il momento giusto, scendo dal treno in un buio tremendo e mi allontano dal treno rapidissimamente; poi in una situazione – non conoscevo qual era la situazione di Bologna;  Bologna era stata bombardata -, il treno si era fermato, non è che si fosse fermato in stazione, era fuori stazione; io non capivo più niente, però vidi alcune persone che camminavano perché si vede che altri erano scesi, e pure lì c’era altra gente che camminava in una certa direzione. Io mi misi al seguito di costoro, mi confusi nel buio con le loro figure, che malamente si intravedevano e arrivano alla stazione di Bologna dove salgo su un treno che va in direzione di Milano. Nella notte fonda mi infilo in questo convoglio, ma dove mi metto io ci sono una serie di soldati ufficiali tedeschi. Mi siedo lì in silenzio, non parlo, non succede niente, e il buio, non c’è nessuna lampadina accesa nel treno per dirle in breve. All’alba arrivo a Milano. Scendo, erano le prime luci dell’alba; arrivo a casa mia, prendo degli abiti borghesi, prima che si accorgano, nessuno si accorge che io sono arrivato, esco e vado in un rifugio, che io conoscevo, di questi miei compagni comunisti in via Fatebenefratelli, proprio di fronte all’ospedale Fatebenefratelli in Milano. Questo è un grosso antefatto. E’ l’antefatto che spiega perché io poi cambiai nome e fui catturato poi con un altro nome. I compagni mi condussero a Varese, dove c’era un funzionario del comune che era molto favorevole alla Resistenza. Questo riuscì perché era un funzionario di elevato rango: mi procurò una carta di identità falsa dove io presi il nome di un mio zio, Gianfranco Lanati, mantenendo inalterati gli altri dati e dissi che ero nato in Santa Maria Capovetere e che la mia Residenza era Santa Maria Capovetere.

Prima ho fatto una certa peregrinazione perché cercano di collocarmi come comandante partigiano, perché fatalmente in quella situazione io ero un elemento prezioso per la Resistenza; in quanto non sapevo nulla della vita, non conoscevo nulla della vita perché ero passato praticamente dai banchi di scuola alla guerra, ma però della guerra sapevo tutto, perché avevo fatto tre anni al fronte, e poi conoscevo le tattiche della guerriglia, prima in Val Canobina; ma in Val Canobina non c’era ancora un tessuto connettivo che si potesse utilizzare poi nella val Brembana. Siamo nel novembre, ai primi di novembre del 1943. Quindi le organizzazioni partigiane sono in formazione faticosa, sottolineo faticosa. C’era stata l’esplosione popolare dell’8 settembre, ma esaurita quella spinta iniziale.. poi le formazioni partigiane sono frutto di organizzazione: trovare gli uomini, organizzarli, dare loro la possibilità di vestirsi, di mangiare .. era tutto molto faticoso. Vengo mandato in Val Brembana, e allora lì in Val Brembana, in una valle che parte da San Giovanni Bianco, la Val Taleggio noi organizzammo un gruppo partigiano abbastanza numeroso; non gruppi foltissimi, ma venti, trenta persone, un piccolo gruppo riuscimmo a organizzare. Questo direi che siamo riusciti a mettere in piedi nel corso di circa un mese, un mese e mezzo fra i 5, 6, 7 e 8 di novembre e il 5, 6, 7, 8 e 15  dicembre del ’43.

I mezzi erano infimi, non avevamo neanche mezzi finanziari; io ricordo che far vivere questo gruppo, avevo cinquecento lire da parte e usai anche questi miei soldi e ci sostentavamo soltanto mangiando fagioli bolliti e polenta e basta.

Le vicende di questo gruppo partigiano finiscono per quanto è a mia conoscenza, rapidamente. Perché? Perché verso il 20 di gennaio, il comando militare di Milano mi chiede di ritornare a Milano in quanto ha bisogno di un comandante in Valtellina dove il gruppo armato è molto più consistente e quindi ha maggiormente bisogno di una direzione militare. Scendo a Milano con Abele Saba, all’alba mi pare del 22, 23, 24 di gennaio.. era il giorno del mio compleanno tra l’altro. Andiamo separatamente, io seguendo lui e vedendolo da lontano, andiamo prendendo un treno dalla stazione centrale a Lecco. Quando giungiamo a Lecco io lo seguo da lontano, ma poi mi affianco a lui; nel momento in cui mi affianco a lui, proprio di fronte alla sede del Comune di Lecco, ci troviamo circondati dalle SS.

Io non avevo visto, evidentemente erano nascosti nel Comune sono usciti alle nostre spalle, ci hanno circondati, io mi sono trovato con tre, quattro, cinque mitra nella testa e così lui e ci hanno separato immediatamente. Ci hanno separato immediatamente, ci hanno fatto percorrere un po’ le vie della città come per esporre il trofeo della caccia; poi ci hanno messo in una vettura da una parte Abele Saba, hanno messo me in un’altra vettura, dopo una sosta in una caserma che non saprei come riconoscere. E qualche ora passata su un tavolaccio in quella caserma isolato, fui portato a Bergamo.

A Bergamo fui messo in una cantina di una casa delle SS; poi da quella cantina mi trasferii in un’altra cantina che era trasformata però in una serie di celle, che in una piazza, che oggi si chiama Piazza delle Libertà, alle spalle del Tribunale di Bergamo, lì c’è un grande e moderno immobile. E lì mi misero sotto la sorveglianza della Guardia Nazionale Repubblicana fascista, però di proprietà e di riserva della Gestapo. Io lì fui tenuto undici giorni e undici notti.

Quelli della Guarda Nazionale Repubblicana mi massacravano di botte per divertimento, perché non mi interrogavano, ogni tanto entrava qualcuno e mi massacrava di botte. E io ero isolato lì nella cella. Di notte avevo l’interrogatorio delle SS. Undici notti di interrogatori. Nel corso dei quali la posizione che avevo presa era la posizione più assurda di questo mondo, anche come risposta, perché io dicevo che non conoscevo la persona con la quale io ero stato arrestato, catturato, non l’avevo mai vista, non sapevo chi fosse.

Io però avevo una situazione drammatica personale, in quanto ero stato preso armato; non solo avevo le armi addosso, ma avevo anche due borse nelle quali c’erano materiale di propaganda e armi.

Quindi dire che non sapevo chi era quello, che non sapevo chi fosse dicendo che io andavo a cercare un rifugio per me, era la mia tesi: essendo io un soldato che l’8 settembre era rimasto sbandato e non sapevo come fare a vivere e sopravvivere, quelle erano le armi che io avevo anche prima e che me le portavo appresso, ma era più difficile dire perché avevo anche il materiale di propaganda della Resistenza. Comunque il primo discorso che loro mi dissero era che io sarei stato fucilato, perché il bando della Repubblica fascista della Repubblica Sociale italiana stabiliva che coloro che venivano presi armati dovevano essere immediatamente fucilati, e che quindi io sarei stato fucilato e che qualche speranza di non essere fucilato avrei potuto averla se avessi detto qualche cosa; e io continuavo ad insistere che invece non sapevo niente di niente, non conoscevo nessuno, che quelle armi le avevo, le conservavo per ricordo, cioè una posizione quasi di offensiva; però era la posizione che ritenevo giusto in quel frangente e nella situazione generale del paese e per la scelta che avevo fatto di mantenere.

Dopo undici giorni però la Gestapo, io non appartenevo alle prede dei fascisti, erano prede della Gestapo, e anche Saba era preda Gestapo; noi abbiamo saputo dopo che eravamo stati denunciati, non ci presero a caso. Ci attendevano, noi avevamo un piccolo gruppo staccato di partigiani che era stato catturato, ed erano stati fucilati; credevamo che erano stati fucilati tutti, invece uno non era stato fucilato. Saba infatti quando fu catturato a Lecco lo aveva visto, io invece non l’avevo visto e quindi non avevo capito, non avevo potuto formulare nessun collegamento.

Sta di fatto però, che i tedeschi non volevano fucilarmi immediatamente, in quanto speravano di poter avere quelle informazioni che volevano avere. Allora mi trasferirono nel carcere di Sant’Agata di Bergamo, che era nel braccio del Tribunale militare tedesco, sezione di Bergamo distaccata da Verona; e io proseguii nella mia istruttoria per novanta giorni.

In un’altra cella, ma io non lo sapevo, sottoposto al mio medesimo trattamento c’era Abele Saba.

Quindi, io ho avuto poi altri novanta giorni, sessantanove giorni, novanta, settantanove giorni di interrogatori e anche Abele Saba, li ha avuti continuando a tenere questa mia linea che non sapevo niente.

Sta di fatto che un giorno, uno di quelli che loro chiamavano i secondini, mi porta all’aria. Voglio ricordare questo, perché voglio ricordare come anche oscuri uomini che non erano nella Resistenza, la vivevano nella loro coscienza e nella loro scelta. Questo carcere, era un carcere complicatissimo perché era un vecchio convento: scale scalette, corridoietti, mentre passo per uno dei tanti corridoietti per poi scendere una scaletta e andare a prendere l’aria, apre lui stesso una porta, mi butta dentro e mi dice “Presto, presto, presto”. Io entro e trovo Abele Saba.

Cinque minuti, dieci minuti cerchiamo di mettere in piedi, lui ed io, un racconto qualsiasi: lui mi dice che ha saputo per tramiti che il reparto in Val Taleggio non c’è più, l’hanno spostato e quindi posso anche dire che sono stato in Val Taleggio, perché lì non c’è più nulla, l’hanno spostato. E invece potrei dire sempre sulla scelta mia che ero uno sbandato che cercava un collocamento per vivere, sopravvivere, nella campagna, qualcuno che mi mantenesse e mi facesse lavorare ecc. E che avendo incontrato lui, che avevo conosciuto nel passato, lui mi aveva proposto di portarmi in un posto sul lago dove lì avrei potuto, presso suoi amici, passare il tempo di lavorare e poter mangiare e sopravvivere.

Allora abbiamo imbastito questo discorso; non è che fosse molto più intelligente di quello di prima, ma comunque noi negli interrogatori successivi a questo nostro incontro, abbiamo detto queste cose lentamente l’uno e l’altro.

La cosa non cambiò molto ai fini, perché sia Saba che io fummo condannati a morte: io ero condannato a morte come Gianfranco Lanati, e lui come Abele Saba. Però sia lui che io, essendo nelle mani dei tedeschi forse per una scelta diremo di opportunità non fummo fucilati: lui fu prelevato al mattino e mandato per un altro itinerario per un campo di sterminio, un campo di annientamento; io per un itinerario un po’ più complesso fui mandato ugualmente in un campo di annientamento KZ.

Mi mandarono a Milano dove stetti sette, otto giorni, poi da Milano con un convoglio fui mandato a Fossoli.

D: A Milano dove ti hanno mandato?

R: A Milano mi hanno mandato nel carcere di San Vittore di Milano. Io sono stato pochi giorni, il tempo forse che consentisse a loro di preparare il convoglio e di mandarci … poi infatti, arrivammo a Fossoli in un gruppo abbastanza numeroso, un gruppo tutto di politici, in Fossoli io rimasi sino al 20 di luglio.

L’11 di luglio di sera si sono verificati due episodi, voglio fare un piccolo passo indietro. Nel campo di Fossoli i partigiani avevano organizzato una struttura interna segreta che aveva come finalità e sogno quella di poter liberare il campo attraverso un colpo di mano. Il comandante di questa struttura era Leopoldo Gasparotto; poi c’era una serie di giovani partigiani – ero giovane anche io allora, avevo ventire anni – che già si predisponevano per tempo nella piazza dell’appello alla sera in certe posizioni, avendo ognuno un compito particolare; il suo uomo di aggredire in un determinato momento sia delle SS sia magari qualche traditore, qualche spia che era all’interno di questo gruppo. Il momento per questa azione doveva essere quello nel quale i partigiani emiliani avessero attaccato le torrette agli angoli del campo, impegnando quindi gli uomini delle torrette in un combattimento con loro; distolte le armi delle torrette per questo attacco partigiano esterno, il gruppo interno doveva operare questa azione. Soltanto che non fu possibile fare questo perché Gasparotto, il 21 di maggio del ’44 fu preso: vennero in baracca, lo portarono fuori, aveva i calzoncini corti, fu portato fuori caricato su una vettura che si allontanò dal campo. Poco tempo dopo, noi abbiamo visto rientrare un ciclo con un cassonetto dietro, e abbiamo visto colare del sangue: era il corpo inanimato assassinato straziato di Leopoldo Gasparotto.

Il giorno 11 di luglio del ’44 vengono prelevati sulla Piazza dell’appello settantuno uomini. Dicono che dovranno partire per la Germania l’indomani mattina; in effetti la cosa è chiara, perché noi veniamo a sapere che un gruppo di ebrei era stato mandato al poligono di tiro del Cibeno e avevano scavato una fossa lunghissima. E questi uomini, per la verità non tutti e settantuno vengono poi assassinati l’indomani mattina sull’orlo di questa fossa. Uno viene salvato, viene tolto dal gruppo dei settantuno ed era Carenine: era un compagno che aveva combattuto in Spagna e il maresciallo Haage che lo toglie dal gruppo perché gli serviva in quanto era un muratore lo faceva lavorare nel campo. Altri due fuggono al mattino quando si ribella un gruppo nella fucilazione e ne restano quindi sessantotto. In effetti però uno viene si nasconde, ed è quello che ha scritto la preghiera del partigiano, Olivelli, che si nasconde in una baracca sotto le merci e non lo trovano. Quindi ne vengono fucilati sessantasette; Olivelli finirà anche lui in un campo di sterminio. Gli altri rimasti dopo questa fucilazione, del gruppo forte politico che veniva da Milano, siamo stati caricati su dei pullman…

D: Ecco scusa due cose, ti ricordi la data di quando sei arrivato a Fossoli? Più o meno..

R: Ricordo che era la vigilia di Pasqua. Potrei verificarlo perché io ho il registro del Carcere di San Vittore con il nome di quelli che partirono insieme a me per Fossoli. Doveva essere qualche giorno prima di Pasqua, qualche giorno dopo Pasqua, scusa, mi sto sbagliando; la fine di aprile del 1944.

D: L’altra domanda era questa ti ricordi se c’erano dei sacerdoti a Fossoli?

R: A Fossoli c’erano sei sacerdoti. Di cui poi parlerò anche perché ho un ricordo molto vivo e molto affettuoso di loro.

D: Il numero di Fossoli tuo te lo ricordi?

R: 315, quello me lo ricordo; sì 315.

D: E la baracca quale era?

R: Io ero nella baracca 19.

D: Nel periodo che tu sei rimasto a Fossoli, durante il giorno vi facevano lavorare?

R: No, io non lavoravo. Alcuni lavoravano. Per esempio, in Fossoli io poi trovai altri due che erano della mia brigata: Ciceri che era un ragazzo di Lecco che fu fucilato con i sessantasette e un siriano, si chiamava Giorgio Titorian; questo siriano era stato reclutato da me, perché essendo soldato nell’armata francese, e la Siria era sotto quel tempo il protettorato francese, e quindi nell’esercito francese c’erano anche i siriani. Questo siriano fu prigioniero di guerra, e come tale venne portato a Bergamo dove c’erano dei campi di concentramento per prigionieri di guerra. Dopo l’8 settembre era fuggito sulle montagne; quando io arrivai in Val Brembana, mi mise a rastrellare a mia volta tutti i prigionieri di guerra, perché cercavo di proporre a loro di entrare nella brigata che io andavo formando in quel momento.

Titorian poi venne anche lui con me nel campo di sterminio. Allora, siamo pochi giorni dopo la fucilazione, veniamo portati a Bolzano.

D: Ecco, ma dal campo di Fossoli vi hanno portato alla stazione di Carpi?

R: No, noi siamo stati portati al Po con dei pullman. Poi abbiamo attraversato il Po su dei barconi, mi fai ricordare una circostanza. Anche lì allora, noi volevamo far affondare il barcone, poi però dopo c’erano i vecchi che non sapevano nuotare, c’erano i giovani o le donne, c’era una situazione per cui noi non ci sentimmo, perché noi partigiani potevamo essere anche nuotatori esperti capaci a superare la corrente del fiume, o lasciarsi trascinare più a valle, ma gli altri sarebbero morti, e questa è una scelta che nell’immediatezza non poteva essere fatta.

Passiamo con i barconi, veniamo caricati nuovamente su altri pullman e veniamo portati a Bolzano. A Bolzano mi fermo però pochi giorni, non più di otto giorni credo.

D: Ti ricordi questo trasporto cioè da Fossoli a Bolzano quanti eravate? Poi accennavi che c’erano anche delle donne…

R: Però le donne non vennero con noi al di là del fiume Po, quindi non so che fine fecero; non erano donne neanche del campo. C’erano alcune donne che non so a che titolo fossero state caricate su questo o forse perché facevano fare anche loro, consentivano a qualcuno che doveva passare il Po di salire; sta di fatto che c’erano alcune donne su quel barcone, che è una chiatta enorme, non erano donne che poi furono deportate con noi.

D: Quanti eravate più o meno?

R: Non era un trasporto per Bolzano molto numeroso. In precedenza vi erano stati trasporti molto più numerosi, io non credo che superassimo la memoria qui non è che mi assista. Io vedo stranamente soltanto tre camion, non ne vedo di più, diciamo quattro, ma non vedo cinque, dieci camion sui quali io penso che non potevamo stare più di una quarantina di persone.

Quindi non credo che il numero potesse andare oltre le centoventi, centotrenta e centoquaranta persone, però non ho ben chiaro il numero.

D: E il viaggio è durato un giorno solo?

R: Noi siamo arrivati partendo al mattino, alla sera eravamo già a Bolzano; non ci siamo neanche fermati a Verona. A Bolzano non mi ricordo che mi abbiano dato un altro numero, ci hanno messo in cameroni che evidentemente erano di adattamento recente per questo tipo di ospitalità, in quanto erano come delle valli, come degli hangar alti, alti, alti e però separati ogni campata dall’altra da dei muri altrettanto alti, che però superavano di poco il livello dell’ultimo castello, senza peraltro arrivare a chiudere tutta questa campata fino alla cima. Per cui c’era ancora spazio, c’era comunicazione tra una campata e l’altra.

Rimasi, come ho detto, circa otto giorni, dopo di che siamo stati caricati, questa volta su un treno molto lungo in vagoni bestiame, con me c’erano nel mio vagone i preti di cui tu mi hai fatto ricordare.

D: Ti ricordi qualche nome?

R: Uno era Camillo Valota dalla Valtellina; l’altro era quello dei Paolini, che era la Cardinal Ferrari, don Paolo Liggeri. Poi vi erano altri due, di cui in questo momento però mi sfuggono i nomi. Credo che nel mio vagone c’erano anche due partigiani feriti, uno era un giovane di cui non ricordo il nome che portava un busto perché era stato ferito in combattimento e aveva avuto una ferita nella schiena, per cui portava uno di quei busti che reggono anche il collo. L’altro era Bracesco, Bracesco che aveva perso una gamba mentre trasportava delle armi, era stato intercettato da parte dei reparti armati della Repubblica Sociale Italiana.

Arrivammo qui dopo parecchio tempo con soste continue, non dico notturne, soste continue perché o vi erano ragioni di bombardamenti, o bisognava dare la precedenza ad altri treni; ogni tanto si sostava a lungo sui binari, neanche nelle stazioni e quindi sete, fame, era fine luglio. I disagi, cinquanta-sessanta persone in un vagone, devono fare i loro bisogni, perché poi l’umanità che deve compiere queste rituali quotidiane necessità sporca … insomma una situazione disastrosa anche se fra di noi la comprensione e la tolleranza era infinita … logicamente nessuno veniva disturbato per queste cose dall’altro, però creava grave disagio, fame e sete, fetori.

Arriviamo di notte a Mauthausen. Una stazioncina che sono quelle stazioncine svizzere, una baracca di legno, tutto lì, ma vediamo che si chiama Mauthausen. Per noi non diceva niente. Con noi invece c’era un avvocato di Milano, Barni, al quale gli è venuta una sincope, perché Barni era stato a Mauthausen prigioniero di guerra della prima guerra mondiale. E lui si è ricordato che Mauthausen voleva dire per lui comunque quantomeno, perché non sapevamo che cosa ci aspettava, ma voleva dire quantomeno fame, sofferenza, sete, dolore.

Voglio qui ricordare invece una situazione particolare. Quando stiamo per arrivare, il treno rallenta, siamo alla stazione; si capisce che siamo arrivati. I preti pensano che se fossero in “divisa” (uso questa parola tra virgolette evidentemente), cioè se indossassero l’abito talare questo potrebbe essere un parafulmine per loro. Allora si mettono tutti con la tonaca, indossano tutti l’abito talare. Si aprono le porte, il buio della notte, qualche luce, e poi vediamo molti uomini con i cani. Scendiamo, saltiamo giù sulla terra – forse era in terra battuta ancora allora – non mi ricordo bene, sul marciapiede di questa stazione. Come vedono costoro i quattro preti con l’abito talare, si avventano sui quattro e li massacrano di botte; li massacrano di botte. Il che comincia ad essere per noi un elemento di riflessione di giudizio su quello che sarebbe stata la nostra condizione. Ci inquadrano, dopo questo episodio, e lì iniziamo una faticosa salita; faticosa in senso generale per tutti, perché fra di noi c’erano anche molte persone anziane, non è che fossero tutti i giovani della Resistenza armata: c’erano patrioti, uomini politici, tipografi, tutti quelli che avevano partecipato alla Resistenza. La strada per il campo KZ di Mauthausen stava in salita, è ad alcuni chilometri, un quattro chilometri circa.

Nel buio della notte, tuttavia non una notte di buio totale, perché un po’ di luna c’era. Io aiutavo a salire un operaio della Breda che non riusciva a camminare e aveva un pacco, una valigia da portare, che non era in grado di portare. Io non avevo nessun pacco né nessuna valigia perché mi avevano preso con gli abiti che indossavo nel gennaio del ‘44 e avevo ancora quegli abiti; non avevo niente. E allora gli portavo il pacco e lo aiutavo a salire.

Era un uomo anche capace di ironia e di spirito. Quando siamo arrivati in vista di questo campo, che cosa ci si presenta? Noi vediamo su questa altura, che si stagliava in questa luce della luna, una sorte di castello enorme, muri poderosi con torrette con sentinelle armate in alto, poi fili spinati, due serie di fili spinati, una visione apocalittica. Questo che era con me, questo vecchio mi dice, parlando in milanese, e io lo ripeto in milanese “Ui, ti” a me “… a me che schi me pare el quartetto dell’Aida”, cioè si immaginava forse la tomba dove Radames, quella coreografia che era negli occhi di chi era appassionato di lirica. Bene arriviamo nel campo di Mauthausen, aprono le porte, siamo ancora molto lontano dall’alba; ci mettono subito a destra, tutti in fila, tutti in piedi e a terra i nostri abiti.

Ci sono alcune ore prima che venga l’alba. E noi siamo lì, qualcuno passa e ci dice che ci toglieranno tutto; io per esempio avevo con me una fotografia di mia madre e chiedo allora a Bracesco “Ci toglieranno tutto ma a te Bracesco le stampelle te le lasciano”, gli dico “Lasciami che io infili sotto l’imbottitura delle tue grucce la fotografia di mia madre, poi me la darai”. E così facciamo, infiliamo lì la fotografia di mia madre. Sta di fatto che quando viene l’alba e arrivano, Bracesco che non aveva una gamba, il giovane partigiano che aveva il bustino, questo vecchio che avevo aiutato a salire e un prete che mi pare fosse di Bologna, un uomo molto grasso, enorme, vengono prelevati, portati giù da una scaletta e noi ci rendiamo conto che non tornano più.

Non sappiamo ancora esattamente che lì c’è una camera a gas, però non tornano più. Non tornano più. Non escono. E quindi cominciamo ad avere l’ulteriore messaggio: vediamo che sono tolti quelli che non sono idonei al lavoro. E poi noi invece veniamo portati giù da un’altra parte, spogliati, ci portano via tutto, rasati, depilati, disinfettati, ispezionati inchinandoci avanti per vedere se per caso avessimo qualche cosa; non avevamo proprio più niente. Con noi c’era Aldo Ravelli. Aldo Ravelli che aveva con sé qualche centinaio di migliaia di lire, in biglietti da mille. I biglietti da mille di quel tempo erano piccole lenzuola, tovaglioli enormi, pezzi di carta. Quando si accorsero questo lui distribuì a tutti noi questo denaro dicendoci di andare al gabinetto. E ognuno di noi andò al gabinetto, per non consentire che questo denaro finisse nelle mani delle SS. Quindi depilati, spogliati, non avevamo più niente. Qualcuno aveva dato il suo orologio a qualche altro che era già prigioniero del campo, comunque ci tolsero tutto. E fummo dopo portati in una baracca cosiddetta di quarantena, che era ai limiti del campo. Erano i giorni nei quali Mauthausen era una macelleria per coloro che erano ritenuti cospiratori nell’azione condotta all’interno dell’esercito tedesco contro Hitler, per cui pervenivano ogni giorno lì numerosi tedeschi prigionieri e li fucilavano. Erano questi i giorni. Quindi all’ulteriore vicenda della condizione della deportazione ai fini del lavoro della morte del campo, si aggiungeva questa contingente vicenda della soppressione dei congiurati del colpo di Stato, nel tentativo di colpo di Stato di luglio del ‘44 contro Hitler.

Ci mandano in questa baracca, ci distribuiscono un berretto, siamo nudi, non ci sono castelli, non ci sono coperte, dormiamo uno a fianco all’altro così fitti che se uno si gira su un altro fianco nella notte si deve girare tutta la fila, tutto un effetto domino da una parte e dall’altra. Non abbiamo spazzolino da denti, non abbiamo cucchiaio, abbiamo però un cappello e siamo nudi. Ci cominciano a dare una zuppa. Una gamella è riempita di zuppa per due persone. Premetto che, a questo punto, non eravamo più soltanto italiani: siamo italiani, jugoslavi, croati, serbi, cecoslovacchi, russi, di tutta Europa in senso allargato, un’Europa allargata. Quindi difficoltà di lingua tra di noi enormi, non abbiamo un cucchiaio e siamo in due a prendere la zuppa e la dobbiamo prendere, ma ci intendiamo fra di noi. La prendiamo a sorsi, però come mangia un maiale, a sorsi: un sorso io, un sorso te, un sorso io, un sorso te. Però abbiamo il berretto. Insisto su questo berretto, perché la storia della zuppa va avanti per tutti i giorni che rimaniamo lì, ma parallelamente si sviluppa una sorta di educazione ad ordine chiuso diremmo con un linguaggio, mutuando il linguaggio militare, perché veniamo inquadrati alla mattina e al pomeriggio fuori dalla baracca, noi nudi in file con il nostro berretto. E per ore il comando è questo: Mützen ab Mützen auf, Mützen ab Mützen auf … su il berretto, giù il berretto, su il berretto, giù il berretto. A questo punto è un ulteriore messaggio che almeno i più avvertiti di noi ricevono, registrano e su quello riflettono, perché? Quali automatismi vogliono indurre in noi? Solamente un automatismo di rispetto verso il superiore quando passa per cui tu automaticamente togli il berretto e non tieni il berretto in testa. E’ un po’ poco, con i loro sistemi basta che la prima volta che non togli il berretto ti danno quattro sberle, o quattro legnate, e tu hai subito capito, poi da quel momento in poi togli il berretto quando passa un superiore.

Ci sono degli automatismi diversi, un automatismo che abbiamo avuto dopo, non conosciamo le teorie di Pavlov e del cane che viene sottoposto a dei processi che determinano degli automatismi. Però ci rendiamo conto che vogliono determinare in noi un annientamento della volontà, dell’intelligenza, della vigilanza, dello spirito. Dopo giorni di questo, siamo nuovamente smistati in altri blocchi di quarantena perché la quarantena dura ancora altri giorni; mi pare che duri una quindicina di giorni nel suo complesso. Fra questa quarantena in questo posto dove siamo nudi col berretto, all’altra quarantena dove invece siamo con gli abiti che ci vengono distribuiti, degli zoccoli aperti, un paio di pantaloni. A me è capitato un paio di pantaloni forse dell’armata polacca o non so di quale altra armata, poi una giubba, io ebbi una giubba verde con tanti bottoni che non so da quale esercito provenisse, e poi una camicia. Altri ebbero quelle cose a righe che conosciamo, ormai l’iconografia è nota. Però vestiti nella maniera più svariata.

Allora passano e assimilano il lavoro. Data la mia specializzazione mi mandano a lavorare in cava di pietra, mentre gli operai vengono mandati in fabbrica, la Steyr. Naturalmente a questo punto ci hanno dato il numero che viene messo sul petto e sui pantaloni, con il triangolo rosso con su scritto “it” per noi e il numero. Il mio lo ricordo ancora oggi, era 82.394 e la prima cosa che capii immediatamente dopo le altre, sulle quali prima mi sono soffermato, è che questo numero io dovevo capirlo in tedesco, perché se non lo capivo in tedesco ogni volta che facevano l’appello prendevo delle gran botte. Allora diventava sì un riflesso automatico, io ricordo il mio numero questo lo conoscevo e poi quando io sentivo questo suono io dicevo “Ich” sono qua. E così facevano gli altri, perché anche coloro che erano addirittura analfabeti il linguaggio del campo lo hanno subito appreso.

E poi si è appreso quel linguaggio del campo che ha consentito … io ricordo sempre che ventuno nazionalità con ventuno lingue diverse si sono parlate, si sono conosciute, si sono comprese, si sono stimate, si sono rispettate, si sono aiutate.

Vengo mandato in cava di pietra e a questo punto forse io posso rapidamente procedere fino alla liberazione.

In cava di pietra rimango il resto del mese di agosto, settembre, ottobre, novembre e dicembre. Poi vado a gennaio a lavorare nel Transportkolonne. Preciso meglio, quelli che trasportano da un’ala all’altra delle fabbriche, la Steyr, portano le casse, fanno il trasporto esterno.

D: Quando parli della cava, tu intendi la cava quella sotto Mauthausen?

R: No, no. Io ho sorvolato un passaggio, perdonami, io nella cava sotto ci sto pochi giorni e lavoro pochi giorni, perché vengo passato poi a Gusen 1; poi il resto della mia deportazione lo passo a Gusen I, alla cava. Alla cava sotto Mauthausen passo i pochi giorni di agosto dopo la quarantena. Dopo di che finita la quarantena io passo alla cava di Gusen 1.

D: Come lavoravate lì alla cava di Gusen 1?

R: Alla cava di Gusen 1 c’erano dei detenuti che operavano, mettevano mine per far saltare la parete. Le mine, i buchi per le mine per creare i fornelli venivano fatti con il martello pneumatico, facevano dei buchi, infilavano della gelatina, della dinamite, sistemandola secondo anche le indicazioni del Meister del lavoro, il Meister civile, e poi si faceva saltare, crollava. Noi nella cava, tranne quei pochi che erano addetti a questo lavoro del creare fornelli e mettere le mine, trasportavamo soltanto il materiale. Allora lo trasportavamo o a spalle individualmente, oppure avendo quella che gli spagnoli chiamavano una barriquella, una barella, delle assi con due bastoni, uno davanti e uno di dietro e si mettevano o più pezzi, oppure grossi massi, ma fino a 30-40 chili si portavano così.

D: E dove portavate queste pietre?

R: Le portavamo all’estremo limite della cava. Vi erano una serie di impianti, di frantoi che frantumavano questi massi in varie grandezze, addirittura fino alla sabbia. L’ultimo frantoio era sabbia. Oppure venivano trasportati perché lì passava la ferrovia. Allora noi li dovevamo portare da dove crollavano a terra, all’interno dell’anfiteatro della cava e li portavamo ai frantoi o al caricamento per i treni.

D: L’esplosione era in uso anche nella cava di Mauthausen?

R: Sì, sicuramente; perché se no come fai? Deve crollare perché se no quelli, non è che c’erano per terra i sassetti quelli che li portavano su dalla scala della morte…

D: Quindi non è che lavoravano in verticale a taglio?

R: No, ho capito quello che dici. Io so come è quello, non so se tu vai a Siracusa trovi le latomie, perché vengono fatte secondo un vecchio sistema, come si fa a Carrara, cioè tu hai dei motori che trascinano e tirano un filo di acciaio che strisciando continuamente secondo una certa collocazione dei due motori su una parete tagliano proprio delle lastre come tagliare il burro con un filo con due prese estreme di questo filo. Qui era per crollo, non c’era taglio; è possibile che questo taglio ci sia stato in tempi più antichi, perché effettivamente quelle cave sono di origine antichissima. Io credo che Vienna viva e sia stata costruita solo perché c’erano quelle cave che, attraverso un trasporto a basso costo rappresentato dal Danubio, poteva utilizzare come Milano ha utilizzato i marmi di Candoglia attraverso il Ticino, attraverso il lago. Così Vienna utilizzava per lastricare la città o costruire queste cave. Però forse allora tagliavano, quando sono stato io facevano buchi e saltavano le rocce. Oppure anche con il picco e pala poi dopo rompevano.

D: Lì a Gusen ti ricordi il tuo blocco e la tua baracca? Quali erano a Gusen?

R: Io ne ho attraversate tre secondo il lavoro che ho fatto. Sono stato alla 31, alla 26, mi pare anche alla 14, e poi da fine gennaio alla liberazione sono stato al blocco B, che era invece fra i blocchi più prossimi all’ingresso del campo.

Siamo al lavoro della cava. Ad un certo punto vengo prima addetto al trasporto dei sacchetti di cemento verso la fine di dicembre che pesavano cinquanta chili ognuno, ma io ero ancora in forza, quindi ce la facevo abbastanza. Trasportavamo i sacchetti di cemento, da dove arrivava la ferrovia si dovevano trasportare, credo fino a dove poi successivamente io lavorai anche per scavare le gallerie. Ho lavorato però pochi giorni in questo trasporto di cemento, dopo di che sono stato addetto al trasporto all’interno delle baracche. Poco tempo perché poi sono stato addetto a scavare le gallerie.

Dopo che abbiamo finito di scavare una galleria abbiamo immesso, scaricando dalla ferrovia e trascinando, le macchine che arrivano dall’Italia perché erano state predate e rapinate in Italia. Alcune anche macchine ancora nuove, non utilizzate, neanche macchine vecchie di impianti disattivati in Italia.

Le abbiamo immesse in queste gallerie. Alla fine di questo lavoro, dopo che avevo lavorato come scavatore e come muratore nella galleria, dopo che avevo immesso nella galleria queste cose, fui trasformato in operaio all’interno di questa galleria.

D: Come è che vi cambiavano lavoro? Venivate chiamati? C’era una selezione?

R: Ignoro totalmente. Cosa determinasse questa scelta credo che fosse determinata dalle necessità loro di lavoro, ma erano ignorate dalla gran parte di noi. Anche se io ebbi una possibilità di maggior conoscenza delle vicende del campo, perché quando arrivai ero ben noto ad alcuni che erano venuti con me. Per esempio c’era un senatore, uno che poi fu senatore del partito comunista di Siena, Vittorio, poi dirò il nome fra poco, che era stato comandante militare a Milano, Vittorio Bardini di Siena; quindi io avevo conosciuto lui a Milano come comandante di Milano, con lui avevo avuto contatti quando ero in Val Brembana per l’organizzazione della Val Brembana, lui aveva combattuto in Spagna. Quando arrivò a Mauthausen lui immediatamente fu recepito nell’organizzazione clandestina del campo politica, perché era conosciuto dagli spagnoli che erano lì nel campo perché era stato in combattimento in Spagna.

Lui mi segnalò naturalmente e allora entrai in un ruolo vorrei dire di giovane partigiano politicamente affidabile che poteva essere introdotto per le cose che minimamente si potevano fare. Anche minimamente nei confronti dei compagni, rimproverarli se cedevano la loro zuppa per avere una sigaretta, rimproverarli se non si comportavano con dignità, se diventano servili. Ricordare a loro quale era il loro dovere di comportamento perché erano dei prigionieri trattati in maniera disumana da chi aveva occupato il nostro paese e contro i quali noi avevamo combattuto. Insomma era più un ruolo etico-organizzativo che non un ruolo veramente ai più alti gradi, proprio perché dove c’era Bardini, dove c’era Francesco Albertini, dove c’erano altri, allora lì invece magari c’erano possibilità maggiori di avere informazioni e di operare nell’ambito della clandestinità del campo.

Allora le condizioni di vita del campo le avranno descritte già tanti, credo sia inutile che le descriva io.

Il cibo. Penso che è inesistente, arriviamo all’inizio, quando arrivo prendono una pagnotta, ogni giorno una pagnotta e viene divisa in sei. Poi dopo un poco viene divisa in otto e via via in una progressione che porta nell’ultimo mese a dividere la pagnotta in ventiquattro. Una pagnotta di un chilo diviso in ventiquattro fette per il lungo e poi … Alla mattina una gabellina di un liquido nero che credo sia, dicevano che fossero zucche abbrustolite, quindi poi bollite per trovare questo estratto dolciastro nero, una specie di surrogato, uno dei tanti surrogati fantasiosi di caffè con una gabellina. Poi a mezzogiorno questo litro di zuppa che era fatta di una brodaglia i cui elementi erano soprattutto costituiti, pochi perché era molto brodaglia, erano barbabietole da foraggio, quelle lunghe bianche. E alla sera invece con la fetta di pane ci davano una fettina di margarina, un dado di margarina, un dado di un insaccato strano, ma insomma vuol dire trenta grammi di roba, 25-30 grammi di roba, poca roba. Questa era l’alimentazione.

Una alimentazione che credo gli stessi padroni di fabbriche delle industrie tedesche si rendevano conto che era insufficiente. Questo io l’ho capito dopo perché veniva distribuita ogni sera a coloro che lavoravano nelle fabbriche, una zuppa che era gialla, ci hanno dato un mestolo di zuppa, potrei dire un quarto di litro di un liquido giallo, non so che cosa ci fosse dentro, so che era giallo e che era un quarto di litro, veniva distribuito soltanto a chi lavorava nelle fabbriche perché era una distribuzione personale a quelli che lavoravano nella fabbrica da parte del padrone. La zuppetta Steyr si chiamava per chi lavorava nella Steyr. Io l’ho capito dopo quando dopo la guerra ho potuto leggere la corrispondenza fra le fabbriche e le SS. I deportati erano proprietà delle SS e quindi le SS li manteneva e riceveva quattro marchi al giorno per darli in affitto come manodopera, come se desse un cavallo per lavorare dodici ore, per le dodici ore di lavoro che questo cavallo o uomo davano loro ricevevano quattro marchi, però dovevano pensare poi a vitto e alloggio, diciamo così. I padroni si rendevano conto che essendo la vita media di questo cavallo-uomo che ricevevano in affitto, in godimento temporaneo, essendo la vita media tre mesi, succedeva che per quindici giorni rendevano poco perché era un apprendistato, negli ultimi giorni rendevano poco perché stavano per morire, allora la corrispondenza tra le fabbriche e le SS era questa: gli ultimi cinque pezzi che ci avete consegnato non sono buoni, hanno durato soltanto due mesi, allora loro per farli durare di più gli davano una zuppetta a carico proprio.

Per solidarietà con se stessi, per avere qualche giorno di più, qualche energia in più a propria disposizione.

Questa era l’alimentazione. Il lavoro durava dodici ore, o dodici ore di giorno o dodici ore di notte secondo i turni, che si potevano fare però soltanto quando si scavavano le gallerie e nelle fabbriche, non si facevano i turni alla cava di pietra. Dodici ore.

Le sevizie vorrei dire erano infinite. In che senso io trascuro per un attimo la violenza individuale del capo-campo, del capoblocco, del capo del lavoro, del kapò, perché c’era un kapò in ogni squadra, in ogni blocco che ti picchiava, derubava il cibo, anche scarso che già c’era.

Trascuro tutta questa violenza, io guardo proprio come regime la violenza globale. Per esempio una volta la settimana ci portavano a fare la doccia. Durante il lungo inverno eravamo nella baracca, arrivavamo dopo il lavoro alle 6 di sera, ci spogliavamo nudi, ci mettevamo fuori dalla baracca nudi, era pieno di neve, attraversavamo nudi il campo innevato per arrivare a metterci in fila dietro altri gruppi che ci precedevano per andare a fare la doccia. Quando uscivi dalla doccia, non avendo né sapone né asciugamano ed eri soltanto bagnato di acqua gelida o calda che si sostituiva di volta in volta, uscivi bagnato, ripercorrevi a ritroso il cammino nella neve camminando nudo per andare alla tua baracca e poterti vestire. Questa era un modo per far morire la gente evidentemente.

Per esempio, a mio avviso, ulteriore tortura collettiva. Questa era collettiva anche se poi si traduceva di volta in volta in una tortura individuale, era quella del Lauskontroll, il controllo dei pidocchi.

Ogni sera questo rito dei controlli dei pidocchi faceva una serie infinita di vittime, cioè non era preso l’individuo: tutto il blocco doveva ogni sera spidocchiarsi. Allora nella incerta luce della baracca tu prendevi la tua camicia e guardavi nelle giunture se c’era qualche pidocchio. Dopo aver ben guardato però tutti passavamo davanti al kapò, il quale seduto su uno sgabello guardava e ogni pidocchio che tu non avevi saputo, prendevi cinque bastonate. Io ricordo quello che è capitato a me nel mese di dicembre, fra Natale e Capodanno, con un freddo tremendo, il campo pieno di neve, mi trovarono cinque pidocchi. Allora il rito qual era? Tutti quei disgraziati che prendevano che avevano trovato i pidocchi li avevano messi in fila da una parte, poi c’era uno sgabello sul quale tu ti dovevi piegare mettendo le mani, e un vice kapò, sotto semivice, quasi aiuto kapò, perché ce n’erano tanti che desideravano farlo, con un bastone di legno lungo ci dava il numero, un pidocchio cinque bastonate, oppure io che avevo cinque pidocchi, venticinque bastonate.

Io avevo visto cos’era accaduto ad altri; poi dopo le bastonate pisciavano sangue, perché cosa accadeva? Dopo la prima bastonata, chi prende la bastonata si inchina per non prendere la seconda. La seconda invece se tu ti chini la prendi sulle reni invece che sul sedere. Io che avevo visto mi presi le venticinque bastonate senza muovere di una frazione di millimetro il sedere, perché volevo essere ben sicuro che quel disgraziato che continuava a picchiarmi con molta solerzia colpisse sempre in quel residuo di parti molli che c’era ancora sul mio sedere. Non volevo che mi colpisse sulle reni perché sapevo che avrei pisciato sangue l’indomani mattina e sarei finito al crematorio subito. Non solo ma finite queste bastonate, le venticinque che presi, mi fecero arrampicare sulla porta esterna della baracca e mi fecero mettere gli abiti sotto la neve sulla cima della baracca. Non solo. Poi mi hanno fatto stare nudo tutta la notte, all’indomani mattina mi hanno fatto uscire nudo, mi hanno mandato a fare la doccia attraversando nudo tutto il campo coperto di neve, sono tornato nudo, mi han fatto ri-arrampicare, riprendere gli abiti, li ho messi e sono andato a lavorare.

Vorrei dire che bisognerebbe superare il ricordo individuale di quella volta che tu hai preso le botte per mettere in evidenza il regime finalizzato alla morte dei campi di lavoro, perché questi erano destinati all’annientamento dell’uomo, non solo attraverso dodici ore di lavoro senza cibo, ma vivendo nelle intemperie senza abiti, vivendo le quotidianità nella sofferenza più disperata e poi su tutto questo si accumulavano tutte le singole violenze individuali.

D: All’interno di queste violenze collettive, rientra anche l’appello? L’appello era una tortura in che senso?

R: Era una tortura perché non ti potevi muovere e dovevi stare lì magari delle ore e per uscire a lavorare e prendere il lavoro alle sette del mattino, la sveglia era alle cinque, tu avevi lì ventimila persone e allora le contavano. E alla sera quando si ritornava c’era un altro appello e tu dovevi portare con te al ritorno anche i morti, ti dovevi trascinare a spalla anche i morti perché l’appello si faceva con i vivi in piedi e i morti per terra, in modo che tornassero esattamente i numeri che erano stati annotati al mattino all’uscita per andare sul posto di lavoro.

D: A Gusen 1 che tu ti ricordi ci sono mai state impiccagioni o fucilazioni?

R: Io per Gusen 1 ho sentito di impiccagioni, sicuramente le fucilazioni del luglio. Ho sentito anche di impiccagioni, io non ne ho mai viste nel tempo in cui sono stato lì, anche se altri dicono che ce ne sono state e io ritengo che possono benissimo esserci state, perché il sabotaggio sul lavoro veniva punito con l’impiccagione.

Vorrei invece ricordare a proposito di sabotaggio un episodio che è accaduto a me personalmente, fortunatamente mi è accaduto negli ultimissimi giorni di aprile, vorrei dire all’antivigilia del giorno in cui poi le SS hanno lasciato il campo.

Io lavoravo in una di quelle gallerie e lavoravo all’imboccatura della galleria e in quelle ultime settimane ero andato a lavorare sui controlli. In che cosa consisteva il mio lavoro? In questa galleria arrivavano delle grandi lamiere che passavano sotto le grandi trance che sagomavano queste lamiere; queste lamiere poi venivano saldate fra di loro in modo che formavano poi una Maschinenpistole, io con una linguetta dovevo verificare che i punti elettrici fossero saldati, se no dovevo rimandare la saldatura. Io non solo non verificavo nessuno, ma avevo un martello di legno vicino, un Holzhammer e davo delle gran martellate. E potevo farlo perché quest’ultima parte era, la galleria era tutta a serpente, a curva, quest’ultima mi consentiva di farlo in quanto nessuno mi poteva vedere. Che cosa è accaduto? Lì lavorava anche Albertini con me. E’ accaduto che una mattina vediamo arrivare lungo la decouville cinquanta, sessanta vagoncini della decouville trascinati, pieni di questo pezzo; arrivano lì con l’ufficiale delle SS e il capo del lavoro di tutta la Steyr, entrano e chiedono chi controllava quei pezzi lì, migliaia e migliaia. Non è mai uscito un pezzo. E dicono che li controllavo io. Arriva il tedesco, io sono lì sull’attenti, lui mi piazza due manrovesci, e io resto sull’attenti, senza neanche portare la mano alla faccia, senza ripararmi neanche. Albertini viene chiamato perché parlava il tedesco. E lui mi chiede perché tutti quei pezzi sono dissaldati. Allora io gli dico: “Qui fa molto caldo, questa galleria è chiusa lì, qui fa un caldo, sudiamo, appena saldati li controllo, vengono portati fuori e lasciati lì fuori, lì fa freddo”. Io penso che questo sia, c’è una differenza termica che determina questo e forse fanno saltare la saldatura. Questo mi guarda, stringe i denti, mi guarda con odio, stringe il pugno e lo alza, poi lo abbassa, esce a grandi passi seguito da tutti gli altri pieno di furore, e io pieno di sudore resto lì. Però non vi meravigliano queste cose perché non erano atti di eroismo, erano coerenza, per chi sa che la vita media è tre mesi e ne ha già fatti tanti di mesi.

Questo episodio ricordo.

Un altro episodio invece che voglio ricordare è quello dei gas.

Alla vigilia sempre della fine, il giorno 21 di aprile del ‘45, io lo sottolineo sempre 21 aprile del ‘45. Era chiaro per noi che la guerra stava per finire perché sentivamo i bombardamenti, passavano tanti aerei da oscurare il sole; evidentemente sentivi che sparavano i cannoni, l’artiglieria di campagna, sparavano nei dintorni, passavano lì, quindi sentivi che ormai erano arrivati lì, non era finita la guerra. Il 21 ci riuniscono sulla piazza dell’appello di Gusen, passa il capo-campo, il comandante delle SS con alcuni ufficiali, i comandanti dei blocchi ecc., e uno per uno li tirano fuori, ne tirano fuori seicento, non uno, seicento. Ne tirano fuori seicento, tra gli altri c’era Arialdo Banfi, non Arialdo, il fratello di Arialdo Banfi, l’architetto Banfi che era insieme a Rogers Peressutti, il grande studio architettonico di Milano. Momi Banfi.

Viene lui, noi cerchiamo attraverso qualche trucco di farlo rientrare, di fargli cambiare collocazione. E lui era talmente consapevole che non avevano altro approdo che quello che non ha voluto tornare indietro, è rimasto lì. Li gasano tutti nella notte, e li mettono in una baracca che svuotano sigillandone le porte e le finestre con della carta incollata.

Ecco io credo che questo sia emblematico di tutto: tu puoi parlare finché vuoi, di tutto quello che è stata la deportazione, ma quando tu dici che il 21 di aprile questi uomini fanno una selezione per gasarne seicento alla vigilia della loro fuga dal campo, questo dà la misura della criminalità del totalitarismo nazista e fascista.

D: Il giorno della liberazione dove ti trovavi?

R: Io ho sentito mille volte questa domanda: “Chissà che gioia hai provato!”

Io ero a Gusen, ero uno dei pochi che stava in piedi ancora, io non ho provato questa gioia. Non so quale perversione, quale strana vicenda era andata maturata in me, ma dentro ero devastato, avevo visto troppa gente morire. E vorrei dire che prima io ne avevo visti morire troppi in guerra, avevo visto tanti compagni giovani, avevo avuto due grosse battaglie in Croazia dove erano morti centinaia e centinaia di uomini del mio reggimento, giovani, miei compagni di corso. Avevo visto troppa gente fucilata, impiccata, ho visto troppa gente morire a Mauthausen assassinata. Ero contento non ero felice, ero contento, ero triste.

D: Come te la ricordi la liberazione?

R: E’ esattamente il pomeriggio del 5 di maggio. La liberazione è avvenuta perché si è aperta una porta, è entrata una camionetta, c’erano su due persone, non è che è arrivato un reparto, è arrivata un camionetta con due persone, fotografie, qualche parola, credo che uno fosse un italo-americano per cui credo masticasse qualche cosa del dialetto antico della mamma. E poi dopo se ne sono ripartiti, sono andati via. Quello che è accaduto nel campo credo che sia fatto noto.

Giustizia è stata fatta.

E anche qui vorrei fare una notazione, perché mi fu chiaro in quel momento. A mio avviso chi definisce quell’ecatombe che c’è stata una vendetta, vuol dire che non ha capito nulla della vita e vissuto inutilmente. Perché? Furono ammazzati i kapò, furono ammazzate le spie anche all’interno della nazionalità, furono anche ammazzati, linciati crudelmente se vogliamo, però nel campo da tre giorni i guardiani non erano più le SS, erano fuggite, erano arrivate delle truppe territoriali, dei vecchiotti che da tre giorni stavano lì. Nessuno di questi ha ricevuto neanche uno schiaffo. Perché sottolineo questo? Per dire che quando questa violenza si scatena non è una violenza cieca, è un fenomeno vorrei dire fisico, una reazione pari e contraria, i kapò meritavano la morte, le spie meritavano la morte. Questi non meritavano neanche uno schiaffo perché non avevano dato a noi neanche uno schiaffo. E così è stato.

D: Gianfranco il ritorno?

R: Il ritorno è molto divertente. Io ho avuto un ritorno particolarissimo. Perché mi trovavo una sera a passeggiare fuori da Gusen, proprio fuori dal campo, era credo la fine di giugno, era passato quindi già parecchio tempo dal 5 di maggio. Noi eravamo stati lì, avevamo cercato di aiutare quelli che non avevano potuto, che non camminavano più, quelli che dovevano essere ricoverati in ospedale, quelli che dovevano essere aiutati per mangiare. Noi abbiamo fatto il nostro dovere fino all’ultimo nei confronti dei nostri compagni. Ma oramai la fase drammatica era anche scomparsa perché la fase successiva alla liberazione … noi per dieci, quindici giorni abbiamo avuto morti a non finire, perché mangiavano ciò che non potevano più mangiare perché erano state distrutte anche le strutture preordinate per digerire il cibo, le strutture fisiche. Ma superato questo, ormai la situazione era più quieta, gli altri erano negli ospedali quelli che ancora erano molto malati e andavano organizzandosi i trasporti. Lì io passeggiavo con Ravelli e con Belgioioso, davanti al campo, vediamo arrivare un’autolettiga dell’armata americana. E arriva vicino a noi, scende un soldato e ci chiede se conosciamo Ludovico Belgioioso. “E’ questo qui”, che era lì con noi; con noi c’erano anche altri due, credo uno fosse Emanuele Flora e l’altro Magini di Roma, non mi ricordo come si chiami di nome. Allora scende un altro ufficiale, italiano questo, che era Cicogna, il cugino o il cognato di Belgioioso che era nell’armata degli alleati, perché aveva risalito l’Italia nei reparti italiani e con gli alleati. Avendo sentito la radio, perché noi eravamo riusciti a far sentire alla radio chi erano i presenti superstiti in Gusen, aveva sentito che in Gusen era superstite Ludovico Belgioioso. Lui si è fatto dare un’autolettiga dal suo comando e con i soldati è venuto fino a Gusen e ha imbroccato proprio noi. A questo punto su quella autolettiga sono saliti i cinque che eravamo lì: allora Ravelli, Belgioioso, credo Emanuele Flora, il Maggini ed io, e siamo arrivati in Italia così.

D: In questi cinquantacinque anni che sono trascorsi dalla liberazione, quante volte sei stato intervistato, raccontando però come hai fatto oggi la tua storia?

R: Questa è la prima volta che la racconto, perché io in questi cinquantacinque anni … io sono prigioniero di uno schema ideologico-culturale, vado nelle scuole, parlo, ecc., non ho mai raccontato le mie vicende, ho sempre e soltanto raccontato la storia dei processi che hanno determinato il sorgere del nazismo, il crearsi all’interno del nazismo per repressione e per manipolazione della cultura di uomini che finivano per essere convinti dell’intrinseca necessità di eliminare altri uomini inferiori. Ho sempre parlato dell’organizzazione di sterminio, ma della mia storia inserita in questo quadro non ho mai parlato.

D: Due cose riferite a Gusen 1: ti ricordi di Don Sordo?

R: Don Sordo era a Bolzano. Io però non l’ho più visto a Gusen e a Mauthausen; so che è morto con noi il fratello di lui che era un medico dentista, è stato a lungo anche un dirigente della nostra associazione. Don Sordo lo ricordo però soltanto per Bolzano.

D: L’altra cosa come a Gusen 1 c’erano queste fabbriche della Steyr, della Messerschmitt, ma voi come facevate a sapere i nomi di queste aziende? C’era scritto da qualche parte?

R: Io non so risponderti se c’era scritto da qualche parte, perché il mio metodo di dire le cose ricordandole è di vedere se vedo una scritta o se vedo Messerschmitt, però quello che vedo sono gli aeroplani. Quello che vedo sono le Maschinenpistolen, quello che vedo è la cava, quello che vedo sono le macine della cava, quello che vedo è la ferrovia, quello che vedo sono le baracche, però noi sapevamo che era la Messerschmitt quella di quegli aeroplani lì e sapevamo che era la Steyr quella che faceva le Maschinenpistolen. Non escludo che ci fosse anche scritto, ma non ho memoria di grandi visibili cartelli.

D: L’ultima cosa, vicino a Gusen 1 c’era il campo di Gusen 2

R: Sì, era proprio contiguo e separato da noi da un enorme spazio vuoto dove però venivano seppellite le patate; il campo era contiguo si può dire, non realizzava una vera e propria soluzione di continuità questo spazio ampio, anche perché aveva una sua funzione specifica: seppellivano sotto le patate che poi venivano usate per l’alimentazione.

D: Ti ricordi quando Gusen 2 è stato abbattuto?

R: Lo abbiamo bruciato anche noi. Gusen 2 lo abbiamo svuotato di tutti i cadaveri facendoci aiutare dalle popolazioni che insomma non ti dico, i carri, lì noi siamo intervenuti sulla popolazione, imponendo alla popolazione di venire a prendere questi cadaveri spostarli con i carri e poi noi per timore di epidemie lo abbiamo bruciato, perché anche da noi vi era stato un periodo nel quale i forni crematori non avevano funzionato e i campi erano pieni di morti. Lì quotidianamente ne morivano decine e decine e decine per cui si formavano delle cataste di morti.

Gusen 1 non è stato bruciato, Gusen 2 è stato bruciato.