Bozzini Luigi

Luigi Bozzini

Nato a Pavia il 24.01.1927

Intervista del: 12.09.2003 a Pavia realizzata da
Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n. 186 – durata: 62′ circa

Arresto: 3 gennaio 1945 a Pavia

Carcerazione: a Pavia, alla Villa Triste e in carcere; a Milano a San Vittore

Deportazione: Bolzano, Val Sarentino

Liberazione: in Val Sarentino il 29.04.1945

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Organizzazione materiali ed inserimento dati: Elisabetta Mascarello, Elena Pollastri

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sono Luigi Bozzini, sono nato a Pavia, il 24 gennaio 1927, allora ero studente, frequentavo l’istituto tecnico Bordoni, per geometri. Dopo il 25 luglio e l’8 settembre, con i miei compagni dell’oratorio, di giochi dell’oratorio, abbiamo costituito questo gruppo, senza avere conoscenze e idee precise sul da farsi.

Abbiamo visto il comportamento dell’esercito italiano l’ 8 settembre, che è stata una cosa tragica ma sotto certi aspetti, anche un po’ comica. Io avevo sedici anni, giravo per la città in bicicletta e mi era capitato di vedere sull’argine del Ticino, appena fuori da un ponte coperto, un camion dell’esercito con una mitragliatrice, cinque militari e un capitano.

Dovevano fronteggiare i tedeschi che arrivavano dalla statale e il camion era posizionato in modo che la mitragliatrice potesse sparare sulla statale dei Giovi e davanti alla mitragliatrice c’era una squadra di ragazzini del borgo curiosi e alcune lavandaie e il capitano impazziva perché diceva: “Se devo sparare voi dovete togliervi da qui”. La cosa, anch’io ero lì ma mi sono spostato subito, era addirittura un po’ buffa, perché pretendere con cinque uomini di far fronte ad un carro armato era una cosa assurda, anche se avevo sedici anni e non avevo cognizioni militari, avevo capito che era una cosa impossibile. Allora abbiamo deciso di costituire questo gruppo e di resistere, in che modo non sapevamo, non avevamo mezzi. Conoscevo Monsignor Luigi Gandini, che abitava vicino casa mia.

Ci ha dato i primi stampati ciclostilati e noi, questi fogli, li appiccicavamo di sera, con l’oscuramento, approfittando dell’oscuramento, sui bandi di chiamata del maresciallo Kesserling e del maresciallo Graziani che invitavano i giovani a costituirsi e a presentarsi alla leva nel nuovo costituendo esercito della Repubblica di Salò.

Più avanti, io ero stato nominato capo del gruppo, in un primo momento Devoti e poi io e come capo dovevo tenere i contatti con gli elementi esterni alla nostra cellula. Don Gandini mi mise in contatto con l’avvocato Marchetti e da questi io ricevevo copie del giornale clandestino ” Il ribelle ” che era stato fondato da Teresio Olivelli. Su “Il ribelle” verso l’estate del ’44 trovammo la notizia che Olivelli era stato arrestato e c’era anche una foto.

Facevamo azioni di sabotaggio, i tedeschi mettevano delle indicazioni stradali per indicare dove c’era il tal reparto e noi approfittando del buio, strappavamo questi cartelli, cercavamo anche di rifornirci di armi.

Nella casa di Devoti, le donne quando andavano nel rifugio, dicevano che lì abitava un carabiniere che era scappato e che avevano paura perché probabilmente nella cantina ci dovevano essere delle armi, allora una volta abbiamo aperto il lucchetto e siamo entrati e c’era una catasta di legna, l’abbiamo smontata, effettivamente c’erano le armi, abbiamo trovato un fucile, un moschetto 91 con diverse scatole di cartucce.

Abbiamo prelevato qualche scatola di cartucce, abbiamo lasciato il fucile in attesa di poterlo usare nei momenti più adatti, perché in città non era certo facile operare in mezzo a tutti i fascisti e i tedeschi

D: Scusi Luigi, il vostro gruppo aveva un nome?

R: Sì, l’abbiamo chiamato Sirio e noi tenevamo un quaderno con un diario delle nostre azioni, in codice. Erano numeri, era un codice semplicissimo, bastava alla A, dare un numero e poi tutti gli altri seguivano.

Era un lavoro compilare anche quelle poche note perché bisognava far riferimento e qualche volta cambiavamo anche il corso, poi dopo il mio arresto, questi documenti sono stati distrutti ma quando sono venuti ad arrestarmi non hanno trovato niente perché erano bene nascosti. Più tardi, al nostro gruppo, eravamo quattro, Devoti, Chiappino, Masara, si è unito Giovanni Tavazzani che veniva da Torino, la mamma era di Pavia e dopo l’8 settembre il papà era generale, è scappato e si è trasferito a Milano. A Milano è stato il primo comandante del Comitato Nazionale di Liberazione Alta Italia, è stato catturato a dicembre e internato a Mauthausen dove è morto nella primavera del ’45.

Un giorno, sono stato contattato da un partigiano, era uno studente del Bortoni, più anziano di me che mi disse, mi ha fatto una confidenza, mi disse che era un partigiano che era sceso e che però voleva ritornare e che cercava armi. Io avevo una rivoltella a tamburo, nascosta e temporeggiai perché volevo essere sicuro. Da ottobre sono arrivato a dicembre però non avevo mai rivelato che eravamo un gruppo di resistenza, chi erano i componenti, ero stato sulle difensive, appena prima di Natale gli consegnai questa rivoltella

D: Natale di che anno?

R: Del ’44. La mattina del 3 gennaio, presto, alle sei del mattino, arrivarono a casa mia cinque agenti in borghese delle SS, mi prelevarono, mi perquisirono e mi portarono alla Villa Triste, così chiamata, di Piazza Castello, mi lasciarono lì nell’anticamera un paio d’ore e poi mi chiamarono per un interrogatorio.

C’era un tizio seduto a un tavolo e i quattro altri agenti, ai lati, pronti a battermi. Io avevo intuito che il delatore poteva solo essere quella persona e difatti dissi che, mi dissero chi conoscevo, cosa facevo, dissi che avevo consegnato questa rivoltella a questo tizio. Mi portarono in una stanza vicina dove c’era l’arma sul tavolo e mi fecero fare il riconoscimento dell’arma.

Questo aveva parlato anche di altre persone, ormai sapevano già tutto e poi fui associato al carcere di Pavia, subito nella stessa giornata.

D: Senta, questa Villa Triste, esiste ancora l’edificio della Villa Triste?

R: No, è stata demolita subito dopo la guerra e al suo posto è stato costruito un condominio.

D: E le persone che l’ hanno trattata a Villa Triste, era italiani?

R: Erano italiani, ricordo, c’era un certo Ferrarini che era il capo e tra questi c’era un certo Gemelli.

D: Erano vestiti in divisa militare?

R: In borghese, in borghese, avevano un cappotto scuro, nero, grigio e il cappellaccio nero tutti quanti, il cappellaccio tipo…

D: Erano quelli del GNR?

R: Come?

D: Erano quelli della Guardia Nazionale Repubblicana?

R: No, erano delle SS, dipendevano dal comando SS, infatti io sono stato associato al carcere a disposizione delle SS

D: Al carcere di Pavia?

R: Sì. Mi han messo in una cella, la numero 4, dove c’erano già degli altri prigionieri.

D: Non c’erano le celle di isolamento?

R: Eravamo un po’ sospettosi perché ci potevano essere delle spie, infatti c’era un tizio che chiamavano Maresciallo, in borghese, che era sempre sul letto, io non l’ ho mai visto alzato, un tipo strano e però c’era Bonzanini Mario, Carlo Cuoccini, i più giovani, coi quali ho familiarizzato e poi c’era Zampieri che era un cronista di Pavia che io conoscevo di vista, che era molto più anziano. Gli altri, c’era una guardia di una riserva di Vigevano che portava la divisa della guardia di riserva con tanto di …, era una persona anziana.

Eravamo in 8, 10. La cella era quel che era, piccola, al piano terra, un grande finestrone in alto, davanti alla finestra c’era un paravento e dietro c’era il paiolo di legno.

Per servirsene bisognava salire su due cavalletti, era una cosa un po’ disagevole, comunque a Pavia ci davano un pasto solo, a mezzogiorno, una minestra e una pagnotta.

Durante la mia prigionia ricorderò sempre quel piatto di minestra perché aveva una certa consistenza, c’erano rape, cavoli e riso ed era piuttosto abbondante.

D: Quindi lasciavano portar dentro la roba da fuori?

R: No. Uscivamo al mattino per un’ora d’aria nel cortile, dove scendevano tutti, anche gli altri prigionieri che stavano su nel camerone. Tra questi ho trovato un mio compagno delle scuole elementari, Aurelio Bernuzzi che poi è stato un mio compagno anche a Bolzano e anzi, dormivamo nella stessa cuccetta perché bisognava stare in due per ogni cuccetta.

D: E nel carcere di Pavia siete rimasti?

R: Siamo rimasti fino al 23 gennaio.

D: Dopodiché?

R: Dopodiché una mattina ci hanno trasferito a San Vittore con una corriera, scortati dalla Guardia Nazionale Repubblicana. Molti della mia cella non sono venuti, ricordo che poi era arrivato anche il Dottor Giulio Perri che era un medico e quando siamo arrivati a Bolzano, ci hanno rapato i capelli a zero.

D: Aspetti, prima a San Vittore, a San Vittore siete rimasti per un lungo periodo?

R: Ho sbagliato, ho detto Bolzano, volevo dire San Vittore. Ci hanno rapato i capelli a zero e siamo stati sistemati nelle varie celle e Perri è stato mandato in infermeria, come medico, in aiuto ai medici, civili credo.

D: Si ricorda il raggio di San Vittore?

R: Doveva essere il sesto raggio, io era al terzo piano, in questo momento non ricordo la cella ma l’ ho segnata nelle mie memorie.

D: Lei lì ha ricevuto un numero di matricola a San Vittore?

R: A San Vittore sì, no. Non ho avuto numero di matricola, ho segnato il numero della cella al terzo piano, che era l’ultima verso il finestrone e noi vedevamo una strada di Milano dove passava il tram e sotto c’erano le guardie che non volevano che ci avvicinassimo al finestrone, se uno si avvicinava più di tanto, quando uscivamo per andare all’ora d’aria, sparavano, sparavano

D: E dal giorno del suo arresto alla permanenza San Vittore, era riuscito a comunicare con la sua famiglia?

R: Ho mandato una cartolina, una cartolina prestampata che ci hanno dato

D: A San Vittore?

R: A San Vittore sì

D: E non ha mai ricevuto visite o?

R: No, una mia sorella ha portato una valigia con dentro degli indumenti. Era stata perquisita però nelle calze son riuscito a trovare una coscia di pollo o qualcosa del genere, non hanno spogliato tutto, qualcosa han lasciato

D: Quindi, a San Vittore è rimasto fino?

R: Fino al 15 di febbraio del ’45

D: E poi lì cos’è successo?

R: La mattina ci hanno fatti scendere tutti nel corridoio centrale, siamo stati sottoposti ad uno spoglio accurato e poi rinchiusi in un altro reparto, in celle, celle che erano cieche, non avevano finestre e spoglie, mi son trovato con altri nove prigionieri che non conoscevo.

A metà mattina, attraverso uno spioncino, una suora ci ha dato un filoncino di pane a testa e un poco di soldi che abbiamo diviso fraternamente.

Nel pomeriggio poi la cella si è aperta e ci hanno avviato al piazzale. Il piazzale era fortemente presidiato da forze tedesche e fasciste e c’erano anche delle autoblindo e c’erano quattro autocorriere con rimorchio.

Una di questa faceva il servizio Pavia-Binasco-Milano ed era della Lombarda. Io mi son diretto verso quella corriera insieme a Bernuzzi che avevo trovato di fuori e lì ho trovato gli altri miei compagni di cella, Perri, Bonzanini e Cuoccini e altri ancora di Pavia. Perri mi disse di stargli vicino perché c’era la possibilità di scappare, eravamo in fila per salire sulla corriera.

Sulla corriera c’era l’autista che era di Pavia e fermava la nostra fila mentre lasciava salire un’altra che si era formata accanto alla nostra soltanto che un soldato tedesco si è spazientito del fatto che noi eravamo fermi e ha colpito Bernuzzi alla schiena, esortandolo a salire e allora siccome noi eravamo i primi ci siam sentiti a disagio.

“Questo qui se tira il grilletto ci fa fuori”, allora ci siamo incamminati e siamo saliti, ma lo scopo era quello di prendere la corriera vicino al soffietto, invece noi ci siam trovati, io e Bernuzzi, seduti sul pavimento del corridoio, impossibilitati a muoverci. Gli altri sono riusciti a prendere posizione sul rimorchio ma vicino al soffietto, sempre a terra. E poi quando è venuto buio la corriera si è messa in moto e siamo andati in direzione, non si sapeva allora, era Bolzano ma non lo sapevamo.

Ha fatto la Gardesana Orientale e sulla Gardesana l’autista ha accusato un guasto ai freni e ha rallentato sensibilmente allora la corriera è stata fermata, è seguita una discussione molto animata coi tedeschi, con la scorta e poi il gruppo ha ripreso, le altre corriere sono partite speditamente, la nostra è rimasta staccata in fondo.

Dimenticavo che prima di partire erano salite delle guardie nazionali repubblicane di presidio davanti alla motrice e passando sopra le nostre teste hanno preso posto negli ultimi posti riservati a loro in fondo alla corriera.

La corriera era bloccata, le luci spente, si viaggiava al buio per paura degli attacchi aerei e i mezzi, le macchine, i pullman avevano le luci schermate e c’era una piccola fessura dove passava quel tanto di luce per potere vedere la strada. L’autista d’accordo con Giulio Perri, perché Perri stando in infermeria aveva potuto parlare con membri esterni del Comitato di Liberazione e organizzare questa fuga; facendo dei segnali, diceva che si poteva scappare, aveva detto che la scala della motrice che portava sopra, alla corriera, era sul lato destro, allora loro han tagliato, Perri ha avuto un bisturi della suora dell’infermeria e una spilla da balia, ha tagliato il soffietto e uno alla volta si son gettati giù.

Bonzanini m’ ha detto che la ruota è passata a quattro dita, perché buttandosi giù è caduto sulla strada e la ruota è passata a quattro dita dal suo corpo e poi è rotolato in una cunetta e però dietro dice che c’era ancora un autoblindo. Naturalmente la strada era sterrata e passando la corriera ha sollevato un gran polverone e lui se l’è cavata e poi è scappata, tutti e cinque sono riusciti a fuggire, nessuno si è trovato con l’altro.

E dice che nel punto dove lui è caduto, poco più avanti, ha visto le luci di un posto di blocco, comunque sono rientrati tutti e noi, poi è venuto giorno e non c’è stata più possibilità di fuga. Siamo arrivati a Bolzano alle 14 del pomeriggio e ci hanno portati in una zona del cortile recintata e il maresciallo Haage ha proceduto all’appello della nostra corriera.

Il primo nome era Bonzanini e Bonzanini non c’era più e lui continuava a chiamare Bonzanini e poi chiamò Bozzini, ero il secondo e ho fatto un passo avanti ma lui tornò a chiamare Bonzanini a allora io rientrai poi chiamò nuovamente Bonzanini allora io mi sono spazientito e ho detto quel poco tedesco che sapevo: …”Luigi Bozzini” e allora lui m’ ha fatto segno di spostarmi dall’altra parte del cortile, del recinto e poi continuò con l’elenco e man mano venivano fuori quelli che mancavano.

Dopodiché ci hanno rinchiuso nel blocco H. Il blocco era vuoto e c’erano dei castelli a tre piani, a tre livelli e ammassati lungo le pareti del capannone e una parte in centro.

La porta venne chiusa e noi prendemmo posto e spenta la luce prendemmo posto nei castelli, senza coperte, senza pagliericcio, senza niente.

Il mattino seguente sono arrivati altri viaggi di prigionieri e ormai in questo blocco eravamo in 400, c’ erano anche gli ebrei.

D: Nel Blocco H?

R: Nel Blocco H sì, ci mandarono nel magazzino, ci tolsero i nostri abiti civili e ci diedero delle divise militari grigio-verde di vari eserciti e a me toccò una divisa di tela grezza degli avieri italiani, era una divisa estiva di fatica degli avieri italiani. Mi diedero il numero di matricola con il triangolo rosso, il mio era 9695, un paio di zoccoli di legno, una bustina militare, un bicchiere di bachelite e un cucchiaio, mancavano le gavette, non ce n’erano per tutti.

Quindi quando c’era la distribuzione del caffè al mattino o del brodo a mezzogiorno, e del brodo alla sera, con un panino, dovevo cercare qualcuno che aveva la gavetta e che era disposto a mangiare con me. Una sera ci trovammo in 4 a mangiare nella stessa gavetta e devo dire che è stata una cena bellissima che ricorderò sempre, perché ognuno intingeva il proprio cucchiaio nel brodo, e prendeva quel tanto che gli bastava senza cercare di approfittarne.

D: E questo è durato fino a quando lì a Bolzano?

R: Ecco io ho capito, dopo quando son tornato e ho visto i racconti di quelli che ci hanno preceduto, la razione allora era più abbondante e gli davano anche un po’ di margarina e qualche volta della marmellata ma lì eravamo alla fine, eran proprio gli sgoccioli.

E ho capito che perdevamo un po’ le forze e ho capito che ci avrebbero eliminato molto presto e poi se ci mandavano in Germania la cosa sarebbe stata triste.

Avevo conservato la carta d’identità, l’ avevo nascosta perché essendo del ’27 in caso di fuga, se fossi stato fermato, non avevo obblighi di leva e quindi non ero perseguibile.

Solo che c’erano delle squadre che uscivano al lavoro regolarmente tutte le mattine e anche noi che non eravamo inquadrati in queste squadre ci mandavano nel magazzino posto vicino al campo per operazioni di carico e scarico, oppure in città a caricare del materiale, anche delle munizioni, erano magazzini nascosti nella città.

Allora andai dal capo blocco che era un prigioniero come noi, che teneva l’elenco dei prigionieri e dissi che io volevo uscire per il lavoro perché volevo scappare, e mi mandarono a fare diversi servizi fuori. La prima volta alla Villa Stravinsky, mi sembra di ricordare, che praticamente era una casermetta delle SS, a fare un lavoro di scavo.

Poi, altre volte, mi mandarono sulle colline, dove avevano tagliato un bosco e dovevamo raccogliere i rami in fascine, non avevamo attrezzi, con le mani dovevamo arrangiarci. Un giorno poi fui spostato in un’altra squadra e proprio quel giorno lì, due toscani, due giovani toscani hanno tentato la fuga. Quando la guardia se ne è accorta, radunarono gli altri prigionieri in un anfratto, sotto una roccia, perché il terreno era molto accidentato e l’altro andò a cercare i prigionieri, si trovò faccia a faccia con uno di questi, quello per difendersi imbracciò l’arma e lui sparò e lo uccise.

Alla sera l’ hanno gettato nella piazza dell’appello, per terra, a dimostrare che scappare era pericoloso.

Poi sono andato, mi hanno mandato alla caserma dell’artiglieria di Bolzano dove ero in aiuto a un muratore civile, doveva confezionare la calce, pulire dei mattoni e portarli al primo piano dove facevano dei tavolati perché una camerata veniva divisa in tante celle, poi veniva chiusa la finestra e in alto si mettevano delle inferriate.

Quando bisognava posizionare questi ferri, il muratore si spostava e i ferri li mettevamo noi, li mettevamo in modo che se uno se ne accorgeva, in sommità, sull’alti trave, entrava quel tanto della calce, poteva essere piegato e quindi poteva scappare.

Questo muratore qualche volta mi portava un uovo, un uovo crudo che noi bevevamo, andavo lì con un certo Bolzanini di Lungavilla, un partigiano di Lungavilla.

Poi sono stato mandato in una fabbrichetta in costruzione, sempre lavori di manovalanza e lì alla caserma avevamo la possibilità di acquistare del castagnaccio; veniva un tizio dietro il reticolato e ci vendeva questo castagnaccio.

Ne mangiavamo e io ne portavo un po’ ai miei compagni del campo. Alla sera rientrando, il nostro blocco era completamente vuoto; erano stati spostati tutti in un campo, in un altro blocco che era isolato dalla recinzione, il cortile era isolato dalla recinzione perché quelli erano pronti alla spedizione in Germania e io fui spostato al blocco G con Bonzanini e altri.

D: Come pagavate il castagnaccio?

R: Con i soldi che ci aveva dato la suora, con i soldi che ci aveva dato la suora e con i pochi soldi che avevo io, nel portafoglio quando mi hanno arrestato avevo delle am lire, non erano una gran cifra ma qualcosina c’era.

D: Mentre tu eri a Bolzano, hai potuto comunicare con casa. Scrivere o ricevere?

R: Dunque, quando tornavamo dalla caserma, qualche volta se le guardie erano brave perché le guardie fuori non erano le SS erano della Wermacht. Andavamo allo stabilimento Lancia, che era sulla strada.

Noi eravamo a Gries e la caserma dell’artiglieria era sì alla periferia ma dovevamo passare tangenzialmente al centro di Bolzano, dalle parti della stazione penso, so che percorrevamo un grande viale.

Andavamo alla Lancia dove rientrando dopo le cinque c’era sempre il rancio, una minestra pronta, che mangiavamo. Noi andavamo fuori sempre con la gavetta, dopo abbiamo avuto la gavetta perché a mezzogiorno ci portavano il brodo dal campo di concentramento e la mangiavano anche le guardie perché avevano fame anche loro.

E lì in quell’occasione c’erano degli uomini e anche delle impiegate che venivano, ci chiedevano di dove eravamo, l’indirizzo e dove eravamo nel campo di concentramento.

Io ho dato in due o tre occasioni il mio indirizzo però non ho mai ricevuto posta, i miei avevano saputo che ero a Bolzano, hanno dato a un taxista che doveva venire a Bolzano dei pacchi ma io non ho mai ricevuto niente.

D: Ecco tu nel campo di Bolzano fino a quando sei rimasto?

R: Dunque nel campo di Bolzano sono rimasto fino alla fine di marzo perché i miei compagni che erano stati rinchiusi nel blocco, pronti per la spedizione, sono stati portati sul treno, pronti per la spedizioni, sarà stato un venerdì, o un sabato ma ricordo che la domenica, dalle dei del mattina alla sera, passarono sul cielo di Bolzano formazioni di bombardieri di 18 o 36, erano sempre o 18 o 36 le formazioni, a pochi intervalli l’uno dall’altro.

E si sentivano a distanza, a volte, gli scoppi delle bombe. Hanno bombardato, distrutto la ferrovia, il treno non è più partito e miei compagni sono potuti rientrare in campo. Allora è sorta la necessità di creare dei campi ausiliari perché Bolzano era sovraffollato ormai.

E io fui mandato, anche con altri di quelli che erano stati sul treno, in Val Sarentino, dove c’era un campo con baracche di legno allestite nel greto del torrente Talvera, circondato con filo spinato e torrette e con mitragliatrici.

E al mattino dovevamo salire la strada e raggiungere le gallerie dove c’erano queste macchine che dovevamo scaricare dai camion, a volte, oppure prendere dalle piazzole e portarle sotto le gallerie, la galleria, metà era destinata al transito, l’altra metà avevano fatto dei piani di calcestruzzo dove venivano posizionate queste macchine.

Poi arrivavano dei carri, degli autocarri con lingotti di piombo e fasce di lamiere di ottone perché volevano far una fabbrica di munizioni.

Abbiamo scaricato un maglio, a mano, unto di grasso, qualcuno c’ha lasciato sotto un piede, una volta è arrivato un SILO dalla Germania, un SILO metallico e dietro questo trasporto c’erano due prigionieri politici, stranieri, e uno di questi, lo dico nel mio racconto, si è avvicinato a me, forse perché ero il più giovane della squadra.

Noi lavoravamo in squadre di 15 elementi e ha estratto dalla tasca una scatola di sigarette e mi ha offerto delle piccole patate, quelle che si spigolano… ma io ho fatto capire che non potevo accettare perché non avevo niente da potergli offrire per ricambiare, lui ha insistito, io ho preso due patatine e me le sono mangiate, allora lui ha sorriso e ci siamo abbracciati, doveva essere un ungherese, un polacco, non ho capito anche perché non c’era molto tempo per scambiarci delle parole, la guardia che ci sorvegliava, ci esortava a lavorare.

D: Luigi scusa, come te lo ricordi tu il campo di Sarentino, della Val Sarentino?

R: Dunque lo dico nella mia memoria, in un primo tempo ci hanno ospitato in un campo che era fatto di baracche di legno prefabbricate, costruite abbastanza bene e sul tetto c’era il simbolo della croce rossa, per gli aerei, che avvertivano che era un campo di prigionia. Dopo una settimana, neanche, fummo trasferiti più a monte, qualche chilometro.

Abbiamo preso il nostro pagliericcio con la paglia, questa volta avevamo il pagliericcio, e la nostra coperta e scortati dalle SS abbiamo preso posto nel nuovo campo. Lì, il capo del campo era un maresciallo della Wermacht però ai suoi ordini aveva le SS.

C’era un brigadiere delle SS e poi dei soldati e sulle torrette c’erano tutte le SS, però era una persona abbastanza umana e lo si è capito subito perché quando ha fatto le consegne c’era un altro maresciallo delle SS che doveva essere Titho e c’era un interprete, prigioniero, belga e aveva tenuto un atteggiamento non ostile e il maresciallo, io dico Titho, penso che sia stato lui, lo voleva punire, allora il maresciallo si è opposto, ha detto: “Ormai hai fatto le consegne, sono io il comandante del campo, se è da punire lo punisco io”.

E quello là non ha avuto più niente da fare, m’ ha salvato praticamente.

D: Ecco, ma c’erano molte baracche?

R: Adesso non ricordo il numero, erano baracche dislocate, il terreno era coltivato con le piante di melo, erano mimetizzate sotto questo campo di melo.

D: E come deportati eravate tanti?

R: Saremmo stati un centinaio, 150.

D: E tutti impegnati a scaricare camion?

R: Tutti sulla strada, ma poi, quando sono stato al Congresso a Mauthausen, ho conosciuto un compagno di prigionia attraverso il numero di matricola perché io l’avevo e me lo sono portato, lui l’aveva ormai smarrito ma ricordava il numero e diceva: “C’ero anch’io a Bolzano in quel periodo lì e son stato mandato anch’io a Sarentino”.

Però lui doveva fare l’aiuto del muratore da qualche parte e quindi non veniva nelle gallerie.

D: Ascolta un attimo; tu parlavi di macchine che scaricavate e avevi detto che avevate anche una macchina dalla Germania?

R: Un silo

D: Un silo, le altre invece, il maglio per esempio?

R: Venivano da Torino, da Bologna e da Milano

D: Ecco, come fai a sapere queste cose?

R: Sulle macchine c’erano delle etichette e poi mentre noi le mettevamo su un carro di ferro, la strada era sterrata, il carro aveva delle ruote che avranno avuto 20 centimetri di diametro quindi dovevamo trascinare questi carri in salita con dei fili di ferro e delle sbarre di legno perché come i buoi, a due a due spingevamo il carro fin sotto le gallerie.

Le guardie erano lì però appena giravano l’occhio noi svitavamo un bullone, un volantino o qualcosa che finiva giù dal burrone.

La strada era a mezza costa, c’era la roccia a monte e un precipizio a valle, quindi prima di metterla in funzione ci sarebbero stati dei problemi.

D: Sabotaggio?

R: Sabotaggio

D: E non hanno mai preso nessuno?

R: No

D: Ascolta, lì quando vi hanno portato in Val Sarentino, vi han portato su…

R: A piedi, dal campo di Bolzano a Sarentino, abbiamo attraversato la città per vie secondarie, per delle viette.

D: E siete arrivati in Val Sarentino a piedi?

R: Sì.

D: Ti ricordi qualche particolare del paesaggio, non so la presenza di un castello?

R: Sì, castello Ronco, appena all’imbocco della valle c’è il castello Ronco e anzi una domenica ci hanno fatto scaricare un rimorchio di cemento e abbiamo dovuto portarlo sul al castello per il sentiero nel bosco.

Al mio compagno che stava sul camion, gli ho detto di pulirlo bene prima perché alcuni sacchi si erano rotti e c’era cemento dappertutto e me l’ ha messo bene sulla schiena. Allora, tenendolo e con l’altra mano sotto e salendo tutto curvo, l’ ho portato intatto fin al castello.

D: Ma questo dalla Val Sarentino?

R: Sì, in Val Sarentino

D: Quindi vuol dire che il campo in Val Sarentino era vicino al Castello Ronco?

R: No, siamo andati più giù sulla strada dove c’era il camion e l’abbiamo portato sopra.

D: Ma vicino al campo cosa c’era? C’erano delle case?

R: No, non c’era niente, oltre il Talvera, dall’altra parte del Talvera c’era una batteria contraerea, tedesca, dove c’erano anche dei serventi italiani, che vestivano la mia divisa di tela grezza.

D: Ascolta, quindi di abitazioni non ce ne erano?

R: No, c’erano dei masi alti ma non abitazioni lì vicino. C’era una casa poco più avanti, una villetta poco sopra.

D: E quindi c’era questa galleria qui

R: No, erano 25 le gallerie sulla strada. Poi io sono tornato in Val Sarentino, sono stato una decina di anni fa, forse quindici anni fa e ho visto che hanno fatto delle variazioni della strada, hanno fatto delle opere, dei viadotti e nuove gallerie perché la strada era molto impervia in mezzo a questa zona e hanno eliminato forse delle vecchie gallerie e hanno fatto una rettifica del vecchio tracciato stradale.

D: Sei riuscito però a individuare più o meno il luogo del campo?

R: No, non mi sono fermato lungo la strada, sono arrivato al paese, anche perché c’è stato un episodio.

Noi lavoravamo in una galleria vicino alla piazzola, un magazzino stradale e lì c’era una baracca in legno dove facevano servizio dei giovani della territoriale, di presidio a tutto il materiale, ce n’era prima, c’ era dopo e c’era a metà.

Un giorno, un ragazzo di questi qui mentre noi prendevamo posto sulla piazzola dove poi ci veniva distribuito il nostro brodo dal campo, mi ha offerto con un piatto.

Mi ha detto se volevo mangiare della pastina che avevano sbagliato la quantità di sale, il nostro brodo era assolutamente senza sale e la cosa mi ha un po’ ingolosito e allora ho assaggiato ma ci aveva orinato dentro, non era sale in eccesso allora ho ringraziato e ho rifiutato senza imprecare.

Il giorno successivo, a mezzogiorno è arrivata una guardia della territoriale, un uomo che avrà avuto cinquant’anni, è venuto a cercarmi sotto la galleria e in quel momento lì c’era una guardia che era abbastanza brava, era un viennese, doveva essere un musicista, un violinista e quando c’era aria chiara diceva: ” Non lavorate, passeggiate”; appena sbucava qualcuno si metteva ad urlare. Allora questo qui è venuto lì, mi ha chiamato e dallo zaino ha tirato fuori 15 focaccette, noi eravamo in 15, quindi ci hanno contato, con dentro una pressata di uva e allora sono andato sulla piazzola e abbiamo fatto una per ciascuno.

D: Ho capito, ascolta, lì a lavorare per posizionare queste macchine, macchine utensili, lavoravate durante il giorno e basta?

R: Sì, sì avevamo dei paranchi, paranco è un cavalletto di metallo, è un aggeggio con due catene, una che solleva il peso e un’altra catena che fa da frizione, che gira dei denti e moltiplica lo sforzo.

Quindi giravamo quelle catenelle lì, veloce e il peso che era imbragato si alzava, lo mettevamo sul carro e poi lo portavamo sotto la galleria e lì l’operazione inversa, si metteva sul piano

D: Ecco, lavoravate, dicevi, nell’arco della giornata, di sera dentro nel campo?

R: Tornavamo in campo

D: L’appello?

R: Sì, sì sempre l’appello al mattino e alla sera, anzi l’appello lì, veniva fatto dentro la baracca, ognuno si posizionava davanti al proprio castello a tre piani e veniva un SS a contarci. Di notte succedeva che si apriva la porta con un calcio, accendevano la luce, perché toglievano la luce di notte e ci comandavano per qualche servizio, a volte pioveva a dirotto, un temporale, e così, fuori a caricare la legna, scaricare la legna.

Io ero vicino a Pisani Renzo che era un partigiano della Brigata Giustizia e Libertà ed era di Casteggio e questo qui mi svegliava, io dormivo sodo, non sentivo il calcio alla porta, non sentivo niente, mi svegliava ed eravamo all’ultimo piano, al terzo piano in cima allora ritiravamo i piedi e le coperte e il tedesco metteva la mano, sentiva vuoto, quelli sotto poverini erano sempre alle prese e noi l’abbiamo sempre scampata.

Ognuno cercava di salvarsi come poteva, tra l’altro aveva ricevuto un piccolo pacco, con dentro un pezzo di lardo, l’unica cosa che era rimasta era un pezzo di lardo.

Allora abbiamo scoperto che puntando i piedi sul soffitto che era fatto di pannelli di faesite, si alzava, e al centro della baracca c’era come una trave fatta di tavole, un cunicolo insomma e noi mettevamo lì il pacco, quando toglievano la luce, mi dava una spinta, io puntavo i piedi e con una lima di ferro ormai consumata avevamo fatto dei coltelli, lui tagliava questa fettina di lardo, me la passava e masticava e come sentivano la carta qualcuno diceva: “Mangiano, mangiano”.

D: Ascolti, lì lavoravate sette giorni su sette?

R: No, la domenica eravamo fermi.

D: E cosa facevate?

R: Niente, giravamo per il campo liberamente, non potevamo uscire di sera dalla baracca, anche se avevamo necessità fisiologiche, perché quando era la pipì, aprivano la porta e fuori, usavano la gavetta, sì, sì, per non sporcar la baracca.

D: Ascolta…

R: Perché poi, i servizi, c’era un ramo del Talvera e sopra questo ramo avevano fatto un ponte, coperto, in legno ma fatto bene e dove c’era un vuoto al centro e due panchine laterali e ci sedavamo lì e il bisogno era lì.

Una mattina mi sono sentito male, ho vomitato, dopo aver bevuto il caffè ho vomitato perché non ci davano più il pane ma ci davano delle gallette. Dei crackers integrali che mettevano acidità e bruciore di stomaco era una cosa normale, c’era sempre, i crampi allo stomaco, i bruciori c’erano sempre.

Quella mattina lì ho vomitato e allora c’era un prigioniero che fungeva da medico che mi ha detto, “Bene, stai a casa”. Per mia sfortuna quel giorno lì avevano marcato visita sei o sette prigionieri e allora è venuto il capo campo con il brigadiere e il medico a guardarci e loro hanno detto che era sabotaggio e allora ci hanno mandato a recuperare la giornata la domenica, un lavoro inutile perché mi hanno mandato con un camion su in alta montagna, un freddo della miseria, a caricare delle pietre che poi è andato a scaricare.

D: Scusa una cosa, eravate solo politici?

R: Sì solo politici.

D: Donne non ce ne erano?

R: No, a Bolzano sì, c’era una zona delle donne.

D: No, lì in Val Sarentino.

R: In Val Sarentino solo uomini e solo politici ed ebrei.

D: E la liberazione come te la ricordi?

R: La liberazione è venuta la notte tra il 28 e il 29 di aprile. C’è stata un’incursione area.

Hanno lanciato dei bengala, hanno illuminato la valle a giorno e poi i cacciabombardieri hanno mitragliato e spezzonato, l’indomani non siamo usciti per il lavoro.

C’era una strana atmosfera di quiete e ci chiedevamo cosa poteva essere, c’erano ancora le guardie sulle torrette ma le guardie trentine, i ragazzi di leva della zona di Trento e di Bolzano erano inquadrati nell’esercito tedesco però avevano una divisa tedesca con un colore con un panno leggermente azzurrato e sull’elmetto portavano lo scudo con i tre colori, bianco, rosso e verde.

Questi qui avevano disertato, non c’erano più e verso mezzogiorno è venuto un comandante che aveva una divisa marrone, ci ha fatto cenno di portarci vicino al cancello e ha detto che eravamo liberi di rientrare alle nostre case perché praticamente la guerra era finita, ci ringraziava per la collaborazione e ci ha esortato di passare dal campo di Bolzano a prendere il foglio di licenziamento. Potevamo prendere tutto quel che volevamo.

Allora io e Pisano abbiamo raccolto le coperte e con il pagliericcio abbiamo fatto uno zaino e poi ci siamo incamminati, siamo andati in quella villa dove una donna ci ha dato la polenta, ha fatto la polenta e c’erano dei tedeschi che stavano facendo il ragù.

Noi abbiamo mangiato la polenta a piombo ma non mi sono abbassato a chiedere un cucchiaio di ragù al tedesco.

D: E sei arrivato a Bolzano a piedi?

R: Siamo arrivati a Bolzano a piedi passando vicino al campo più a valle, era distrutto.

Il bombardamento c’era stato perché qualcuno aveva segnalato che quello lì non era un campo ma c’era il comando tedesco per la fabbrica delle armi leggere.

D: Ecco scusa, tutte le macchine che voi avete scaricato sono poi mai entrate in funzione?

R: Ma non credo proprio, no, no, non ha avuto tempo.

D: Ecco, e sei arrivato a Bolzano.

R: Siamo arrivati a Bolzano e siamo andati prima in duomo e il caso vuole che lì c’era il canonico Piola che era l’assistente del campo di concentramento.

Questo canonico veniva la domenica a Bolzano a celebrare la messa.

D: Dentro nel campo?

R: Dentro nel campo. Metteva un tavolo e lì celebrava la messa.

D: Ma all’interno o all’esterno?

R: Nel cortile, nel cortile.

D: Nella piazza dell’appello diciamo…

R: Sì, nella piazza dell’appello o nell’altro cortile perché il campo erano due capannoni e poi in centro c’era una baracca di legno dove inizialmente c’era la mensa dei tedeschi poi c’era la cambusa, poi c’era la doccia.

Qualche volta, quando avanzavano l’acqua, invitavano qualcuno a fare la doccia, io ci sono andato un paio di volte. Era una doccia collettiva, allora prima cosa alzavamo dei graticciati di legno e sotto trovavamo scaglie di sapone perché noi di sapone non ne avevamo e usavamo quelle scaglie di sapone per pulirci alla meglio insomma. Quando finiva l’acqua calda scappavamo fuori.

D: E lui veniva ogni domenica?

R: A celebrare la messa sì.

D: Dentro nel campo?

R: Dentro nel campo.

D: E potevano partecipare tutti i deportati?

R: Quelli che volevano e c’era un tenore ebreo, bravissimo, dicevano che aveva cantato anche alla Scala, che cantava l’Ave Maria di Gunot, non quella di Schubert, Gunot, e cantava molto bene, benissimo.

D: Ecco, allora siete andati in duomo.

R: Siam andati in duomo e il sacrestano ha chiamato questo sacerdote e noi lo abbiamo ringraziato perché a Pasqua ci aveva fatto avere un pacco a tutti i prigionieri, era un pacco così, c’era dentro poco, anche perché forse aveva raccolto tra la popolazione. Ma tutti avevano dei problemi d’alimentazione, d’approvvigionamento e quindi questa gente aveva messo quello che aveva potuto. E allora ci ha ritirato un momento e poi ci ha portato una galletta bianca, di farina bianca e una scatoletta di carne Simmenthal per ciascuno che noi abbiamo messo in serbo per il viaggio.

E poi, proseguendo nel nostro cammino, siamo arrivati a una cascina, lì, proprio dentro Bolzano, una zona un po’ agricola e abbiamo trovato un tizio che ci ha detto: “Se state qui vi do da mangiare stasera”. Nel cortile infatti, ci ha portato fuori un piatto, in piedi in mezzo al cortile con una braciola di maiale, senza pane né niente e poi lì vicino c’era un capannone dove c’era un magazzino e voleva che noi prendessimo delle scarpe.

Erano le scarpe dei militari italiani ma noi abbiamo rifiutato perché se i tedeschi ci trovavano con le scarpe nuove avrebbero detto che le avevamo rubate e magari ci avrebbero fucilato.

Però non siamo andati in campo quella sera lì, volevamo star fuori e saremmo andati l’indomani mattina, lui ci ha detto che se volevamo dormire potevamo dormire nella cascina, nel fienile e così abbiamo fatto, abbiamo dormito nel fienile.

Poi al mattino Pisani mi ha svegliato perché nel fienile c’erano i prigionieri che rientravano dalla Germania o quelli di Sarentino ma c’erano anche i fascisti che scappavano e già erano sorte delle discussioni, solo che i fascisti erano armati e allora lui m’ha svegliato e ha detto: “Luigi andiamo, andiamo perché qui si mette male” e siamo scesi e ci siamo avviati verso il campo.

Durante la strada abbiamo trovato Colomia che era uno di quelli addetti alla disciplina, quello che bastonava quando uscivamo dalla baracca.

Ci ha fermati subito: “Voi da dove venite?” “Noi veniamo dal Sarentino” e allora ci ha lasciati andare e lui scappava con una bici nuova di zecca e uno zaino sulla canna, era a piedi, ricolmo di roba che portava via dal campo.

D: Voi andavate in giro con la divisa?

R: Sì, sì.

D: E col numero?

R: Col numero, sì, sì; non avevamo altri abiti.

D: Siete arrivati nel campo…

R: Siamo arrivati nel campo e siamo entrati, lì davanti all’ufficio matricola, c’era un gruppo di prigionieri che aspettava di ritirare il foglio e allora noi ci siamo accodati.

E in quel mentre lì è arrivato il maresciallo Haage e ha chiesto agli altri: “Voi perché siete qui?” E loro hanno detto: “Noi siamo quelli che hanno scaricato la legna questa notte sotto il temporale”. Erano tutti bagnati, zuppi e a noi non ha detto niente, noi ci siamo infilati, ci siamo messi in fila, ci hanni dato questo foglio di via.

Il foglio era già prefirmato e datato, aveva la data del giorno prima, lo utilizzavano ugualmente.

Dovevamo dare le generalità e a me ha chiesto: “E la carta d’identità?” “L’ ho persa” gli ho detto io, l’avevo in tasca e poi ha scritto il mio nome, me l’ha sbagliato perché ha messo una zeta sola, lasciando lo spazio, forse l’ha fatto di proposito, allora gli ho fatto aggiungere a mano una zeta, “Io sono Bozzini, con lì due zeta”.

C’era lì una donna che non riusciva ad avere il foglio di licenziamento, era vestita di stracci, era una donna di mezza età, molto debilitata e io ho cercato di aiutarla e non riusciva a dire il suo nome, le sue generalità, piangendo così, non si capiva, forse era anche straniera, non lo so, purtroppo è entrata una guardia, perché ormai il camion era pronto per partire, è entrato una SS urlando di far presto e non abbiamo potuto far niente e l’abbiamo lasciata così.

D: Quindi vi hanno messo su un camion dopo?

R: Ci hanno messo su un camion da rimorchio, ci hanno portato fuori da Bolzano un dieci chilometri e ci hanno detto di non tornare a Bolzano ma di andar giù perché temevano una rappresaglia, se tornavamo ci facevano fuori.

D: E sei arrivato a casa quando?

R: Il 6 maggio. Ho fatto in tempo nella piazza del duomo di Milano a vedere la sfilata, era una domenica e sfilava il Comitato di Liberazione Nazionale, in testa.