Rigouard Adriano

Adriano Rigouard

Nato il 27 aprile 1925 a La Spezia

Intervista del: 07/06/2000 a La Spezia

realizzata da Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n. 9 – durata: 60′

Arresto: 17 settembre 1944 a La Spezia

Carcerazione: a La Spezia e Genova

Deportazione: Bolzano, Mauthausen, Gusen 2

Liberazione: maggio 1945 a Gusen 2

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Adriano Rigouard. Sono nato a La Spezia il 27 aprile 1925. A La Spezia sono stato arrestato per attività in una squadra SAP, il 17 settembre del 1944 e portato presso la caserma del 21° Reggimento Fanteria. Qua sono stato per due mesi, ci sarebbe a lungo da parlare perché c’erano già altri prigionieri, tutte le notti dovevamo salire sopra per gli interrogatori, ci hanno dato un po’ di botte, ma il più che era tremendo era vedere ritornare gli adulti; dal lunotto che avevamo sopra la nostra porta noi ci schiacciavamo contro il vetro per vedere e tornavano giù delle persone che erano tutte tumefatte. Io me le rappresento sempre come una polpetta di carne tritata, l’unica cosa che si vedeva era il bianco degli occhi, perché gliene facevano di tutti i colori, prima li picchiavano con sacchetti pieni di sabbia, gli davano …

Mi ha arrestato la Guardia Nazionale Repubblicana in seguito alla dichiarazione sotto tortura del nostro capo-squadra. Questo l’hanno picchiato, l’hanno torturato e ha fatto i nomi degli appartenenti alla squadra. Pensate che noi al mattino siamo andati dove c’era la sede, abbiamo portato via i manifestini e due pistole che c’erano, e poi ce ne siamo stati tranquillamente a casa, ingenui senza che nessuno ci abbia aperto un po’ le orecchie a dire “andatevene”. Lì sono state mancanze di chi avevamo al di sopra. Quindi al mattino del 17 settembre hanno circondato il quartiere del Favaro e ci hanno presi tutti. Ci hanno rinchiuso al 21°, poi abbiamo assistito a queste cose che già ho iniziato a dire. Molto probabilmente loro si sono accorti subito che noi eravamo l’ultima rotella e non è che ci avevamo sottoposto a grandi torture, ma gli adulti li hanno ridotti proprio in maniera inumana: con la scossa elettrica gli pungevano i testicoli, gli facevano dei lacci e li sospendevano per i testicoli, gli mettevano una manichetta in bocca e aprivano l’acqua gli facevano la pancia in questa maniera. Io voglio dire questo, che oggi sento tutto il dovere di avere delle scuse sopportato dei sospetti verso coloro che mi hanno fatto arrestare, perché mi sono reso conto che la resistenza alla tortura è soltanto nei bei libri e nei bei film, non è possibile resistere alle torture, c’è un limite. Se sei capace e se ti danno il tempo di ucciderti, se no non c’è niente da fare, i tormenti sono così tanti che non puoi, anzi poi ti dirò il resto.

Dunque ci hanno portato al 21° e col passar del tempo questo carcere si è riempito, prima eravamo in otto, poi piano si è riempito. Hanno messo nel carcere, nella cella insieme a noi, delle persone anziane che soffrivano di disturbi intestinali. Insomma per farla corta questi hanno dovuto mangiare dove prima avevano fatto i loro bisogni, insomma è un quadro che non è facile descrivere. Con tutto ciò, dopo queste varie traversie, il 4 di novembre ci hanno imbarcato su delle moto zattere e ci hanno portato al carcere di Marassi di Genova, ci hanno consegnato alle SS. Le SS hanno ricominciato da capo, però senza sapere nemmeno i motivi per cui eravamo stati arrestati.

D: Scusa Adriano, tu sei stato accusato di cosa in particolare?

R: Prima ero stato arrestato per appartenenza alla SAP, poi dalle SS ero stato accusato di aver ucciso un colonnello della Guardia Repubblicana, di aver partecipato a fare saltare una batteria, tutte cose che sono successe quando io stavo in carcere, quindi proprio erano al di fuori di … Però avveniva questo: loro hanno preso tre persone, fra le quali anche un sacerdote, e devo dire, lo devo dire con tutto quello che ho detto prima, un certo Don Stretti li han presi e li hanno torturati ben bene, poi ci portavano davanti a loro e questi dovevano sostenere l’accusa. Allora a me mi han detto “Tu hai fatto questo, hai ucciso il colonnello” e cadevo dalle nuvole. Il prete diceva: “Ma ti ricordi, te l’ho data io la pistola, le armi te le ho date io?”. Io dicevo di no, allora cosa hanno fatto? Mi hanno fatto inginocchiare, un pezzo d’uomo delle SS, sulle cose delle seggiole, c’erano quelle sbarre che tengono assieme le seggiole, mi ci ha fatto inginocchiare sopra e poi quando sono stato inginocchiato mi ha preso a seggiolate. Poi c’erano altri due testimoni che anche loro, sotto la minaccia della tortura, dovevano confermare quanto detto. Adesso in tutto questo, io non ero un giovane di grande resistenza, e dico anche la verità non avevo ancora acquisito quei grandi ideali che mi avrebbero portato a sopportare, però chi mi ha fatto crollare le braccia, il sistema nervoso, è stato il prete, perché lo conoscevo bene, era stato lui che mi aveva educato a certe cose. E allora, dato che poi prima di me molti ne erano passati, non sapevano mai di cosa si tratta, ho preso e ho firmato. Quello che ho firmato era la mia condanna a morte, perché accettavo quello che loro …

Per questo poi ho dovuto passare tutte le altre persone, ed è venuto fino all’8 dicembre. L’8 dicembre al mattino presto ci hanno caricati su un camion a rimorchio, ci hanno legati a due per due, la mia mano destra con la destra dell’altro, insomma intrecciati, ci han caricati su questo camion, era la mattina di dicembre, 8 di dicembre, pioveva, era freddo e su questo camion scoperto siamo partiti e siamo arrivati fino a Padova. A Padova ci hanno messo su un pullman che in mezzo aveva il soffietto, aveva il soffietto e mi pare che prima siamo passati da Milano, han caricato altra gente, e poi abbiamo proseguito per …

Su questo pullman qualcuno aveva cominciato a tagliare e anche qua qualche persona si è gettata, però dietro c’erano le macchine, con i fari, han visto e sono subito intervenuti con la loro maniera, avevano la bomba a mano e dove battevano battevano, ci hanno rovinato insomma in sostanza, ci hanno fatto un sacco di ammaccature. Alla bell’ e meglio siamo arrivati a Bolzano. Dico la verità ormai quando siamo arrivati faceva giorno, trovarmi in mezzo a quel panorama, all’aria aperta, e vedere, mi sembrava, dopo tre mesi che noi non ci portavano nemmeno a prendere l’ora d’aria come fanno ai soliti carcerati, dopo tre mesi sempre lì, poter respirare e poter vedere fuori mi sembrava una cuccagna, di essere in un altro paese. Poi mi ricordo che là eravamo tutti italiani, il capoblocco era italiano, è stata una lieve parentesi, levando il mangiare che era sempre scarso, però è stata una buona parentesi ecco. Mi ricordo che alla sera ci arrampicavamo attraverso i castelli, ci si andava ad affacciare sul muro perché di là c’erano le donne, e queste a volte passavano magari qualche pezzo di pan tostato, del pane secco, qualche drappo e persino dei ferri da portarsi durante il viaggio se qualcuno … E lì a Bolzano siamo stati cinque giorni.

D: Ti ricordi in che blocco eri a Bolzano?

R: Credo che sia il blocco E; se ricordo bene era il blocco E, era il blocco dove c’erano i perseguitati politici diciamo, il triangolo rosso.

D: Ti ricordi nomi di altri tuoi compagni che c’erano con te?

R: Sì, c’erano i miei compagni. C’era Lubrano Franco, Angeloni Alfredo, Tartarini Bruno, poi adesso non me ne viene altri. Luciano, non me ne ricordo altri.

D: Tu sei stato cinque giorni nel Lager di Bolzano e dicevi che avevi visto delle donne. Ti ricordi se hai visto anche dei sacerdoti nel Lager di Bolzano?

R: Io penso che nel Lager di Bolzano siano arrivati quei sacerdoti che sono partiti con me da La Spezia, però non sono sicuro, non sono sicuro perché non so se poi a Genova loro hanno seguito la nostra via, non ne sono più tanto sicuro.

D: Adriano, e dopo cinque giorni che sei rimasto lì a Bolzano, nel Lager di Bolzano cosa è successo?

R: Nel Lager di Bolzano niente di speciale, la conta al mattino e alla sera, la faccenda di imparare a mettersi e a togliere il cappello in maniera perfetta, tempi perfetti, qualcuno che si è meritato le venticinque bastonate di punizione e la cellula di garanzia, la cella di rigore. Però non tanti particolari, è stato un periodo troppo breve.

D: E poi cosa è successo?

R: Nel pomeriggio del 13 di dicembre per Santa Lucia, ricordo le date perché le ho sempre collegate, ci hanno caricato sui vagoni.

D: Dal campo dove vi hanno portato per caricarvi sui vagoni?

R: Dal campo siamo andati penso alla stazione, però era la stazione merci, mi ha dato quell’idea, perché so che avevamo seguito un torrente e avevo visto uno di quei capannoni che sono di solito negli scali merci, negli scali merci delle stazioni. Ci hanno caricato abbastanza stretti in questi vagoni e nel mezzo del vagone c’era cenere e trucioli per i nostri bisogni. Ci avevano dato la nostra razione di pane, era non so un etto di pane al giorno, che ce la siamo mangiata andando alla stazione mi sa e poi ci hanno rinchiusi dentro, bere niente. Senza bere.

Quando siamo stati sul vagone, io penso sull’imbrunire, siamo partiti. Ed ecco che sono saltati fuori questi scalpelli, questi martelli e sono nati anche dissidi fra di noi, perché io ero ragazzo ma mi rendevo ben conto che com’ero conso, com’ero messo, non sapendo la lingua, non sapendo nemmeno dov’ero, non sarei andato un gran che lontano ecco perché … Ma altri, infatti non so come qualcuno è riuscito ad aprire, come si chiama, il portellone, il ferro che chiude il portellone, lo ha aperto, hanno spinto il portellone e in cinque sono fuggiti. Adesso io questo l’ho raccontato così di seguito, però non so quanto tempo, da quanto tempo eravamo già in viaggio. Se ne sono accorti, sono saliti sul vagone, mi han picchiato col calcio del fucile. Ricordo che dove ci eravamo fermati, perché ci hanno portati in un binario morto, c’era una cassa fatta di strisce di legno, han preso queste strisce che avevano sopra dei chiodi, e dove han battuto, han battuto, hanno rovinato anche un occhio ad uno, e ci han conciato ben ben male. Poi io non so quanto siamo stati fermi, che poi fra parentesi anche questa stanchezza, questa fame, questa sete perché il nostro vagone era foderato di lamiera. Quindi noi non ci rendevamo nemmeno perfettamente conto se era giorno o se era notte, solo magari qualche fessura dal portellone ci poteva dire che era giorno. Poi eravamo così stretti che non potevamo stare, dovevamo stare o tutti in piedi o tutti seduti incastrati l’uno nell’altro, senza cercare di andare a finire nel mucchio delle feci.

Quando siamo stati, so che hanno gettato dentro un secchio di patate, che io non lo so se ho mangiato, se ne ho mangiato non ricordo più perché la ressa è stata tanta. Poi io dico la verità, io non so se son rimasto sempre lucido, se dentro quel vagone sono sempre restato in lucidità. E il colmo dei colmi, che dopo il fatto della curva han messo un soldato di guardia sopra il mucchio delle nostre feci.

Siamo arrivati a Mauthausen, quello che era Mauthausen, era buio noi non ce ne rendevamo conto né dove andavamo e né cos’era. Quando siamo scesi, in faccia avevamo un dito di patina gialla, di anidride carbonica. Poi dimenticavo di dire: dalla sete avevamo leccato il ghiaccio che si formava nel nostro fiato nella parete di zinco, di lamiera. E siamo arrivati, ci hanno messo in colonna; sì sì perché là andava tutto a bastonate, prima picchiavano e poi dicevano il perché, insomma ci han messi in colonna e siamo partiti, a piedi. Io non so quella strada come l’ho fatta perché quando l’ho rivista quanto era lunga ho detto “a me non sembrava di aver fatto tanta strada”, o dormivo e ho camminato o ero fuori coscienza, fatto sta che sono stato meravigliato quando ho visto, poi era anche in salita, faticoso. Per fortuna io bagaglio non ne avevo. Insomma quando siamo arrivati, lì ci spalancano i cancelli, entriamo dentro. Ai lati dell’entrata c’erano due file di persone con bastoni, nerbi, manici di piccone, di badile, gomma, i fili dell’alta tensione, e cominciano a menar botte, giù botte, giù botte, giù botte, picchia di qua, picchia di là. E poi ci hanno spiegato che quando si passa davanti alle SS ci si scopre. Noi eravamo coperti di stracci, non avevamo il cappello, avevamo qualcosa giusto che le donne ci avevano passato lì a Bolzano, un pezzo di tela ecco. Ci hanno spiegato e … Poi ci hanno portato davanti a una baracca, ci hanno fatto schierare e da là, dalle cantine sotto, c’era qualcuno che diceva: “Se avete qualcosa datecelo perché tanto vi tolgono tutto, vi tolgono tutto”. Lì siamo stati un po’ increduli, poi la cosa si è ripetuta. C’era della gente che era salita a Milano che in quelle valigie aveva di tutto; allora abbiamo tutti gettati, chi uova soda, la magnesia San Pellegrino, qualche pezzo di salame, tutti abbiamo cercato di ingoiare qualcosa. Poi sono arrivati, la squadra addetta, ha detto: “Spogliatevi tutti”. Era in piena notte. “Spogliatevi nudi e lasciate tutto lì, lasciate tutto lì a terra”. Avevamo delle perplessità … “Ma questi qua cosa dicono?”. Qua c’era neve ghiacciata per terra. Io andavo col pensiero a mia madre che mi diceva togliti di lì che c’è corrente, la corrente d’aria e questi mi vengono a fare spogliare bello nudo. Fatto sta che poi han cominciato … ci siamo spogliati e abbiamo aspettato poi il nostro turno, siamo andati a fare la doccia, un po’ d’acqua calda, un po’ d’acqua fredda, poi ci hanno tutti pelati, dalla testa a tutti i peli che avevamo sul corpo, poi ci hanno disinfettato con della creolina, che sembrava di essere delle torce accese. E poi ci hanno passato della biancheria, era una commedia, a chi han dato le mutande a bambola, a chi quelle della nonna, a chi il camicione da notte. Insomma era tutta roba che loro avevano accumulato. E a me m’era toccato persino un paio di mutande lunghe e la camicia abbastanza buona. Le scarpe, ecco le scarpe … a me non se sono accorti, avevo gli scarponcini della divisa da marinaio, loro non se ne sono accorti che m’erano rimaste ai piedi. Adesso mentre passo davanti per uscire c’era uno lì, mi ha preso, e mi ha detto: “Te come va?”. Dato che come ho detto ero pieno di scabbia, e avevamo avuto i pidocchi a non finire, e la mano dove mi avevano messo la manetta l’aveva messa così stretta che mi era gonfiata. Allora m’han preso e in piena notte cammina in mezzo a queste baracche appena illuminate dalla luce che c’era in tempo di guerra, la luce con l’oscuramento, mi han fatto capire che andavamo al Revier, all’ospedale. E io non volevo, io volevo restare con gli amici, non ero ancora cosciente, io volevo restare con i miei amici. Questo mi ha dato un paio di frustate e mi ha portato via. Adesso quando siamo arrivati davanti ad ogni baracca c’era un mucchio di morti. Io non so come spiegare questo, se è un brutto sogno, passa la baracca, poi erano ben sistemate come fossero state le traverse della ferrovia, ogni baracca … Finché sono arrivato al blocco 8 dove c’erano gli infettivi. Mi buttano dentro, e come sono arrivato uno mi è saltato addosso e mi ha tolto le scarpe e mi ha dato un paio di scarpacce vecchie. Mi ha dato scarpacce vecchie e poi mi ha portato in un castello dove erano già in tre, c’erano già tre persone, infatti quello lì era sporco, era gente che aveva la dissenteria, era appena appena appena pulito con lo straccio, con qualcosa. E mi ha detto “Mettiti lì”. Io che esitavo ad andarci, quegli altri che non mi ci volevano perché erano già in tre, erano stretti; insomma poi ho detto ormai ero fuori coscienza, ormai non lo so se ero ancora lucido, mi sono sdraiato lì. Poi al mattino è venuto il medico, mi ha guardato, poi mi hanno tutto pitturato con della roba per la scabbia, per curarmi la scabbia e sono stato lì. Sono stato lì e ricordo che lì ho passato il Natale, mi han dato un pane intero, un pane tedesco intero. Però io ero sempre a calpestare che volevo andar via, volevo uscire, volevo andare dagli amici.

D: Scusami un attimo Adriano, dopo la vestizione ti hanno dato anche un numero di matricola?

R: Sì, ma la vestizione io non l’avevo ancora avuta, avevo avuto solo una camicia, la camicia e le mutande, perché all’ospedale non aspettava niente di più, chi era all’ospedale  camicia e mutande e basta, e scalzi. Poi, ecco quando si andava dal medico, anche se il mio malore fosse stato nel dito qua, bisognava andare nudi. Quindi l’ospedale era molto pericoloso perché s’era sempre sotto la sorveglianza della selezione, era pericolosissimo. E poi giusto questa mia tendenza a voler andare a riunirmi con gli amici. C’era un francese che mi diceva “Guarda stattene qua, cerca di star tranquillo e stai qua”, ma io non capivo perché quello mi diceva queste cose. “Stattene tranquillo”, mi tranquillizzava; poi giusto ci han dato questo pane, due sigarette a Natale, mi ricordo che han fatto persino l’albero di Natale con delle figurine, perché c’erano mille contraddizioni no, con le razioni di pane e di zuppa che ci toglievano a noi i Kapò facevano la festa, si son fatti il Natale. Passato il Natale secondo loro la scabbia era guarita e allora mi han portato, mi han fatto fare una doccia ghiacciata, che mi è venuto il mal della tarantola, quanto ho dovuto saltare per levarmi il freddo. E poi mi è venuto in mente di farmi vedere che qua dove avevo dormito sul tavolazzo mi si era infiammata, gliel’ho fatto vedere al dottore allora mi han cambiato reparto, mi han portato in chirurgia. Sono andato là, mi hanno tagliato, mi hanno tagliato dove c’era la suppurazione, è stata la mia fortuna. Lì ho trovato un medico polacco che ha fatto di tutto per trattenermi lì più tempo possibile. Però il tempo è passato e allora son dovuto uscire e mi han portato alla quarantena. La quarantena la chiamavano così, ma per lo più era come un magazzino non di uomini, un magazzino di pezzi, perché noi eravamo Stück, ein Stück, due Stück.

Quando si andava nella quarantena avevamo diritto ad avere una giacca e un paio di pantaloni, che non erano a righe come si vede nelle … erano per lo più vestiti militari che nella schiena, nella giacca c’era una finestra con le righe zebrate, una riga rossa, altrettanto era nella gamba dei pantaloni, con la riga rossa, poi sulla giacca il numero, il triangolo rosso e il numero. E dico la verità che non mi viene più in mente dove mi hanno immatricolato. Penso che sia stato lì, però non me lo sono mai più ricordato. Mi avevano dato un numero di latta, legato col fil di ferro.

Adesso cosa avveniva? Che in questi blocchi di quarantena erano sempre al completo, erano pieni, perché arrivava anche gente da fuori; per dormire bisognava mettersi a pesce in scatola: testa e piedi, testa e piedi, testa e piedi, insomma a formare un unico tappeto a completare tutto il pavimento, che non rimaneva niente per poter, un corridoio per poter riuscire a camminare non c’era. Quando uno doveva uscire doveva camminare sopra gli altri. Allora era un lamento, era un lamento, chi bestemmiava in tutte le lingue, ecco che poi il babele lì era che c’erano cento paesi, gente di cento paesi, ognuno imprecava nella sua lingua. Poi anche lamenti, perché sai metterci un piede nello stomaco o in un occhio, insomma … Allora si svegliava il capoblocco, “Alle raus”, tutti fuori nella neve in piena notte. Adesso sulla porta del blocco di quarantena c’era un certo numero di zoccoli, chi ce la faceva metteva quelli, che poi non è che ci fosse tanta differenza perché erano inzuppati di neve, bagnati. E gli altri restavano scalzi. Ci si attaccava fra di noi, ci si sfregava, ci si massaggiava, e poi facevamo i covoni, ci si ammucchiava, ci si fiatava nella schiena uno con l’altro con la speranza che altri si ammucchiassero, insomma si veniva a fare … E poi sempre cercare di saltare sui piedi perché erano scalzi, evitare di farceli congelare. Finché non girava meglio al capoblocco si doveva restare lì.

Adesso alla sera quando si andava, prima di sdraiarsi, toglievano le ante delle finestre. La finestra spalancata: levavano l’anta, chi dormiva sotto aveva tutta l’aria addosso. E c’è stato anche un poverino che era lì sotto a dormire e una notte ha detto “Ma perché io devo andare a camminare sopra gli altri, esco dalla finestra”. La sentinella dalla garitta lo ha fulminato.

E poi bisognava tirare avanti. Al mattino bisognava andarsi a lavare nel Waschräume, era una baracca apposta, che era sopra un poggio, c’era un poggio e sopra c’era questa baracca. Per salire c’erano degli scalini scavati nella terra, che però venivano sempre riempiti dalla neve. Quindi salire lassù era un’impresa. Poi quando eravamo nella baracca trovavamo là tutti quelli che durante la notte erano morti, li buttavano nel Waschräume.
Certo poi a scendere era più facile, ci si metteva col sedere per terra e si tornava. Insomma da lì siamo andati avanti non so quanto sarà stato, quindici-venti giorni e poi un bel giorno, “antreten”, han chiamato un numero.

D: Il tuo numero te lo ricordi?

R: In tedesco non lo ricordo più però, il mio numero era 114.154, l’ho in tasca.

Insomma hanno chiamato i numeri e era anche un’impresa, perché io dovevo, per lo più mi ricordavo che avevano chiamato in anticipo, usavo la memoria, che avevano chiamato in anticipo poi toccava a me. Insomma mi han chiamato e mi han dato un paio di zoccoli che nella metà si aprivano, facevano da cerniera. Ci han messo lì, saremmo stati un centinaio di persone, ci han portati nella piazza principale del campo, mi hanno spiegato che i blocchi di quarantena facevano campo a parte diciamo, quattro o cinque baracche fra quattro mura che poi portavano tutti in questa piazza.

Ci hanno messo in fila e ci hanno portato a Gusen. Gusen 2 a piedi, siamo andati a piedi, che non è molto lontano, fatto in condizioni, ma come eravamo già conci noi non è stata un’impresa facile. Ci hanno portato a Gusen, mi hanno mandato alla baracca 27, e poi bisognava prendere il lavoro. Adesso il lavoro a Gusen non era lì sul luogo dove c’era la baracca, bisognava prendere un treno che ci portava sotto le gallerie di Sankt Georgen. Allora bisognava far la conta del mattino, poi metterci in fila per cinque, sfilare davanti alla SS che contava, poi salire su una piattaforma, che era abbastanza grande, da contenere le persone che poi sarebbero state nel vagone. Allora nel tempo che il vagone iniziava e finiva di passare a fianco a questa piattaforma, noi dovevamo riempire il vagone. E lo stesso, al contrario, all’arrivo, però il treno camminava a passo d’uomo, ai fianchi c’erano le SS col lupo e il faro se era notte perché facevamo una settimana lavoravamo di giorno e una settimana di notte.

E poi da lì dove ci lasciava il treno bisognava correre alle gallerie. Lì prima di entrare nelle gallerie torna in fila a ricontarci, e poi il primo lavoro che mi hanno dato mi hanno messo assieme ad un tedesco a fare dei collegamenti elettrici sui motori degli aerei. Ma io il tedesco non lo capivo, il mestiere non lo conoscevo, allora questo ha un po’ brontolato poi mi ha mandato via. Allora mi hanno messo a mettere lo schermo di protezione al bidone della benzina, come si chiama?

D: Un paracolpi?

R: Era la corazza che proteggeva la benzina, il serbatoio della benzina. Questa era una lastra abbastanza grande, pesante, bisognava portarla alla mola a smeriglio e fargli degli scassi uno per parte, poi bisognava dargli una certa inclinatura col martello e poi farli brasare per chiudere la fessura e poi metterli sotto e avvitarli; c’erano un bel numero di viti da mettere. Queste viti molto spesso non combaciavano. Allora ci voleva un punteruolo apposta, col martello e mettere le viti. Adesso questo lavoro andava fatto dal basso rivolto verso l’alto. Questo lavoro mi ha demolito, mi ha distrutto, tanto è vero che ormai mi ci voleva tutta la mia forza, tutta la mia volontà per lavorare. Poi avveniva anche questo: se si andava al gabinetto in galleria c’era il guardiano, il Kapò, che passava lì del suo passo, ogni volta che passava lasciava cadere un colpo con ‘sto filo di piombo, il filo di rame fasciato di piombo, bisognava essere disposti a farsi rompere la testa o un orecchio perché bisognava prendere il colpo. E allora io preferivo portarmela al campo, senonché ormai ero ridotto in una maniera che non potevo più star seduto, perché ormai c’erano soltanto le ossa, le ossa dell’anca. Non avevo la forza di stare in piedi, mi dovevo appoggiare sulla carlinga. E un mattino, dopo aver cercato di resistere, di andare al gabinetto, in quell’attimo giusto ero seduto, è venuto impellente perché poi là che faceva più terrore era la diarrea, la diarrea era il terrore. Ho detto “Vado, bisogna che mi decida di andare”, nello sforzo di alzarmi mi sono tutto sporcato, sono diventato lo zimbello di quattro o cinque che mi hanno gonfiato di botte, insomma. Poi alla bell’ e meglio sono riuscito ad andar fuori, mi son levato le mutande l’ho gettate via, ho cercato di ripulirmi, e sono ritornato sul lavoro. E devo dire anche questo: ho avuto la fortuna che mentre finivo io, finiva anche la guerra, anche loro non erano più, ormai non avevano più la certezza della vittoria, non avevano più il fanatismo che avevano quando siamo arrivati, se c’era qualcuno c’era qualcuno di questi Kapò ignoranti che non capivano niente, se no Adriano non sarebbe ritornato.

Ricordo che quando si ritornava al campo bastava che mi scontrassero e andavo in terra, nella neve ormai in disgelo, mi sporcavo, poi alzarmi era una tragedia, non ce la facevo, finché non trovavo qualche compagno che mi desse un aiuto.

Poi sul lavoro c’era la tensione di non sbagliare, perché gli errori venivano considerati sabotaggio e a seconda del tipo di errore andava dalle venticinque nerbate all’impiccagione. Ricordo che un povero giovane di Udine, ormai il nome non lo ricordo più, ma stava ancora bene perché era da poco che era arrivato là, l’avevano messo a pulire in terra con la randazza. Dato che oltre alla fame e alla sete si era accumulato anche il sonno, perché quando era che si lavorava di notte, che il giorno si poteva riposare, invece c’erano mille cose da fare, e la doccia, e portare i vestiti all’autoclave, e a rinnovare la riga in testa e a fare la barba, insomma si riposava poco, quindi il sonno era arretrato. Questo giovane io non so, ha trovato la maniera nascosta di dormire, si è seduto e si è addormentato. Lo hanno trovato e ce lo siamo portati in baracca impiccato.

D: Adriano scusa, con voi nelle gallerie c’erano anche dei civili a lavorare?

R: C’era qualche militare dell’aviazione. Civili non ne ricordo, forse qualcuno c’era ma io non ne ricordo. Poi era anche una tragedia col mangiare, perché veniva sempre meno. Prima quando siamo arrivati prima era un pane in tre, poi un pane in cinque, poi un pane in dieci, poi si andava a tagliare il pane, era un ammasso di muffa. Insomma il mangiare diventava un’ossessione. L’interrogativo del mattino era quanto pane avrebbero dato oggi. E tutta l’attenzione era al pane e a cercare di non prendere bastonate.

Insomma alla meno peggio è arrivato il giorno che non ci hanno più portato a lavorare.

Ma dimenticavo di dirvi una cosa molto importante. Al mattino si partiva per andare a lavorare, chi non partiva veniva finito: a Gusen 2 non c’era la camera a gas, chi non partiva per andare a lavorare gli facevano un’iniezione al cuore e poi li ammucchiavano lì davanti alla baracca.

Mi ricordo che un mattino siamo arrivati, si vede che non avevano ancora finito il lavoro, era ormai aprile avanzato, c’era venuto anche il sole addosso, e noi eravamo lì ormai imbambolati; sentivamo fra il mucchio dei morti uno che diceva “eine Decke”, voleva una coperta “eine Decke” e noi non siamo stati capaci di aiutarlo. Per fortuna poi non è più arrivato materiale, non ci hanno più portato a lavorare e io sono ancora vivo.

Senonché come è venuta la liberazione ci siamo subito gettati fuori dal campo, che è stata la nostra stupidaggine. Poi è passato un camioncino di quelli che portavano le bibite, ci ha caricati io e Ciacchini/Ciachini, un compagno che era ridotto come me e ci hanno portato all’ospedale civile di Linz. Come mi hanno messo a letto non ce l’ho più fatta a stare in piedi, per portarmi al bagno dovevano portarmi in braccio.

D: E quanti anni avevi Adriano?

R: Ho compiuto il 27 aprile del ‘45 vent’anni. Ho compiuto vent’ anni.

E poi la cosa più dolorosa, più dura, nella gioia della liberazione: un mattino mi metto a sfogliare la cartella che avevo ai piedi del letto, c’era scritto tutto in tedesco e non capivo niente. Senonché ho trovato scritto tbc polmonare in latino. Allora è stato un trauma. Ho superato anche quello, ho detto “non è vero” non è vero perché io mi facevo un dato quadro della malattia, dicevo “ma io ho fame, io mangio”, infatti come mi sono rimesso scappavo dall’ospedale, andavo fuori a chiedere da mangiare perché c’erano i militari italiani. Insomma mi vedevo che rifiorivo, ma purtroppo era vero. E ci sono voluti cinque anni di sanatorio per rimettermi in piedi. Poi ho avuto la pensione, mi sono curato a casa, sono uscite per fortuna le cure che mi hanno fatto guarire.

D: Da Linz come ti ricordi il tuo ritorno?

R: Da Linz ricordo che ci hanno prima radunati in una scuola su una collina, e poi ci hanno portato sul treno ospedale della Pontificia Opera di Assistenza. Poi da Bolzano mi hanno portato all’ospedale di Bergamo, Ospedale Clementina di Bergamo, lì c’era questo mio povero amico, Roberto, che era morente, mi chiamava perché le mosche gli davano fastidio: “Adriano la mosca, la mosca”. Poi è venuta una sua zia, una zia a trovare, anzi una zia e la madre e quando è andata via la zia m’han portato a casa con dei mezzi di fortuna e come sono arrivato a casa, dato che mi avevano raccomandato di ricoverarmi subito; all’indomani sono entrato nell’altra vita. Insomma, per me la guerra non è mai finita, m’è cambiato tutto.

D: Adriano il momento della liberazione, tu dove ti trovavi al momento della liberazione?

R: Al momento della liberazione mi trovavo sdraiato in baracca, a Gusen 2, perché ormai non mi reggevo più, senonché tutto il clamore che mi ha spinto ad andare fuori, e abbiamo visto passare delle camionette di americani sulla strada, perché adesso a Gusen 2 non si nota più, ma il campo era più basso, era coperto con dei teloni di iuta dalla strada. Però avevamo visto questi camion, poi eravamo rimasti su, le SS era già fuggita prima, ci avevano messo la guardia, come si chiamava quei vecchi col pennino, la Guardia Nazionale e poi erano spariti anche loro, siamo rimasti abbandonati. E quella è stata la liberazione, quei giorni di maggio, quel bel sole. Non me lo sarei creduto rovinato in quella maniera.

D: Adriano ancora due cose; quando tu hai raccontato che da Spezia ti hanno portato al campo di Bolzano hai detto che sei passato da Padova?

R: Sì.

D: E poi da Padova?

R: Aspetta, aspetta, forse era Pavia. Da Pavia, mi sono confuso, da Pavia, il pullman lo abbiamo preso a Pavia.

D: Un’altra cosa: venti anni nel Lager. A vent’anni tu eri deportato nel Lager: avevi un progetto speranza, cosa è che ti ha mantenuto vivo?

R: Se devo dire, di ideali politici non ne avevo ancora di così forti, io avevo imparato l’abc della politica in montagna, nelle canzoni della Resistenza, poi c’era il commissario, perché come volevo dire sin dall’inizio noi siamo vissuti a fascismo all’apoteosi, l’impero, vestiti da balilla, ci insegnavano la fierezza, poi non avevamo confronti politici, non c’era paragoni, noi pensavamo che tutto il mondo fosse così. Poi c’è stato il 25 luglio, insomma qualcosa si è cominciato a orecchiare. Poi l’8 settembre. Poi vivevo in un rione come Migliarina, che si è subito visto il voltafaccia, come prima tutti tacevano, nessuno ci aveva mai detto una parola, il 25 luglio si è tutto rovesciato, infatti i primi a partire per la montagna erano stati quelli che si erano messi in evidenza il 25 luglio. Poi lì ero in montagna, c’era il commissario, abbiamo cominciato ad imparare la politica, certo quando ho sentito dire la terra a chi la lavora, il pane a chi lavora, che poi leggendo fra parentesi io le avevo prese per parole d’ordine comuniste, invece a quanto pare erano parole di Sant’Agostino, che però la chiesa non mi aveva mai detto.

E’ da allora che ho cominciato ad essere il vero partigiano, perché allora non avevo ancora quella potenza ideale che mi ha fatto resistere. Sono stati i vent’anni, diciannove anni, penso che non so se è una impressione mia, nessuno accetta di morire ma i giovani particolarmente. E là vedevo che qui i giovani che morivano avevano come un senso di stupore in viso: “Ma guarda cosa mi è capitato?”. Però sono sempre stato portato ad avere fiducia; vedevo un uccellino “Porta bene, mi porta speranza”. La prima macchia di verde che ho visto fra la neve, a primavera forse, perché poi c’erano anche questi contrasti: gli americani sono qua, dopo l’indomani erano cento chilometri più indietro. E dato che quando mi hanno arrestato gli americani erano a Carrara, dicevo “in carcere non ci sto mica tanto”, e invece piano piano anche questa speranza è dovuta scemare. Era forse il mio carattere, ero forse, come si potrà dire, immaturo, non so, idealista, speravo in me, e speravo tanto di sognare mia madre, che a volte quando sul lavoro mancava l’energia mi andavo ad accucciare sotto la carlinga disperato, mi sfogavo di pianto, mi sfogavo di pianto a invocare mia madre. Il desiderio di sognarla, non mi è mai capitato, anche la notte riuscivano a fartela diventare un incubo, perché al mattino bisognava andare a ritirare il caffè, che poi non l’hanno mai visto, ma quel po’ d’acqua calda e allora chi capitava capitava. Io ormai che ero ridotto in quelle condizioni avevo un incubo: “Ho detto questi se mi prendono è finita, infatti al mattino Aufstehen, io non ce la facevo”. Facevo “No, guardate come sono ridotto non ce la faccio” e questi a picchiarmi, facevano finta di non capire che io, non è che non volevo non ce la facevo a portare quei bidoni, finché quel povero disgraziato che era con me si è bruciato, se l’è rovesciato addosso, ma anche quella volta lì sono stato fortunato, sono rimasto vivo.