Capuozzo Raffaele

Raffaele Capuozzo

Nato nel 1924 a Milano

Intervista del: 26.05.2000 a Verona realizzata da
Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n. 7 – durata: 53′

Arresto: 11 maggio 1944 a Pacengo (VR)

Carcerazione: a Verona, al palazzo dell’INA

Deportazione: Bolzano, Dachau, Buchenwald, Bad Gandersheim (sottocampo di Buchenwald)

Liberazione: maggio 1945 durante la marcia della morte da Buchenwald

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Capuozzo Raffaele, nato a Milano il 24.5.24.

D: Perchè sei stato arrestato?

R: Ancora oggi non lo so. Comunque penso che la causa sia stata che ero stato sospettato di far parte del primo Comitato di Liberazione di Verona, quando invece non c’entravo niente.

I guai miei si riferiscono al fatto che nel 1943 accompagnavo a Verona l’avvocato Carlo Caldera e l’avvocato Antonio Alberti, residenti sul Lago di Garda, e mio padre, funzionario di pubblica sicurezza. Venivamo a  Verona, io guidavo una 1100 con le bombole di metano; li portavo a Verona alla mattina e li riprendevo alla sera. L’appuntamento per tutti era alle ore 17.00 vicino all’Arena, di fronte al famoso Bar Cillario, frequentato dalla Verona bene, dai fascisti, dai capi. Lì li caricavo e si tornava a Pacengo.

Della scoperta del primo Comitato di Liberazione, di cui facevano parte i nomi che ho indicato, io non sapevo niente. Mi presero tre soldati della SS e mi portarono in corso già Vittorio Emanuele, al numero civico 11, al Palazzo dell’INA. Là in quel periodo aveva sede il comando delle SS in Italia del famoso generale Harster.

All’entrata 15 o 16 uomini mi diedero chi un pugno, chi una sberla. Mi hanno portato in cortile, dove c’erano i garages. Nei garages c’erano le celle; entrai in cella e trovai un personaggio che diceva di chiamarsi Borgoncini Luca, era ex colonnello dell’esercito e comandante dell’Accademia di Modena; penso facesse parte dei famosi servizi segreti dell’esercito. Era un uomo meraviglioso che il tempo mi ha fatto conoscere molto bene; era il cugino del famoso monsignor Borgoncini, nunzio apostolico firmatario dei famosi Patti del Laterano.

Io in quel periodo ero a Verona, fuggito da Bolzano l’8 settembre (1943), dove ero al  IV Genio Alpino.

L’8 settembre (1943) alla mattina eravamo tutti sul greto del fiume Talvera; dopo tre giorni riuscii ad allontanarmi dal Talvera perché una crocerossina mi disse: “Dì che hai l’angina”. Mi portarono fuori; il capo disse: “Perché viene fuori questo?” “Ha l’angina”, e per i tedeschi angina significava malattia infettiva. Mi portarono due / tre giorni all’ospedale civile di Bolzano. Rimasi all’ospedale di Bolzano, quando si seppe che sarebbe arrivata la Gendarmerie, come la chiamavano, per fare un controllo degli ammalati; sospettavano che vi fossero anche dei non malati. Un certo professor Casanova, che era un primario, mi diede allora un paio di pantaloni e una camicia; riuscii a scappare. Andai a piedi fino a Ora, perché la linea da Ora a Bolzano era stata sinistrata dal bombardamento del 3 settembre 1943. Sono arrivato a Verona durante il coprifuoco dove sono riuscito ad avere un documento che mi esentava dall’essere reclutato per lavori durante i bombardamenti.

R: Mi arrestarono l’11 maggio (1944) alle 5 e mezzo della sera, e mi portarono al palazzo dell’INA, dove rimasi tre mesi. Non erano convinti o non si rendevano conto che io non sapevo niente, e mi chiedevano chi era il primo Comitato di Liberazione.

In quel momento sapevo che esistevano solo il rosso e il nero, io ero fascista. Chi mi spiegò un po’ di comunismo fu il famoso Roveda, primo sindaco di Torino, a causa del quale morirono tre ragazzi veronesi.

D: Dopo tre mesi trascorsi nel palazzo dell’INA, cosa successe?

R: Una notte, alle 11 di sera, ci portarono in stazione a Porta Nuova, ci caricarono su un carro e mi portarono a Bolzano. Questo tra la fine settembre ed i primi di ottobre.

D: Su un carro ferroviario?

R: Su un carro ferroviario.

D: In quanti eravate più o meno?

R:  Eravamo circa una sessantina dentro questo carro. Rimanemmo sino al mattino sul vagone, poi ci scaricarono a Bolzano e su un camion ci portarono al campo di concentramento.

D: Ricordi qualche compagno che era con te su questo carro?

R: C’era un certo Renato Bianco di Thiene, era alto quasi due metri. C’era un certo Giuseppe Zampieri, detto Il paia, morto durante la marcia della morte. Poi c’era don Aldrighetti, l’arciprete di Soave, e il dottor Garriba, allora pretore di Soave. C’era un altro prete mantovano che si chiamava don Berselli, una persona squisita. Rimanemmo a Bolzano, non posso dire per quanti giorni; so che in ottobre, il 22 o 23, arrivammo a [Dachau].

D: Del Lager di Bolzano cosa ricordi?

R: A Bolzano non avevo nessuna matricola, chi aveva le matricole era destinato a rimanere lì.

Arrivando a Bolzano ho trovato degli amici che erano passati dalle celle di Corso Vittorio Emanuele. Per esempio un certo Gianni Ferraiolo, che era stato paracadutato dagli americani come spia; là poi seppi che c’era e mangiavamo assieme il rancio che ci davano, il comandante della corazzata Littoria, quella famosa corazzata di cui tutti parlavamo perché era rimasta bloccata a Taranto o a Brindisi, non mi ricordo dove. C’era anche lui, era un ammiraglio, una persona squisita, piccoletto ma vedevi che era un ammiraglio. Lì si parlava del più e del meno, facevamo i bollettini di guerra così, tanto per dire, perché le notizie erano frammentarie, non c’era una comunicazione diretta. C’era qualcuno che, uscendo a lavorare, sentiva il cittadino, poi tornava a dire: “Ho sentito, non ho sentito”, erano tutte voci di riporto.  Così ognuno faceva le sue supposizioni, ma io a 20 anni supposizioni ne avevo poche da fare, ascoltavo, anche perché non avevo altro da fare. Da lì ci portarono in stazione, ci caricarono sui vagoni; eravamo più di 30, anche 70 per vagone. Mi ricordo il freddo, faceva freddo, perché ci hanno lasciato tutta la notte a Bolzano prima di partire; probabilmente attendevano delle tradotte. Arrivammo a Monaco, cioè a Dachau. Lì iniziò il mio primo numero di matricola; se me lo chiedi in italiano non lo so, te lo posso dire in tedesco perché era, dunque: il 113 mila, una cosa del genere, non me lo ricordo bene però è documentato. Quello di Buchenwald invece lo ricordo bene perché è stato l’ultimo: devo studiarlo per dirlo in italiano perché lo sentivo sempre in tedesco e così l’ho memorizzato. Arrivammo a Dachau, ci fu l’appello. Il giorno del mio arrivo arrivarono gruppi dall’Italia, dalla Francia, dalla Jugoslavia, eravamo circa 3 / 4 mila sul piazzale. Lì arrivammo con i nostri abiti borghesi, ci misero in fila, ci spogliarono completamente nudi e in fila, ci tolsero l’anello, io avevo un anello, la collanina, l’orologio; ci misero in fila per andare alla disinfezione.

Il bello della disinfezione, cos’era? Un prigioniero, arrivato prima di noi, con la macchinetta ci pelava dappertutto, la testa, sotto, dappertutto; più avanti ce n’era un altro con un sacchetto di sapone in polvere: ce ne dava una manciata, entravamo in stanzoni enormi dove c’erano dei tubi da cui usciva acqua, facevamo la nostra doccia. All’uscita dalla doccia c’erano dei tavoloni enormi con sopra pantaloni, giacche e zoccoli olandesi: ognuno si prendeva la giacca e il pantalone – le mutande non erano più in uso, le canottiere non c’erano – e arrivammo. Poi ci diedero un triangolo da appendere qua con scritto “italiano” e il numero di matricola che era 113mila e qualcosa. Poi ci fu l’adunata di noi tutti in divisa; quello che mi fece più impressione è che durante questo inquadramento venne il Lagerältester a dire: “Questi vanno ai vari blocchi, distribuiteli”.

D: Stavi parlando del capo del Lager?

R: Sì, il capo-Lager venne con l’elenco e chiamò fuori Samuel Barda, capitano paracadutista inglese. Parlò in tedesco, non so cosa dicesse. Cominciò a sferrargli pugni sulla faccia, e questo capitano, sarà stato un metro e 55, non si mosse, rimase sull’attenti imperterrito come se gli facessero delle carezze. Poi ebbe un mancamento, stava per cadere, ma si rialzò e ritornò nella fila. Io venni inviato al blocco 24; con me c’erano don Berselli, don Aldrighetti, il giudice Garriba, altri veronesi, e Renato Bianco. Le adunate si svolgevano alla mattina alle 6, bel tempo o pioggia: ci mettevano in fila tra le due baracche 23 e 24; eravamo tutti in fila sotto l’acqua ad aspettare che venisse il comando a farci la conta. Quando arrivava davanti al cancello il capo di togliersi il cappello, poi quando era finito ci lasciavano sotto l’acqua, e per scaldarci ci ammassavamo, continuavamo a girare su noi stessi in modo che ogni 10 minuti si veniva fuori poi si rientrava, ci si riscaldava. Molte volte avveniva che alla mattina mancasse qualcuno, allora si doveva ricontare. Poi il capo-baracca della camerata diceva: “Ci sono uno o due morti dentro”; faceva il controllo nella baracca e contava i morti.

Il campo era nato per avere o il singolo o i castelletti da tre ognuno nel proprio posto, ma noi eravamo arrivati al punto che eravamo in sei in due lettini anziché in tre, e forse era meglio perché, non avendo da coprirci, stavamo stretti e uniti, e stavamo al caldo. Dopo tante volte si usciva per andare a lavorare; venivano, sceglievano, prendevano per portare a  pulire il campo con la carriola, sempre scortati dal Lagerpolizei. Il Lagerpolizei non era un prigioniero politico o un prigioniero militare avevamo anche dei militari che non erano politici, ma aveva la giacca con le lettere KG sulla schiena, c’era il KG, che voleva dire Kriegsgefangener cioè prigioniero di guerra. Invece noi eravamo zebrati, e dopo la faccenda di Badoglio, per sfregio ci fecero la famosa riga in mezzo alla testa; sembravano dei rospi, affamati, magri; questo era fatto solo agli italiani per ricordare il periodo di Badoglio. Dopo il tradimento di Badoglio ci fecero questa riga in mezzo, larga due centimetri, sul resto della testa c’era un po’ di peluria, mentre lì eravamo proprio a zero.

D: Parlaci dei kapo.

R: I kapo erano delinquenti comuni tedeschi: ladri, contrabbandieri, rapinatori, condannati per reati comuni. Al posto di cinque anni di carcere facevano fare loro due anni e mezzo di campo di concentramento come kapo. Davano loro la fascia ma vestivano in borghese; loro erano in borghese e vestivano la loro fascia nera con la scritta bianca: solo la lettera K.

D: Sei rimasto sempre  nel blocco 24?

R: Sempre. E’ il blocco dove era morta la famosa principessa di Bulgaria, Mafalda; correva voce che, non so in quale blocco, ci fosse anche il figlio di Stalin, ma noi non lo abbiamo visto.

D: Stiamo parlando ancora di Dachau: hai trovato altri italiani?

R: Eh mamma mia, ce n’era un’infinità di italiani, quando ci scaricavano dai vagoni. Arrivavamo col vagone ferroviario dentro Dachau, perché in Dachau arrivavano i treni. E dietro i reticolati, dietro le reti metalliche abbiamo sentiti un’infinità di: “Ciao, sei italiano?”; dopo, i contatti venivano interrotti. Con me c’era l’avvocato Ruggero Jenna, discriminato da Mussolini come ebreo.

D: Durante il tuo periodo di Dachau sei uscito dal campo per lavorare?

R: Sì, ci hanno portato 3 / 4 volte a Monaco dopo i bombardamenti per togliere le macerie sulla ferrovia.

D: Di fronte alla tua baracca, la 24, c’erano la 26 e la 28; ricordi chi c’era in quelle baracche?

R:  La baracca non era singola, era un corridoio di baracche; le due baracche erano unite ma ognuna aveva il suo ingresso: c’era una camerata a destra e una a sinistra. Ogni baracca aveva dentro due camerate; c’era un piccolo ingresso che divideva le due baracche, e lì, in quell’ingresso, dormiva il capo-baracca, cioè il Blockältester.

D: Cosa avevate in baracca?

R: C’era la fila dei lettini, diciamo dei castelletti di legno; ognuno di noi aveva il suo posto, che non era per un singolo ma che ogni giorno diventava per più persone perché continuamente arrivavano nuovi deportati e li inserivano dove c’era la possibilità.

D: Avevate armadietti?

R: Quali armadietti? Non era mica il Grand Hotel! Parliamo di Dachau! non c’erano armadietti! Si dormiva col vestito che avevamo addosso perché il pigiama non ce l’hanno mai portato…

D: Prima dicevi che all’interno delle baracche qualcuno moriva; questi morti dove venivano portati?

R: Al crematorio, ai forni. Vicino ai forni c’era anche una grossa baracca, che aveva la sembianza di una stalla, di un ippodromo, diciamo di un baraccone; in mezzo si camminava su della paglia. Quando uno non ce la faceva più andava a dormire là ed era tranquillo perché non lavorava più; là passava uno che gli dava il mestolo di brodaglia. Però quando moriva lo mettevano su un carrello e lo portavano ai forni. E là c’era tutta questa fila di forni, li attaccavano con i fili di ferro, li buttavano dentro, uscivano i fili vuoti dalla parte di là. Questi erano i forni.

D: I forni però erano al di fuori del campo.

R:  Adesso non so capire esattamente; sono stato 3 / 4 anni fa a vedere il mio nome in archivio.

Ora è tutta un’altra cosa perché le baracche non ci sono più, ci sono quattro pali, e l’unica baracca visitabile è il “Grand Hotel”, cioè la baracca dei Lagerpolizei. Non è una baracca come le nostre; quella era bella luminosa, spaziosa, la nostra era la classica baracca. Adesso hanno messo al posto delle baracche, nel viale dove erano le baracche, dei pali neri, dei travi, su due colonnine di cemento, e non hanno conservato niente.

Poi dicono Revier, ma non era lì perché, entrando sul piazzale, c’era un promontorio, una baracca, con un medico spagnolo prigioniero, che chiamavano Revier, cioè infermeria. Chi aveva bisogno andava, e quelli che andavano cosa facevano?  Davano loro un cucchiaio di ittiolo, perché le malattie che scoppiavano lì erano foruncoli, specialmente sul collo; avevano la carta oleata, non ti davano delle bende, ma un pezzetto di garza con un cucchiaio di ittiolo, che sembra lucido di scarpe marrone; te lo mettevi sopra questi foruncoli. Scoppiavano foruncoli, dissenterie,  ma malattie in quel periodo non ne ho mai viste, non c’erano.

D: Dopo, dove ti hanno portato?

R:  A Buchenwald.

D: Con cosa ti hanno portato?

R:  Col treno fino a Erfurt.

D: Quando ti hanno portato a Buchenwald?     

R:  Ai primi di novembre 1944.

D: Quando sei arrivato a Buchenwald, altra spoliazione, altra immatricolazione?

R:  Sì. Da lì siamo partiti come un distaccamento di una sessantina di uomini; ho perso di vista tutti, don Aldrighetti, il povero Ruggero Jenna, tutti. E siamo andati a finire a Bad Gandersheim, un paesino con un promontorio in una ex chiesa. Ci buttarono dentro lì. Non c’erano né castelletti, niente, c’era solamente paglia per terra. L’unico sgabuzzino ce l’avevano i due kapo, prigionieri anche loro, e il Lagerältester cioè il capo-Lager di questo gruppo. Dormivamo nella chiesa, e lavoravamo alla costruzione delle carlinghe di aerei per il famoso bombardiere notturno Heinkel. Nel frattempo, un altro gruppo di prigionieri, a fianco dello stabilimento, creò un campo di concentramento con le sue baracche. Così ci tolsero dalla chiesa e ci misero nelle baracche.

In una baracca c’era il comando tedesco, dove dormivano i tedeschi; due baracche a nord, vicino ad una ferrovia, erano le nostre baracche. Ci alzavamo la mattina alle 6 per il famoso antreten, andavamo in fabbrica a lavorare, e la sera alle 5 ci riportavano al campo e ci davano da mangiare. Un mestolo di acqua e rape con una fetta di pane, cioè un pane diviso in cinque.

D: Quando sei partito per Buchenwald, don Aldrighetti, Jenna e gli altri sono rimasti a Dachau?

R:  Sono rimasti là, non ho più saputo niente di loro. Don Aldrighetti però è sopravvissuto, è tornato in Italia a fare l’arciprete a Soave, mentre invece credo che il povero Garriba morisse in campo di concentramento.

D: Anche don Berselli è ritornato.

R:  Sì, lo vedrei molto volentieri.

D: Poi è mancato. Loro sono rimasti a Dachau?

R:  Sì, perché quando noi partimmo per andare a Buchenwald chiesero degli operai specializzati in fresatura. Allora un certo Plinio Panciroli, veronese, che era cameriere al ristorante “Girelli” in corso Vittorio Emanuele, e Giuseppe Zampieri, detto Il paia perché era lungo e magro, mi dissero: “Bocia, vieni con noialtri”, loro conoscevano queste cose. Io dico: “Non son mica bon” “Ghe penso mi, vien via con me!” e lo segui. E andammo a Buchenwald.

D: A Buchenwald siete rimasti poco.

R:  Poco, sí. Dopo 15 / 20 giorni ci trasferirono in un sottocampo del campo di Buchenwald che era il campo di Bad Gandersheim.

D: Vicino a quale città era?

R:  Bad Gandersheim è nella zona di Halberstadt. Lo so perché dopo l’evacuazione del campo, attraversammo a piedi molti paesi vicini. Loro non volevano abbandonare i campi per l’esperienza fatta nei Paesi che vennero occupati dagli americani o dai russi: lasciando infatti libero il campo e facendo uscire i prigionieri, questi andavano nelle case e facevano piazza pulita. Allora la loro idea fu di tenerci sempre in gruppo e di farci camminare, affinché all’ultimo momento ci prendessero gli americani o gli inglesi. Partimmo da Bad Gandersheim e facemmo una strada. Ora non la ricordo con ordine, però so che passammo paesi che mi sono rimasti in mente: Vernigerode, Aschersleben, abbiate pazienza per i nomi che posso storpiare, non voglio offendere nessuno. Comunque era la zona intorno all’Elba. Arrivammo a Halberstadt in periferia, alla sera. Eravamo accampati senza tende e senza niente in un prato enorme, i tedeschi erano attorno di guardia. Di giorno camminavamo e c’erano dei prigionieri che tiravano carretti con tutto il bagaglio dei tedeschi; ogni tanto si vedeva che qualcuno si toglieva la divisa e si metteva in borghese.

A un bel momento, una mattina ci svegliammo, quando arrivò il chiaro potemmo vedere – credo che dormire fosse relativo – che non c’era più nessun tedesco, erano spariti. Io e altri due di cui adesso mi sfugge il nome, non so se è un certo Zanardelli di Brescia, ricordo che ci incamminammo alla chetichella e ci infilammo in una stalla.  Ci nascondemmo dietro alle balle di paglia, per vedere cosa succedeva. Nel pomeriggio alle 4 sentimmo dei carri armati venire avanti; dico: “Arrivano i tedeschi!” ma ad un bel momento vidi che il carro armato aveva la stella col cerchio, erano alleati.

Sopra il carro armato c’erano soldati inglesi e ciprioti che parlavano l’italiano. Allora, visto che erano americani, siamo venuti fuori: noi eravamo con la divisa a righe, non potevamo dire: “Siamo dei signori di passaggio”. Ci videro, ci diedero della cioccolata, ci fecero salire sul carro e arrivammo a Halberstadt.

Halberstadt era già una cittadina organizzata, ci presero in consegna e ci portarono in fondo al viale più grosso di Halberstadt, dove c’era una fabbrica, la Junkers. La strada si chiamava Adolf Hitler Strasse.

Ci portarono in questa fabbrica; nelle baracche dietro c’erano i prigionieri che lavoravano. A quel punto venne qualcuno, ci disse: “State qua, mettetevi calmi, tranquilli, verrà la Croce Rossa ad aiutarvi, a vestirvi”. Ci hanno dato delle cose, e rimanemmo in attesa che le autorità competenti si organizzassero per poter far partire ognuno per la propria residenza. C’era il gruppo di italiani, erano quasi tutti genovesi. Dopo c’erano i russi, i polacchi, gli slavi, ognuno aveva il suo settore; eravamo lì in attesa in rientrare. Arrivò l’ordine che c’era una tradotta che veniva verso l’Italia e ci  caricarono sul treno, che era molto piccolo, ed era sempre un carri di merci. Arrivammo a Innsbruck, ci misero in quarantena. Poi venne la Commissione Pontificia e con un camioncino da Bolzano venimmo fino a Verona. Arrivati a Verona io sono andato direttamente a casa e ho trovato i miei.

D: Ritornando ancora a Buchenwald, dicevi di esservi rimasto 15 giorni.

R:  Sí, 15 / 20 giorni.

D: Ricordi se all’interno del campo hai visto donne o ragazzetti?

R:  Quello era pieno, quello era pieno, c’era il reparto donne e il reparto ragazzi. Per esempio si diceva a Dachau che c’era la famosa Ilse Koch mi pare, che era l’amante del comandante del campo. La Koch aveva la mania dei tatuaggi. Era una iena, perché quando vedeva una bella schiena di tatuaggi li segnalava e i kapo, quando questo veniva ammazzato, gli toglievano la pelle, con cui lei si faceva fare le abat-jours. Ripeto questo si diceva ma io non l’ho visto perché io non ho tatuaggi. Il numero sul polso non era regola obbligatoria “Tu fatti questo”, ognuno se lo faceva per non dimenticare. Tanti dicevano “Fatti fare un tatuaggio” perché erano bravissimi a farlo, facevano disegni meravigliosi. Però questo poteva comportare delle conseguenze.

D: Dopo Buchenwald sei andato nel sottocampo. Con voi a lavorare in fabbrica c’erano anche dei civili?

R: Civili tedeschi, per Dio! c’erano. Io avevo, forse per la mia mania di pulizia, un tovagliolo con cui mi lavavo. Mi misero a fare un lavoro di precisione, che consisteva nel modellare, con delle dime e con una macchina che faceva le curve, curve in metallo dural, una specie di alluminio, per le carlinghe degli aerei; nelle varie forme della carlinga c’erano dei pezzetti che venivano incastrati. La macchina era un po’ particolare: aveva due ganasce a pressa, e infilandovi questa striscia piano piano dava la sagoma che doveva combaciare con la sagoma in legno. Allora il capo dei civili tedeschi veniva e vedeva che era fatto bene. Quando veniva controllava e, qualche volta di nascosto, mi metteva sempre un pezzetto di pane. Loro alla mattina alle 10 avevano il Brotzeit cioè il tempo del pane. Gli chiesi del sale, e un giorno mi portò un cartoccetto di sale, perché non mangiavo niente di quello che trovavo; tanti sono morti non perché li hanno ammazzati i tedeschi, ma perché mangiavano tutto quello che trovavano e morivano di dissenteria.

Io invece raccoglievo le ortiche, quando andavamo fuori e passavamo nei campi, le strappavo; ecco perché ero, diciamo, un po’ rovinato, perché le nascondevo sotto la giacca. Alla mattina in fabbrica con un barattolo di conserva le davo a quello dei forni, me le bollivano, me le cuocevano, e poi io alla sera me le toglievo dall’acqua, le facevo scolare, e al giorno dopo con il sale me le mangiavo. Io sono stato un grande mangiatore di ortiche. Ma non perché sapessi che facevano bene, sapevo che non era una pianta velenosa; ne avevo il terrore, infatti le bollivo e le mangiavo, e il tedesco mi dava il sale. Mi diceva: “Fertig Salz?” e il giorno dopo mi portava un sacchettino di carta con un po’ di sale.

D: Poi l’evacuazione e tu hai partecipato ad una marcia della morte.

R:  Mi è arrivata una carta dal Deuxieme Bureau francese, che conservo tuttora, in cui mi chiedono in quali punti erano seppelliti i morti, avendo io fatto parte di quella marcia. Le strade erano quelle che erano, durante la marcia eravamo per cinque in fila e si marciava. In quel periodo l’esercito era in rotta e bisognava lasciare a loro il passo. Il comandante decise di metterci per tre, e naturalmente la fila si allungò e la scorta divenne insufficiente. Allora decisero che i primi 20 in testa, non appena avessero visto un bosco, sarebbero entrati con le pale a fare le buche; il capo, quando aveva il segnale, contava gli ultimi 30 dalla coda, e mentre tutti marciavano, a un bel momento 30 sparivano, si sentivano le raffiche e lì venivano seppelliti.

Indicai sulla carta i punti al Deuxieme Bureau  ma per saperlo esattamente bastava vedere dove c’era un gruppo di pioppi o di piante di piccolo bosco: lì c’erano senz’altro.

D: Secondo il tuo ricordo, quanti ne sono stati uccisi?

R:  Ogni 3 / 4 ore ne “partivano” una ventina. Eravamo in 3.000, messi in fila per tre: è una bella coda! perciò tante volte ci siamo accorti verso la fine di stare attenti a non far parte né del gruppo di testa né del gruppo di coda, per la lotta della sopravvivenza. Da mangiare ce ne davano solo quando arrivavamo alla sera e ci raggruppavano in questo piazzale, in questo campo, ci davano la fetta di pane. Stop.

D: Quanto tempo è durata questa marcia?

R:  Ah è durata … Non potrei dirlo con certezza; ho dormito all’aperto 7 / 8 notti, adesso non lo so esattamente, però ci sono tutte le date della partenza dal campo di Bad Gardersheim.

D: 55 anni dopo tu ancora non sai perché sei stato deportato.

R:  La storia si è risolta perché la mia faccenda non era complicata: senza saperlo trasportavo i fondatori del primo Comitato di Liberazione di Verona, che era composto dall’avvocato Tommasi, il conte Tedeschini, Todeschi, era quel piccoletto, l’avvocato Carlo Caldera, grande socialista, il grande democristiano Antonio Alberti, che è stato presidente del Senato, e poi dopo altri. L’ho saputo dopo, tanto è vero che durante la prigionia  mia lì passavano tutti prima di essere smistati o al Forte Procolo o agli Scalzi; io facevo l’iniezione a un certo Polito, questore di Roma, quello che arrestò Mussolini, che era in galera con me. Gli facevo l’iniezione perché soffriva di sciatica, e aveva la scatoletta con quella siringa di vetro. Però non eravamo più nei garages, perché dopo la fuga durante un bombardamento, sotto proprio dove erano le cantine fecero costruire due file di celle piccole, singole. Allora dalla mia cella alla sua gli facevo l’iniezione, e mi diceva come dovevo fare, io le facevo, non era carne mia, comunque spingevo e facevo l’iniezione. Questo era Saverio Polito, questore di Roma, l’uomo che arrestò Mussolini.