Benassi Roberto

Roberto Benassi

Nato il 28 novembre 1915 a Genova

Intervista del 13/06/2000 a Genova

realizzata da Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n. 26 – durata: 46’

Arresto: 1939

Carcerazione: Regina Coeli (Roma); penitenziario di Porto Longone; carcere di Parma

Deportazione: Fossoli; Mauthausen (Matr. 76.237); Lungitz (sottocampo Gusen III)

Liberazione: maggio 1945 a Lungitz

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.

Mi chiamo Roberto Benassi. Sono nato il 28 novembre del 1915 a Genova, ed abito a Genova. Sono stato arrestato da… era l’OVRA allora, nel ’39 mi pare, nel ’39. E portato a Regina Coeli e condannato per reato contro lo stato fascista. Poi, di là, m’han poi portato a Porto Longone, e sono stato tre anni e mezzo o più a Porto Longone. Poi ci hanno fatto sgombrare…

D: Roberto, che cosa vuol dire a Porto Longone? Cosa c’è a Porto Longone?

R: È il penitenziario. Ce n’erano due di quelli lì in Italia. Uno Porto Longone e l’altro era giù a… che c’era i campi della mafia una volta… e sono stato anche a visitarlo dopo quello là. Nel ’44, quando ormai si avvicinava… c’era già lo sbarco in bassa Italia, c’hanno fatto sgombrare e in mano alle brigate… era la Guardia repubblicana e Brigate nere, e c’hanno portato a Parma. Tutti i politici che eravamo là ci hanno portato a Parma. Qualcuno è stato liberato col telegramma, qualche politico sì…

D: Cosa significa col telegramma?

R: Dopo la caduta del Fascismo, c’è stato qualche mese… e qualcuno col telegramma è riuscito a esser liberato, altri no perché erano molto lenti con i telegrammi. E allora poi furono… era tutto il braccio di politici [che] fu portato a Parma – a San Francesco – e lì eravamo in mano alle SS tedesche. Le SS. Poi abbiamo avuto il bombardamento a Parma, il primo bombardamento che ha avuto la città l’abbiamo avuto anche noi lì. Ha preso il carcere e ci siamo salvati quasi per miracolo perché nel cortile avevamo scavato dei camminamenti alti quasi due metri, coperti dalle griglie, e con un pezzo di legno per tenere la bocca aperta perché… E le bombe sono esplose talmente vicine che non abbiamo sentito nemmeno le botte. Ballava la terra ma le esplosioni no. Finito il bombardamento, era l’una [di] pomeriggio, col sole tutto non si vedeva niente, tutto calcinacci. Di lì, poi c’hanno sgombrato. Ci han portato alla Certosa di Parma, sempre in mano alle Brigate nere e SS.

D: Roberto, tu sei stato interrogato a Parma?

R: Ah no, a Roma fummo interrogati. A Roma, prima, quando eravamo al Tribunale speciale.

D: Ma per te il 25 luglio non ha comportato niente? Sei sempre rimasto a Porto Longone?

R: Quasi tutti. Tre o quattro sono riusciti a ricevere il telegramma.

D: Ma che cosa avevi fatto per essere…?

R: Reato… ma erano tutti reati politici. Era un blocco… eravamo un braccio… tutti politici. C’erano spionaggio, c’era organizzazione del Partito, c’era propaganda, e via di seguito.

D: Ma la tua attività, il tuo motivo personale?

R: [Il mio] era spionaggio politico-militare. Non volevamo la guerra, volevamo che non la facesse la guerra. E invece camminava verso l’imperialismo, verso la guerra e via. Tanto è vero che lì venne poi dopo un mese [dal mio trasferimento a Parma, mentre Porto Longone e l’Elba erano occupati dagli alleati] un Ufficiale dei Servizi a cercare di me, ma non c’ero più. Voleva liberarmi e portarmi a bordo, e farmi combattere, perché è durata poi un anno ancora [la guerra].

D: Ascolta, poi allora la Certosa di Parma…

R: Certosa di Parma… dopo Parma a Fossoli. A Fossoli ci han portato. A Fossoli eravamo in mano alle SS. E so che ci siamo trovati assieme con quelli di Milano, di Torino, della Breda. Anche loro [hanno] caricato lì. E fino al… mi pare attorno al 18 giugno del ’44.

D: Roberto, sei stato immatricolato a Fossoli?

R: No, no.

D: Ti ricordi in che baracca eri?

R: Mi ricordo il capo blocco perché è mancato. E lo conoscevo anche, era un maestro proprio di Genova, di Borgoratti. Vezzelli, Armando Vezzelli, buon’anima. Era capo blocco lui. E abbiam dedicato un’aula alla scuola di Borgoratti a lui.

D: E un giorno? Cosa è successo un giorno?

R: Beh, ci hanno imbarcati tutti e ci hanno portato a Carpi. Coi camion a Carpi, e a Carpi sui treni, sui vagoni, quei famosi vagoni… dei carri bestiame. Eran ventidue vagoni. Ventidue vagoni. E di lì c’han distribuito un pane a testa, una pagnotta, e poi la popolazione ha portato due o tre cestini di ciliegie e amarene. E quello era il nostro mangiare per tutto il viaggio, eh. E su su… insomma, tre giorni e due notti. Poi siamo arrivati a Mauthausen, di notte. Di notte, a Mauthausen, dalla stazione, giù [vedevamo] che è un paesetto vicino al Danubio. Di lì, tutti in fila – c’erano i cani – in fila, su in salita, su un altipiano, poi il campo, campo di sterminio. Pensi che mio padre, buon’anima, è stato a Mauthausen, ma [in] paese, nell’altra guerra. [Nel] ’15-’18 è stato, era vicino alla stazione, mi diceva… va beh, io invece da su. E i colpi nella schiena, “schnell, schnell”. Dopo tre giorni di vagone, o più, e col poco mangiare che avevamo e tutto…
Su siamo arrivati – tutta a piedi eh, è lunga, sono 3-4 chilometri buoni – siamo entrati nel locale… è uno… ci sono le porte grosse, non è la principale quella… E di là ci hanno spogliato, tutti nudi, tutta la notte nudi all’addiaccio. Per fortuna era giugno, era intorno al… il 24 mi pare che fosse, di giugno, 23 o 24 di giugno. E alla mattina poi giù a rasare capelli. Dove c’erano peli, rasare tutto, la disinfettata, poi la doccia. E poi ci davano un paio di mutande e la camicia. Scalzi, in quarantena. In quarantena, che erano le baracche 16, 17, 18, 19 e 20. Cinque baracche che erano in fondo all’Appellplatz. E c’era una porticina dietro a quel muro ed eravamo noi. E noi siamo andati alla baracca 17, la seconda era. E lì, alla sera… tutti i materassini alla mattina si toglievano, alla sera si dovevano mettere tutti in terra. E poi dovevamo metterci a dormire testa e piedi, di costa, se no non ci [si] stava: se uno si metteva con la schiena giù uno rimaneva in piedi. E allora col bastone, o con la ‘gumma’, die Gummi :“Se non vi mettete a posto passo e picchio”. Picchiava tutti, eh. E allora si trovava il posto, perché cominciavano a dare colpi di…
E sono stato 3-4 giorni lì. Poi m’hanno mandato al Baukommando. Baukommando sarebbe comando costruzioni [squadra di lavoro edilizia, ndr], nel campo stesso. Dovevamo costruire le fogne. Ecco, siccome io ero un pugile – ero stato pugile una volta, dicevano che ero bravo, ero prima serie d’Italia – e c’era l’organizzazione pugilistica nel campo. Francesi, c’erano cinque o sei pugili, spagnoli ce n’erano diversi, tedeschi… Italiano non ce n’era… Parlavo il francese abbastanza bene, e con i polacchi ho parlato, e francesi, allora m’han provato. M’han fatto fare i guanti con uno spagnolo. In mutande, camicia, scalzo. Ho messo i guanti. Sotto dal [forno] crematorio, c’era una saletta lì. Boxavo bene, e m’han fatto… Così dal Baukommando mi hanno portato in officina elettrica, sempre a Mauthausen. In officina elettrica stavo meglio perché non avevo quasi niente da lavorare.

D: Roberto, nel frattempo avevi ricevuto un numero di matricola?

R: Sì, a Mauthausen sì. A Mauthausen era – in italiano – settantaseimiladuecento e trentasette [76237].

D: Ma lo dicevi in italiano?

R: No! Oh, ci prendevano degli sganassoni se non si sapeva. In tedesco bisognava saperlo. E ho fatto presto a impararlo. Lo vuoi sentire in tedesco lo stesso numero? È sechsundsiebzigtausendzweihundertsiebenunddreizig. Perché invertono i numeri loro.

D: L’officina elettrica?

R: Ecco. C’era un capo, un capo che era un austriaco, era un socialista si vede. Ma ci vedeva volentieri noi, e mi trattava bene anche lui lì. E mi diceva “Quì – diceva così – aquì, quieren que tu trabaja como un caballo e te dona de comer como una gallina”: chiede che lavori come un cavallo, e ti danno da mangiare come una gallina. Lui trattava bene, infatti ho fatto quattro o cinque incontri di [pugilato]. E il primo incontro, m’è toccato un tedesco che era Heltzer. È quello che portava i detenuti giù a prendere le pietre squadrate giù alla cava, quelle pietre squadrate poi da portarle su. E ‘sto qui, lui era 74 chili, un armadio sembrava. E io sembravo un bambino. M’ha dato tante botte, tante botte che non le ho prese in tutti gli incontri che ho fatto, eh. Però non ho piegato le gambe, quando sono andato all’angolo – la terza ripresa – parlavo da solo, ho detto “Bacicin ten canun”. Il mio soprannome era Bacicin. Parlavo da solo, “sei un cannone”, perché non avevo piegato le gambe. Ero nero eh, dalle botte. E così, dopo il secondo incontro, dopo quindici giorni, c’era un polacco che io insegnavo a parlare italiano a lui, che lui parlava francese, col francese lui insegnava… Senza dire niente a me, ‘sto Stashek Gregor, ha combinato l’altro incontro con me, convinto di darmele, perché m’ha visto buscare [subire colpi, ndr]. I francesi m’hanno avvertito, erano amici. M’han detto “Fais attention que [c’est] lui qui a voulu tout ça”. “Ah, bon!”. E allora prima di andare sul ring gli ho detto “Moi, sur ring je ne connais pas des amis. Je fais du sport”. “Et moi aussi”. “C’est bien alors”. Ecco. Così siamo andati sul ring, ma l’ho preso in velocità. Invece in quindici giorni – il primo incontro ero duro, ero legato – mi son sorto [ripreso, ndr]. L’ho preso in velocità e arrivavo da tutte le posizioni e lui non poteva far niente. Alla seconda ripresa lo invito, destro d’incontro, fulminato. Poi, ko. L’arbitro contava lentamente, non un secondo, uno e mezzo, anche due. Ma dopo i dieci [conti] eran già quindici [secondi] e ha dovuto prenderlo di peso, all’angolo, coi sali… E siamo andati avanti, ho fatto ancora un altro incontro con… Ah! Non l’ho detto un fatto. Appena quella notte che siamo arrivati, alla mattina, quello che c’ha rasato era un pugile, non lo sapevo io, e m’ha rubato quello che avevo in mano: saponetta, dentifricio… Non ho potuto reagire che mi son preso una sganassata qui, e poi m’hanno impedito tutti di fare dell’altro. Poi ho saputo. Era il pugile che mi toccò lui. Venne a cercarmi, mi offrì da mangiare, mi disse: “Io sono tedesco, ricevo i pacchi da casa”. Gli ho detto: “Tu deutsche, io sono italiener. Du shlage, ich auch shlagen können [kann, ndr]”. Tu picchi ma anch’io so picchiare. Non ho accettato niente. Allora, era forte questo qui, eh. Era un bel pugile. Aveva però avuto paura… aveva visto quel destro, no. E mi son detto, se non sto attento me le dà, perché veloce e un bel pugno. Ho visto però che aveva paura del destro. “Oh”, allora ho detto, “sei fregato”, perché il sinistro è quasi uguale: io ero ambidestro. Difatti di sinistro, tum, pluf. Ko. Gli spagnoli m’han portato in trionfo: “Tan bien a manciana tiene oste”. Anche la sinistra c’hai, no.

D: Roberto, ascolta, dove venivano allestiti questi incontri di boxe?

R: Lì erano i polacchi e i francesi che gestivano tutto, lì.

D: Ma i deportati?

R: Sì.

D: E dove?

R: Nel campo.

D: Ma dove?

R: Lì, al blocco 16, che era quarantena. Oppure nella piazza, l’Appellplatz. L’Appellplatz che è grande.

D: E le SS non dicevano niente?

R: E c’era lì, si montavano lì. Era uno spettacolo che si godeva anche l’SS eh. Oltre quelli dei blocchi liberi – perché fino al 12 avevamo blocchi liberi che potevamo circolare – gli altri blocchi erano quarantena o i transiti o via.

D: Ma giocavate di notte o…?

R: No, no, alla domenica. La domenica.

D: E durante la settimana lavoravi a…

R: Eh, giù al lavoro

D: E in che cosa consisteva il tuo lavoro?

R: Appunto, allora era un’officina elettrica, per quello m’hanno trattato bene come… eh, c’è un fatto, che chi mi aiutava da mangiare… perché era quello… E c’era un compagno che è mancato, era uno che l’han preso alla Benedicta [azienda di Genova, ndr]. Devo dire il nome? Salerno si chiamava. È mancato quattro anni fa. E lui era due, quasi tre mesi prima di me a Mauthausen. Era piazzato bene. Era Stubendienst, garzone di baracca. Era una baracca che erano tutti spagnoli e tedeschi. E la zuppa non la mangiava nessuno. La zuppa la dava… metteva in fila chi la voleva e la dava a tutti. Poi però loro rubavano anche il pane, e a me mi dava un pezzo di pane, un po’ di margarina. Due giorni soli me l’ha data perché in baracca con me eravamo cinque italiani… dividevo. Il terzo giorno qualcuno gliel’ha detto, m’ha fatto sedere là da lui. “Ecco, questo pane lo mangi te, perché te devi andare sul ring. E gli altri della zuppa ce n’è per tutti”. Eh, dovevo mangiarla lì.

D: Ascolta, ma il tuo lavoro all’officina elettrica in cosa consisteva?

R: Ero un muratore. Maurer, Maurer. Qualche volta ho lavorato… per lo più facevo… o limavo o facevo qualcos’altro. Perché era un po’ una copertura per aiutare il pugile, capisce? Per mascherare.

D: Ma giravi anche nel campo con il tuo lavoro?

R: Ero nell’officina elettrica. Siete stati a Mauthausen? La parte [del] museo, era tutto quello lì, e sotto c’era l’officina elettrica. Perché quello lì doveva essere il nuovo ospedale. Quando ci lavoravamo noi eravamo sotto. Era in costruzione sopra, no.

D: Eravate in tanti all’officina elettrica?

R: Eh, c’eran dei tecnici cecoslovacchi bravissimi. Avevamo sempre una radio… loro tenevano una radio, con la scusa di ripararla, per sentire le notizie, no. Eravamo una decina di uomini a lavorare lì. Questo m’è durato fino a quando ho fatto l’ultimo incontro con Hertzer, quel tedesco là, che gli ho fatto piegar le gambe. […] E l’ho rimesso in piedi l’ho rimesso. E poi è andato pari ma noi avevamo buscato. Già due giorni dopo io non ero più lì. Transport. E quella volta [quando] m’han fermato: “Italiano, back stay in block”. Ho sentito un freddo nella schiena, perché poteva essere il crematorio. Solo che dopo, quando m’han chiamato: “Hei, tu, transport”. “Ah beh, allora non è ancora…”. Infatti, poi a piedi di lì, a Gusen. Da Gusen a Lungitz. Abbiamo dormito una notte a Gusen. Da Gusen a Lungitz, altri dodici chilometri. E a Lungitz eravamo trecento, più o meno, trecento. Dovevamo costruire un Beckerei, un forno, per il pane.

D: Questo quando è successo? Questo trasporto, più o meno quando?

R: Dunque, compivo gli anni per strada, quindi fine novembre e i primi di dicembre [1944]. Il 28 compivo gli anni di novembre, perciò, era lì. Tra l’altro c’è stata… poco dopo c’è stata la prima neve lì, e l’unica fuga che han fatto da Mauthausen, dai blocchi là della quarantena, l’han fatta i russi, 19-20: i due blocchi ultimi, l’alta tensione intorno avevano. Me la raccontò uno: son cinque o sette che si son salvati, su settecento. Perché con la prima neve quei tetti lì eran piuttosto [appesantiti], minacciavano di sfondarsi. Allora [i tedeschi] han detto: “Un volontario per baracca, per andare a spalare la neve”. E loro erano organizzati come a casa, avevano un responsabile [per baracca]. È uscito il responsabile nell’una e nell’altra. Han spalato la neve e han guardato bene. Erano nell’angolo. Girato l’angolo, sui pali, c’era una garrita grande, con la Maschinengewehr, con la sega di Hitler, e c’erano cinque SS, tutti armati. Lui ha visto bene tutto, poi ha spalato tutta la neve giù… tutt’e due; la neve l’han buttata vicino ai muri, poi son rientrati. […] La notte li facevano uscire, perché non potessero orientarsi. E alla notte, come li han fatti uscire, con una coperta addosso, una spranga di ferro l’han buttata sui reticolati: corto circuito, tutto il campo al buio. Un attimo dopo avevan già disarmato quelli là su. Disarmati e buttati giù, via… I tedeschi non sapevano niente, han fatto per venire su, e questi han cominciato a sparare. Allora poi son tornati coi carri armati, auto blindo [e] carri armati. Hanno fatto una strage. Qualcuno se n’è andato ma c’era la neve, e tanti li han rintracciati presto [per le] orme. E quello che me l’ha raccontato – era un eroe dell’Unione sovietica già – è capitato in una fattoria dove c’erano tante donne russe a lavorare. Quando l’han visto gli han parlato, gli han detto: “Chi è?”. L’han spogliato sulla neve, han bruciato i suoi vestiti, e gli han dato altra roba sporca di sterco, e poi l’han nascosto nel fieno. L’han salvato così. Quando potevano gli portavano da mangiare. E ce la raccontò alla Liberazione, mangiò con noi e ci raccontò come andarono ‘sti fatti. E lì siamo già alla Liberazione.

D: Roberto, scusa, ma quando da Gusen ti hanno portato in quell’altro sottocampo…

R: A Lungitz.

D: Dovevi lavorare lì?

R: Lì ero… al giorno facevamo i ferri per il cemento armato: piega ferri, ferraiolo sarebbe. E alla sera, per avere un pezzetto di pane in più, facevamo dalle sei alle undici il Nachtarbeit. Dalle sei alle undici per un pezzetto di pane. C’era il greco, mi diceva: “Italiano, tu consumare di più!”. E aveva ragione lui. Perché lui non veniva, ma quando c’han fatto sgombrare venti giorni prima della fine – c’han fatto sgombrare da Gusen – io son caduto per terra. Da solo non mi rialzavo più. E il greco e il triestino, io c’ho detto: “Lasciatemi stare che… son finito qua”. M’ha dato una sberla il triestino, poi dice: “Tasi, mona”. Un braccio per uno m’han rimesso in piedi, sennò io ero lì, un colpo in testa e… Il bello è [che] quella notte lì han fatto il congresso di Yalta, i grandi. I russi han dovuto tornare indietro perché avevano camminato troppo, così noi siam ritornati a capo. Altri venti giorni e quanti… Dopo venti giorni sono arrivati gli americani. E i primi della zona sono arrivati da Lungitz. Alla mattina alle otto sono arrivati con una jeep, erano sei uomini, hanno disarmato… le SS erano scappate tutte. C’erano gli anziani… però gli anziani… a noi non volevano dare le armi. Però a loro gliele han date subito, con le mani così [dietro la nuca, ndr], gli han portati via. Han sparato nel cancello, nel lucchetto, e han detto: “Go away”. […]. E noi [siamo andati] nei magazzini: era una settimana che pane non ne vedevamo.

D: Ma Roberto, quest’altro sottocampo di Mauthausen, quello dopo Gusen…

R: Sì, era un sottocampo di Mauthausen. Avevo sempre la stessa matricola io.

D: Ma era distante molto da Gusen?

R: Più o meno quello che era da Mauthausen a lì: 12 chilometri, 12-13 chilometri, più o meno sì.

D: E come era organizzato? C’erano molte baracche?

R: Erano 300 [persone], erano due baracche mi pare. Due baracche, poi la cucina, e di là c’era l’abitazione delle SS. Eravamo chiusi dentro e lì dovevamo lavorare anche. Il Beckerei, il forno, lo dovevamo fare lì dentro.

D: E c’erano altri italiani?

R: Lì eravamo cinque o sei… cinque. C’erano dei ragazzi di… partigiani di Udine, di quella zona lì. Poi chi c’era? Il triestino, buon’anima, è mancato, sarà 10-12 anni fa. Un romano che non son riuscito mai a ricordarmi il nome, eppure eravamo insieme anche a Mauthausen, quando ero al Baukommando eravamo assieme, e poi lui era anche lì con noi…

D: C’era anche qualcuno di Empoli, se ti ricordi?

R: Di Empoli… sì, ma non so dove sono andati… A Mauthausen è stato portato qualcuno di Empoli.

D: Ma lì a Gusen III, lì quando facevate il forno, quando dovevate costruire il forno, c’era anche qualcuno di Empoli?

R: No, lì no. C’era uno… due di Milano, di…

D: Ascolta, e alla Liberazione però vi hanno portato a Gusen I?

R: No no. Alla Liberazione avevamo messo insieme i fili di un’ambulanza, un’autoambulanza che era una Citroën, aveva già il cambio sotto al volante. Avevamo un fusto di benzina, da 200 litri o quanti sono. Tanche di benzina avevamo preso, e una tanca d’olio. Credevamo fosse olio, olio da motore, invece era olio di semi, c’è servito poi per cucinare.

D: Ma dove sei stato liberato tu?

R: Da Lungitz. Quel giorno lì il primo campo è stato Lungitz. È scritto con la ‘gi’ ma loro pronunciano ‘g’, Lungitz. Poi hanno liberato Gusen, la stessa camionetta. E oggi… qualche anno fa, è un ufficiale superiore, allora era un sergente mi pare. Poi da Gusen andò a Mauthausen, contro il parere dei superiori. Dice: “Qui bisogna far presto”. Ha visto quanti cadaveri, quanta gente che moriva. Li vedeva camminare come automi: bum, a terra, basta.

D: Roberto, quindi tu sei stato liberato lì a Gusen III?

R: A Lungitz, a Lungitz.

D: Sì, a Lungitz. Tu sei stato liberato lì.

R: Ma poi di lì c’han portato a Wels. Noi volevamo [andare] con l’ambulanza, avevamo la benzina per arrivare a casa, invece ci han bloccato e ci han buttato lì, nella caserma di Wels.

D: E lì cosa ti hanno fatto?

R: Lì erano gli americani, ci davano da mangiare. Andavamo a prendere da mangiare, anche troppo. E tanti son morti perché hanno mangiato troppo. È che ci davano… avremmo dovuto mangiare un po’ di brodo, man mano più spesso, per riabituare l’organismo. Invece così… pastasciutta, condita con marmellata, e burro. Era da morire. Io ho avuto la fortuna… la prima sera che c’era un fornaio con noi – e avevamo preso farina anche nel magazzino – ha fatto le lasagne, e ha fatto il pane, ma io non ne ho mangiate. Avevo dei dolori, dei dolori di pancia. E in quella fattoria c’era una donna – c’era un anziano, un vecchio, poi tutte donne, e bambini – e c’ho detto: “Ich bin krank, habe Ich Schmerzen”. Ho i dolori qui. È tornata con una bella tazza di latte caldo, con la grappa dentro. M’ha detto: “Trinken! Ganzen, ganzen! Trinken!”. E io l’ho bevuta. Poi su una panca, mi sono allungato lì, ho dormito tutta la notte. Alla mattina stavo bene. Poi ho cominciato a mangiare, e stavo bene. Invece quel romano che non sono mai riuscito a trovare il nome, a ricordare, lui invece mangiava, mangiava… E io dicevo: “Guarda che stai crepando”. Per fortuna ho trovato un pezzo di specchio, gli sono andato avanti, [gliel’] ho messo così. Gli ha preso paura quando s’è visto. M’ha detto: “Bacicin, se non ti ubbidisco picchiami!”. E allora gli riducevo il mangiare, poco poco, ed il brodo dopo, spesso. In 3-4 giorni mangiava come mangiavo io. E non riesco a ricordare il nome di quel ragazzo lì.

D: Roberto, e dopo Wels cos’hai fatto?

R: E dopo di lì, poi siamo stati… poi ci hanno imbarcato nei treni. Ora ricordare le date precise… ma io non stavo in piedi però. So che i treni poi ci hanno portato fino a Bolzano. A Bolzano volevo andare a casa. A casa era un anno che non sapevano niente. Io non stavo in piedi… “Ma tu non puoi andare a casa. Te, all’ospedale!”. “No…”. Di peso m’han portato all’ospedale. Dovevano operarmi, diceva appendicite. Boh. E io non so. Non potevo reggermi su ‘sta gamba [sinistra, ndr], hanno piantato un ago qui dietro per vedere il rene. Era un “tutto bene, tutto bene”. Dopo qualche giorno camminavo bene. E poi per fortuna erano venuti dei preti lì… c’era un prete, di Genova, e gli ho detto di avvisare la mia famiglia. Meno male son venuti – lui non è mai andato – son venuti due di Sestri e m’han chiesto, ci ho detto… Credevano che uno venendo di lì [dal campo] conoscesse tutti. Ma conoscevi quelli che avevi lì e basta, perché gli altri non potevi… Quei due fratelli di Sestri sono andati avvisare a casa mia. Hanno avvisato mio fratello, buon’anima, che lui era partigiano in Toscana, era commissario politico nella Brigata… a Siena, da quelle parti. E lui è venuto a placcarla su e m’ha preso. Siamo andati dal dottore: “Lui può andare a casa”. L’operazione non l’ho mai fatta. E son tornato a casa così.

D: In Treno?

R: Fino a Milano… No, fino a Milano [con] uno di quei camion grossi. Era autista un nero. La Gardesana, più di 100 all’ora andava. Però siamo arrivati salvi a Milano. Poi a Milano abbiamo mangiato a casa di un ex pilota, compagno di mio fratello, e l’indomani a Genova col treno. Il biglietto con la Croce Rossa in treno.

D: Roberto, nei diversi Lager che tu sei stato – Mauthausen, Gusen, eccetera, ma anche quelli italiani – hai visto se c’erano dei religiosi?

R: Oh sì, religiosi ce n’eran parecchi. E qualcuno che conoscevo anche. C’era uno… Don Campi mi pare che si chiamasse, di San Martino, era a Mauthausen quello lì. Don Gagero, buon’anima, anche lui è mancato. Anche lui, era a Mauthausen anche lui. Poi l’han liberato da Mauthausen. E io invece… Alla Liberazione non siamo andati in campo, potevamo venire a casa, invece ci han portato a Wels. A Wels, chiusi nella caserma…

D: Roberto, hai visto se c’erano anche dei bambini, dei ragazzini?

R: Subito [appena deportati] nel trasporto con noi c’era uno di Firenze, non ricordo il nome. Lui e suo zio. Il padre era partigiano, in Toscana, a Firenze. Volevano che si consegnasse, non s’è consegnato, hanno preso lo zio… il fratello del padre, e il bimbo, il figlio. Aveva dodici anni mi pare. Però ho visto anche nei trasporti i bambini sui dieci anni, più o meno. E avevan fame. Noi, eran i primi giorni, non avevamo ancora fame così, no. E se cercavano un pezzetto di pane… non volevano… “Son ladri – dicevano – son ladri”. E rubavano sì, se non avevano da mangiare rubavano.

D: A Mauthausen…

R: A Mauthausen. Quand’ero in quarantena ne ho visti di trasporti di bambini così.

D: A Mauthausen hai visto anche se c’erano delle donne deportate?

R: Ho visto quelle della casa… del bordello, perché c’era anche il bordello. Però ci sono state anche delle donne [deportate]. So perché una delle nostre, che adesso è mancata, aveva firmato nel carcere a Mauthausen. Quando siam tornati, nel ’75: “Vieni un po’ a vedere”. In un braghettone nella finestra del carcere c’era il suo nome. Era una di… era di Milano, da quelle parti lì era.

D: Ascolta una cosa Roberto, quando ti facevano tirare di boxe a Mauthausen, il ring, dov’è che era messo rispetto al campo?

R: Dentro il campo. L’Appellplatz è grande. Ecco, a un lato dell’Appellplatz… o anche delle volte, quand’era un po’ freschino, dentro alle baracche di quarantena, che al giorno son vuote. Alla sera metton lì i trapuntini a terra, ma il giorno son vuote lì. Ho boxato lì e fuori.

D: E in che giorni, se ti ricordi, della settimana facevano questi combattimenti?

R: Mi pare fosse di domenica.

D: Chi partecipava? Chi assisteva agli incontri?

R: Anche quelli che erano nei blocchi liberi, e le SS, tutte loro, anche quelle di guardia sopra vedevano bene, no.

D: Roberto, quando tu sei stato deportato, hai visto azioni di violenza?

R: Azioni…

D: di violenza, contro i deportati?

R: Dunque, io ho visto… parecchie, parecchie. Quasi tutti i giorni. La strada che dal campo va giù alla scala della morte, giù lì, a qualcuno toglievano il berretto e lo buttavano verso il reticolato e lo mandavano a prendere. Il Post [Posten, ndr] – era sulle garrite, a 30-40 metri l’una dall’altra – come vedeva [il deportato], tum [sparava]. Ne ho visto uno, cinque salti ha fatto, cinque volte gli ha sparato. Poi l’ultimo è rimasto là. Che scene ho visto. E ho visto anche… e questo nessuno l’ha scritto… Erano partigiani belga-olandesi, ragazzi giovani, in gamba, li han tenuti 48 ore faccia contro il muro, dentro a Mauthausen, e ogni tanto ne prelevavano due e li portavano fuori. C’era il Politische Abteilung, l’ufficio politico, e li interrogavano, li torturavano: nessuno parlava. Gli spagnoli, i giovani, facevano i servizi, erano entusiasti, dicevano: “No hay uno que abla. Que corazon que tiene”. Però il primo giorno, al pomeriggio, io ero fuori [in] una baracca lì e vedevamo… ho visto… prima li han fatto fare due viaggi, con la cosa per le pietre. Il terzo viaggio c’era il reticolato – adesso non ci sono più quei reticolati ma… io li vedo [ancora] – che faceva angolo, [poi] un passo d’uomo [passaggio coperto, ndr], e 20-30 metri più indietro sulla garrita c’era [il Posten], aveva un Parabellum russo, sparava con quello. Metà li ha fatti uscire da questo passo d’uomo, l’altra metà continuare, e quello là che sparava su questi. Eh. So che ero rimasto incantato alla finestra, il triestino m’ha strappato via: se si accorgevano che avevamo visto ci ammazzavano anche a noi. Ero rimasto bloccato, non ero capace di muovermi, era una cosa tremenda. Poi un fotografo… fotografa… figurano fuori dal reticolato: un tentativo di fuga. […] Il Post passava, col piede lo toccava, se muovevi ti dava il colpo di grazia col fucile. Poi ho visto quando li han portati su, han caricato dei carrelli… una scia di sangue… L’altra metà l’indomani han [subito] lo stesso, però non eravamo lì a lavorare, quelli non li ho visti. Questi qui non credo che ci sia più nessuno che li ha visti.

D: Roberto, ti ricordi se fuori dalla recinzione del campo di Mauthausen c’erano delle officine?

R: Erano nei boschi però, andavan giù. Ci andavano giù, eh. C’erano dei compagni nostri che andavano giù. C’era Antolini, buon’anima, di Genova; c’era il Masetti, anche, il Masetti di Bologna, che è mancato anche lui qualche anno fa. Andavano giù nella scala… tutta la mattina c’era la scalera della muerte, giù, e andavano nei boschi. Facevano dei pezzi di aeroplano. Eh, sì. Invece di qua – quelli però li ho visti dopo, sapevo che c’era – a Ebensee c’erano quelle che avrà raccontato Algeri, dove facevano le Fau 1 e Fau 2 [V1 e V2, ndr]. E le gallerie ci sono ancora lì.

D: Io ti chiedevo lì attorno a Mauthausen se ti ricordi di officine.

R: Ma io non sono mai andato in quei posti lì. Io, escluso il campo… Per andare all’officina elettrica che era lì, che dalla [baracca] 12 erano 30 metri, dovevamo uscire dalla porta principale, togliersi il berretto e salutare la sentinella, facevamo un giro largo, poi andavamo di là, e per ritornare uguale. Mentre lì dentro erano 30 metri. C’erano cinque campi in un campo, capito. Grande il [perimetro] esterno, poi man mano [i più piccoli interni]: lì c’era il campo russo, l’ospedale – lo chiamavano Revier.

D: Tu sei mai stato al Revier?

R: Quando stavo male gli ultimi… volevo farmi mandare, ma si vede che il Kommandoführer – era un maresciallo, era lui che comandava, avevano facoltà di vita e di morte di noi loro – so che gli ho chiesto: “Bitte, bitte, Ich bin krank. Revier”. “Italiano, nicht gut Revier. Kaputtmachen. Bleibst im Bett”. Stattene a letto. Son rimasto lì, non me l’aspettavo. Poi ho capito: si vede che lui mi aveva visto quando facevo il pugile, perché ha dimostrato una certa forma di benevolenza, di simpatia ecco. Infatti anche alla baracca 17, in quarantena, il capo blocco era un omone, era peso massimo, aveva fatto pugilato ai suoi tempi, e quando m’ha detto… quando ha preso il primo incontro [che] ho buscato, m’ha detto: “Tu italiano, prima box haben keine Kraft”, cioè boxi bene ma non hai forza. “Mein lieber muss setzen”. Allora mi faceva andare… passare dalla quarantena. Se non c’era lui lo Stubendienst doveva darmi un bel pezzo di pane. E tutto faceva mucchio…

D: Roberto?

R: Sì?

D: Tu sei mai stato intervistato?

R: Ma una volta, uno dell’Ufficio storico. Però non so se ho raccontato tutto così perché non volevo mai dire le cose mie perché sembra che… perché nessuno ha fatto quello che ho fatto io.