Battistini Gino

Gino Battistini

Nato il 20 maggio 1925 a Sasso Marconi (BO)

Intervista del: 22.08.2000 a Bologna realizzata da
Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n. 55 – durata: 26′ circa

Arresto: il 06-07.10.1944 a Sasso Marconi

Carcerazione: Casermette Rosse (Bologna); Peschiera del Garda (BS)

Deportazione: Fossoli di Carpi, Bolzano, Mauthausen, Buchenwald, Chemnitz

Liberazione: verso metà maggio 1945

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Organizzazione materiali: ed inserimento dati: Elisabetta Mascarello, Elena Pollastri

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Io sono Gino Battistini, nato a Sasso Marconi il 20 maggio 1925.

D: Gino, quando ti hanno arrestato, perché e chi?

R: Incominciamo dal perché. Il perché è che io ero un ufficiale partigiano di collegamento, cosiddetto allora, fra le varie brigate, specie con la Stella Rossa.

Venne un rastrellamento di tedeschi agli ordini di Roeder e mi beccarono siccome ero di Rasiglio, nativo e anche vivente a quel momento. Mi beccarono a casa mia. La casa si chiamava “La Balosara”. Venne un rastrellamento solo di tedeschi della compagnia del Generale Roeder.

Da lì ci portammo ad un paese che si chiamava… Insomma era oltre la mia casa verso Montebonsara, non mi ricordo più adesso il paese bene e chiusi dentro una porcilaia con diversi prigionieri.

Quella notte l’abbiamo passata in piedi dentro la porcilaia per partire la mattina per Bologna, però ci siamo trovati assieme ad un altro gruppo di condannati, erano già legati da un braccio all’altro. Hanno fatto due gruppi.

Noi ci siamo trovati poi con questo gruppo a Casalecchio di Reno nel cavalcavia dove hanno commesso l’eccidio di circa 15 partigiani e contadini di quella zona.

D: Gino, quando era questo?

R: Verso il 6-7 ottobre del ’44. Da lì noi abbiamo assistito alla selezione fra un gruppo e l’altro di questa divisione dei gruppi. Due gruppi eravamo, due gruppi siamo rimasti, però non sapevamo che quelli che mettevano da una parte andavano a fucilazione immediata e gli altri andavano alle Casermette Rosse, come me.

Dunque, noi abbiamo saputo della condanna di questi poveri diavoli impiccati a Casalecchio al ritorno dalla Germania, a guerra finita. Ci hanno portato alle Casermette Rosse a Bologna, siamo rimasti qualche ora, poi ci hanno caricato sul camion verso Fossoli di Carpi dove siamo arrivati.

D: Ma le caserme rosse che cos’erano?

R: Erano chiamate Casermette Rosse, erano uno smistamento di rastrellati, condannati, tutto un insieme.

D: Ma erano prigioni?

R: Erano una specie di prigione, ma per me erano caserme che usavano le Brigate Nere. Quelli che non andavano bene li mettevano lì e credo che si chiamino così anche adesso come nome. Da lì…

D: Ecco da lì?

R: Da lì siamo arrivati a Fossoli di Carpi dietro trasporto sul Po con delle zattere, alla meno peggio siamo arrivati a Fossoli di Carpi dove siamo rimasti credo una giornata, non tanto.

D: Il campo, scusa Gino, al campo a Fossoli nell’ottobre tu sei arrivato?

R: Sempre nell’ottobre al campo a Fossoli.

D: Ma il campo a Fossoli era ancora attivo, c’era ancora gente?

R: Era pieno di tutti i deportati.

D: Allora dicevi che dalle Casermette Rosse ti hanno portato a Fossoli di Carpi e il campo era ancora attivo, c’erano ancora le strutture?

R: Sì. Era un campo con diverse baracche, siamo rimasti lì poco tempo, ci hanno trasferiti alla galera di… Come si chiama…

D: Peschiera?

R: Peschiera, la galera di Peschiera. Alla galera di Peschiera siamo rimasti circa una settimana in attesa che aggiustassero la linea tra Verona e Bolzano. Loro dovevano caricarci su dei carri bestiame per far dei treni e mandarci a Mauthausen.

Lì abbiamo incominciato la grande sofferenza, poco da mangiare, interrogazioni, poi tutto quello che veniva.

D: Ma le vostre guardie erano sempre germanici?

R: Sempre germanici, tutti tedeschi. Siamo arrivati a Bolzano, credo siamo rimasti lì pochi giorni, credo, non sono sicuro.

D: Scusa una cosa, Gino, in quanti eravate voi quando vi hanno arrestato?

R: Grosso modo il primo gruppo da casa nostra, dalla Balosara come ho detto io ad andare su a questo paese eravamo circa 10 o 12. Alla mattina dopo nella porcilaia abbiamo trovato questo altro gruppetto che era di una quindicina, ma tutti legati.

D: C’erano anche donne?

R: Non me lo ricordo. Non credo, ma non sono sicuro, ma non credo.

D: E alle Casermette Rosse c’erano anche donne?

R: C’era di tutto. Lì c’era lo smistamento di tutto. Ma in base agli elenchi che avevano loro, allora facevano la selezione, chiamavano e bisognava partire, non si sapeva dove. Mai saputo neanche in Italia, non sono in casa sua, neanche in Italia. Era tutto segreto. Ti chiamavano e via andare. Ti chiudevano dentro dove credevano loro. A partire dalle galere di Peschiera, ci hanno messo sui carri bestiame, piombati con le sentinelle tedesche sui carri. Ci abbiamo messo per arrivare a Bolzano circa una settimana di tempo dal Brennero a Bolzano perché a ogni stazione ci mettevano a ricovero, così dicevano, a binario morto, perché i bombardamenti rompevano il treno, dovevano accomodare, staccare, attaccare, chi era chiuso rimaneva chiuso.

D: Da Peschiera a Bolzano?

R: A Bolzano. E a Bolzano ci hanno dato un po’ da mangiare, ci siamo un po’ rifocillati, però dopo di lì ci siamo accorti che eravamo già in Austria al cosiddetto Mauthausen.

D: Ma nel campo di Bolzano quanto sei rimasto?

R: Pochi giorni, pochi giorni, per lo smistamento e poi basta.

D: E poi da lì ti hanno portato a Mauthausen?

R: A Mauthausen. Noi anche a Mauthausen abbiamo fatto in tempo a vedere la scala famosa, la scala della morte, l’abbiamo saputo dopo la guerra che era la scala della morte e da lì poi ci trasferirono ad altri campi, il cosiddetto Buchenwald.

D: A Mauthausen ti hanno immatricolato?

R: No, perché ti facevano solo degli interrogatori e delle visite, contemporaneamente venivano lì degli ufficiali, parlavano fra loro e poi ci trovavamo chiusi un’altra volta su dei carri bestiame e via in questo paese che non sapevamo se era in Austria, se era Germania. Che cos’era. Non dicevano mai niente. Loro ci trasportavano a destra e a sinistra e non sapevi mai niente. Te ne accorgevi qualche volta del nome dove eri arrivato, poi partivi e non sapevi dove andavi.

D: Da Mauthausen ti hanno trasferito dove?

R: A quello che ricordo io sono andato a finire a Buchenwald e poi credo anche ad Auschwitz, credo, perché lo abbiamo fatti quasi tutti.

D: Ma a Buchenwald neanche lì ti hanno immatricolato?

R: Ma dei numeri sulla schiena, ci mettevano delle tute con dei numeri, ogni campo dove andavamo avevamo sempre dei numeri diversi. Ma noi non ci facevamo più caso perché ormai loro dicevano “Italy tot, Italy tot”, loro dicevano così come a dire “Kaputt”, loro dicevano sempre così.

D: E ti hanno utilizzato per lavoro a Buchenwald o a Mauthausen?

R: Hanno fatto di tutto, a togliere le bombe inesplose che venivano già dagli aerei e rimanevano in mezzo, loro stavano lontani da noi col mitra puntato e poi bisognava andare a prendere su la bomba che non era esplosa. Ogni tanto ne esplodeva una e partivano i compagni, loro erano al sicuro perché erano lontani e stavano ad aspettare.

D: Ma questo, Gino, a Mauthausen o a Buchenwald?

R: A Mauthausen no, questo colpo che ci hanno dato di grazia al bombardamento di Dresda, siamo passati da Dresda per lavori di raccolta di bombe. Lì c’era il pericolo maggiore, ne sono morti parecchi con lo scoppio delle bombe inesplose.

Era perché non erano esperti nel muovere la bomba o perché erano ad orologeria, non lo so com’erano, però ogni tanto saltavano per aria e i tedeschi lo sapevano.

D: Gino, ti ricordi il nome di qualche tuo compagno?

R: Mi ricordo, c’era mio fratello Remo, poi c’era un altro che si chiamava Sandolini, però non erano partigiani, erano stati presi in un rastrellamento di partigiani, però erano civili. Poi un altro si chiamava Bachelli, poi ce n’erano parecchi, adesso non ricordo più, sono morti tutti. Ce n’erano parecchi della zona di Rasiglio, noi eravamo di Rasiglio.

D: Dopo Buchenwald dove ti hanno portato?

R: Ci siamo trovati a Dresda per raccogliere queste bombe. Lì dopo ci smistavano. L’ultimo campo in cui sono stato, sono stato poi liberato dopo la guerra era a Chemnitz, Karl-Marx-Stadt, era nella bassa Slesia dove c’è quella valle.

D: Lì cosa facevi a Chemnitz?

R: Ci avevano messo in officina, era l’officina militare. Io in particolare mi ricordo che facevo le canne per le mitraglie, però eravamo sorvegliati più che negli altri posti, non so il perché. Lì ci facevano fare questi lavori, bisognava tacere, non dire niente a nessuno, non parlare male della Germania, bisognava salutare “Heil Hitler” tutte le volte che si vedeva un superiore, altrimenti erano legnate e il mangiare era quello che davano a tutti. Rapa secca che era una cosa dell’altro mondo, non si mangiava, poca, alla festa qualche Kartoffel, patate, il pane, ci davano un chilo di pane la settimana, tutto in una volta, ma era quel pane non nero, erano quelle patate che stendono così, veniva fuori l’acqua. Facevano presto a fare quel pane. Era tutto un bordello. Ne moriva sempre spesso qualcuno e bisognava portarli nella camera mortuaria.

Poi c’erano le squadre. Tutti i giorni cambiavano. I famosi forni crematori, noi non sapevamo niente, guai, perché chi lo sapeva, chi se ne accorgeva, lo facevano fuori subito. Nessuno doveva sapere che cosa si faceva, che cosa si andava a fare. Si portavano in questa camera credendo che fosse un posto per i defunti, invece era un posto per i defunti sì, però erano destinati ai forni crematori e ad altre cose, ad altri esperimenti che facevano loro.

D: Gino, scusa, in quella fabbrica di Auschwitz, ti ricordi se aveva qualche nome la fabbrica, come si chiamava? Non te lo ricordi?

R: Avevamo in testa il nome, un nome che non… Ho cercato di dimenticare tutto perché… “Fabrik” dicevamo.

D: Lì lavoravate di giorno e anche di notte?

R: 12 ore al giorno, notte, giorno, secondo il turno. Poi andavi nel Lager dove c’era il Lagerführer e si doveva sopportare il resto del Carlino. Botte anche lì se uno faceva qualcosa e quando era il tuo turno di andare a lavorare, ci avevano dato delle scarpe che erano zoccoli di legno e dalle scarpe si sentiva girare uno da lontano un chilometro, quindi non si poteva neanche dire “Scappo via”, dovevi andare scalzo, era d’inverno, era freddo.

D: E nella fabbrica c’erano anche dei civili?

R: C’erano anche dei civili però erano divisi. Lì tenevano quelli che…Non so, specialità che volevano loro. Mi ricordo che anche dei civili andavano alle mense, ma per me era volontari più che civili e rastrellati, per me, perché si faceva sempre la caccia anche a noi con un registro. Se firmavamo dopo eravamo liberi e mangiavamo il pane bianco. Questo era sempre in tutti i Lager dove si andava, firmate per essere non contro di loro, con loro con la…

Allora chi non accettava come ho fatto io che non ho accettato niente, voglio andare a casa a vedere i miei genitori, però non come vostro aiutante, come ribelle nel vostro sistema. Difatti c’era questo sistema con cui hanno reclutato diverse persone.

D: Gino, ti ricordi se c’erano delle donne in fabbrica?

R: Sì, c’erano delle donne. Io mi ricordo che avevo vicino a me una donna slava, una partigiana e si parlava del più e del meno, sempre di nascosto, sotto metafora. Ci guardavamo negli occhi, era sufficiente per far capire che noi avevamo degli accordi segreti. Molti hanno lasciato le penne per quello perché non hanno saputo fare in modo segreto le loro cose.

D: E l’ sei rimasto fino a quando?

R: Io sono rimasto lì dei mesi fino alla fine della guerra. Dopo è arrivata la truppa rossa, i russi ci hanno liberato. C’è da dire una cosa, ci hanno liberato dal campo di sterminio, però dopo ci hanno riconquistati ancora i tedeschi, perché il fronte veniva avanti da un lato e andava indietro dall’altro.

Allora i tedeschi quando hanno visto che arrivavano addosso i russi per portarci indietro, hanno fatto in modo da portarci via da quel campo e poi siamo andati a finire fino a Kiev dietro dall’altra parte per il fronte russo. Poi ci hanno liberato i russi, eravamo in Russia, si veniva avanti in quel modo.

Noi dei russi non possiamo dire niente perché erano nostri liberatori.

D: E ti ricordi quando siete stati liberati più o meno?

R: Più o meno noi siamo stati liberati credo a metà maggio, alla fine di maggio. Credo così. Siamo stati tra gli ultimi proprio come Liberazione.

D: Dopo la Liberazione tu dove ti trovavi?

R: Mi trovavo al fronte russo e ci hanno caricato i russi con delle caravelle, con dei carri di tutte le specie, dicevano “Italienski via, Italienski via”, venivamo in qua per venire verso l’Italia, ma eravamo in una zona e nessuno ci sapeva dire che strada dovevamo fare.

Noi venivamo un po’ a piedi, un po’ su questi carri, un po’ su qualche treno locale che si trovava lì, o corriere che c’erano, dei mezzi del genere per venire, guardavamo il sole per venire a casa. Quando vedevamo il sole la mattina, partivamo verso il sole, perché noi siamo del sud, veniamo in Italia.

Abbiamo fatto diversa strada in quel modo, poi siamo riusciti ad arrivare in Austria, a Vienna credo, no, ad Innsbruck dove c’era un campo di smistamento. Lì eravamo già in mano agli americani con i neri che avevano questi camion, ci caricavano, ci portavano a Bolzano. Bolzano l’abbiamo trovata ancora a venire in Italia.

Da lì abbiamo trovato dei mezzi di fortuna per arrivare ognuno al paese dove doveva…

D: Gino, lì a Bolzano vi siete fermati ancora?

R: Un giorno credo, ma solo per trasbordo, per passare. Poi lì si mangiava. Se devo dire la verità, il pericolo maggiore di tutto questo era proprio lì, c’era una cucina militare che coceva la pasta da darci da mangiare. Ma siccome sui camion con i neri non ci davano niente da mangiare, da Innsbruck a lì, avevamo già accumulato un’altra fame. Quando arrivavamo lì, deboli come eravamo, fame a rotta di collo, vedere la cucina, questo fumo con le pentole… Noi abbiamo assaltato il campo e abbiamo rovesciato tutto per terra, mangiato la terra, tutto. Ci siamo trovati dentro ad un dormitorio con la pancia gonfia e molti sono scoppiati, morti lì.

Dalla fame che avevano, avevano mangiato i maccheroni mezzi cotti, una cosa e un’altra per mettersi su un letto e si moriva in quel modo, dopo aver passato tutto quello che avevamo passato.

D: E tuo fratello era con te?

R: Mio fratello l’ho perso a venire a casa da Bolzano a Bologna, l’ho perso e l’ho trovato prima di arrivare a casa fortunatamente. L’ho raggiunto con un camion a Calderino che era su a Monte San Pietro, era un paese dopo Casalecchio andando su per la montagna.

D: Ma tuo fratello ti ha seguito in tutto il percorso?

R: Siamo stati quasi sempre insieme, però anche lui era immischiato come partigiano e non lo allontanavano. Tanti altri invece venivano messi in disparte e facevano tutte le divisioni e noi non sapevamo perché. Si pensava, perché avranno bisogno qui, avranno bisogno là. Però loro lo facevano solo per ragioni politiche. Era tutto lì il suo distacco da uno all’altro. E volevano vedere se c’era qualcosa di trama fra noi e tutti gli altri. Dividendoci loro volevano riuscire a capire cosa bolliva in pentola e allora ogni tanto ne spariva qualcuno e non sapevi dove andava.

Purtroppo quando siamo venuti a casa abbiamo saputo che era toccata la sorte della morte. Io devo dire che abbiamo sempre parlato con gli altri. Fortunato chi può dire questa cosa. Difficilmente avevamo la speranza di rientrare in Italia perché c’erano troppi pericoli. Come Le dico, lì eravamo già in Italia, la gente moriva perché la gente mangiava questa roba biscotta e tutta in una volta.

Poi siamo arrivati a Bologna. A casa, eravamo come delle lucertole, chi ammalato da una parte, chi ammalato da un’altra, io avevo un’infiltrazione polmonare, mio fratello anche lui. Ci siamo pesati, eravamo 40 chili, 37 chili. Può immaginare a 19 anni, a 20 anni che abbiamo compiuto là era una cosa indescrivibile. Non si può neanche descrivere adesso che cosa abbiamo passato.

D: Ti ricordi la data più o meno quando sei arrivato a casa?

R: Credo il 6-7 giugno del ’45, credo.