Visintin Antonio

Antonio Visintin

Nato il 17 gennaio 1924 a Genova

Intervista del 10/06/2000 a Boissano (SV)

realizzata da Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n. 14 – durata: prima parte 62’; seconda parte 28′

Arresto: maggio 1944  a Monfalcone (GO)

Carcerazione: carcere Coroneo di Trieste

Deportazione: Buchenwald (Matr. 78.418); Dessau

Liberazione: 8 maggio 1945 a Praga

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.

Prima parte

Io mi chiamo Visintin Antonio. Sono nato a Fiumicello, il 17 gennaio 1924.

D: Scusa Antonio, Fiumicello in provincia di…?

R: Di Udine. Nato, eh. Poi sono stato residente – sono andato prima a lavorare in cantiere – a Staranzano, che prima era provincia di Trieste, dopo il territorio litorale adriatico è passato sotto la provincia di Gorizia perché han diviso il [territorio], una parte è andata sotto la Jugoslavia.

D: Tu hai fatto il partigiano Antonio?

R: Sì.

D: Quando?

R: […] Io ero esonerato, dovevo andare di marina militare. Marina, naturalmente, se andavo un anno prima, perché erano trentasei mesi da fare, non c’era ancora la guerra perché eravamo nel ’39. Ho fatto il militare, e tutto quanto, e a un certo momento è arrivata la cartolina. L’ho portata in cantiere. Io lavoravo sulla Marina da guerra, lavoravo in sommergibili, e insomma, porto la cartolina, devo andare da militare. Loro m’han detto: “Va bene, passa domani”. Sono andato a lavorare, tranquillo. [L’in]domani mi vengono a dire: “Non c’è bisogno, non vai più a militare, sei esonerato. Però sei militarizzato”, cioè ho dei doveri militari. Va bene, però loro mi tenevano sempre d’occhio perché prima, quando facevamo il premilitare, che il sabato toccava andare a marciare, io non ho pagato la tessera. Allora quelli che non avevano pagato la tessera andavano in sala a studiare la marineria, quello che studiavamo anche in cantiere alla sera; invece quelli che avevano pagato la tessera ci davano un fucile, un moschetto, senza otturatore, che potevano darci senza cartucce, per non farli vedere… tanto stupidi, proprio. Ma siccome che è una nazione governata da stupidi, va bene così. Allora ci mettevano [lo] zaino con delle pietre dentro e li facevano camminare per caso per rocca. E noi, logico, che non avevamo diritto del fucile eravamo in scuola a studiare quello che realmente una persona deve andare in Marina deve sapere, del vocabolario, dalla A alla Z, fino all’ultimo bullone del motore, tutto. Io ero appassionato di questo, mi sono fatto una cultura non indifferente, oltre quella delle scuole di cantiere che facevo. Sono stato esonerato perché ero anche uno specialista, lavoravo sui sommergibili, dove nessuno poteva mettere le mani, che era stretto: io, a biondo dio [abbondantemente, ndr], c’arrivavo. In effetti, non avevo nemmeno cottimo più, io non ero nei cottimi, perché avevo sempre dei lavori che non si poteva “cottimare”. E allora mi davano una percentuale fissa. Posso dire, non stavo male, perché il lavoro mi piaceva e mi piaceva lavorare.
A un certo momento, hanno bombardato il cantiere. L’avevano bombardato prima, ma con poco danno. Hanno bombardato il cantiere e seriamente non si poteva lavorare. Allora, io già lavoravo per i partigiani prima, in terra. È successo così. Lavoravo perché avevo il lasciapassare, perché noi lavoravamo sui sommergibili, a turni, e avevo un lasciapassare timbrato dai tedeschi [così] che potevo camminare. E vicino [a] casa mia c’era l’artiglieria antiaerea, e lì i fascisti passavano con i camion, controllavano. E mi hanno fermato anche parecchie volte, ma con questo lasciapassare potevo passare. Era l’occasione buona per lavorare coi partigiani, le ore [in cui] io avevo i turni di poter lavorare [con loro]: fare quello che serviva alla nostra organizzazione. Tornando indietro, bombardano il cantiere. Tutto un disastro. Mi avvertono: “Guarda che domani han già messo i vagoni… un treno pieno in cantiere che, visto che non si può lavorare, hanno intenzione di caricarvi e portarvi in Germania”. E così è stato, ma io non sono andato a lavorare, né io né una decina di noi. Alla notte stessa siamo andati sul monte, sulla rocca. Siamo andati in montagna e siamo andati coi partigiani. Ecco, questa è la prima fase.

D: Che formazione partigiana era?

R: Siamo andati con la Brigata Triestina, e siamo stati un po’ di tempo con la Brigata Triestina. Ma eravamo in tanti, veniva su sempre [più] gente, perché ormai i tedeschi facevano rastrellamenti e portavano via tutti. Allora la gente aveva paura e veniva coi partigiani, che credeva fosse rose e fiori. Invece lì c’era da fare. Così eravamo un numero tanto grande che con la Brigata Triestina avrebbero dovuto essere 450 persone, [ma] eravamo più di tremila. Allora gli jugoslavi, furbi, han fatto una proposta: “Mandacene un po’ a noi”. E ci han mandato in 250 col IX Korpus [IX Korpus Sloveno, ndr], che era la Vojkova, la Circhina [Circhina, o Cerkno, città slovena; ndr] e la Presiniva [forse Prešernova Brigada, ndr]. E io ero con la Vojkova, con gli jugoslavi. Eravamo in dodici di noi italiani con la Vojkova, gli altri sono andati con le altre due [brigate]. Combattevamo sempre in territorio jugoslavo, ma era una [furbizia] che abbiamo capito dopo. Visto che loro han capito subito chi era furbo e chi era meno furbo, o chi sapeva più fare o meno fare, han detto: “Mi sembra che te sai fare: ti mettiamo con le armi pesanti”. [Come] armi pesanti si trattava di bazooka, due mortai – il piccolo e il [Brixia] – e la Breda; la Breda era la mitraglia più grande che avevamo, la Breda grossa proprio… perché c’era anche il fucile mitragliatore Breda, c’era il Fiat e il Breda, ma la mitraglia Breda era un’arma che ci volevano tre persone dietro. Era un’arma molto pesante. Allora mi han messo con la Breda all’inizio, e fatica, pesante abbastanza. Poi a un certo momento viene un altro, uno sloveno che vuole anche lui la Breda. Allora mi dice il comandante di battaglione, che era un goriziano: “Daccela a lui va’. Guarda che belle spalle che c’ha lui” – ha detto – “daccela a lui che 45 chili, la canna con tutto l’affare [che] non c’era tempo di smontare”. E poi c’era il cavalletto – va beh, lo portava un altro – e poi c’era la munizione, [quindi] tre persone, e trenta chili di zaino, non so io dove si va a finire. I muli li avevamo mangiati. È logico no, qualcosa bisognava mangiare. È finita così.

D: Antonio, ma questo quando è avvenuto?

R: Questo è avvenuto […] in maggio, in maggio siamo andati su coi partigiani.

D: Di che anno?

R: Del ’43 [1944, ndr]. Quello che mi rammaricava – non le azioni che facevamo, non come andava – ma quello che mi disturbava [era] che ci hanno sempre trattato da fascisti. Erano più fascisti loro che noi; sicuro, senz’altro, perché il [loro] comportamento non mi è mai piaciuto. Perché in combattimento abbiamo sempre combattuto, ma quando uno si arrendeva, quando si era finito di combattere, abbiamo sempre diviso quel pezzettino di pane con quello che avevamo preso. Loro non erano così. E allora questo mi disturbava. Per quello loro ci prendevano… “Italiano! Porco italiano fascista!”. Ma se sono qui, a casa tua, combatto insieme con te, ma come faccio a essere un fascista? Che poi, non c’ho nemmeno l’età di essere stato. Poi io credo di essere un partigiano. […] Con le armi pesanti mi caricavano sul camion degli altri e mi mandavano in prestito ad altre divisioni che erano in bisogno, che erano in pericolo. Così, ve lo giuro, che tutto quel periodo che sono stato lì ho combattuto quasi ogni giorno, escluso le preparazioni, era sempre da combattere. Quando tornavamo indietro, che tutti [speravano fossimo] morti, gli zaini erano vuotati, [avevano] portato via tutto. E un giorno sono andato dal comandante e c’ho detto: “Stia a sentire, qui è così e così […] Informati dai tuoi scagnozzi, dalle tue spie, ti informi e vedrai che loro ti diranno com’è la cosa”. Allora si è informato, è stato onesto, e ha scoperto le cose. Ha chiamato tutta la brigata, per sloveno e poi per italiano, ha fatto un bel discorso. Allora nessuno ha toccato più gli zaini […].

D: Quando ti hanno arrestato?

R: È venuta lunga la faccenda. Ad un certo momento mi hanno cambiato di brigata e mi hanno cambiato armi. Non mi trovavo tanto bene. Dei nostri amici italiani erano già rimasti pochi, perché in prima linea eravamo sempre noi e sempre in Jugoslavia. A un certo momento, [al] comandante del mio battaglione – era goriziano, cioè, era uno sloveno di quelli che abitava in Italia – c’ho detto: “Ma perché dobbiamo combattere in Jugoslavia? Abbiamo la nostra Italia [dove ci] sono i tedeschi. Abbiamo i fascisti”. […] Un’altra cosa: sono un testimone che può dirlo, che nessuno lo ha mai detto, che i belagardisti che erano con re Pietro [Bela Garda: Guardia Bianca, ovvero Milizia Volontaria Anti Comunista; ndr] erano coi tedeschi, e gli inglesi buttavano armi a loro e buttavano armi anche a noi. Sappiate questo: che loro lo facevano perché si combattesse fra di noi […] Questo nessun giornale lo ha mai detto dopo la guerra, nessuno ha mai detto niente. Questo dimostra la vigliaccheria degli inglesi, non degli americani. Gli americani erano bonaccioni, ma gli inglesi, non ne parliamo… Abbiamo avuto anche comandanti inglesi con noi.
Allora viene il momento, dopo tanti mesi, dopo nove mesi che sono con loro, [dalla brigata Voikova] mi mandano con la Brigata Triestina.
La Brigata Triestina ha tenuto il colpo più duro: – comunque ero con gli Jugoslavi quando abbiamo occupato il Montenegro – i tedeschi han messo tre divisioni ad aprire un varco per andare in Austria, da Monfalcone […] vicino Postumia per andare in Austria. Volevano aprire un varco per i rifornimenti, per la ritirata. Ed è stato tutto sulle spalle della Brigata Triestina, [che] era già in brutte condizioni. Però comunque c’ha preso, abbiamo fatto l’affare. Visto che non sono riusciti a aprire ‘sto varco si sono rimboscati di nuovo ‘sti tedeschi, e son venuti su. Allora il comandante della Brigata Triestina ha detto […] a me e ad altri ventinove di noi – ricordo come adesso, che fosse giorno, tutti giovani, tutti i migliori: “Noi dobbiamo ritirarci nei boschi, dove i carri armati non possono venire, devono venire a piedi e lì ci combattiamo, e voi fate un’azione di disturbo: cominciate a sparare, poi mollate le armi e tutto, e scappate via. Dovete fare solo un’azione di disturbo”. E noi invece non abbiamo fatto un’azione di disturbo. Avevamo ben impostato [l’azione]. Avevamo quattro Breda e due mortai e tutta gente coraggiosa che andava a buttare la bomba a mano dentro al carro armato, che si coricava in mezzo ai cingoli. Buttava al fianco di benzina, poi la bomba a mano e il carro armato era bello che fregato. L’abbiamo fatto tante volte quel lavoro. Poi loro si sono accorti, allora passavano sopra un cespuglio e han fregato qualcuno di noi. Ma noi avevamo fregato tanti carri armati in quella maniera lì. Loro tranquilli col parapetto sopra andavano via. Fiasco di benzina e bomba a mano. Scoppiava per due ore dopo.
Allora, facciamo ‘sta azione. Davanti era la fanteria, i carri armati erano lenti, erano dietro e c’era una curva in questo vallone, in questa montagna. Noi eravamo sulla collina, impostati, io per fortuna ero il più lontano di tutti, un po’ in dentro, riparato un po’ dal bosco, e davanti la collina era tutta pulita, e lì sotto era la strada. È venuta avanti la fanteria e tre camion – mi ricordo come adesso – i camion erano caricati di gente, di armi, di rifornimenti. Di dietro si sentiva il rumore dei carri armati, ma erano molto lontani. Allora vengono avanti, quando sono ben a tiro apriamo il fuoco: potete capire quello che è venuto fuori perché loro non se lo aspettavano, sia quelli sui camion che quelli in terra, quanti c’erano non so. Ma insomma, così è andata.
Allora noi abbiamo continuato. Dopo un’ora circa vengono avanti i carri armati. Al massimo tre tiri ogni postazione saltava per aria, coi cannoni. […] Ho preso una pallottola nella caviglia, un altro mio amico ha preso una scheggia di granata e all’altro han piantato tutti i sassi nella faccia. Gli unici tre rimasti vivi. […] Allora scappiamo via, giriamo e vediamo che la collina – sono già arrivati – è tutta circondata: “Addio, siamo fregati”. Vado un po’ avanti, trovo un buco [sotto] quelle piante di montagna, quella felce. Ci siamo buttati tutti e tre. Loro han passato tutta la montagna – han trovato i morti che c’eran lì – hanno camminato sempre mitragliando: le pallottole cadevano sempre sulla faccia, noi fermi lì. Dirò di più: davanti avevano tutta la gente del paese, avevano quasi un seicento persone, davanti alla fanteria. Perché noi avevamo sparato di dietro, non volevamo colpire la gente. Però la gente, poveracci […] li hanno ammazzati dopo i carri armati quando sono venuti lì, perché i fanti non hanno potuto fare più niente, loro erano già che si riposavano tranquilli. […] Siamo stati nel buco, lì, tutta la notte. […] Dopo due giorni – loro sono andati via, dove sono andati non lo so, se sono andati avanti verso la nostra Brigata, infatti sentivo sparare […] – noi siam venuti fuori, siamo andati in paese. In paese sapevano già, ci han detto: “Guardate, tutti quelli che han preso in ostaggio han tutti fatti fuori, giovani e vecchi, tutti quelli che c’erano”. Allora questo paese c’ha dato un carro e due cavalli, perché non potevamo camminare: io [con] la pallottola nel piede già da due giorni, senza levar la scarpa, piena di sangue; quell’altro con una [ferita] dietro, che si chiama Visintin anche lui, che era con me, Paolo Visintin; e uno che era di Cervignano, ma non mi ricordo più il nome adesso, che difatti poi non ho visto in campo di concentramento. Paolo Visintin l’ho visto dopo, ma quello là non l’ho visto.

D: Scusa Antonio, ma questa battaglia qui, in che località è avvenuta?

R: A Locavizza.

D: Dopo che vi hanno dato il carro cos’è successo?

R: Siamo andati per le strade, in ogni paese cambiava uomo che ci guidava. Dovevano portarci in ospedale a Monfalcone, [e intanto] ci portavano fino a Jamiano, che era un paese già in pianura, poi conoscevo i sentieri, di notte andavamo là. Avevamo un po’ di bombe a mano, un mitra, due pistole, e un fucile. E la divisa di partigiano. Allora ci siamo cambiati, ci hanno dato da cambiare quando siamo arrivati in pianura. Ma noi non sapevamo, loro già sapevano che noi venivamo giù: qualcuno… le spie… va a sapere cosa. Quando siamo giù, che siamo già cambiati e abbiamo lasciato le armi, ormai siamo sul sentiero. […] Da Jamiano andammo a Doberdò, da Doberdò siamo a Monfalcone e andiamo in ospedale. Io so già dove andare, conosco già la gente che ci fa passare. Andiamo in una famiglia a chiederci un fiammifero per accendere la sigaretta e di strada ci [chiediamo] se lì sono i tedeschi. I tedeschi erano arrivati alle 5: erano le 8 ed avevano invaso tutto il paese. Questo ci doveva dire, e noi eravamo salvi. Perché bastava fare un passo indietro. E [invece] noi camminavamo sulla strada, loro erano fermi col mitra, che ci aspettavano. Tutto lì.
Ci hanno aspettato, ci hanno preso. Siamo in borghese, cosa c’entra? Armi non ce ne abbiamo. Non sanno niente. Non si sono accorti… però hanno visto l’altro mio amico che [era tumefatto in volto], quella lì era in vista, e difatti per quello penso che l’abbiano fatto sparire. Ci hanno messo in una casa, lì, e han messo fuori le guardie. L’indomani mattina ci han caricato su un pullman, ci han portato a Trieste, ma non al Coroneo, al comando delle SS. Lì ci hanno bastonato ben bene, senza dirci niente. Se sapevano quello che avevamo fatto ci tagliavano a fettine. Poi ci interroga uno. Io, non so come, mi sono appoggiato sul tavolo… si è alzato quello là solo perché ho messo le mani sul tavolo: m’ha dato una sberla che non finiva più. Sapevo già che dovevo star zitto e non dovevo far niente. E così ho fatto, avevo già preso la mia dose prima! Allora, io sapevo già il tedesco perché a Monfalcone, alle scuole industriali, invece di fare Francese facevamo Tedesco. Si capisce, non ero un professore, è quello che si impara a scuola… in tre anni di scuola che si fa… […], comunque uno si vendeva, si arrangiava. Prima parlò in tedesco e io feci finta di non capire; allora poi chiama uno e dice: “Italiano, tu eri partigiano. Come ti sei trovato là?”. “Mi sono trovato là per caso, sono andato in un posto, [ho] ritardato perché era coprifuoco”. Ci mandano al Coroneo. Altra lezione: ci mettono sul carretto, tira le mani, tira le braccia, di qua di là, e niente da fare. Non ho visto più quell’altro mio amico con le schegge piantate [sul volto]; avevano capito che era ferito, che qualcosa c’era [da dire], ma non ha parlato. Di noi io avevo ancora [il piede] da medicare, non avevan fatto ancora niente: dopo quattro giorni mi han mandato al Coroneo di nascosto. Nella cella che avevo in prigione nel Coroneo han messo un fascista – ha detto lui che era un fascista – che ha detto che l’han messo lì perché ha rubato. Furbo, no? Quello voleva cercar di levar qualcosa. C’ho detto agli altri: “Non parlate che qui siamo nei guai”. Quando siamo andati a fare l’ora di aria si sono avvicinati tanti: “Voi siete partigiani?”. “Non parlate con nessuno, non conosciamo nessuno, non sappiamo com’è la faccenda qui”. Allora medicati, tutti quanti. L’altro [fascista] non è entrato più in cella. Non si sa, non abbiamo mai saputo che fine ha fatto.

D: Scusa Antonio, tu prima dicevi che ti hanno portato a Trieste nella sede della SS. E dov’era la sede della SS?

R: Eh, a sapere… Io so che era un locale grande, di lusso, difatti non c’erano prigioni, non c’era niente. Erano uffici, e ho visto tutti della SS, non c’era nessun italiano dentro. Tutti quanti della SS.

D: Non sai in quale palazzo era?

R: No.

D: Poi dicevi che quando ti hanno portato al Coroneo ti hanno fatto ‘il carretto’…

R: Ti legavano mani e piedi e ti tiravano, col mulinello ti tiravano, finché parlavi. Ma cosa parlavi? Se sai che se parli ti ammazzano… Han visto che non ricavano niente e c’hanno mandato giù. Siamo [stati] giù una settimana, nelle celle della prigione, ogni ora l’aria. A un certo momento è venuto l’ordine di sfollare tutta la prigione del Coroneo e mandare in Germania. Ci hanno preso, caricato in camion, ci hanno portato in stazione sul carro bestiame, chiuse le porte e via, in Germania.

D: Dalla stazione o dal silos di Trieste?

R: No, dalla stazione. Dal Coroneo andati diretti in stazione, che c’è un tragitto molto corto, che si può fare anche a piedi. In stazione c’erano già i vagoni lì, il carro bestiame già pronto, coi reticolati sulle finestre.

D: Quando questo?

R: Questo è avvenuto sempre in maggio, quando sono stato preso. Sempre in maggio. In maggio sono andato via, in maggio l’altr’anno mi sono trovato lì, e in maggio sono stato liberato. Guarda un po’ sempre ‘sto mese di maggio…

D: Allora, vi hanno portato alla stazione…

R: […] C’hanno aperto l’indomani a mezzogiorno – non so nemmeno dov’eravamo, ma eravamo già in Austria perché vedevamo le case… vedevo che non eravamo in Italia – e lì ci hanno fatto fare i nostri bisogni. Col fucile, si capisce, in aperta campagna. Tutti quanti tornano su di nuovo, chiusi i vagoni e via. Ci hanno dato una pagnotta, di quei mattoni… ogni vagone. Nel vagone dove c’ero io eravamo in 46, e gli altri erano anche 60, ma mica han dato due pagnotte! Una ciascuno, l’abbiamo tagliata a pezzi, fatto un pezzettino ciascuno. Non bere, per l’amor di dio! Niente! Non abbiamo nemmeno tirato l’acqua quando siamo andati in gabinetto. Non abbiamo bevuto per quattro giorni. Allora ci hanno dato due pagnotte in quattro giorni, finché siamo arrivati a Buchenwald.

D: Il treno non si è fermato a Buchenwald però…

R: Dentro! Come no! La ferrovia entrava dentro. C’era la ferrovia perché a Buchenwald loro avevano fatto un grande deposito di roba per l’esercito, perché speravano che inglesi e americani non lo bombardassero, capisci? Là c’era la ferrovia che arrivava fino a dentro il campo, dentro i reticolati. Dentro chiudevano, avevano dei portoni che non finivano più. Chiudevano tutto e il treno rimaneva dentro: aveva la possibilità di manovrare, come in una stazione ferroviaria.
Poi ci hanno portato in queste baracche. […] L’indomani mattina c’era un grande catino, proprio la forma del catino, aveva 3 metri di diametro, alto un 80 centimetri. Cosa c’era dentro non lo so; so che sapeva di petrolio, di nafta, di qualcosa. Allora uno alla volta, spogliati tutti, e dentro, ci buttavano dentro, con la testa ci schiacciavano giù. Poi si andava avanti di là. C’era un altro corridoio: tagliavano tutti i peli, dappertutto, capelli… tutto. I capelli [li tagliavano alti un dito, oppure facevano la striscia in mezzo a zero, oppure ancora la lasciavano crescere in modo da essere sempre riconoscibili]. Poi ci han visitato tutti: ci han guardato in bocca, se avevamo oro lo levavano subito, tutto toglievano. Va bene che non c’erano [da] anni di orologi, però qualcuno aveva qualche anello, o l’orologio del taschino: tutto, lì non rimaneva più niente. Passavi di là, e ci han dato la nostra bella divisa [a righe], col numero, col triangolo, un paio di zoccoli col legno sotto. È cominciata l’odissea.

D: Antonio, il tuo numero?

R: […] Settantotto quattrocentodiciotto [78418].

D: E in tedesco te lo ricordi?

R: No, non mi ricordo più. Potrei dirti […]

D: E dopo che ti hanno immatricolato cos’è successo?

R: Siamo stati un po’ di tempo lì, non sapevamo niente. Di italiani eravamo in due rimasti, di tutto il vagone che c’era, lì, nella baracca 18, eravamo rimasti in due. [Da] mangiare ci davano una volta al giorno. [Per] lavarsi c’era fuori all’aperto una fila di lavandini, acqua fredda… questo si sa. Ogni tre baracche c’erano reticolati in giro, non con la corrente, [mentre] tutto in giro al campo c’era la corrente. […] Da una baracca all’altra non potevi andare perché se ti prendevano… Perché loro mettevano i numeri progressivi [alle baracche], allora quei numeri sapevano già che era da quello a quello, che sulla porta c’era già scritto, da quello a quello. Se ti trovavano fuori erano…

D: Antonio, quando tu eri a Buchenwald, hai visto se c’erano anche delle donne?

R: Ho visto donne, in una baracca-tenda. Erano donne, uomini e bambini, ma erano ebrei. Dopo le nostre baracche, uscendo dalla porta sul lato destro, c’era un grande tendone. C’era una grande baracca di tela che adoperano anche per gli sportivi… E lì, io non lo sapevo, m’han detto: “Là son tutti gli ebrei”. Di fronte a noi, di là dei reticolati, c’era una baracca di svedesi, prigionieri politici come noi, tutti svedesi. A loro, mi dicevano quelli lì che li vedevano, ogni mese da casa ci mandavano i pacchi. Strano, a noi non arriva niente. La Croce Rossa dice che li faceva i pacchi, ma a noi non ci è mai arrivato mai niente.
Tante volte ci portavano le rape, e le rape ce le portavano di campagna, sporche di terra, col sacco. Venivano lì, buttavano il sacco in mezzo alla baracca, con la macchina fotografica facevano le fotografie e noi, come scemi, chi ne prende due, chi ne prende nessuna, a mangiarle ancora con la terra su. Io lì ho conosciuto un certo Nikolai, un russo, che aveva un po’ di autorità, anche lui che era già da un po’ che era prigioniero coi tedeschi. E ha fatto un discorso perché ce l’ho detto io: “Perché dobbiamo essere noi così cretini da farli ridere loro? Almeno, stiamo male, ma non siamo dei cretini. Siamo uomini, e dimostriamo di esserlo. Allora, cosa dobbiamo fare? Quando arrivano vuotano il sacco” – siccome che tutti in terra non si stava, bisognava stare nel vespaio, tutti in piedi non si poteva stare – “quattro o cinque persone si incaricheranno di andare ai lavandini, lavare le rape, le divide: siamo in 38, li divide in 38 pezzi, uno si gira con la schiena, ci dice [a] chi tocca questo [a] chi tocca quello”. Allora vengono, rovesciano, il maresciallo pronto con la macchina fotografica: nessuno si muove. Tutto [arrabbiato] col nerbo, botte di qua e di là. […] Nessuno ha parlato, nessuno niente. Ha preso su, è andato via. È rimasto male, ha capito che i disonesti erano loro, non noi, che le bestie erano loro, non noi. […] Abbiamo fatto così finché siamo rimasti lì. Ci han tenuto due mesi lì. Poi non facevamo niente… anzi, due giorni ci han mandato – quando sono venuti a bombardare gli americani – ci han mandato nei magazzini a sistemare della roba, delle divise dell’esercito. […] Vengono lì, ci chiamano… i numeri, quelli che sono. Fanno una fila, ci portano in piazza, c’è il treno, ci caricano, e ci portano via.
Da Buchenwald – mi sembra sotto il distretto di Weimar – ci han portato fino a Dessau. Siamo arrivati a Dessau, abbiamo trovato il campo bello nuovo, perché si vedevano i legni, appena levata la ‘buccia’, piantati i reticolati nuovi, col filo spinato in giro, con la corrente elettrica. Tre grandi baraccone che tenevano 500 persone l’una, ognuna divisa con reticolati ma senza corrente. E fuori all’esterno c’erano quelle garitte che facevano loro, di legno, con la scala, con una mitraglia – tutte avevano un mitraglia – avevano il coperchio e ogni 50 metri ce n’era una di queste. Io ho fatto un calcolo ben preciso: noi eravamo in 1.500 ed erano 500 della SS, tutti riformati, feriti, tutte bestie che non si può dire altro; io penso che si drogavano o si ubriacavano, perché è impossibile che una persona possa agire così contro un’altra persona che non ha fatto niente. […]
Ci mandano a lavorare in fabbrica. Alle 4 e mezza sveglia, un pasto, una brodaglia, margarina l’abbiam mai vista; a Buchenwald qualche pezzo di margarina ce lo avevano fatto vedere, qualche fetta di pane. Lì, nemmeno quello noi abbiamo visto. Una fetta di pane [tipo] mattone, [grande] come la mano, e la brodaglia di zuppa, sempre quella di margarina. Non hanno capito che se ci danno da mangiare non possiamo lavorare: vuol dire che erano molto più arretrati di noi, perché io se ho un cavallo lo mantengo bene perché mi serve per lavorare, che mi rende il lavoro, ma se gli do delle botte e non ci do da mangiare quello mi dà calci, ma non lavora. […]
Mi mettono in questa fabbrica di vagoni e tutto funzionava bene. Siccome era scritto già sulle carte e sapevano che ero uno che aveva studiato, che sapevo il mio lavoro, mi danno da fare un ponte, di quei ponti movibili per buttare sopra i camminamenti per passare coi carri armati. Il mio lavoro era molto impegnativo. C’erano le gru che funzionavano, dopo per fortuna è rimasta solo la mia che funzionava. Poi mi hanno messo a fare altri lavori, ma sempre dov’ero io solo, chiuso [tra] le lamiere, perché i lampi della saldatura davano fastidio ai borghesi. Il borghese che era capo della fabbrica, un tedesco del posto, era una brava persona, mi aveva preso in simpatia, ma non poteva parlare con me, mi doveva dare solo ordini e basta. Io avevo un tornio, avevo tutto dentro, facevo dei barattoli di alluminio col manico, che si porta a pranzo col tegame sopra. Li facevo belli nuovi, e li lasciavo sopra. Lui capiva, li portava fuori e portava dentro patate, sigarette, roba. E io portavo là [in baracca]. Però era difficile entrare con della roba: noi avevamo una stufa ma non ci permettevano di far fuoco, e noi dovevamo cuocere le patate. Allora ci voleva la legna, e il carbone che in fabbrica c’era. Eravamo in 1.500, 400 prendevano un pezzo di legno, piccolo, ciascuno. Metà li prendevano [nella perquisizione], toccava buttarli nel mucchio, là; e l’altra metà passavano […]. Mi dava le patate e le portavo dentro, e allora io dovevo essere protetto: eravamo in 40 nella baracca, se a me mi visitano, mi trovano la roba… oltre quello la baracca non mangia. Accendevamo [il fuoco], tagliavamo le patate e le attaccavamo tutte al camino, quando la patata cadeva era cotta. E avanti, diviso sempre per tutti. Al mercoledì non si lavorava in fabbrica, ci mandavano a Dessau a sgombrare le strade. Viene un certo momento che uno si accorge che sotto una cantina ci sono delle patate mezze cotte, con gli spezzoni di legno. Allora andiamo là a prendere le patate. Uno della SS si accorge, ci aspetta sulla porta: ognuno, con un tondino grosso così, lungo così, un colpo nella testa. Io mi sono alzato e l’ho preso qui [sul petto]. Mi ha fatto male ma me la sono cavata. Quattro ne ha ammazzati, ci ha aperto il cervello. Poi botte a noi per portarli là nel campo, perché eravamo andati a prendere le patate. […]
Un’altra volta andiamo sempre fuori a sgombrare. Era un mercoledì, e c’erano gli aerei americani che passavano. ‘Sto salame della SS faceva bum bum bum, ma non sparava, faceva solo finta di sparare. E c’era un muro rimasto su così e noi scavavamo sotto. Non so come questo qua si è appoggiato sul muro. Era un muro alto 20 metri, rimasto solo… e ‘sto muro ballava, e lui col fucile giocava “balla, balla”: ‘sto muro cade giù, e cade dalla parte dove sono i miei che lavorano sotto. Botte col fucile alla schiena per tutti, da scavare alla svelta per tirarli fuori. […]
Un altro mercoledì una donna, sopra, ci vede passare e ci butta una pagnotta di pane: puoi capire, una colonna di 1.500 persone, butti una fetta di pane, viene fuori il pandemonio. Hanno avuto coraggio di andar su, e ci hanno sparato eh. Quella era tedesca… ma non sarà stata tedesca, perché se era tedesca non buttava il pane. Perché solo i cecoslovacchi si facevano sparare dai tedeschi per buttarci il pane oltre i reticolati. Solo i cecoslovacchi, solo quella gente! Non mi potrò mai dimenticare di quella gente. Poi vi racconterò come ci hanno aiutati.
Così è stato il campo di concentramento. Se volete dire, le gru erano rotte, e noi lavoravamo sui vagoni, tutta roba pesante che bisognava portarla da un posto all’altro, tutto a mano. La mia gru, fortuna, era rimasta buona. È venuto il tempo di dover fare un altro ponte, gli americani erano vicini, si sentivano già le cannonate. Torno indietro: […] noi avevamo uno della nostra baracca che andava a mischiare le patate nella dispensa che era dentro nel campo – era dentro i reticolati di corrente – che le mischiava ogni giorno perché non andassero a male, levava quelle marce; bisognava far quel lavoro, e si trattava di tonnellate di patate, perché loro mangiavano, non noi, ma loro mangiavano. […] Quando bombardavano, che spegnevano le luci, e i fari non funzionavano, noi andavamo dentro per un finestrino, andavamo a prendere le patate e poi le portavamo fuori. Difatti quando ci hanno portato via di lì abbiamo lasciato sul soffitto, sopra, un quintale di patate. È morto uno solo della mia baracca, un polacco, perché era vecchio proprio. Si vede che ha preso un male, senza cura, senza niente… bronchite, tossiva sempre, ma fu l’unico morto della baracca.

D: Antonio, tu dicevi che oltre a costruire i ponti tu con altri costruivate dei vagoni speciali?

R: Sì, erano vagoni cisterna mascherati con dei compensati robusti [e] con una croce rossa, e in centro avevano le mitragliere. Fuori era compensato ma dentro c’era uno strato di cemento di 50 centimetri, tutto in cerchio, dove giravano ‘ste mitragliere antiaeree a quattro canne, e sopra c’era un coperchio scorrevole e apribile. […] A me mi serviva l’acciaio, l’acciaio buono per far coltelli, perché erano molto in voga i coltelli di acciai buoni, e poi le pentole per friggere le patate, di ferro; io avevo l’attrezzatura e le facevo, il borghese mi portava roba. Per me andava bene perché la baracca mia fumava e mangiava, e così ci siamo salvati. Ci siamo salvati così.

D: Quanto tempo sei rimasto tu in quel campo lì?

R: Siamo rimasti lì… marzo-aprile… fino ai primi di aprile del ‘45. Poi hanno proprio raso la fabbrica al suolo e ci hanno portati via. Ma torniamo indietro. […] È venuto di fare un altro ponte di questi: chi era in grado di farlo? E allora dice a me: “Guarda che devi fare quello lì, devi cercare di fare delle ore [di lavoro]”. “Ma io, benedetto, se non mi porti da mangiare, io non lavoro, perché ci vuol forza”. C’erano le saldature da fare, le saldature larghe così, con elettrodi da un centimetro, non era uno scherzo. Prima mettere assieme tutta la roba e poi saldar tutto, girare con la gru di qua e di là. Lui ha detto: “Per te ci penso io”. E io sempre dividevo, sempre con tutti. […] C’era sempre un fattore: uscire dalla fabbrica, dividere la roba per persone, quelle persone dovevano essere precise di quello che bisognava fare sennò perdevamo tutto. Perché usciti dal portone della fabbrica noi eravamo più niente. Eravamo in mano alle SS […]. Allora accetto di fare questo ponte. Siamo a metà lavoro, contenti vengono i borghesi, i proprietari e grossi ufficiali, lo guardano, non dicono niente. Mi dice il capo borghese: “Guarda, c’è da girare”. “Va beh guarda, giralo te perché io devo andare al gabinetto… almeno a quello posso andare?”.
Vado in gabinetto e trovo una ventina – un gabinetto grande, lungo – una ventina di questi prigionieri che erano lì che parlavano… perché si sentiva già le cannonate, e loro si vede che parlavano di questo. Viene un capo [kapò, ndr] di quelli tedeschi, di quelli del 33 che l’abbiamo portato da Buchenwald, c’hanno dato quelle mansioni lì, li ha fatti stare un po’ più bene, avevano una baracca a parte, mangiavano meglio, avevano dei permessi. Viene lì quello, prende il numero di tutti. Arriva lì da me, ero appena entrato, e mi dice: “Dammi il numero”. “Non ti do il numero per niente, perché devo darti il numero?”. “Perché sei qui?”. “Sono qui perché devo andare in gabinetto, devo fare i miei bisogni”. “No” – ha detto – “Mi dai il numero”. “Te mi prendi il numero, domani… Ich morgen kein essen, tu […] kaputt”. Tutti sono rimasti meravigliati. Allora lui m’ha dato uno schiaffo forte, perché aveva forza, lui mangiava. Io avevo degli zoccoli, erano pesanti così […], c’ho scaraventato due pedate nello stinco […]. Lui m’ha buttato per terra, sono venuti gli altri capi [kapò], m’han dato pedate e legnate anche loro. E poi mi hanno portato in infermeria. In infermeria ho trovato anche lui […]: “Guarda che qui ci vuole il medico. Qui è scheggiato l’osso da tutte e due le parti”. Sicché lo portano in ospedale. Per me è ora di andare in baracca […]. Quello là in ospedale è peggiorato. […] È venuto [dal] Gauleiter l’ordine di vedere com’è questa roba, che non si può permettere che uno vada contro un capo. Nel frattempo io sono andato in fabbrica, prima di tornare dentro [in baracca], mi sono seduto sul banco. È venuto il borghese, mi ha detto: “Come mai?”. “Io non lavoro più: sono andato in gabinetto – ho lavorato fino all’ultimo momento, non mi sono nemmeno lavato le ami e la faccia – a fare i miei bisogni, [e il kapò] mi ha preso, mi ha detto che mi prende il numero che domani non mangio. Io ero appena andato…”. “Ma io lo so, testimonio io” […]. Lo sapete che non potevo piangere? Avevo il singhiozzo, mi venivano giù le lacrime, sapere il disprezzo, non mangiare, dover lavorare. Che un ignorante mi possa fare una cosa del genere, senza chiedere quanto tempo, come sei, dove lavori, che lavoro stai facendo. Queste erano cose che mi davano un’offesa che non potevo piangere. E andiamo in baracca. Siamo in baracca tutti quanti, compreso Nikolai, questo russo. Tutti quanti sanno tutto, tutti han visto tutto. Quasi alle 10 di sera arriva il Gauleiter, il capo del [campo], sarebbe quello che comanda le SS, il campo, tutto […]. Viene lì con tre della SS, due col nerbo in mano, nerbi di quelli che ti fanno rimaner secchi. Viene, chiede il mio numero, dove sono io. Sono su [in] baracca, dentro. Nikolai mi dice: “Non scendere, perché qui ci deve portar via tutti”. Lui viene dentro, arriva a trascinarmi fuori: i miei mi tirano di qua, loro tirano di là. [Dei] due delle SS uno tira fuori la pistola. Ho detto, qui si mette male. Arriva una motocicletta dentro, con un ordine. Il capo borghese, che non poteva parlare con la SS, non si poteva, ha parlato col direttore di fabbrica, con quello interessato al ponte; ci ha spiegato tutto: “Questo già non mangia per fare ‘sto lavoro, ancora ci diamo delle botte dopo che ha fatto il lavoro? È l’unico in grado di poterlo fare”. […] Han mandato una motocicletta al comandante, il comandante non era nella caserma, è venuto con la moto dentro, ci ha dato questa carta. Noi abbiamo visto la carta, non sappiamo cosa era scritto. Si ritira, il Gauleiter si ritira, mi molla. SS dà ordine di uscire, di andar via. Dopo un quarto d’ora arriva il cuoco delle SS con una gamella di zuppa, con due pacchetti di sigarette e un pezzo di pane. Io c’ho detto a Nikolai – non avevo mangiato – “Mangiate voi, fate quello che volete, io non sono in condizioni di poter far niente, poi domani vedrò.” […] Io ho voluto farci vedere… “Mi ammazzerete, non mi interessa, però voglio dimostrarvi di essere più civile di voi, ma molto di più”.
Torno indietro. Un’altra cosa che è molto importante, che i tedeschi devono sapere: quando noi scavavamo fuori le bombe, che ci portavano a scavar le bombe [inesplose], mandavano le donne, mandavano i bambini piccoli, con la bacchetta, andavano in colonna a darci bacchettate per le gambe. E loro a ridere, bere il thè sulla finestra insieme alle donne. Questo è il fatto, questa è l’umiliazione. Queste sono cose che pesano. Ma come si fa a fare un’azione del genere? […]

Seconda parte

Siccome che [in] quei mesi lì erano i mesi che han bombardato dappertutto, han bombardato anche la fabbrica, han bombardato tutte le città. Addirittura Dessau l’hanno spezzonata, solo con spezzoni, ogni metro quadro uno, spezzoni che bruciano fino a… nell’asfalto andavano a tre-quattro metri sottoterra, roba potentissima, che non si è salvato niente. Loro han detto – si vede che han parlato – “li portiamo via”. Allora ci hanno messo come le bestie [a tirare] i carri, e c’han fatto camminare. Abbiamo camminato una giornata intera. Siamo arrivati in una città che non so come si chiami.
Ci han portato lì dei carri, [che trasportavano] della roba, del pane, […] in questa città [dove] non si poteva andare [per] le strade perché era tutto sottosopra. E siamo andati a portare ‘sto pane alla gente, due pagnotte ognuno, “con la speranza che ci diano da mangiare” – han detto – “se facciamo questo lavoro il comune ci dà da mangiare”. Invece non è stato così. Fortuna che eravamo all’aperto, in campagna, ogni tanto prendevamo delle brancate di cicoria e mangiavamo quelle ed è andata bene così. […] Di nuovo, prendi i carri e via in un’altra città. Abbiamo camminato due giorni e una notte. Siamo arrivati al mattino là e c’erano dei camminamenti da [tracciare]: c’erano i picchi… quella roccia friabile; due giorni senza mangiare; camminare… chi restava indietro era morto; ancora a tirare i carri avanti per portare la roba [dei tedeschi] perché cavalli non ce n’erano. Là si sono accorti che, picco o non picco, è inutile: a fine giornata non c’era nemmeno dieci centimetri di buco fatto, è inutile darci botte, legnate, se non c’è fossa non si può fare niente. Allora via di lì. Ci portano in un altro posto a fare un altro lavoro. Niente da fare, troppo esauriti. Allora vanno in una dispensa con un carro e prendono dei sacchi di orzo. ‘Sto orzo bisogna dividerlo. Eravamo 1500, e qualcuno era già morto, metti che era mancato un 50 di loro, non di più. Comunque, eravamo sempre una bella cifra: dividi qua dividi là, tre cucchiai di orzo crudo ciascuno, così era da fare, in fila, uno due tre, uno due tre. [I tedeschi] però avevano il suo pane, la sua marmellata, loro avevano la sua roba, questo si sa. Quella giornata è andata così. Poi ci portano sul [fiume] Elba, non so che città era, e ci mettono su tre barconi. Ormai non erano in grado di consegnarci a nessuno, ci dovevano far fuori tutti perché sennò erano responsabili di quello che era, di quella che han fatto, è logico. Abbiamo navigato un mese su questi barconi, sempre con queste razioni di mangiare spaventose. La gente come moriva nelle stive… Non c’era gabinetto, non c’era niente: abbiamo noi levato qualche tavola [per i nostri bisogni], fortuna che non si mangiava e così c’era poco da fare. Non c’erano letti, non c’erano coperte, non c’era niente. Bestie, come si mette le vacche, bestie e basta.
[Abbiamo] fatto questo mese di viaggio e siamo arrivati vicino Praga, a 17 chilometri da Praga. Era l’8 maggio. [Davanti a noi] c’era un bivio: da un lato era la centrale, dall’altro lato, sull’Elba, c’era un ponte bombardato e caduto. Di là del fiume c’erano le camionette dei russi che ci facevano già segnale, anche i cecoslovacchi dicevano “buttateli tutti e [lasciateli a noi], ormai la guerra è quasi finita” perché [eravamo] in una sacca, i russi erano andati più avanti, la notte son passati di lì. Non possono più andare avanti coi barconi. Fermano i barconi lì. L’Armata Rossa viene avanti, ho visto gli apparecchi. C’era una colonna di militari tedeschi sulla strada vicina, li han fatti fuori tutti, allora quelli lì hanno preso paura. Durante la notte… Ma noi non si sapeva niente, né che giorno c’è, né quando finirà la guerra, né dove eravamo: avevamo perso tutto ormai, qualunque orientamento e qualunque speranza.
Durante la notte [i tedeschi] si sono levati i vestiti [militari], han messo vestiti normali. E lungo il fiume loro erano sul rimorchiatore, non erano sulle chiatte; loro erano nella barca motore dietro, che faceva la guardia, e ogni tanto di giorno venivano a vedere chi era vivo e chi era morto: morto, puf, nel fiume, e via. A un certo momento ci alziamo al mattino e non li troviamo più. Viene qualcuno con la moto, ci dice: “Guardate, siete liberi, loro sono scappati”. Andiamo in terra, abbiamo paura anche ad andare in terra. Mi ricordo come adesso: c’erano i corvi che avevano fatto i nidi in questo bosco, questo triangolo [di bosco], ma ce n’era tanti, ce n’era cinque-sei nidi per pianta. Allora io che da bambino sono sempre andato sugli alberi mi sono arrampicato e ho cominciato a buttar giù ‘sti piccoli. Allora accendi il fuoco col cotone, perché non avevamo fiammiferi. Un pezzo di cotone, due tavole, una sfregata: cinque minuti e c’era la brace già bella pronta. Difatti col cotone si fa anche l’esplosivo, noi questo lo sapevamo. Abbiamo mangiato, il primo giorno tutti. Però abbiamo visto che siamo in pochi, difatti poi ci hanno contato: 900 eh, partiti in 1500. […]
Ma il bello deve ancora venire. La notte è passata l’Armata Rossa – bim bum, spara di qua spara di là – e noi siamo andati in una fabbrica di tabacco, e [lo abbiamo cosparso] per terra, “guarda che bello, finalmente una dormita”. Poi viene un vecchietto lì del posto, un cecoslovacco: “Ragazzi uscite tutti, perché se no con quel gas lì domani mattina voi siete tutti morti, perché quello lì è veleno, è un gas che deve fermentare”. Allora siamo usciti e siamo andati in una stalla. Il contadino ci ha dato un secchio di latte; ormai eravamo già allargati, chi è andato di qua chi è andato di là, eravamo rimasti in pochi. Ci ha dato delle patate sode e questo latte. Abbiamo mangiato così, con le mani, come le bestie, perché non avevamo niente, né cucchiai né niente.
L’indomani ci portano a Praga, eravamo vicini. Siamo a Praga, cosa facciamo? Han detto: “Andate per negozi che ci vi danno qualcosa, dovete vestirvi, tirar fuori [i vostri], lavarvi”. Ci mettono in tre-quattro per famiglia a Praga, ci danno da mangiare, da vestire, ci mettono a posto, ci danno il bagno, tutto. Poi ci passano la visita e dice: “Fra tre giorni vi trovate tutti in stazione che vi portiamo in un campo di smistamento”. Allora andiamo in giro, per Praga, di qua di là.
Anzi, devo dire prima [una cosa]. Quando ci hanno portato a Praga che abbiamo fatto tutti quei chilometri a piedi, ogni paese tutta ‘sta gente veniva con le pinte di caffelatte, coi dolci, col pane, fin troppo, fino a vergognarsi da dover dire “no basta, abbiamo già mangiato già in quel paese là”. Ogni paese ci facevano riposare, arrivava ‘sta gente, sembrava che sapessero… Insomma, una cosa… una cosa che ancora adesso mi commuove, a pensare quella cosa lì. Mentre gli altri ci han trattato in quella maniera, come ci han trattato…
Allora, ci portano là, ci danno ‘sti vestiti, ci mettono a posto, e noi andiamo in stazione. In stazione ci sono dei russi che scaricano delle cassette di uova sode colorate. Ogni tanto [qualche uovo] cadeva e lo mettevano da parte. Noi ci abbiamo detto: “Possiamo prenderle?”. “Prendete finché ne volete”. Io avevo il berretto, ne ho preso un berretto pieno, gli altri lo stesso. Siamo andati lì un po’ avanti nel fosso per non sporcare, le abbiamo pelate e le abbiamo mangiate. Ne abbiam mangiate [tante] che… io meno, gli altri non so, non li ho visti. Sono andato in coma, quattro giorni in coma: Mi sono trovato a [incomprensibile], mi han preso gli amici, mi han messo sul treno, con la testa fuori del vagone; e mi hanno detto [poi] che fino in Ungheria ho sempre buttato fuori.
Ci hanno portato in Ungheria, in un campo che erano tutti italiani, e c’era il comando italiano con gli ufficiali italiani. Ecco perché abbiamo perso la guerra: siamo stati quattro mesi lì a aspettare che arrivino ‘sti vagoni. Noi abbiamo perso la guerra perché avevamo delle signorine come ufficiali! Prima di tutto non dovevano accettare la guerra, perché dovevano capire gli intelligenti ufficiali che noi siamo un fuscello rispetto al mondo. Ed era solo che da perdere e far stragi. Invece di dire “otto milioni di baionette” dovevano dire “otto milioni di gente scalza”. Perché in Grecia la gente [arriva] tutti congelati. Come si fa? Ma dalla Russia, con le pezze ai piedi: come si fa vincere una guerra così? Questi dovevano essere processati, dal tenente a tutti gli ufficiali. “Adesso voi fate tutto quello che avete fatto fare alla gente” […]

D: Antonio, quando sei rientrato in Italia?

R: A [incomprensibile] si aspettava che arrivassero ‘sti vagoni, e i russi ci facevano lavorare, lì, che avevano una santabarbara da far saltare sulle granate. Ma non andava tanto bene, era un lavoro che non mi piaceva. “Ho giocato tanto con le bombe, adesso la guerra è finita e non voglio fare [più]” E allora ho trovato il sistema di sgattaiolare. Però, posso dire, ci davano da mangiare a volontà. Noi eravamo in ventisei italiani [mentre] gli ungheresi erano tutti spariti, erano tutti con i tedeschi. Finché non sono andati via i russi di lì non si è fatto vedere nessuno. Ci [sono voluti] dei mesi perché ogni tanto arrivasse qualcuno. Allora ci hanno dato una casa. “Chi vuole” – han detto – “si faccia da mangiare da solo, viene qui il capo baracca, fa la nota del personale che c’ha, e noi ci diamo i viveri e fanno da mangiare”. Io ero insieme con degli alpini, con altra gente dell’esercito. Internati politici erano pochi perché ormai eravamo sparpagliati. Dov’ero io ero il solo [deportato politico] italiano rimasto, erano tutti stranieri. Ci avevano diviso: [ad] ogni nazione han dato il suo campo. Noi prendevamo il tabacco; c’erano i sacchi [che contenevano] tabacco tagliato: a noi ogni settimana ci veniva uno di quelli. Fai il conto: 25 grammi di tabacco ciascuno al giorno – che io ne ho portato a casa uno zaino perché fumavo poco – 25 grammi di lardo o pancetta [da] mangiare col pane, 700 grammi di pane e 25 grammi di zucchero. E poi caffè, che non era caffè ma era orzo, quello a volontà: caffè non c’era, va ben. Se volevamo [c’era] anche il latte, latte in polvere, quello che adoperava l’esercito, ma noi quello non l’abbiamo mai preso. Sicché il mangiare, vi dico la verità, era troppo. All’inizio mangiavo dove avevano fatto la mensa, erano sette italiani che facevano da mangiare, tutto al modo nostro. Noi abbiamo fatto le tettoie, noi abbiamo fatto i tavoli, noi abbiamo fatto le panche. Noi italiani facciamo tutto. Noi abbiamo fatto i bidoni per buttare lo scarto, [anche se] qualcuno buttava fuori. Qualcuno faceva il minestrone – era più carne che fagioli – buttava i fagioli e mangiavano la carne, poi buttavano per terra […].
Ad un certo momento dice l’ufficiale russo: “State a sentire, qui vogliamo fare qualcosa visto che bisogna stare ancora insieme. Chi vuole venire con me, prendiamo due camion, andiamo in Austria, prendiamo un po’ di strumenti” – perché sapeva già, chi suona quello chi suona quell’altro, io anche suonavo la chitarra – “e mettiamo su un teatro”. “Teatro?”. “Non aver paura, vedrai che facciamo”. Siamo andati in Austria, ci han comprato – comprato, cosa ne so io? – ci hanno dato questi strumenti, li abbiamo messi sul camion, abbiamo provato [e] funzionano. E siamo venuti a [incomprensibile]. Lì c’erano due camion di tavole: abbiamo fatto il palco, abbiamo fatto tutte le panche, abbiamo fatto tutto, nel tempo di una settimana dopo arrivati lì. C’erano già altri prima [che arrivassimo noi], c’erano già gli ufficiali lì, ma erano troppo ignoranti per capire. Abbiamo fatto la squadra di calcio quando eravamo contro i russi, e c’era il comandante che era più rabbioso quando prendevamo il goal noi che non quando lo facevamo, che voleva sempre che facevamo vedere a loro come si fa. Perché quattro mesi erano lunghi, quattro mesi li abbiamo passati così. Almeno abbiamo passato il tempo. Poi [avevano] da dire che gli italiani in cucina erano quelli che rubavano. Un giorno arriva la pattuglia – la sera eravamo liberi – e prendono [uno] con un sacco di zucchero che lo andava a vendere. Tasta, guarda, fa il buco: “Zucchero! Torna indietro, portalo indietro, non fare lo scemo”, Che già si capiva bene il russo: io ero quasi tutto [il tempo] coi russi, tedesco m’arrangiavo, dopo il russo l’ho imparato. L’han fatto portare indietro e non c’han fatto niente… Perché rubare? C’abbiamo tanto che vogliamo! Per darcelo a quelli là? Che gli ungheresi son peggio dei tedeschi: la razza seconda peggiore che ho trovato sono gli ungheresi eh, questo è un fatto.
Viene il momento in cui arrivano ‘sti carri bestiame, aperti, non chiusi. Han detto: “Arrivano dall’Italia”. Infatti era scritto ‘Italia’. Io sono partito [con] la seconda andata, perché quelli che erano prima di me lì sono partiti prima.
Eravamo in quattromila lì: duemila son partiti e siamo rimasti in duemila. Dopo un quindici giorni è arrivato il treno, tutto aperto: “Se piove qui come facciamo? Sarà un po’ di tempo da navigare per arrivare”. “Dobbiamo arrivare in Austria, però bisogna fare il giro per Monaco di Baviera”. Eravamo in Ungheria e bastava andare a piedi, eravamo già in Austria. No, abbiam dovuto andar su, in Germania, perché la ferrovia era per l’esercito, era per loro, americani e russi, serviva a loro. Questo devo ammirare, che l’ufficiale russo che comandava, non i militari russi; quello era un uomo. Ha mandato i carri scoperti, conosceva già tutto il tragitto. Ci fermammo in un posto dove lui aveva già preso le tavole per fare il teatro. “Qui dobbiamo star fermi due giorni”. Abbiamo fatto [di] ogni vagone una baracca – questo ve lo giuro – e lui rideva che non finiva più. In centro abbiamo messo la carrozza passeggeri per i soldati russi, e subito dietro la cucina da campo, [che] ha sempre funzionato. Quando era ora di pasto: “Ferma, adesso si mangia”. Non abbiamo mai mangiato in corsa, abbiamo sempre mangiato fermi. Per dormire lui ha telefonato e ha detto di andare là. Allora è andato – comandava lui il treno – in un posto e c’erano delle brande, ma non c’erano materassi: “Ragazzi, materassi non ci sono, solo brande!”. Allora fil di ferri, ligar sopra, ligar sotto, una branda, l’altra branda: castelli a due [piani]. Ragazzi, questo ve lo posso giurare. Questo ha fatto quest’uomo. Un mese ci abbiamo impiegato. Siamo arrivati in Austria, in mano agli americani. Gli americani ci danno un pacchetto di sigarette, una cioccolata. Cioccolata non avevamo mai vista. Ci han dato di tutto, ma cioccolata…
Poi vengono con quel DDT in polvere, ci [disinfettano] qua e là, dappertutto, e ci mettono lì, dove c’erano i letti. Quella cioccolata è durata quattro giorni! Ci hanno messo sui treni dopo, treno passeggeri, per venire in Italia, e quando siamo arrivati dopo quattro giorni sul confine italiano la prima cosa che han fatto, han suonato ‘Il Piave mormorò’. Avevano le ceste di panini: due ceste, duemila persone! Due ceste, cinque minuti erano sparite. E poi non si mangiava. E ‘Il Piave mormorò’: carabinieri sulla passerella, camminavano. Allora metti in moto il treno e avanti, altra stazione. Di nuovo la musica, ‘Il Piave mormorò’. […] Nessuno prende panini, i cesti sul treno. Andiamo nel paese dopo e loro suonano quello che vogliono. Noi scendiamo dal treno, tutti duemila. Duemila in città, in tutti i negozi; i carabinieri [sono] restati lì di stucco perché eravamo duemila, mica uno. Andati in tutti i negozi, ci siamo riforniti con ceste, con robe, perché sapevamo che dovevamo arrivare fino a Verona, con pane, con panini, prosciutti, tutto quello che c’era. [Chiedevamo che pagassero alla gente quello che avevamo preso], non ‘Il Piave mormorò’. Tenetevelo pure, noi teniamo il pane!
Sono arrivato a Verona. Ci hanno messo nel campo, con le tende già preparate dai militari, ci hanno visitato, siamo stati un paio di giorni, ci hanno dato da mangiare, ci hanno dato dei soldi, il biglietto. Ci hanno divisi – sud, nord, est, ovest e via avanti – ci hanno dato il biglietto e siamo venuti a casa. Non è finita. Quando sono arrivato a casa, arriva la cartolina di andar militare, cartolina rosa. Come, non avevo fatto già abbastanza io? Ogni tre mesi arrivava la cartolina. A un certo momento io mi rifiutavo, questo è logico, e loro a tutti i costi volevano… cosa volevano poi non lo so nemmeno io. Un giorno arriva un brigadiere a casa mia, c’è mia moglie: “Non avete il postino per mandare la posta? E viene lei in casa mia?”. Ha detto: “Ho avuto ordine di portarci io la cartolina”. “Perché la cartolina, per cosa? Tanta paura avete? Avete paura che facciamola rivoluzione? No, la facciamo ancora perché quando siete voi d’accordo con noi di fare la rivoluzione, che voi avete le armi, con le vostre armi dobbiamo fare la rivoluzione. Quando voi siete d’accordo con noi faremo la rivoluzione, perché noi armi… Comunque, quella carta lì, che lei ha in mano, se la tenga pure perché io ho fatto già la prigionia, io ho fatto già il partigiano, io ero esonerato, e cercate di mandarmi il congedo, perché io ero esonerato, ho lavorato per il governo”. Allora quello lì è stato bravo: “Ha ragione. Io queste cose non le sapevo”. Ed era quello che era appena venuto brigadiere nel paese, comandava. Ve lo giuro che dopo due mesi m’hanno mandato il congedo con trentasei mesi di ferma e m’hanno dato tutti i soldi della paga di militare di quella volta – mia moglie testimonia – ottomila lire. Pochi erano, non importa, m’hanno servito. E non mi hanno più seccato, ma ve lo dico che mi hanno rovinato bene.

D: Antonio, tu non sei mai stato intervistato in questi 55 anni?

R: No, mai. Nessuno m’ha mai chiesto com’ero, dov’ero, niente. Ho fatto [richiesta], m’han mandato la Croce Rossa la carta dov’ero, ho consegnato, ma m’hanno riconosciuto in ritardo: io il premio di inizio l’ho perso perché non ero al corrente delle cose. Infatti, quello l’ho perso io, e difatti sul ‘libro mastro’, il libro grande degli internati politici io non risulto.