Baroncini Nella

Nella Baroncini                                                

Nata il 26 agosto 1925 a Bologna

Intervista del: 22/08/2000 a Bologna

realizzata da Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n. 39 – durata: 58′

Arresto: 24 febbraio 1944 a Bologna

Carcerazione: a Bologna

Deportazione: Fossoli e Ravensbrück

Liberazione: 30 aprile 1945 a Ravensbrück

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Baroncini Nella, sono nata a Bologna il 26 agosto del ‘25. Ho sempre abitato a Bologna. Tutta la mia famiglia è stata arrestata il 24 febbraio del ’44. Siamo stati arrestati dalle direttamente SS. Prelevarono nostro padre dall’officina dove lavorava, vennero a casa nostra. Abitavo a Bologna, non dico la via. Ci trovarono tutti a casa: eravamo tre sorelle, la mamma e il babbo che è stato prelevato all’officina. Quel giorno lì eravamo tutte a casa perché mia sorella era stata licenziata: eravamo in tempo di guerra, quindi una sorella era a casa licenziata, un’altra sorella lavorava in una fabbrica fuori Bologna; e quella mattina era a casa, io stavo andando in ufficio, ero ancora a casa che stavo mangiando il caffelatte. Ci trovarono tutti a casa e ci prelevarono tutti quanti.

D: Perché vi hanno arrestato?

R: Naturalmente deve essere stata una spiata. Abitavamo in una casa popolare, avevamo una macchina da scrivere in casa, facevamo un lavoro di stampa: stampavamo, i ciclostili per l’Unità, per la Lotta – un giornale locale bolognese – per il movimento delle donne, adesso mi ricordo come si chiamava esattamente allora … il movimento di liberazione della donna mi sembra. Praticamente noi eravamo tre sorelle e sapevamo tutte e tre scrivere a macchina; eravamo impegnate a fare questo perchè pensavamo fosse utile per la Resistenza. Noi eravamo solo ragazze, però abbiamo pensato che non ci sembrava giusto non fare niente. Non abbiamo fatto molto perché come ho detto il 24 febbraio del ‘44 eravamo ancora in principio della Resistenza, ci presero.

Ed è cominciata l’odissea della nostra famiglia, che è stata una tragedia nella tragedia.

Era una mattina, aveva nevicato tutto il giorno prima; io ricordo che non poterono neanche venire sotto casa, ci dovettero portare in mezzo alla strada perché c’era la neve alta. Ci portarono direttamente al comando delle SS, allora era in viale Risorgimento. Ci han tenuto lì fino a sera, ci hanno diviso, hanno trattenuto mia sorella, che si era presa la responsabilità del lavoro che facevamo in casa. Quindi trattennero mia sorella e mio padre lì al comando delle SS; noi ci portarono al carcere di Bologna, San Giovanni in Monte: io, una sorella e la mamma.

Mia sorella e mio padre sono stati torturati, sono stati interrogati per un mese, sono stati nel sotterraneo delle SS, hanno subito tutto quello che era possibile subire, e dopo un mese vennero portati anche loro a San Giovanni Monte, dove siamo rimasti fino ai primi di maggio, quando siamo stati trasferiti a Fossoli, nel campo di Fossoli. Siamo stati lì altri tre mesi, nel periodo in cui fucilarono i settanta  di Fossoli.

A Fossoli tutto sommato non stavamo neanche male, anche perché a Fossoli c’eravamo riuniti, eravamo assieme anche a nostro padre …  non sapevamo più niente di lui. Tutto sommato a Fossoli eravamo ancora in Italia, ci sembrava di stare male ma in confronto a quello che abbiamo passato dopo, pensando a Fossoli non si stava male del tutto. Però ci fu quella fucilazione dei settanta, poi c’erano parecchi compagni che conoscevamo, parecchie persone.

E quella fu una cosa abbastanza tragica.

Verso la fine di luglio partì l’ultimo scaglione di uomini, fra cui c’era nostro padre, non sapevamo per dove, poi dopo ho saputo …

D: A Fossoli vi hanno immatricolato?

R: Sì, ci hanno immatricolato, però non ricordo il numero di matricola di Fossoli.

D: Neanche la baracca ti ricordi?

R: In un primo tempo ci misero in una baracca insieme a tutti gli altri. Poi dopo ci hanno diviso nelle baracche delle donne, che erano quelle lungo la strada. Sì difatti è l’unico di cui n’è rimasto un pezzo, delle due baracche delle donne. Lungo la strada c’erano le baracche degli ebrei, poi c’era una suddivisione e c’erano le due baracche delle donne. Da lì noi facevamo anche un po’ le staffette lì dentro: perché c’era, parlavo col sindaco di Carpi, una casa di contadini lì di fronte e noi facevamo un po’, sapete i parenti che venivano si fermavano in questa casa e noi attraverso la strada ci facevamo dire il nome di chi cercavamo, li andavamo a cercare nel campo, e li portavamo. Facevamo praticamente un po’ il lavoro di staffette anche lì dentro. Lì a Fossoli siamo stati tre mesi. Poi ci si parlava, parlavano del trasporto in Germania e tutto quanto, ma non sapevamo che cosa volesse dire naturalmente. Noi siamo state l’ultimo gruppo di donne che sono partite; anzi pensavo che fossimo state l’ultimo gruppo invece ho saputo da Varini che erano rimaste lì un gruppo di cinque-sei ammalate che partirono dopo di noi.

D: Siete partiti prima voi o prima il vostro babbo?

R: Papà è partito verso la fine di luglio; noi siamo partiti i primi di agosto, mi sembra il 2 di agosto, dovrebbe essere il 2 di agosto. Praticamente siamo state l’ultimo gruppo, eravamo in quarantacinque: un po’ politiche e una parte di ebree. Ci caricarono, abbiamo passato il Po con il barcone, ricordo, ci siamo fermati a Verona una notte. Lì cominciarono a fare la separazione specialmente per quanto riguardava gli ebrei e il mattino dopo ci hanno messo sul carro bestiame, da Verona. Io ricordo che naturalmente il carro bestiame.. era proprio un carro bestiame, eravamo peggio delle bestie, stretti, senza poter tossire, senza poterci sdraiare. Mi ricordo che quando passò la notte, la mattina quando aprii gli occhi e vidi scritto stazione di Bressanone … allora non sapevo neanche, comunque ho capito che eravamo al confine, verso la Germania, verso l’Austria.

D: A Verona dov’è che vi hanno sistemati?

R: Non so esattamente, penso che fossero delle caserme. Ricordo un cortile in cui ci radunarono la mattina dopo; mi ricordo un camerone che stemmo lì sdraiati in terra tutta la notte, però esattamente non ti so dire che cos’era, penso che fosse una caserma.

D: E con te c’era la Iole

R: Eravamo tre sorelle e la mamma; la Iole, la Lina, io e la mamma.

D: Mentre invece appunto il tuo babbo?

R: Era partito prima non sapevamo più niente, non sapevamo che cosa fosse …

D: Mamma come si chiamava?

R: Benini Teresa

D: A Bressanone poi cosa è successo? Il cognome della mamma scusa?

R: Benini Teresa.

A Bressanone niente, il treno è proseguito. E poi ricordo, non è che avessimo dei gran finestrini, c’era il finestrino dei cavalli, con naturalmente le sbarre, quindi guardavamo un po’ fuori dove potevamo; e ricordo, perché siamo stati quattro giorni, perché siamo arrivati a destinazione il giorno 6 agosto. Ricordo, queste erano foreste, capivamo che andavamo verso il nord della Germania, anche se non è che fossimo molto pratiche dell’estero perché non avevo mai viaggiato molto. Poi ci fermavano un po’ alla sera, qualche volta, non mi ricordo forse ci facevano scendere. Però so che era un macello quattro giorni in questo carro bestiame, naturalmente puoi immaginare, non ricordo neanche quanti eravamo. So che da Fossoli eravamo partiti in quarantacinque, ma dopo sul carro credo che fossimo anche di più perché a Verona avevano caricato altra gente.

Quando finalmente siamo arrivati a destinazione abbiamo visto Ravensbrück, naturalmente non sapevamo né che cosa era né che cosa significasse. Ci hanno fatto scendere, a spintoni, a calci; ci hanno fatto mettere per cinque, abbiamo attraversato un bellissimo boschetto, con delle belle villettine con dei gerani alla finestra, che in un primo tempo ci si è un po’ allargato il cuore, perché abbiamo detto: “Be’ insomma se è così non è poi neanche male del tutto”. Poi allora avevo diciotto, diciannove anni, quindi c’è una gran fiducia, c’è una gran voglia di credere, non si vuol pensare troppo male. Quando invece siamo arrivati all’entrata del campo, lo scenario, naturalmente, è cambiato completamente.

Lì abbiamo cominciato a vedere che cosa voleva dire un campo.

D: Il treno non si è mai fermato?

R: Sì. Si fermava qualche volta. Mi sembra che si è fermato qualche volta alla sera, non mi ricordo se scendevamo se dovevamo andare a vuotare questa specie .. o quello che era. Ricordo solo che non ci si poteva né sedere né sdraiare, bisogna fare i turni per metterci un po’ a sedere perché eravamo talmente stretti … ricordo i disagi: essere chiusi in un carro bestiame senza poter uscire, senza poter bere; da mangiare avevamo qualche cosa di rifornimento che ci avevano dato a Fossoli, avevamo con noi mi sembra del formaggio, della roba, però non c’era da bere e soprattutto erano i bisogni corporali … era una cosa bestiale, non eravamo ancora abituati. Dopo purtroppo abbiamo dovuto anche abituarci anche a quello, però allora venivano ancora dall’Italia.

D: L’ingresso del  campo di Ravensbrück come te lo ricordi?

R: Mi ricordo questo: come siamo entrati ci hanno messo dentro delle docce che erano a destra dell’entrata. Ci hanno messo lì e c’erano con noi delle ebree, noi pensavamo che fossero delle esaltate, che ci dissero: “Non aprite l’acqua, non aprite il rubinetto perché viene fuori il gas. Noi naturalmente ci siamo messe a ridere, non pensavamo neanche lontanamente che potesse esistere qualcosa del genere. Finché dopo qualcuno ha provato ad aprire, invece quella volta venne fuori l’acqua sul serio. Siamo stati lì tutta una notte e il giorno dopo. Il giorno dopo ci portarono una specie di zuppa di cavoli, impastata con dell’orzo, con qualche cosa, che dopo sarebbe diventata una cosa buona, ma quella volta lì naturalmente ci siamo rifiutate proprio di mangiare perché avevamo ancora qualche cosa dal campo di Fossoli. Solo che quello che ci ha spaventato è vedere quel poco che riuscivamo a vedere del campo: questa gente che sembravano tutti degli alienati, gente che andava a rimescolare dentro i rifiuti per esempio. E quello che riusciva a venire vicino alla baracca, ci diceva di dare tutto quello che avevamo perché tanto ci avrebbero preso tutto. Noi sempre in buona fede, naturalmente non ci credevamo; però nel vedere questa gente che sembrava di un altro mondo, pensavamo che fosse gente che si fosse lasciata andare; non pensavamo che dopo poco saremmo state ridotte così anche noi. Ci ha fatto un certo effetto, non riuscivamo ancora a renderci conto di quello che poteva essere il campo. E poi quando è finito, il giorno dopo, abbiamo fatto la nostra doccia e tutto quanto, ci han fatto spogliare tutti quanti nudi; naturalmente dopo ci abbiamo fatto l’abitudine, ma le prime volte, specialmente pensare alla mamma che … Allora pensavo che avesse una certa età, aveva cinquant’anni, non era così vecchia; però allora, a quell’epoca noi, nostra madre non l’avevamo mai vista neanche in sottabito. Quindi pensare a doversi spogliare nuda di fronte a tutti per lei .. oltre all’umiliazione nostra, noi ci potevamo anche rassegnare, è che stavamo male a pensare, a vedere la mamma …

Ci hanno spogliato tutte; ci hanno fatto tutte le visite del caso; alcune le hanno rapate a zero, magari quelle che avevano i capelli migliori; e poi ci hanno dato due stracci, un paio di mutande, mi ricordo che erano sempre grandi, una specie di sottabito e un vestito. Allora eravamo in agosto, era un vestito che aveva le maniche corte, aveva due croci di stoffe diverse che erano praticamente il segnale del campo. Era un lusso avere la divisa. E ci diedero questo vestito, roba che abbiamo tenuto per dieci mesi praticamente. Ricordo che quando dovevamo lavarlo dovevamo girare con la roba in mano finché non si era asciugato perché non potevi appoggiare niente, perché se appoggiavi qualche cosa spariva.

Questo è stato l’arrivo al campo. Abbiamo fatto per venti giorni la quarantena, così chiamata, non si andava a lavorare, si andava fuori all’appello alla mattina. Abbiamo cominciato a capire un po’ l’andamento del campo: alle 4 della mattina c’era la sveglia, a urla e spintoni bisognava andar fuori, si stava fuori fino alle 7 e mezza, cioè due o tre ore in piedi, ma lì eravamo ancora in agosto in principio andavamo ancora bene. Poi nel periodo di quarantena c’erano le visite. Finito l’appello ci mettevano davanti al Revier, a questa specie di ambulatorio dove dovevamo fare le visite, nude naturalmente; dovevamo stare lì tutta la mattina nude. Ricordo che una volta la mamma poverina sempre a tenere le mutande, passò un tedesco gli diede due sberle perché naturalmente aveva le mutande. E lì alla fine ci fecero varie visite, io avevo solo diciannove anni, allora eravamo anche ingenue e tutto quanto, compresa una visita ginecologica naturalmente che fu una cosa tragica quasi. Magari ci tenevano lì tutta la mattina e poi alla fine ci guardavano in bocca, forse volevano vedere se qualcuno aveva dei denti d’oro. E questi furono i primi venti giorni di quarantena, ed eravamo ancora tutti assieme, tutte le italiane assieme.

D: L’immatricolazione quando ve l’hanno data?

R: Quella ce la diedero nella spoliazione: ci diedero questi due stracci e ci diedero il triangolo rosso e il numero di matricola. Il mio numero di matricola era 49.553: c’era mia sorella Angelina, era la prima, poi c’era la Iole, io quindi ero il 51, 52, 53, la mamma non mi ricordo se era il 54, se era subito dietro di noi dato che era Benini anziché Baroncini. Non ricordo esattamente se il numero della mamma era in seguito al nostro o forse era uno di più perché in mezzo a noi. Dopo c’era anche un’altra, era una di Savona mi ricordo, che era un pochino più anziana della mamma, che dopo rimase assieme a noi al nostro gruppo.. Dopo i venti giorni di quarantena una mattina, dopo l’appello ci misero in fila per andare a lavorare, ci dettero un badile … Era il 26 agosto, è il giorno del mio compleanno tra l’altro.. pensai che mi facevano il regalo di compleanno. Con noi, nel nostro gruppo c’erano le due della vicenda di Cuneo, c’erano delle intellettuali di Milano, c’era Maria Montuoro. C’erano parecchie persone, nessuno naturalmente sapeva tenere un badile in mano. Ricordo che ci mandarono a caricare sabbia con quei carrellini: dovevamo caricarli, trasportarli, vuotare da un’altra parte. Penso che non fosse molto utile come lavoro ma dovevamo farlo e quello era il lavoro che ci facevano fare in un primo tempo. E abbiamo fatto per qualche giorno quel lavoro lì.

D: Anche mamma?

R: No. La mamma era riuscita a stare in baracca; doveva fare però il lavoro a maglia. In baracca erano in due sedute su un panchetto, una davanti e una di dietro, e poi dovevano lavorare. Io sono sempre riuscita a non farla venire almeno fuori all’aperto a lavorare. E’ sempre stato un lavoro continuo. E poi, dopo, naturalmente abbiamo cominciato a sentire la fame: i primo giorno abbiamo rifiutato sì di mangiare i cavoli, dopo erano rape che erano ancora più tristi dei cavoli; il pane il primo giorno non ci piaceva, però dopo era diventato l’unica cosa mangiabile, era un pane nero, credo che fosse fatto appositamente per i deportati, quindi non so che cosa ci fosse in mezzo. Ad ogni modo era l’unica cosa che si mangiava, perché le rape nonostante la fame erano proprio tristi, si faceva proprio fatica a mangiarle perché erano dure, legnose, proprio senza niente, non c’era proprio niente, niente.

Ad ogni modo quella era la nostra razione di mangiare, era quasi sempre quella lì che mi ricordo io. La sera invece delle rape c’erano delle patate, solo che, finita la quarantena ci cambiarono anche di baracca: noi quattro, assieme a una di Savona, mi ricordo che era più anziana della mamma, andammo in una baracca; tutte le altre italiane rimasero in una baracca diversa. Eravamo proprio sperdute lì in mezzo, tanto è vero che provai ad andare a letto ricordo che suonò l’allarme: fecero un appello di sera, che non avevano mai fatto. Quando tornammo dentro c’erano le luci spente, provai ad andare su questo letto ma mi presero a pugni e a calci finché ho dovuto venire giù. Mi sono messa lì, per la mamma non c’era il posto l’avevano messa con un pagliericcio lì in terra sotto la finestra, io sono andata lì con lei. E ricordo che lì dopo succedeva questo: provavamo ad aprire un po’ la finestra, cominciammo a litigare, allora venne la capo blocco, capì che non avevo il posto per andare a letto, mi presero per un braccio e mi misero su dei castelli dove erano già in quattro. L’han già spiegato in tanti: erano castelli di legno, pagliericci che non avevano più la paglia, ci stavi in due, una dalla testa e una dai piedi; quindi lì dove mi portarono c’erano già in quattro su due di queste piazze, quindi io dovevo fare la quinta, su due piazze praticamente ero proprio completamente in più. Per fortuna erano italiane, non hanno avuto il coraggio di prendermi a pugni e di mandarmi giù; ho dovuto stare lì per un pezzo, ho dovuto stare lì con loro.

La vita del campo è indescrivibile quella che poteva essere la vita del campo.

D: La vita del campo, cosa ci puoi dire della vita del campo?

R: Cosa si può dire della vita del campo? Era una cosa che non so come si possa descrivere, perché per quanto si descriva una cosa brutta, non si può arrivare a capire quello. Intanto la cosa che ti colpiva di più era la gente che vedevi intorno. Praticamente ti trovavi vicino dei cadaveri, insomma tu vedevi dei cadaveri con la pelle, vedevi solo la pelle della gente, gli occhi aperti. Io ricordo che una volta, non so come, mi trovai seduta vicino alla baracca, si vede che era un giorno che non si lavorava. Non so, mi trovai vicino quelle fotografie che si vedono nelle mostre, nelle cose; io vidi una di quelle lì che aveva la bocca aperta, gli occhi aperti … ancora adesso non so se era viva o se era morta. Tu vedevi solo della gente di quel genere lì.

Nel campo di Ravensbrück tra l’altro c’erano parecchi zingari, quindi c’erano anche dei bambini. La prima volta che li vidi, mi sono venuti in mente i documentari che facevano a quell’epoca: i fascisti naturalmente facevano vedere i bambini della Russia, come si vedono anche adesso purtroppo, come degli scheletri. Come ho visto mi è venuto subito in mente quel fatto lì, l’ho messo subito in relazione: venivano a prendere i bambini per questi documentari.

Quello che ricordo questa gente, gente che non era gente, eravamo … Lì, ad un dato momento cosa fai? A diciannove anni, non pensi di dover finire in quel modo lì, quindi hai sempre un po’ di speranza. Allora in principio abbiamo cominciato a parlare naturalmente soprattutto di ricette. Allora ognuno faceva l’invito, compresa l’Enrichetta, che viveva in montagna, e ricorderò sempre che alla fine quando si parlava di ricette diceva: “Io che ricetta vi posso dare? Io l’unica ricetta che posso darvi è la polenta di fagioli”. Ricordo quel particolare lì, che si prendevano degli appunti, adesso non mi ricordo, perché non avevamo mica niente, qualche pezzo di matita che ero riuscita a trovare, si facevano anche delle punte, c’è chi ha portato a casa anche delle ricette addirittura.

Ma l’unico pensiero era quello lì: il mangiare, il ritorno.

E poi passò settembre, era passata l’uva. Passò l’ottobre erano passate le castagne. Arrivammo a Natale abbiamo detto: “Qui non si torna più a casa”. Quindi quando siamo arrivate a Natale abbiamo smesso di sperare di arrivare a casa naturalmente, perché eravamo già messe piuttosto male. Noi della mia famiglia eravamo in quattro: abbiamo cominciato a fare i turni nelle infermerie, siamo riuscite finalmente a trovare due cucce per stare tutte e quattro insieme, però non riuscivamo perché una o l’altra era sempre in infermeria. Cominciò prima mia sorella Lina con il tifo; addirittura andò nella baracca del tifo che fece una vita, naturalmente lì si trovava la gente morta nel castello. Dopo andai io in infermeria, poi andò la Iole. Insomma abbiamo fatto sempre un po’ il turno ad andare in infermeria, tanto è vero che dopo ci lasciavano soltanto due letti perché tanto in quattro non c’eravamo mai.

Dopo cercavamo di scegliere i lavori. Per un pezzo mi ricordo che ci misero a fare … dunque il pavimento era tutto sabbia a Ravensbrück; la pavimentazione era fatta con il carbone e mi ricordo che c’è stato un periodo che andavamo a scaricare questi vagoni dietro dal campo, non molto lontano, col carbone, li dovevamo caricare su delle carriole piene naturalmente e trasportare su questa sabbia che dovevamo mandare avanti. E poi c’era chi faceva la pavimentazione, dopo dovevamo passare con il rullo: c’era il famoso rullo presente in quasi tutti i campi, è rimasto il simbolo anche di Ravensbrück naturalmente; e poi c’era un gran tubo lungo che doveva bagnare, bagnare con l’acqua. Quello era anche un lavoro abbastanza leggero, però far venire l’ora del rancio della sera era abbastanza lungo.

Quello è uno dei primi lavori, dopo i carrelli della sabbia e poi dopo cercavamo di andare; quando restavamo, cercavamo di scappare, in baracca non ci si poteva stare. Ti mettevano in fila in mezzo al campo, dovevi aspettare di andare a trasportare i bidoni del rancio, quindi non era una gran bella soddisfazione neanche quella: mi ricorderò sempre che una volta eravamo lì in fila, passò un tedesco, disse qualche parola in tedesco naturalmente, qualcuno, non so se era proprio l’Enrichetta o se era la Giovanna, gli scappò detto “Nicht verstehen” perché era l’unica cosa che capivamo in tedesco, prese un fracco di botte naturalmente perché quello non si poteva dire, si doveva capire lo stesso anche se non si capiva.

Allora dopo imparai che c’erano le colonne dove si andava a segare gli alberi alla foresta, davano un piccolo supplemento di pane, ma una fettina trasparente .. in confronto al lavoro che si faceva naturalmente non è che fosse gran che, però … E poi davano la divisa, davano il vestito a righe, che era già un successo avere quello lì. Quindi mi ricordo che andai là in fila, mi feci dare il vestito, mi diedero anche un paio di calze di lana; eravamo già ottobre novembre, cominciava già a far freddo. Mi diedero un paio di zoccoli col fondo di legno, era il numero quarantadue … con le scarpe sono sempre state anche abbastanza handicappata perché il primo giorno me le feci portar via subito. La prima sera … il castello era nel terzo piano, non sapevo che le scarpe dovevano servire da cuscino sul vestito, io lasciai le scarpe naturalmente sotto il castello, roba neanche da pensare. Quindi la mattina neanche a pensare che trovassi le scarpe. Provai ad andare dalla capo blocco, provai a spiegare che non avevo le scarpe, mi fece segno che c’erano un paio di zoccoli olandesi di quelli di legno che erano lì sopra, mi fece segno di prendere quelli, come tentai di toccarli mi sentii un mucchio di botte, era la padrona probabilmente degli zoccoli. Era un paio di scarpe da soldato, senza fondo naturalmente, per un pezzo io sono andata con queste scarpe da soldato che non riuscivo, facevo fatica anche a camminare. Quindi quando decisi di andare alla colonna della foresta a segare gli alberi mi diedero questo paio di zoccoli che in novembre, dicembre non è che facessero molto caldo, comunque erano il numero quarantadue.

Poi andai a questa colonna, non mi trovavo male, a parte il fatto che naturalmente non è che sapessi segare alberi. Quindi partivamo la mattina con il segone e tutte le misure di queste seghe. Un bel posto avevamo, erano tre rimorchi con un macinino che andava, so che c’era il  camino che fumava. So che una volta, eravamo già in inverno c’era il ghiaccio nel paese, c’era una piccola salita e non andava avanti: dovemmo scendere per spingere e naturalmente lì ci tiravano dietro i sassi addirittura i bambini del paese. Non so erano istruiti, non so se sapevano in paese che cos’era il campo di sterminio, però forse vedevano il camino fumare perché era a pochi chilometri il paese. Quindi ricordo quel particolare lì, a lavorare là alla foresta, dovevamo segare alberi, se ti fermavi ti buttavano dietro i cani. Naturalmente nessuno era molto pratico di questo lavoro. Ci davano questa specie di supplemento e poi quando arrivava, tutto quello che avevi era sempre legato in cintura, avevamo la scodella legata in cintura, quella specie di cucchiaio dentro le asole del vestito ecc. Quando arrivava il rancio a mezzogiorno, le solite rape, era abbastanza lontano dal campo … come mettevano questo mescolo di rape dentro alle gamelle naturalmente si gelava addirittura perché eravamo arrivati anche sotto i venti gradi sotto zero. E lì anche se era triste comunque le mangiavamo lo stesso.

Mi ricordo che c’è stato un periodo che eravamo in una foresta, facevano la carbonella con la legna, c’era una gran cisterna con il fuoco e noi di nascosto naturalmente andavamo a rubare dei pezzettini di questa carbonella perché faceva bene per la dissenteria; la dissenteria è stata la nostra compagnia dal principio fino alla fine. Alla notte ti dovevi alzare anche cinque volte naturalmente, prendere pugni e calci perché dovevi pestare la faccia a quella sotto e finché potevamo, cercavamo di stare più in alto possibile.

D: Le mestruazioni

R: Quelle lì, io ho litigato un po’ con tutti i ginecologi di Bologna. Le mestruazioni … dunque lì c’era chi le aveva, per esempio mia sorella ha avuto la disgrazia che le aveva sul carro bestiame nell’andare là; però dopo quindici giorni sono venute a tutte. A tutto il gruppo sono venute le mestruazioni e poi non sono più venute a nessuno. Allora qualche giornalino ha scritto che era per la mancanza degli uomini e qualche ginecologo ha detto che era la debolezza. E io continuavo a dire: “Guarda che lì in quella porcheria che ci davano da mangiare c’era qualche cosa per forza in mezzo, perché non si può in quarantacinque donne tutte quante fermarsi all’improvviso e tornare due mesi dopo la liberazione, dopo cioè che hai smesso di mangiare quella roba che ti davano loro”. Anzi un ginecologo addirittura ha detto che è impossibile perché ci fosse stato qualcosa del genere, cioè da poter fermare le mestruazioni quando si voleva si sarebbe saputo. E mi ha portato l’esempio di Auschwitz: c’erano stati dei casi di donne rimaste in stato interessante, dato che ad Auschwitz c’erano anche uomini e donne. Ma in un primo tempo penso che a tutte si fermassero le mestruazioni, almeno a quello che risulta a me. Anche perché per fortuna ad un dato momento, a parte tutti i disturbi che ti poteva dare fisicamente, ma con la mancanza di igiene che c’era, se c’era anche quella faccenda lì non so come si sarebbe fatto, anche perché ci avevano portato via tutto. Quindi lo sapevano di partenza che dopo un mese noi non avevamo più niente.

D: Tu non sei mai uscita con le tue sorelle a lavorare in una fabbrica?

R: Lì c’era chi usciva ad andare a lavorare alla Siemens, oppure alla sartoria, non è che stessero molto meglio perché dovevano andare fuori dal campo e lavoravano al coperto, ed era una gran bella cosa. Noi eravamo in quattro ad andare lì, la mamma non potevamo certamente portarla via; quindi abbiamo sempre evitato per riuscire a stare tutte assieme. Poi, come dicevo, qualcuno era sempre in infermeria, quindi avremmo dovuto separarci, cosa che abbiamo cercato di non fare, anche se dopo alla fine ci siamo riuscite lo stesso, purtroppo. Dopo siamo arrivati a Natale facendo un po’ i turni nelle infermerie un po’ come si poteva, a Natale eravamo già messe piuttosto male, mi ricordo che il giorno di Natale addirittura ero in infermeria. In infermeria poi è una parola, un eufemismo perché era il Revier che era tutta un’altra cosa, dire in infermeria si pensa che ci siano dei dottori e degli infermieri. Comunque lì c’erano delle dottoresse che provavano a far quel che potevano, però non si poteva far niente.

La mamma cominciava già a stare piuttosto male; la Iole era già in infermeria e noi facevamo un po’ il turno. Mi ricordo nel mese di gennaio finalmente siamo riuscite a ricoverare la mamma che stava male: non stava più in piedi, era sfinita praticamente, solo che quando marcava visita non potevano ricoverarla, perché non aveva la febbre a più di 39. Io la prima volta che marcai visita mi ricordo erano tre giorni che stavo male, non avevo il coraggio, perché specialmente noi italiane, in infermeria non trovavi nessuno che potesse capirti.

Ho detto quello che, … altre cose, comunque non ne ho delle altre cose da raccontare. La vita del campo che ormai è stata raccontata e raccontata.

In gennaio siamo riusciti a ricoverare la mamma. E’ stata una decina di giorni ma poi si è consumata completamente, siamo riusciti a vederla fino all’ultimo: a rischio però riuscivamo, l’abbiamo vista l’ultima sera, l’abbiamo vista la mattina nel letto che non l’avevano ancora portata nel mucchio dei cadaveri della notte, perché facevano l’ammucchio nei Waschräume, nei lavandini.

Lì, la mamma è finita così. Rimanemmo io e le mie sorelle che eravamo ancora in piedi; la mamma è morta verso il 21 di gennaio.

Lì cominciavano a parlare che avanzavano da una parte, al radio-campo si sentiva un po’ delle notizie ma non è che si sapesse molto. I primi di febbraio ho cominciato a star poco bene io, avevo la tosse, avevo la febbre, non volevo marcare visita perché avevo paura che ci separassimo anche io e mia sorella, quelle che eravamo rimaste in piedi. La Iole era già in infermeria da un pezzo, e poi ho tirato finché ho potuto poi dopo alla fine ho dovuto marcar visita e sono andata in infermeria che era il 12 di febbraio. Era un lunedì. Al giovedì 15 febbraio partirono tutte le italiane che erano nel campo, in mezzo ci cascò mia sorella, l’unica rimasta in piedi. Quindi rimanemmo lì, io ero alla baracca n. 7, un supplemento dell’infermeria perché era provvisoria, e la Iole che era rimasta nella baracca 10, sempre chiamata l’anticamera della morte. Comunque mia sorella stava benino, non stava male, però, non so se era una forma tubercolare, quello che avevamo un po’ tutti naturalmente. E lì siamo rimaste per quindici giorni: ci siamo scambiate qualche biglietto, lei scriveva dei biglietti facendo coraggio a me, non le avevamo detto che era morta la mamma, abbiamo cercato di non dirglielo; lei mi scriveva, parlava della mamma, parlava di tutti noi, parlava che tornavamo a casa, che eravamo giovani, che ci saremmo riprese presto, che la mamma e il papà non dovevano più lavorare. E poi l’ultimo bigliettino me l’ha scritto gli ultimi giorni di febbraio, i primi di marzo: il giorno 4 marzo partirono un gran trasporto da tutte le infermerie del campo, ne chiamarono parecchie anche da dove ero io e imparai che mia sorella partì con quel trasporto in cui tutti finirono nei forni del crematorio dello “Jungerlager”. E quella è la fine. Non c’ho creduto per un pezzo però la fine che hanno fatto era quella lì. Lì sono partite dal campo già selezionate per i forni crematori, non sono andate là per la selezione come si faceva di solito, li presero dall’infermeria già decise. Anche perché le infermerie, queste specie di infermerie erano sovraffollate quindi avevano bisogno di posto, perciò nessuno era più utile per il Grande Reich, perciò dovevano finire tutte nei forni crematori.

Lì dopo rimasi da sola. Mi ero trovata con una compagna jugoslava, la famosa Julkee. Julkee era stata arrestata in Italia, lavorava per la Resistenza italiana; è stata arrestata con una di Bologna che ci conosceva di nome, conoscevamo bene suo fratello, non lei. E quando partirono tutte, lei arrivò lì al campo col trasporto di settembre-ottobre che veniva da Bolzano. Lei fu arrestata che era in stato interessante, quindi rimase lì al campo dove partorì. Dopo l’abbiamo persa un po’ di vista a dir la verità, perché noi eravamo di un’altra baracca; ho saputo che ha partorito verso Natale ed è stata molto assistita dalle jugoslave; c’erano parecchie dottoresse, sono state bravissime, han fatto di tutto, l’han salvata, addirittura mi han detto che hanno perfino fatto una trasfusione di sangue … dirlo così sembra una cosa da ridere ma pensare ad una trasfusione di sangue nella situazione in cui eravamo, perché anche le dottoresse potevano forse riuscire a stare un pochino meglio di noi dato che erano in una posizione migliore, però la fame era per tutti.

Mi sono ritrovata appunto con Julke quando sono stata in infermeria, nella baracca n. 7. Mentre ero lì, comunicarono che era nata una bimba a cui mise il nome Julopodeski, mi ricordo che vuol dire, non so se si dica proprio così comunque so che voleva dire “libera”, la traduzione in italiano. La bambina morì naturalmente dopo due mesi, era una di quelle che stava bene: una notte mancò l’infermiera quella che ci teneva dietro, era malata; non so cosa fecero, lasciarono accesa una stufa, quelle che stavano meglio che erano di sopra morirono, quindi in mezzo ci capitò anche lei. Quando andai per farle coraggio lei mi guardò e mi disse: “Cosa vuoi far coraggio te a me?”. Eravamo tutte e due in una situazione. Comunque eravamo un po’ alla baracca n. 7 provvisoria e poi ci perdemmo anche da lì perché la mandarono pochi giorni prima di quella famosa chiamata del 4 marzo. Lei era in quella lista lì, perché era di quelle che stava abbastanza male però la mandarono fuori dall’infermeria appositamente appunto perché non cascasse in quella lista. E dopo quando cambiai baracca, che andai alla baracca n. 8, la ritrovai, e dopo siamo sempre state insieme fino alla liberazione, finché abbiamo potuto.

Praticamente era un’altra sorella per me, aveva l’età della Iole e parlava molto bene l’italiano; era praticamente incinta di un compagno italiano, poi siamo arrivati alla liberazione, riuscì a scrivere qui in Italia ma capiva che non ce la faceva a tornare. E poi dopo siamo state assieme per un pezzo fino dopo la liberazione. Io sono stata liberata, adesso torno indietro un momento, sono stata liberata il 30 aprile del ’45.

D: Dov’eri?

R: Sempre a Ravensbrück, non mi sono mai spostata da Ravensbrück. Sono stata penso una delle poche che ha fatto tutto il campo di Ravensbrück. Non so io mi sono salvata, penso anche Julke e le dottoresse slave difatti ce l’han detto che più di una volta ci han tirato fuori dalle liste. Mi ricordo che una volta quando eravamo lì alla baracca n. 8 che doveva venire il controllo, perché ci facevano ogni tanto le visite di controllo, mi dissero, se mi chiedevano qualcosa, di dire che avevano male alle giunture, che ero lì da dieci giorni, mentre invece erano già due mesi che ero lì in infermeria. E dopo la liberazione ce l’han detto: se io sono qui lo debbo alle slave, adesso non so se erano della Boemia o della Slovenia, erano jugoslave e posso dire che mi hanno salvato. Se sono qui lo devo soltanto a loro, perché secondo me quando parlano della solidarietà nel campo, io non ho mai trovato solidarietà; nel senso che tra italiane eravamo così in poche, non sapevamo la lingua, eravamo anche abbastanza separate, non è che abbiamo mai potuto fare. Ma fra i grossi gruppi c’era della solidarietà effettivamente, perché fra le francesi che erano molto numerose c’era solidarietà. Mi ricordo il giorno di Natale che ero appunto in infermeria … il giorno di natale non si andava a lavorare, ricordo questi gruppi di francesi che facevano il giro, facevano un po’ di raccolta, portavano addirittura la tartina, il sabato alle volte ci davano un po’ di burro; regalare una fettina di pane voleva dire tirarselo fuori dalla bocca un po’ tutte quante. E ricordo che c’era questa solidarietà fra le polacche. E’ una cosa che mi ricordo e che ogni tanto ancora adesso mi viene in mente. Alla sera quando, magari fino all’ultimo momento sentivi litigare in tutte le lingue naturalmente; poi spegnevano la luce, dopo un po’ si sentiva qualcuna che diceva “Bonne nuit” in francese, dopo un po’ quell’altra rispondeva “dobra noc” che erano le polacche, cioè in tutte le lingue. E questo ti dava una certa emozione perché col buio, pensavi alla casa e quella era l’unica nota gentile che ho trovato nel campo.

D: La Liberazione come te la ricordi?

R: Tutto il mese di aprile mi ricordo che avevamo fatto una specie di calendario, io e Julke, perché non riuscivamo ad avere la cognizione del tempo. E poi ci sbagliavamo anche addirittura coi giorni. Eravamo molto intontite e messe male. Il giorno della liberazione mi ricordo che stavo dormendo, sognavo che invece delle rape distribuivano dei porri, che erano un pochino meglio delle altre, bolliti, comunque erano meglio delle rape. Sognavo qualche cosa del genere, sentivo del trambusto, poi mi sono svegliata e ho visto tutta questa gran confusione.

Ormai alla liberazione eravamo rimaste soltanto quelle dell’infermeria perché gli ultimi giorni avevano fatto partire tanti di quei trasporti, il camino del forno crematorio che non si poteva tenere aperta la finestra dalla puzza che c’era. Alcune di queste cecoslovacche mettevano fuori degli stracci rossi, non so come avessero fatto a procurarseli, tutto quanto, e ho capito che dicevano che c’erano i russi alla porta, che c’era la liberazione. Il primo istinto naturalmente è venir giù dal letto, ho fatto due passi e sono caduta lunga distesa, perché proprio non ce la facevo più a stare in piedi. Mi ricordo che passò la dottoressa che disse: “Ma non importa, tanto ormai sono qui sta tranquilla che adesso arrivano qui”.

E mi ricordo appunto, naturalmente pensavo che era finita, che eravamo arrivati a quel punto lì, poi ricordo … E’ un’immagine che non me la so spiegare però me la ricordo così bene: quelle che riuscivano ancora a girare, andarono alla porta e trovarono un russo, mi ricordo che aveva due gran baffoni, con qualcosa in mano non so perché, aveva proprio il tipo del mugik e poi lo fece girare per queste baracche. Io ricordo questa faccia con due lacrimoni che gli venivano giù che ci guardava in faccia e che scuoteva la testa, perché eravamo ridotte, come dico eravamo tutte lì quelle messe peggio, che non dovevamo essere lì naturalmente dovevamo essere già tutte crepate.

Poi dopo in un momento ci siamo guardate in faccia, siamo state liberate. E poi alla fine ho pensato “Poi adesso?”. Siamo partiti in cinque, ero lì da sola, la mamma non sapevano che era morta, la Iole, non volevo credere che fine avesse fatto però lo sapevo, papà non pensavo neanche che potesse essersi salvato, visto la fine che avevamo fatto noi, era già messo male a Fossoli dopo tutto quello che aveva passato agli interrogatori. Mia sorella non sapevo dov’era, quell’altra non sapevo che fine avesse fatto, ero l’unica che ci speravo naturalmente e poi niente.

E poi ho aspettato, ho aspettato sei mesi, perché io sono rimpatriata in ottobre del ’45. Dopo da lì, dopo due o tre giorni ci hanno comunicato che ci avrebbero dato da mangiare tre volte al giorno. Questa era una gran notizia per noi, lì ci fu un po’ di confusione che ricordo un po’ vagamente. Ad ogni modo gli ultimi giorni del campo arrivò la Croce Rossa, riuscì a mandar dentro dei pacchi della Croce Rossa Internazionale, che ci distribuirono. Cosa succedeva? Che la maggioranza moriva coi crauti, in questi pacchi c’erano dei crauti, della carne di maiale, delle sigarette Camel, c’era tutta roba… quindi una gran parte morivano addirittura col crauto in bocca, coi wurstel. Quindi quando arrivano i russi ci ritirarono questi pacchi, cosa che naturalmente a molti non era piaciuta. Però cominciarono poi a darci delle pappine dolci, mi ricordo che mi prendevo delle gonfiate perché andavo a raccogliere tutto, Julke poverina mangiava poco quindi mangiavo la mia e la sua parte. Poi se ne trovavo delle altre mangiavo anche quelle. Mi ricordo che cominciammo a fare l’analisi e tutto quello che ci davano da mangiare. Un giorno ci diedero del riso, abbiamo pensato a fare l’analisi, ma sai quante vitamine ha il riso, noi ci sentivamo già molto, così, sono state quelle cose, pian piano come dico diciannove anni digerisco tante cose. Sei incosciente.

Io il ricordo dell’ultimo mese, del mese di aprile era che l’unica cosa che pensavo era quella di riuscire ad arrivare a casa; non è che pensassi cosa potevo fare una volta a casa, però solo quello di arrivare a casa mi sembrava una cosa impossibile da poter fare. Difatti sono arrivata a casa, però penso è tutto quello che ho potuto fare, non ho potuto fare molto di più. A casa, pensa dopo la liberazione è stata lunga perché poi da lì ci hanno spostato, ci avevano ripulito, ci hanno curato, perché ci hanno fatto parecchie … Poi sono stata sei mesi in attesa del rimpatrio e siamo rimpatriati in ottobre del ’45.

D: Dove hai trascorso questi sei mesi?

R: Questi sei mesi li abbiamo trascorsi, in un primo tempo ci portarono a questo Jungerlager che l’avevano ripulito, si stava abbastanza bene. Dopo lì mi ricordo che un giorno venne una delegazione italiana a cercare se c’erano delle italiane. Mi parlarono che erano in caserme un po’ lontano dal campo e mi parlarono di molti nomi di quelli che erano partiti con mia sorella. Allora io provai a chiedere se c’era mia sorella ma non mi seppe dire; naturalmente da una parte mi dispiaceva perché dovevo lasciare la Julke, lei non poteva poi venire in Italia anche se era stata arrestata qui in Italia, lei sarebbe dovuta tornare in Jugoslavia. E mi dispiaceva perché, sì stava abbastanza male, però non credevo che stesse così male. Ci han portato in questo campo italiano, ho trovato parecchie del nostro gruppo che eravamo partite assieme da Fossoli: c’era appunto l’Enrichetta, c’era la Giovanna, c’era la Maria Montuoro. E poi niente, poi ci hanno spostato due o tre volte però eravamo nel nord della Germania, quindi dovevamo aspettare che ricostruissero le ferrovie. Poi un bel giorno, siamo arrivati fino a ottobre, ci hanno caricato su questo carri bestiame, io ero su uno in cui c’era la Croce Rossa sopra, perché ero una di quelle che stava peggio; era sempre un carro bestiame, un pochino più largo di quando siamo partiti. E poi niente, comunque anche quando siamo passati dalla parte americana non è che siamo stati molto meglio. Quando siamo arrivati naturalmente alla frontiera ci hanno accolto dicendo che in Italia comandavano i comunisti e i partigiani. Mi dispiace dire questo, non so se faccio bene a dirlo, però è così, quando siamo rimpatriati alla frontiera ci hanno un po’ spaventato dicendo che saremmo stati qui, che in Italia c’era del caos, della confusione. Però non ho avuto il coraggio di venire fino a Bologna, tra l’altro io ero fra quelli più ammalati; mi han fermato a Merano, da Merano ho provato a scrivere, non sapevo chi ci poteva essere a casa, ero sola, non sapevo niente, e per un pezzo, credo quindici giorni sono venuti a prendermi dall’officina dove lavorava nostro padre e seppi che era tornata a casa mia sorella, la Lina. Lei aveva avuto tutta la sua peripezia, era stata portata lontano dal campo, liberata dagli americani ed era tornata però in settembre; il suo ritorno è stato ancor peggio del mio perché lei non ha trovato nessuno addirittura, io almeno ho trovato una sorella, lei non ha trovato nessuno e non sapeva chi sarebbe tornato. Però poi siamo tornate noi due. Del resto dopo …

D: E il babbo, Nella?

R: Il babbo ho imparato poi da loro che era morto; abbiamo trovato dei compagni che conoscevamo da Fossoli, c’era un certo Carenini che era molto affezionato a noi e a nostra sorella soprattutto. Ci raccontò appunto che un giorno, partito con quella che chiamavano la “corriera blu”, a Mauthausen, abbiamo imparato di Mauthausen perché non sapevamo niente, non sapevamo neanche che esistesse ad un certo momento. Dopo piano piano abbiamo imparato.

D: Il babbo era stato portato a Mauthausen?

R: Sì, sapevamo che era stato portato a Mauthausen.

D: E poi da Mauthausen con le corriere blu

R: Non so se era stato portato all’infermeria o alle cose, quello che ho saputo da quel nostro compagno Carenini; poi dopo abbiamo ritrovato altri compagni che ci hanno aiutato molto.

D: Quindi della tua famiglia sei tornata te e tua sorella…

R: Eravamo le due più giovani, mia sorella ha patito molto più di me perché lei ha subito quegli interrogatori che sono state la cosa più bestiale che qualcuno possa subire.

D: I fascisti, i nazisti che hanno interrogato tua sorella sono stati …

R: Sì, più che altro quelli che hanno fatto la spia, poi dopo … Io poi ho fatto tre anni di ospedale, comunque non hanno avuto gran che.

D: Sono in libera circolazione

R: Sì sì. Sì, adesso non so neanche poi se sono al mondo.

D: Della tua amica Julke sai più niente?

R: E’ morta dopo poco tempo che sono partita, da quando ci siamo separate … perché dopo la liberazione avevano concentrato le varie nazionalità, italiane con italiane; lei, allora dopo trovai il gruppo delle slave, che era poco distante da noi, a noi ci avevano messo nelle caserme, trovai qualcuno che conoscevo e chiesi appunto di Julke, mi disse che era morta una decina di giorni dopo che ero partita. Dopo mi è sempre rimasto lo scrupolo perché da una parte ci tenevo a partire per avere notizie, perché speravo di avere notizie di mia sorella, che invece nessuno mi ha potuto dare; dall’altra parte mi dispiaceva lasciare lì Julke, però non mi rendevo conto che fosse proprio così alla fine, ero convinta che riuscisse almeno a tornare. Invece forse lo sapeva lei.