Cattarossi Guido

Guido Cattarossi

Nato a Tarcento (UD) il 30.05.1925

Intervista del: 27.06.2000 a Udine realizzata da
Carla Giacomozzi e Giseppe Paleari

TDL: n. 72 – durata: 36′ circa

Arresto: 08.12.1944 a Canebola (UD)

Carcerazione: a Udine

Deportazione: Mauthausen, Amstetten

Liberazione: 05.05.1945 a Mauthausen

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Organizzazione materiali ed inserimento dati: Elisabetta Mascarello, Elena Pollastri

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Io mi chiamo Cattarossi Guido, nato a Tarcento il 30 maggio 1925.

D: Guido, quando ti hanno arrestato?

R: Mi hanno arrestato l’8 dicembre 1944.

D: Perché?

R: Per un rastrellamento; ero armato, eravamo di pattuglia. Pioveva che Dio la mandava e c’era nebbia che non si vedeva, quando abbiamo individuato la postazione eravamo già in trappola. Una raffica, una pallottola mi è entrata e due sono andate nel cappotto.

D: Tu eri partigiano?

R: Io ero partigiano armato.

D: In quale formazione eri?

R:Nella Garibaldi, Battaglione Manin, Brigata Bozzi, non so, me l’hanno cambiata da un po’.

D: Chi ti ha arrestato?

R: I tedeschi assieme ai fascisti.

D: Dove ti hanno portato?

R: Subito dopo mi hanno portato da Monte Fosca a Rividischia, mentre facevano il rastrellamento. Abbiamo fatto un giorno e mezzo in un paesetto in montagna.

D: Che è dove?

R: È sopra Canebola.

D: Guido, è lì che ti hanno arrestato?

R: Sì. Sopra Canebola, dietro la buchetta di Sant’Antonio.

D: E ti hanno portato?

R: Dopo mi hanno portato a Ribilisi mentre facevano il rastrelamento, un giorno e mezzo siamo stati fermi lì. Io non potevo camminare, ma poi siamo partiti e siamo andati su a Monte Fosca per andare giù a Pulfero. Io che non potevo camminare avevo due compagni, a destra e a sinistra, che mi tiravano per il braccio. Ad un certo punto si fermano i due comandanti, due tedeschi, un sergente e un tenente; mi guardano e l’uno parla all’altro, io non capivo un bel corno e mi parla; quando siamo arrivati al Pulfero ho saputo tutto. Siamo ripartiti e via siamo arrivati fino al Pulfero; è lunga la strada, eppure siamo arrivati. A quel punto il tenente ha detto al capitano: “A quel ferito non è meglio sparare un altro colpo?” Quello che era con me sapeva il tedesco e l’altro ha risposto: “No, sono i suoi colleghi che lo tirano”. Una volta è passata bene.

Arrivati al Pulfero, il primo degli otto presi nel rastrellamento ero io e sono stato portato al Comando e interrogato, visitato. Due mesi di lazzaretto, l’ospedale. E invece dopo aver finito l’interrogatorio ci hanno caricati e giù in Via Spalato.

D: Scusa Guido, a quale Comando ti hanno portato? Comando di dove?

R: Il comando tedesco che era al Pulfero. Era in un distaccamento che avevano loro; lì mi hanno visitato, hanno interrogato tutti gli altri e poi siamo andati in Via Spalato.

D: Il Pulfero che cos’è?

R: Un paesetto prima di arrivare al confine con Stupiza, più in su, il confine di Stato con la Jugoslavia.

D: Poi ti hanno portato a Cividale?

R: A Cividale al Comando, ma non siamo scesi, andammo diritti per Udine.

D: Quindi ti hanno portato alle carceri.

R: In Via Spalato. L’unico degli otto ferito ero io, perciò mi hanno portato in infermeria, gli altri nelle celle. Due giorni dopo, sono stato catturato il 9 dicembre, l’11 dicembre sono entrato in Via Spalato; il 13 o il 14 dicembre non ricordo bene, o il 12, viene l’impiegato in infermeria e dice: “Cattarossi!” “Comandi!” “Alzarsi, andare al processo”. Io non ho risposto. Avevo l’infermiere vicino, rispose lui. “Scherziamo, dice, orina sangue”. Difatti per sette giorni ho orinato sangue.

Parte, fa un segno sulla sua carta e dopopranzo l’infermiere mi dice, visto che poteva girare a fare iniezioni e punture a destra e a sinistra, dice: “Molini, mi chiamava col nome del paese, vuoi sapere l’ultima? I tuoi colleghi, i tuoi sette, non tu, sono stati al processo”. “E allora com’è andata?” “Quattordici condannati a morte e uno graziato”. “Chi è graziato?” “Quello che ti ha fatto la puntura in montagna, un infermiere”. Quello che mi aveva accompagnato fino a Pulfero. Adesso mi curano e dopo avrò la mia sorte. Difatti il giorno 13 o 14, il 18 dicembre al mattino ci sono due camion che attendono: partono questi poveri condannati che sarebbero i miei compagni, anche un paesano. Otto sono partiti per Cividale, abbiamo saputo dopo anche dal giornale, e sei per Gemona, fucilati. Il mio paesano è stato fucilato a Gemona.

D: Tu invece sei rimasto lì…

R: Invece io sono rimasto lì. Finito l’anno, ci hanno mandato al gennaio del ’45. Vengono chiamati altri 26 al processo. Mi dice l’infermiere: “Basta che non tocchi a te!” “Boh, dico, se è destino accettiamolo, ormai siamo qua”. Sono fortunato un’altra volta, non sono chiamato. Processo: 23 condannati a morte e 3 graziati.

D: Il processo dei 23, dicevi?

R: Di questi non so niente, che fine abbiano fatto, com’è andata.

D: E tu al processo non hai partecipato?

R: No, al processo non ho partecipato. Io ero in infermeria fino al 15-20 gennaio. Agli ultimi di gennaio l’infermiere dice: “Penso che ci sia una partenza per la Germania”. “Perché?” “Perché il maresciallo che comanda mi ha chiesto di te e come stai”. “Io dico: sta abbastanza bene”. Allora mi prende e mi manda in cella. Vado in cella e faccio tre giorni in cella. Il terzo giorno alle 11 di sera dormo. “Cattarossi, Cattarossi!” mi svegliano gli amici con me. “Alzarsi, domani c’è la partenza per la Germania”. Si immagini, trattando di uscire di lì ho fatto un salto di contentezza. Andavo nelle celle per vedere chi parte e chi non parte. Di lì è avvenuta la partenza per la Germania, due o tre giorni dopo siamo partiti.

D: Da dove siete partiti?

R: Da Via Spalato.

D: E vi hanno portato?

R: Alla stazione.

D: Eravate in tanti?

R: Non so, abbiamo fatto la notte in un vagone a Udine per aspettare il treno che veniva da Trieste, ammassati, ammucchiati. All’indomani ci hanno divisi quando è arrivato il treno e siamo partiti. L’1 febbraio o il 2 siamo partiti.

D: Eravate tutti uomini o c’erano anche donne?

R: Che sappia io eravamo tutti uomini, dopo sul treno che veniva da Trieste…

D: Vi hanno agganciato al treno in arrivo da Trieste; erano carri bestiame?

R: Si immagini, si pensava di scappare per strada come tanti sono scappati, ma c’era la scorta perfino nel vagone, con noialtri, i tedeschi nel vagone.

D: Quanto avete viaggiato in treno?

R: Abbiamo viaggiato … siamo partiti il 2 e arrivati il 7 a Mauthausen. Sono tanti chilometri, lo sa dov’è Mauthausen in Austria? Perciò…

D: Siete arrivati alla stazione di Mauthausen.

R: Cinque chilometri fatti a piedi, dopo. Ho preso anche il tango per strada, mi hanno battuto perché non potevo camminare, dico la verità, mi faceva male la schiena. Io non ero ben inquadrato secondo i tedeschi, anzi non i tedeschi ma gli italiani perché c’era la scorta fino al campo. Non ero ben inquadrato allora mi hanno dato col calcio del fucile sulla schiena e sono cascato per terra. I miei compagni mi hanno preso, tirato su. Hanno portato lo zaino e siamo arrivati al campo. Alle sei, alle cinque di sera ci siamo ammassati, siamo arrivati e dopo ci hanno messo da parte e abbiamo aspettato prima di andare al bagno la bellezza di cinque o sei ore.

Tornando un momento indietro: quando siamo passati per Tarcento, io quella volta a 19 anni avevo già una fidanzatina sul lavoro. La serva del padrone che era a Tarcento, il padrone della fornace, è venuta a darci qualcosa. Sapeva che io passavo, alle quattro del mattino il capostazione ha dato un falso allarme, ha rallentato, hanno caricato la ragazza e la serva sul treno. Le hanno portate a Gemona perché sapevano che Gemona era in allarme, dovevano bombardare il ponte di … tutto il giorno fermi a Gemona.

E di lì quando si era fermato treno, sento: “Cattarossi, Cattarossi Guido”. Battevano nel vagone e allora i tedeschi hanno capito, le hanno fatte girare dall’altra parte dove hanno aperto la porta e volevano che scendessi. “Io non posso scendere!” Ci siamo baciati sulla porta e mi ha consegnato un cesto di roba che abbiamo mangiato per strada: pane, robe che si cercava di tenere, salame, formaggio. “Andremo a lavorare, teniamo qualcosa”. Invece la roba fece un’altra fine; prima di andare al bagno, quelle cinque o sei ore che stiamo stati fuori, ci hanno detto che dal bagno non si portava fuori niente. “Se avete qualcosa mangiatelo, se avete orologi, gioielli, dateci i nomi che alla fine vi torna tutto. Cominciate a tirarle fuori.”

Io ho detto: “Ragazzi, mangiamo tutto!” e mentre si parlava l’uno con l’altro ho trovato il mio amico con cui eravamo di pattuglia; uno è stato fucilato a Gemona, quello lì è riuscito a scappare. Lo hanno preso un mese dopo per andare in Jugoslavia. Quando siamo arrivati al campo l’ho trovato!. Mi diceva: “Guido, come sei qui, sei ancora vivo?” “Sì. Mi hanno preso così e così”. Ci siamo abbracciati e allora mi ha detto: “Io pensavo che fossi morto come il povero Aldo”. “No, ancora sono qua”.

Lì ci siamo lasciati, abbiamo mangiato. Dico la verità, abbiamo mangiato. Sono entrato verso mezzanotte al bagno, ma ero pieno. Avevo 20 anni! Dopo è partito tutto. Di lì abbiamo iniziato il bagno di disinfezione, attraversato tutto il campo, nudi completamente, senza un pelo addosso! Si immagini, era il 7 febbraio, era freddo. Ci siamo schierati. Nei blocchi di quarantena dove ho fatto una buona parte non ho dormito mai né sui materassi né sul castello, ma per terra: svestirsi sulla porta, fare il cuscino coi vestiti e dormire sempre di fianco. Io non mi sono mai buttato diritto così, ci si metteva l’uno di fianco all’altro, uno, due, tre, quattro, cinque, dovevamo stare in dieci metri, in quindici, quindici da una parte e quindici dall’altra e dopo diceva: “Giù, testa e piedi in fianco”. Io ho dormito tanto così e mi è capitata tre volte la dissenteria: allora toccava prendere il cuscino fatto di vestiti, andare fuori e passare quelle due ore, tre, cosa rimaneva per arrivare all’alba sulla porta. L’ho fatta due, tre, quattro volte, poi tornando il mio posto era perso, non c’era più.

Fare attenzione a non camminare, nell’uscire per andare fuori, sopra la pancia di qualcun altro! Capitava una rivoluzione e ti facevano rotolare fuori.

D: Quando ti hanno immatricolato?

R: All’indomani. La mia matricola era il numero 126.670.

D: E assieme al numero cosa ti hanno dato?

R: Il triangolo.

D: Di che colore?

R: Rosso, italiano.

D: Dopo il blocco di quarantena dove ti hanno portato?

R: Sempre lì. Una buona parte della mia vita l’ho fatta lì. Andavamo fuori e venivano a prenderci, dovevamo fare dei lavori e ci portavano via col camion lontano, altrimenti si andava a piedi e si tornava lì. Io non ho avuto un posto fisso mai; solo una volta verso i primi di aprile, a metà aprile, ad Amstetten, una stazione a 60 chilometri fuori che era proprio distrutta. Là eravamo 7.000 prigionieri, era un putiferio.

D: Sei stato lì a un Kommando?

R: No, siamo stati al lavoro alla stazione per riattivare un binario per i treni e sistemarla, visto che era bombardata. Abbiamo subito dopo tre giorni che eravamo lì un altro bombardamento di quattro ore, senza un colpo di contraerea; era un disastro.

D: Vi portavano fuori dal campo al mattino e tornavate alla sera?

R: Per lavorare a Mauthausen ma poche volte, il più siamo stati fermi a Mauthausen. Fermi a Mauthausen, non lavorare; si preferiva lavorare piuttosto che star dentro là fermi. Pioveva, fermi, stretti l’uno con l’altro in mezzo al cortile, perché era freddo. Se pioveva c’era umidità, eravamo bagnati. Ci si ammucchiava in 300/400, quanti eravamo, ci si metteva schiena contro schiena per stare caldi. Ogni tanto capitava il capoblocco, uno della SS col nerbo e allora si cercava di non andare in mezzo al mucchio: tanti di loro sono stati morti calpestati.

D: Quindi sei rimasto sempre nel blocco di quarantena?

R: Sì.

D: Fino a quando?

R: Fino alla Liberazione. Perché dopo che sono ritornato da Amstetten sono tornato a Mauthausen.

D: Ma ad Amstetten tu stavi a dormire?

R:Sì, siamo stati lì otto o dieci giorni e ho dormito lì. Anche lì le ho prese. C’erano due russi vicino a me che non lavoravano Vedo un tedesco che con un pezzo di traversina di legno li picchia sulla schiena e a me che avevo un carico di mattoni sul braccio non va per traverso? Ho mollato i mattoni e hanno preso questo dito che è stato frantumato. Alle dieci di mezza di sera, pioveva, e alle undici smontava, a quelle ore lì le ho prese. In pochi giorni il dito è divenuto così. Mi pare che dopo tre quattro giorni dopo il secondo bombardamento ci hanno detto di rientrare. Siamo rientrati a Mauthausen di nuovo, passato al bagno, la stessa cosa che abbiamo fatto alla partenza. Sono andato dal medico per il dito che era così. E mi dice di cavare l’unghia. “No, qua tagliare”. E lui: “No”. Io il mio e lui il suo, l’ha vinta lui, perciò ha preso l’unghia e mi ha fatto male. Sono svenuto. Sono andato fuori, non ho neanche preso la disinfezione, sono andato fuori, ho tirato quel dito, ci ho orinato sopra, ho mandato un compagno a prendere un pezzo di carta igienica e l’ho fasciato.

All’indomani ho cambiato la benda e negli ultimi giorni avevo ancora il dito gonfio e cotto; è guarito nelle cucine quando sono stato liberato, perché andavo a cercare da mangiare. Non mi vergogno a dirlo, ero là.

D: Guido, scusa un attimo. Quando sei arrivato nel campo di Amstetten …

R: Non era un campo ad Amstetten, era una stazione di smistamento.

D: Ma dopo, quando andavate a dormire, dove vi portavano?

R: In un capannone con la paglia, là c’era la paglia e dormivi. Lavorare di giorno e di notte quasi all’aperto.

D: Eravate in tanti?

R: Sì, eravamo in tanti. Non eravamo solamente quelli partiti da Mauthausen, ce n’erano da tante parti, da tutte le parti. Siamo a migliaia, degli altri non posso dire, so dei nostri in quanti eravamo.

D: E poi ti hanno riportato ancora a Mauthausen?

R: Sì.

D: Sempre nel blocco di quarantena?

R: Sempre nel blocco di quarantena.

D: Ti ricordi che numero era il blocco di quarantena tuo?

R: Io avevo la terza baracca, entrando dal campo libero, in fondo a sinistra c’erano i blocchi di quarantena e la terza baracca era la mia.

Vorrei raccontare un altro episodio. Non vorrei ma lo racconto perché un povero disgraziato ha lasciato la vita a tre metri di distanza da me.

Mentre eravamo incolonnati per l’appello nella nostra baracca ne mancava uno. Un tenente va su e giù per tutti i blocchi, controlla le baracche e non lo trova. Il capoblocco è partito a cercarlo nel campo libero, dietro le cucine. L’ha trovato che cercava di tirar fuori qualcosa; io ero proprio all’entrata del cancello in testa alle baracche, vicino. Veniva avanti. Il tedesco non era lì, era nella baracca dietro. Il tenente viene giù, lo trova, a tre metri distanti da me parlano i due tedeschi, il capoblocco e il tenente: “Dov’era?” “Nelle cucine, dietro le cucine, nelle immondizie a cercare”.

Gli va vicino, gli dà un pugno nella testa, è cascato per terra; gli salta sulla pancia. Quella volta mi sono voltato dall’altra parte. Dopo cosa ha fatto? E’ rimasto lì, gli ha tirato giù il numero di matricola, l’ha registrato sul suo libro.

Crematorio , sa cosa vuol dire? “Auf Wiedersehen!”, ha fatto una risata e via. Rotte le file, non so se l’ha portato nel crematorio direttamente oppure all’infermeria, ma di lì non si è alzato più e lo hanno portato via. Posso dirlo perché l’ho visto io, era a tre metri.

D: Guido, al momento della Liberazione tu dov’eri?

R: Nei blocchi di quarantena.

D: Come te la ricordi la Liberazione?

R: Me la ricordo perché il giorno prima non si aveva pace; i tedeschi venivano dentro e toccavano quelli che non riuscivano a stare in piedi, sfiniti, alzarsi in piedi, reggere il berretto e fare il saluto. Le ho prese anche lì. Sono stato fortunato perché sono qua a raccontarla, ma quante botte!

Ho avuto la fortuna della ferita che mi ha salvato, ma sono rimasto lì, quando venivano loro mi toccava alzarmi per fare il saluto e via. “Speriamo che oggi sia l’ultimo giorno, che domani venga qualcuno a liberarci”, si sentivano i colpi vicino. L’indomani alle 7 di mattino andiamo fuori, comandi non ce n’erano più, viene innalzata la bandiera sui crematori. La SS era partita, quell’altro comando era già indifferente, è entrato il carro armato!

E’ entrato il carro armato, si è presentato a tutta quella gente che c’era, ha cominciato con l’altoparlante a dire di stare fermi e calmi: loro sapevano tutto quel che era stato e quello che non era stato, dovevamo portare pazienza, piano piano avrebbero sistemano tutto.

Subito ho cercato di uscire a cercare da mangiare; fuori del campo c’erano le cucine delle SS. Siamo andati a prendere da mangiare.

Un altro particolare, fa senso ma era normale, erano le caldaie dove facevano da mangiare, come trattavano il formaggio in latteria. Una di qua una là erano in questa cucina, dentro la minestra che bolliva c’era l’uomo che girava. Una persona per andare a mangiare l’ha spinto, è andato dentro, vestito. Ma non si guardava questo, si cercava di prenderci qualcosa da mangiare.

D: Ti ricordi che giorno era?

R: Il 5 maggio, non potrei dire l’ora, dopo pranzo, no, al mattino, al mattino sono entrati verso le 11 mi pare.

D: E poi cosa è successo, poi cosa hai fatto?

R: Non ho fatto niente. Piano piano ho cominciato. In due notti c’erano 500/1.000 morti perché erano nei forni crematori, erano accatastati. Poi hanno cominciato a far venire le casse. Prima di arrivare al campo, per la strada venendo su, dove adesso mettono le corriere, da quelle parti lì hanno fatto una fossa comune e li hanno messi lì. Non so se li hanno tolti da lì e portati non so dove o se sono rimasti lì. Dopo ci siamo divisi per nazionalità: io con gli italiani, gli altri coi francesi e via. Abbiamo preso la baracca e lì abbiamo fatto un mese. Ci hanno liberati il 5 maggio e io sono rimpatriato il 2 giugno. Il 30 maggio ho terminato vent’anni. Se non vado errato mi pare così, ’25 e ’45.

D: Ascolta, sei rimpatriato dove, come sei rimpatriato?

R: Con la Croce Rossa Internazionale. Abbiamo fatto il permesso della Svizzera per passare ed è passato un convoglio di militari italiani prigionieri; il nostro comando ha chiesto se potevamo salire. Sì, siamo saliti. Eravamo sfiniti, depressi, siamo andati persino dove frenano, al posto di quello che frena, pur di arrivare a Innsbruck. A Innsbruck ci hanno detto che chi non si fosse sentito di camminare coi suoi mezzi sarebbe stato portato al campo. Dico al mio compagno: “La facciamo a piedi. Quanti chilometri sono?” “Due”. “Tentiamo di farla a piedi”. Pentiti dopo perché non si andava avanti. Non erano due chilometri, erano più di quattro per arrivare al Lager. Nel campo troviamo 10.000 italiani espatriati.

D: A Innsbruck?

R: A Innsbruck, al campo di Innsbruck. Ci hanno avvertito che noi altri saremmo stati i primi a partire e infatti quella sera siamo andati a dormire; ci hanno messo nei castelli io e il mio amico. Accendi la luce: c’era il cuscino pieno zeppo di quelle bestie, allora qua non si dorme! Siamo andati a prendere un mucchio di fieno nei campi, quello fresco, siamo venuti su, c’era un armadio, un guardaroba, l’abbiamo steso a terra, ci abbiamo buttato il fieno e abbiamo dormito lì. Al mattino ci chiamano: quelli in arrivo da Mauthausen dovevano presentarsi al cancello, lì ci hanno chiamati, di lì siamo partiti verso Bolzano. Siamo arrivati a Bolzano, ce n’erano provenienti da tutte le parti d’Italia tranne che da Udine: noi eravamo i più vicini ed eravamo gli ultimi a prendere le corriere. Abbiamo aspettato, è arrivata all’indomani, un giorno è stata a Bolzano. Anzi ero salito su un’altra corriera. Mi hanno detto: “Lei non deve salire”. “Ma perché?” “E’ di Pordenone”. “Ma arrivo fino a Pordenone!”. “No”. Sono tornato a prendere da mangiare, ho mangiato un altro piatto di riso. E così fino a quando è arrivata quella di Udine, siamo partiti dopo per Udine.

Volevo anche raccontarle che, tornando indietro, prima di partire da Mauthausen hanno dato anche i nomi degli altri per radio. Quando una missione è arrivata a Milano ci hanno detto: “Il tal giorno vi avvertiremo che i vostri nomi saranno letti per radio. Ascoltate alle sette del mattino”. E’ stato vero. Di notte io andavo a pelare patate, perché si trovava da lavorare per noi altri dopo. Al mattino, prima di andare a dormire, passato di lì alle sette, mi metto davanti alla radio e sento: “Tizio, Caio, Sempronio, Cattarossi Guido”. Presente! Qualcuno avrà sentito … difatti è stato vero.

D: A Bolzano sei rimasto fermo un giorno?

R: Sì, un giorno, un giorno e mezzo. Due giorni.

D: Ti ricordi dov’eri, dove vi avevano alloggiati?

R: Alle caserme mi pare, alle caserme di Bolzano. Un altro particolare. Una signora viene vicino e dice, eravamo in mezzo alla strada, per passare la strada come i bambini ci davamo la mano: “Da dove venite?” “Da Mauthausen”.

E’ andata a prendere le ciliegie.

D: Questo a Bolzano.

R: A Bolzano. E di lì siamo partiti con la corriera e siamo arrivati a casa, a Udine.

D: E sei arrivato a Udine quando?

R: Il 9 giugno.