Ferrante Franco

Franco Ferrante

Intervista del: settembre 1997 a Milano realizzata da
Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n.90′ – durata: circa 136′

Arresto : 2 marzo 1944 a casa

Carcerazione : a Milano a San Vittore

Deportazione: Reichenau, Mauthausen, Ebensee

Liberazione: 6 maggio 1945

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Organizzazione materiali ed inserimento dati: Elisabetta Mascarello, Elena Pollastri

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

R: La mia storia incomincia dall’epoca in cui ero studente, forse anche prima per l’educazione che ho ricevuto a casa mia. Mio padre era un vecchio socialista, iscritto al Partito Socialista Italiano dal 1900 ed ha continuato ad essere iscritto fino all’avvento del fascismo. Dopo la fine del fascismo ha ripreso. Mio nonno a sua volta coltivava certamente uno spirito molto libertario perché era anche lui magistrato, come mio padre, a Verona ancora sotto l’Austria. Nel 1859 buttò la toga, mise la camicia rossa e se n’andò con Garibaldi.

C’era nella famiglia uno spirito, un modo di pensare, di dirigersi, che era indubbiamente di carattere estremamente liberale, contro ogni violenza, contro ogni divieto, ogni limitazione di parola, d’azione, io sono cresciuto in quell’ambiente lì. Sono cresciuto con delle idee che ancora non avevo maturato, ma che però erano in un certo qual modo, rispetto ai tempi, parlo del periodo fascista, rivoluzionarie anche se non facevo niente per muovermi. Mi capitò di dover fare qualche cosa, ciò avvenne quando ad un certo momento a Milano, io frequentavo allora il liceo, istituirono la legione universitaria della milizia.

D: Scusa Franco, ti ricordi in che anno questo avvenne?

R: Questo avvenne negli anni ’30, non ero ancora all’università, ma ero ancora al liceo. Avvenne che per costituire questa legione universitaria, quello che era destinato ad essere il comandante mandò in giro per tutte le scuole medie superiori i suoi ufficialotti della milizia, invitandoli ad iscriversi volontariamente. Il che avvenne con un’estrema facilità da parte loro, sia perché c’era sempre la preoccupazione d’eventuali vendette, ritorsioni, sia perché avevano buon gioco, nel senso che in quell’epoca esisteva già il servizio premilitare obbligatorio. Tutte le domeniche i giovani di una certa età, io compreso, dovevano andare nel piazzale del politecnico a fare esercitazioni, avanti, indietro, istruiti per il lato tecnico da ufficiali dell’esercito, ma per quello che era il movimento, la squadra dalla milizia. Avevano buon gioco ad ottenere iscrizioni perché dicevano che se ti iscrivevi alla milizia eri esonerato da questi corsi premilitari.

La stragrande maggioranza diceva che così non aveva tutte le domeniche la seccatura, però nonostante ciò, saremo stati una quarantina, dicemmo di no. Allora ci radunarono in corso Roma, dove adesso c’è l’ufficio elettorale, allora c’era l’università, ci doveva essere la sede di questa futura legione universitaria. Lì fummo portati a gruppetti di otto o dieci davanti ad un altro ufficiale della milizia, dove con altre pressioni la maggior parte cedette. Rimanemmo in tre, un mio compagno di classe che la pensava come me ed un altro che non so chi fosse. Siamo andati ed abbiamo detto di no, senza fare gli eroi, ci tengo a dirlo, io la domenica dovevo lavorare, tutte storie. Sta di fatto che quando io scesi, mi fermai sulla porta per aspettare il mio compagno, quando lui venne gli chiesi che cosa avesse detto, lui mi disse che aveva detto di no. Io dissi, testuale, che aveva fatto bene. Si erano messi intorno a me, senza che io lo rilevassi, in borghese alcuni di questi militi, mi hanno acciuffato, mi hanno portato dentro, erano in sette e mi hanno caricato di botte.

Questo è stato il mio inizio. Non ha avuto fine lì perché nello stesso pomeriggio arrivò un’auto a casa, davanti alla villetta dove abitavamo, poco lontano da qui, con un milite, il quale mi disse che il comandante voleva vedermi. Io andai e mi trovai di fronte a questo non egregio signore, il quale minacce, lusinghe, arrivò persino a dirmi che se io venivo mi davano un grado, il prestigio. In quel caso lì, decisamente dissi di no. Mi mandarono a casa. Io non so se poi le vicende successive, il mio arresto, eccetera, possano essere messe in relazione con quello o con altro.

Lì si era creata un’altra situazione. Proprio davanti alla villetta dove abitavamo noi si era installato un disgraziato, uno di quelli che aveva partecipato alla riunione di piazza S. Sepolcro per la costituzione dei fasci di combattimento, che era un poveretto, ignorante, un bestione, che probabilmente provava invidia nei confronti di mio padre, che invece era stimato da tutti, era l’uomo a cui andavano, Avucat” gli dicevano, chiedevano consiglio, lui lo dava gratuitamente, aveva acquisito un grandissimo prestigio. Per di più noi eravamo amicissimi, molto, molto amici di una famiglia d’ebrei, che abitavano vicino a noi. Lui si chiamava Gustavo Sacerdote, ed era un uomo di una cultura spaventosa, aveva scritto diversi volumi, di cui due soprattutto, uno la storia di Garibaldi pubblicata da Rizzoli, un’altro Cesare Borgia pubblicata da Rizzoli, era un accademico dell’Accademia Humboldt di Berlino, ed era stato per molti anni redattore dell’Avanti a Berlino, conoscitore perfetto della lingua tedesca. Noi frequentavamo lui e la moglie, erano i nostri amici, forse non ne avevamo altri come loro. Questo ovviamente non era una cosa sana in quel periodo.

Sta di fatto che ad un certo momento arrivarono di notte, il 2 di marzo del 1944, suonarono alle due di notte il campanello, chi era? Era la polizia, voleva portarci via tutti e due perché chiedevano dell’avvocato Ferrante. Io giocai sull’equivoco, eravamo due avvocati Ferrante, mio padre che era magistrato in pensione, ed io che ero un magistrato in servizio, chi volevano? Anche qui c’è un esempio tipico di quello che era il sistema fascista, perché questo graduato rimase un po’ interdetto, pensava ci fosse un errore, lo credevo anch’io. Andò a chiedere, uscì e ritornò poco dopo, diede la risposta di tutte e due. Al che io dissi che avevano chiesto avvocato Ferrante, l’avvocato Ferrante ero io, andai io. Questo si adattò e mi portarono via. Insieme a me portarono via altri due poveretti, uno era Belgada, l’altro era Vacchini un vigile in pensione, malato, aveva già oltre settant’anni, aveva un’ulcera allo stomaco, il quale purtroppo fu il primo italiano, che io sappia, che morì ad Ebensee, perché morì subito dopo. Tutti e due non hanno fatto ritorno, sono morti tutti e due. Erano brave persone, erano tutti e due anti-fascisti, ma forse il massimo che avevano fatto era quello di ascoltare Radio Londra e parlottare tra di loro in gran segreto.

Questo fu il mio inizio. Fui portato a San Vittore e vi rimasi insieme con altri. C’era Sapone, che era un altro che abitava vicino a casa mia, che non so che fine ha fatto, non so se è stato deportato anche lui, ed altri che invece furono deportati insieme a me. Lì siamo rimasti per due giorni. C’è un episodio che voglio sempre raccontare perché è un elemento positivo per l’umanità. Io avevo il mio anello ed avevo un orologio d’oro, che mi aveva dato mio zio, quando capii come si mettevano le cose, dissi che era inutile che li tirassi dietro perché me li avrebbero portati via. Parlai con uno di quelli che giravano per il carcere, prigioniero anche lui e faceva i servizi, lui mi disse di darglieli, che ci avrebbe pensato lui. Gli diedi anello e orologio con la catena, che adesso ha mia sorella, con un biglietto in cui invitavo mio padre a compensare il datore di quegli oggetti adeguatamente al valore che io davo ad essi. Poi non ne ho saputo più niente, fino al ritorno. Al ritorno ho appreso che si era presentato uno, probabilmente un operaio, suppongo che fosse uno dei muratori che lavoravano per ricostruire il muro che era stato danneggiato da un bombardamento, il quale diede gli oggetti, non diede nome e cognome, non volle assolutamente niente e scomparve nel nulla. Purtroppo allora non c’erano quei mezzi che ci sono stati dopo per la ricerca delle persone, perché io cercai disperatamente di ritrovarlo, ma non sono mai riuscito. Questo è l’episodio positivo nella mia vicenda.

Poi siamo stati trasportati nel vagone bestiame a San Vittore. Mentre eravamo in attesa della partenza…

D: Scusa Franco, da S. Vittore alla stazione.

R: Sì, con un camioncino.

D: Era di giorno o di sera?

R: Era di mattina molto presto.

D: In quanti eravate su questo camioncino?

R: Sul camioncino eravamo in pochi perché era piccolo, ma fece diversi giri. Il gruppo complessivo era esattamente di cento.

D: Che giorno era?

R: Doveva essere il 4.

D: Il 4 marzo?

R: 4 marzo del 1944. Ci portarono con questo mezzo avanti ed indietro. Durante la strada io avevo preparato dei bigliettini che da un buco della capotte buttavo per terra, in cui avvertivo che eravamo destinati ad Innsbruck , che stavo bene. Che io sappia, nessuno di quei biglietti fu raccolto o sortì l’effetto sperato. Alla stazione ad un certo momento eravamo nei sotterranei, ci portarono sul piano ferroviario. Anche qui ci fu un altro episodio, che parla chiaramente di quella che era la situazione dei tempi, perché noi potevamo affacciarci a quel famoso finestrino che c’era in cima al vagone bestiame e da lì vedevamo un treno, che era adiacente, sul binario adiacente.

D: Al vostro?

R: Al nostro. Mi misi a berciare che eravamo dei deportati, che cosa stessero facendo di noi. Silenzio assoluto. La paura folle di questa gente che sentiva, vedeva e non diceva niente.

D: Erano civili?

R: Civili, era un normale treno con i finestrini aperti, guardavano, si vedeva lo sgomento di questi poveretti, però neanche una parola. Una parola invece ce la fece intendere un ferroviere che con fare indifferente, con una specie di mazza, ci fece capire che se noi buttavamo qualche bigliettino avrebbe pensato lui a raccoglierli. Buttammo questi biglietti ed io so che una di queste comunicazioni è arrivata, me lo disse poi mio padre, non so se è stata quella, ma altre dopo non ce ne sono più state.

Finalmente ci mettemmo in moto, incominciò il viaggio. Come sempre dentro il vagone, dove eravamo tutti stipati come sardine, anche lì ci furono degli episodi. Un episodio soprattutto, che oggi mi fa sorridere. Lo sapevano tutti che io ero un giudice: ad un certo momento vidi un signore distintissimo, con un cappotto blu e la lobbia che venne verso di me, dentro il vagone bestiame con la lobbia in mano, a presentarsi, era l’avvocato Sergio Dragoni, che divenne poi un mio carissimo ed affettuosissimo amico. Me lo ricordo, con il cappello in mano dentro il vagone bestiame. Lì ci adattammo un poco, passammo due notti molto tristi perché una prima notte, forse ancora in Italia, ci misero su un piano di smistamento del vagone.

D: Dove questo?

R: Non lo so.

D: Non te lo ricordi?

R: Era notte, cupa notte, non lo so. Con la manovra a spinta. Un freddo spaventoso, io avevo i piedi completamente gelati, non sapevo proprio cosa fare. Tutti stavano uno a ridosso dell’altro, senza poter dormire perché in questa manovra a spinta continuamente, ogni tanto questo vagone andava a sbattere contro un treno in formazione, puoi immaginarti che sollievo, che possibilità di muoverci. Questo avvenne lì e poi ancora subito dopo il Brennero, penso che fosse, per un’altra notte successiva.

Arrivati ad Innsbruck ci fecero uscire dai vagoni, era tardo pomeriggio, ma era ancora chiaro. Inquadrati, eravamo un gruppo di cento, ci portarono attraverso la città fino al campo, che era un campo come gli altri a vederlo così, le solite baracche di legno. Lì ci misero in due stanze separate da un tramezzo di legno. Ci lasciarono lì con le finestre accuratamente chiuse, perché non volevano evidentemente che vedessimo che cosa succedeva nel campo. Tutto questo perché ovviamente non sapevano ancora quale sarebbe stata la nostra destinazione, se come cosiddetti liberi lavoratori o se come deportati a Mauthausen.

La situazione divenne intollerabile perché eravamo accatastati lì dentro, l’aria era diventata assolutamente irrespirabile, sensibilmente irrespirabile, tanto che fui io a scoprire in una delle finestre, sebbene chiusa dall’esterno con il legno, che c’era uno spicchio rotto. Allora dissi che potevamo andare lì ogni tanto a respirare un po’ d’aria, così a turno andavamo lì a prendere qualche boccata d’aria, ma poi smettemmo perché era peggio, era un sollievo momentaneo per poi ritornare lì. Così rimanemmo fino a che io, facendomi coraggio, parlando con una SS, anzi non era una SS, erano dei vecchi richiamati dell’esercito, ebbi l’occasione di parlare con lui per portare fuori il mastello degli scarichi. I miei compagni non volevano, anche perché io parlavo il tedesco e volevo vedere se riuscivo a parlare con questo. Riuscii a parlare, gli chiesi, lui mi disse che era della gendarmeria, era un vecchio con i capelli grigi, mentre si facevano queste operazioni di scarico, il tempo era splendido, c’erano le montagne cariche di neve, chiacchierai un po’ e poi cercai di tastarlo e allora si bloccò, non mi disse più niente. Quello che riuscii a dirgli fu che quando noi uscivamo per prendere il mangiare, se poteva spalancare le finestre. Riuscimmo ad ottenere questo, a cambiare un poco l’aria, in modo da potere vivere lì dentro.

Le vicende interne erano le più varie. C’era tra di noi un poveretto, adesso è morto, ma è morto dopo la Liberazione per fortuna sua, che era il tipico bullo di periferia. Questo qui si trovava un po’ nel suo ambiente perché era già stato si vede condannato, faceva il tosacani di professione ed era una sagoma irresistibile. Nonostante la tristezza dell’ambiente, la preoccupazione, rideva e scherzava. Raccontava le più inverosimili storie sulla sua vita. Diciamocelo pure, in fin dei conti giovò, nel senso che ci tenne sollevati un pochino perché ci faceva ridere, parlava in dialetto milanese. Tra di noi c’era prigioniero Stucchi, che era un noto tipografo milanese, un uomo anziano, lui lo affrontava, gliene diceva di tutti i colori, non posso ripetere certe frasi che lui diceva, quell’altro si scandalizzava. Avevamo trovato anche la maniera di intrattenerci parlando delle proprie vicende a tutti, della propria vita, per cercare di tenersi su.

Ad ogni modo si rimase dieci giorni circa ad Innsbruck. L’esito fu quello purtroppo che noi speravamo che non fosse, cioè Mauthausen. Ci chiamarono, ci fecero firmare un registro, di cui una pagina era coperta. Ero ancora inesperto, non sapevo che cosa poteva costare un azzardo, avvalendomi della lingua tedesca chiesi che cosa stessimo firmando, mi rispose che non m’interessava.

D: Scusa Franco, il campo d’Innsbruck era una vecchia caserma, dov’era?

R: Era proprio un campo costruito con quelle solite baracche, più o meno come quelle che abbiamo visto noi. Seppi dopo che era una specie di campo di punizione, così mi dissero, non lo so di preciso. Era certamente un campo di passaggio. Un giorno, mentre ci recavamo a prendere il cibo che ci davano da mangiare, andavamo fuori a prenderlo, passammo davanti ad una baracca dove c’erano delle donne ebree. Queste ci chiamarono e ci dissero qualche cosa, purtroppo non ero lì davanti perché ero più avanti, ma dietro c’erano degli altri che si erano fermati proprio all’altezza di queste finestre, queste cercavano di incoraggiarci.

D: Erano italiane?

R: Italiane ebree.

D: C’erano altre nazionalità che tu ricordi?

R: C’era una specie di capo russo. Questo lo so perché lui venne più di una volta nella nostra baracca, ad un certo momento ci distribuì dei numeri. Il nostro nome era scomparso. Questo si prese il gusto, sapendo che io conoscevo il tedesco, di dirmi che quello era il mio nuovo nome, me lo disse in tedesco. Era un russo, non so se ucraino, ed era lì con funzioni evidentemente di capo perché girava nel campo. Del campo poi non ho visto nient’altro perché era assolutamente silenzioso, nel modo più assoluto, non si sentivano voci, non si vedeva nessuno. Anche quando, chiarita la nostra destinazione, aprirono le finestre, non si vedeva circolare nessuno.

D: L’ubicazione, più o meno hai dei riferimenti?

R: Sì, era una frazione d’Innsbruck che si chiamava Reichenau, era il campo di Reichenau. Da lì fummo poi, alla fine di questi dieci giorni, trasportati di nuovo attraverso la città, assolutamente indifferente.

D: Era giorno?

R: Era giorno, assolutamente indifferente, non ci degnavano di uno sguardo, purtroppo devo pensare che fossero ormai abituati a questi spettacoli. Ci portarono alla ferrovia, dove ci misero di nuovo in due vagoni e ci spedirono. Il treno, dopo una certa attesa, partì e ci avviammo in una direzione che io, guardando un po’ la luce del sole, avevo stimato essere verso nord-est, più est che nord. Lo dissi ai miei compagni, si pensava di andare in Polonia, ma non c’era la possibilità di rendersi conto di dove eravamo perché il paesaggio era tutto coperto da neve, praticamente non si vedevano villaggi, per un lungo tratto di tempo non abbiamo visto assolutamente niente, fino a che, sempre dal finestrino del vagone bestiame, si vide una specie di sperone, una specie di montagna molto, molto lontana che figurava all’orizzonte. Vedevamo che ci avviavamo sempre in quella direzione.

D: Scusa un secondo Franco, t’interrompo.

R: Va bene.

D: C’era questo sperone, questa montagna che tu vedevi.

R: Questo sperone, che però non ci diceva ancora niente. Il treno andava molto lentamente, era un treno merci. Finalmente si arrivò ad una città.

D: Scusa Franco, quando parli di treno intendi sempre le carrozze carri bestiame?

R: Era un treno merci, in cui erano inserite le nostre due vetture, con manovra a spinta le avevano messe.

D: Chiuse?

R: Chiuse.

D: Carri bestiame?

R: Carri bestiame, con il finestrino con il filo spinato per evitare…

D: Le porte erano chiuse anche dall’esterno?

R: Erano chiuse dall’esterno, lo so perché quando poi ci facevano scendere, si sentiva che schiavacciavano, c’erano dei grossi lucchetti, per cui erano chiuse dall’esterno.

D: Una stima, in quanti eravate su ogni vagone?

R: Dipende, complessivamente eravamo cento, erano due vagoni, se i vagoni erano uguali, cosa che sinceramente non ricordo, eravamo cinquanta e cinquanta.

D: Vi avevano dato da bere e da mangiare?

R: Niente. A San Vittore ci avevano rifornito di cibo in maniera inverosimile, con del pane come noi non vedevamo da tempo. Io chiesi come mai, mi dissero, sempre uno di questi che girava, che questo compito di fornire il vettovagliamento se lo era assunto un industriale ignoto, che ci dava del pane bianco, non era il pane bianco d’oggi evidentemente. Ci siamo portati al seguito, siamo arrivati a Mauthausen che avevamo ancora un poco di questa roba.

D: Scusa se faccio ancora un salto indietro. Interrogatori, quante volte ti hanno interrogato e chi ti ha interrogato?

R: Interrogatori io non ne ho mai avuti, né io né altri. Ancora a Milano, prima di andare a finire a San Vittore, ci portarono al commissariato di via Copernico, lì successe un altro fatto strano. Ad un certo momento, eravamo in un cortile chiuso naturalmente, mi sento chiamare ed era un poliziotto, mi chiese cosa ci facessi lì. Era uno che aveva partecipato ad un’operazione in grande stile, a cui avevo partecipato anch’io come giudice a Milano e mi aveva riconosciuto. Mi fece gli auguri in una maniera! Fummo portati a gruppi di dieci dal cortile in una stanza, dove c’era un funzionario semi-sdraiato, dietro ad una scrivania, che ci chiese nome, cognome, età, professione, luogo di nascita e basta.

D: Era italiano?

R: Italiano, era della polizia. Dietro a questo brav’uomo faceva bella mostra di sé appeso al muro un bastone lungo così, che mi sembrava fatto di vimini ricoperto di pelle, sono memorie che non si dimenticano. Mi fece impressione perché questo non era uno strumento previsto in un commissariato di pubblica sicurezza. Lì abbiamo avuto il primo incontro con le SS, è arrivato un camioncino, lo stesso camioncino che ci avrebbe poi portato alla stazione, con le SS e dei militi italiani. A gruppi ci portarono a San Vittore.

D: Un’accusa a te non l’ha rivolta nessuno.

R: Mai da nessuna parte, né a me né agli altri. Assolutamente niente. Siamo stati presi e mandati là. L’unico interrogatorio che mi hanno fatto è stato quello. Dopo, inutile parlarne, nel campo anche lì generalità e basta, né tanto meno interrogatori da parte delle SS.

D: E’ stato qui a Milano che è avvenuto il passaggio dagli italiani alle SS?

R: Sì. Ti dirò che già all’arrivo al carcere di San Vittore, dal commissariato di via Copernico, arrivammo e ci ammassarono, eravamo tutti a gruppi, per presentarci di fronte all’ufficio matricola per la solita storia del nome e cognome. Io con un’incoscienza, che dovevo semplicemente alla mia ancora inesperienza di quello che sarebbe successo, ad un certo momento vidi una SS, che era lì in piedi, a gambe larghe e ci guardava. Io andai da lui e gli parlai in tedesco, gli dissi come mai ci avessero portato qui, quello mi rispose che non lo sapeva, che eravamo a disposizione degli italiani. Questo lo seppi dopo, era il famigerato Klemm, era il capo delle SS che erano di servizio al carcere di San Vittore, di una ferocia unica. Una delle cose che lui si divertiva a fare nel carcere, era di far inginocchiare i prigionieri per terra e farli camminare a quattro gambe leccando il pavimento, lo chiamava il gioco dei ranocchi. Ne parla anche Di Martino nel suo libricino. Era un uomo di una ferocia non comune, lì le botte andavano.

D: A San Vittore ce n’era un altro con un cane, una SS.

R: Non lo so. Erano diversi, però lì Klemm, per quanto ne so io, era il capo, era un graduato, non era un ufficiale, doveva essere un sergente, un sottoufficiale. Questi sono stati i miei contatti, dopo riprendo la storia e si va avanti.

Si arriva finalmente a Salisburgo. Lo sperone si era reso evidente, era la montagna dietro a Salisburgo, tra di noi c’era uno che poveretto è rimasto lì, era stato prigioniero di guerra della prima Guerra Mondiale a Mauthausen, allora era stato già destinato a campo di prigionia, di stile diverso. Lui quando lo vide disse che eravamo a Salisburgo, e che ci stavano portando a Mauthausen. Effettivamente fu così perché da Salisburgo si sostò, non mi ricordo, un’ora, due o tre in stazione. Il treno si avviò di nuovo finché arrivammo a S. Valentin, dove c’era la derivazione per il trenino ad un binario solo per Mauthausen. Sganciarono i vagoni e ci portarono a Mauthausen, dove incontrammo le prime vere SS perché erano quelle dei campi, erano quelle che avevano la Totenkopf, la testa da morto sopra il berretto, le quali ci accolsero con un mucchio d’ingiurie, “Adesso vi arrangiamo noi”, “Badogliani”, “Traditori”, “Ci avete tradito”. Al momento del saluto, nel momento in cui eravamo lì, rumorosamente armarono i fucili. Poi inquadrati per cinque ci avviarono su per la strada, che non è la strada d’oggi di Mauthausen, che è asfaltata; era terreno, terra battuta, siccome aveva piovuto e pioveva ancora, era tutto un fango.

D: Era giorno quando siete arrivati?

R: Sì, siamo arrivati di giorno, sempre sul pomeriggio. Abbiamo intrapreso quest’ascesa, faticosa, infangati fin sopra ai capelli. La strada era stretta, stavamo per cinque, dovevamo essere come l’uso sempre nel campo, si mettevano i piedi dove si dovevano mettere perché non c’era altra scelta. La situazione era anche tragica perché tra di noi c’erano due, uno un vecchio mutilato di guerra, che viaggiava col bastone, bastone che gli avevano portato via subito ad Innsbruck appena arrivati, poi peggio, un giovane privo di una gamba con le stampelle, anche a lui ad Innsbruck avevano già tolto le stampelle. Questo poveretto dovette essere trasportato a spalla, ci si alternava per portarlo su. Il percorso durò quasi un’ora, il percorso a piedi era lungo e faticoso per questa situazione. Finalmente ci arrestarono davanti a queste mura che vedevamo davanti a noi, il muro di Mauthausen , anzi ci fermarono prima, dove c’erano delle baracche, lì avemmo un momento di sosta.

Poi ci portarono dentro e ci misero sulla desta, dove c’era il cosiddetto muro del pianto. Lì rimanemmo. Fummo assaliti subito dai nostri compagni di prigionia, i capi che venivano per depredarci, sotto l’occhio vigile di una SS, tutto ciò andava a finire nelle mani delle SS. La maggior parte li dava perché tanto…, però qualcuno riuscì a nascondere qualche cosa, tanto che ancora ad Ebensee c’era ancora qualcuno che aveva una catenina, forse se la infilavano da qualche parte. Ci spogliarono completamente, ci fecero entrare nella scaletta sotto, tolti tutti gli abiti ed entrati nel locale docce, che conosci molto bene. Ci aspettavano i barbieri e ci rasarono dalla testa ai piedi, eravamo ridotti tutti a tagli, sfregi perché tagliavano senza andare per il sottile. Eravamo pieni di ferite.

D: Scusa Franco, cosa vuol dire nel 1944 trovarsi, anche se è un gruppo d’uomini, tutti nudi da quello giovane a quello anziano?

R: Non vuol dire niente, nel senso che ormai noi eravamo talmente presi dalla tragicità della situazione per cui era indifferente. Mi fai venire in mente un particolare, uno dei miei compagni di prigionia, che ritornò e mi regalò una bicicletta, commerciava in biciclette in via Tadino, lui mi disse che avevo un gran bel corpo, ero giovane.

D: Quanti anni avevi?

R: Avevo ventisette, ventotto anni.

D: Un’altra cosa, Franco, cosa vuol dire portare via tutto, cosa significa? Anche le fotografie, non potevi tenere nulla.

R: Nulla, assolutamente niente.

D: Una fotografia non ha un valore economico ma affettivo.

R: Niente, ci spogliarono completamente nudi. Mi ricordo che avevo un paio di scarpe bellissime, che mi aveva fatto un mio soldato, ero stato richiamato come ufficiale a Como, ed uno dei miei soldati mi disse che mi avrebbe fatto lui un bel paio di scarpe. Mi aveva fatto un paio di scarpe magnifiche, tipo carro armato, che allora era una grande novità. Se ne sono andate quelle. Avevo un cappotto bellissimo, il cappello, eccetera, tutto, completamente spogliato, nudo. Nudo e spelato perché poi tutto rasato dalla testa ai piedi.

Da lì ci portarono nel cortile, con una camicia, una mutanda e degli zoccoli, che ci avevano fatto prendere da un mucchio buttato lì alla rinfusa da una di queste stanze. Ci aspettava Erik, che era il capo blocco della baracca 16 nel reparto di quarantena, dove noi eravamo destinati ad andare. Questo Erik era un delinquente comune naturalmente, aveva il triangolo verde, ma ebbe delle premure, ci disse di muoverci, di non stare fermi, di continuare a muoverci altrimenti prendevamo un accidente, di corsa, zoccolando rumorosamente ci portò dentro il reparto della quarantena e dentro il blocco.

Nel blocco ci aspettavano gli scrivani. Ci presero di nuovo tutte le generalità, i dati che già avevano, ma li ripresero comunque tutti. Poi ci mandarono nello stanzone che era destinato alla nostra abitazione. Fu un grande sollievo perché entrammo in questo stanzone ed eravamo solo noi, cento. Ci potevamo sdraiare per terra tranquillamente e riposare, al coperto, quindi era un senso di benessere che provavamo dopo tutte queste fatiche. Questo durò poco perché ad un certo momento arrivarono altri prigionieri, dei russi e dei polacchi. La situazione cominciò a diventare difficile, soprattutto per andare a dormire.

La situazione del dormire avveniva in questo modo, erano disposti per terra, in lunghe file, dei pagliericci ed i prigionieri venivano fatti entrare, ma non potevamo coricarci perché altrimenti erano botte da orbi, dovevamo fermarci alle estremità, due per ogni pagliericcio, due da una parte e due dall’altra, tutti in piedi, in attesa del comando di buttarsi giù. Succedeva l’ira di Dio, perché non ci stavamo, era un continuo lamentarsi, una cosa impossibile. Dopo pochi giorni ebbi subito il beneficio della mia conoscenza del tedesco. Un piccolo inciso, sai come ho avuto la fortuna di imparare il tedesco? Perché un mio professore universitario ebreo, che insegnava diritto canonico ed ecclesiastico, mi propose per una borsa di studio a Berlino, che mi fu concessa dalla facoltà, ed io ho imparato il tedesco.

D: Perché tu sei stato a Berlino?

R: Sono stato nove mesi a Berlino.

D: In che anno questo?

R: 1936, l’anno delle olimpiadi tra l’altro. Ho visto Hitler, Goring, Goebbles, li ho visti tutti quei cerberi lì. La mia fortuna era il tedesco perché ad un certo momento saltò fuori Georg Godsche, era un delinquente comune anche lui. Non ho mai saputo bene che cosa avesse fatto. Era un “bunascia”, per dirlo alla milanese, non l’ho mai visto picchiare qualcuno, anche dopo che fu incaricato di funzioni di capo, perché tutti i tedeschi venivano tirati fuori, ma soprattutto i delinquenti comuni, i politici no, ma i delinquenti comuni erano tutti scelti per essere capi. Questo qui aveva saputo della mia professione perché sopra il mio cartoncino c’era scritto. In via Copernico avevo dichiarato d’essere magistrato, quindi se io cambiavo mi caricavano di botte, quindi figurava.

Lui era venuto a sapere che ero un magistrato, forse meditava che questa mia funzione avrebbe potuto giovargli nel futuro, quindi mi aiutò. In quel periodo disastroso, con mia grande vergogna, dovevo andare a dormire con lui, sopra in un castello, era l’unico castello che c’era, mi aveva preso con sé. Mia vergogna nei confronti dei miei compagni dico io, non per lui, era un brav’uomo anche se non so cosa avesse commesso, ma era un brav’uomo. Io ho cominciato già ad avvantaggiarmi in quella maniera, non solo, sempre per questa mia conoscenza del tedesco, lui mi teneva nella baracca quando cacciavano fuori tutti gli altri per la pulizia eccetera, per mettere a posto i materassi, per fare quei lavori lì, anche questo era un enorme privilegio, perché eravamo in marzo e là nevicava ancora, un freddo tremendo, spaventoso, tanto che quelle volte, prima dell’inizio di questa situazione, andavo fuori anch’io, ci mettevamo uno addosso all’altro, stretti l’uno all’altro per tenerci caldi, battendo i piedi, poi ci tenevano lì due o tre ore, a loro non costava niente questo. Io avevo già questo grandissimo beneficio di essere sottratto al rigore del freddo.

In genere tutti gli altri che erano lì avevano intrapreso a conoscermi, io ero diventato l’interprete ufficiale del gruppo italiano. Anche quando veniva una SS e chiamavano un interprete, io dovevo presentarmi e fare da traduttore di quello che veniva di volta in volta riferito. Non solo, ma anche nei confronti dei capi, ad eccetto di uno, io acquisii, non dirò familiarità mai, né l’avrei voluta, ma ero accettato, tanto che io ebbi occasione di parlare anche con Erik, il capo blocco, il quale si confidò con me. Lui era da dodici anni in prigione, tra campi di concentramento, prigioni, anche lui non so che cosa avesse fatto, una cosa tipica che lui mi disse è che non aveva più visto la sua famiglia e non l’avrebbe mai più rivista perché dopo quello che avevano sperimentato, non li avrebbero lasciati vivi, li avrebbero ammazzati tutti. Un altro mi disse un’altra cosa, anche lui tedesco, che se lui fosse riuscito ad uscire da qui, ad essere libero, avrebbe scritto un libro intitolato Cultura Civiltà. Questi sono piccoli particolari della vita.

Non facevamo nulla. Praticamente eravamo lì, stavamo lì in attesa dell’appello che veniva fatto dentro la baracca perché noi eravamo in quarantena. Io ero tormentato dal dubbio che mio padre fosse stato arrestato anche lui, infatti, so che lui la mattina successiva al mio arresto andò, forse qualche persona caritatevole gli disse di andare via, l’hanno mandato via perché era andato alla Caserma del Savoia Cavalleria, dove in un primo momento ci avevano portato, proprio le prime ore, invece no, per fortuna. Ritrovai invece Brigada e Vacchini, che non erano partiti con noi, ma che erano partiti con un gruppo successivo e che purtroppo, come ho detto, morirono entrambi. Lì passavamo la giornata. Io avevo trovato un giovane polacco, un giovane studioso che voleva imparare l’italiano. Mi ero messo con lui a cercare di insegnarli l’italiano. Questo si è ricordato di me perché anche dopo che ero ad Ebensee, in due occasioni mi fece pervenire i suoi saluti, poi non ne ho saputo più niente naturalmente, spero che si sia salvato. Era un giovane molto educato, fine si capiva, lui aveva funzioni d’aiuto scrivano nella baracca, spero che si sia salvato.

Un bel giorno ci dissero che dovevamo partire.

D: Scusa Franco, l’immatricolazione quando te l’hanno fatta a Mauthausen?

R: Nel momento in cui arrivammo dentro la baracca, trovammo un quattro o cinque scrivani, ciascuno dei quali prendeva tutti i dati relativi ed aveva quei famosi cartoncini, che erano la nostra carta d’identità, che ci hanno seguito dappertutto, anche da morto perché quando io accompagnavo i morti al crematorio dovevo portare anche il cartoncino relativo. Un giorno ci dissero che dovevamo partire.

D: Scusa ancora, il tuo numero te lo ricordi?

R: 57.576.

D: Contestualmente al numero cosa ti hanno dato?

R: Mi hanno dato una piastrina, ho quella di Dragoni di là, in cui c’era inciso il numero e dovevamo tenerla al polso con un filo di ferro. A lui avevano fatto un cinturino perché era diventato infermiere, quindi si era perfezionato. Questo era tutto.

D: Il triangolo non te lo hanno dato?

R: Sì. Quando partimmo ci diedero la divisa nuova di zecca, pulita, a strisce, lì ci applicarono la striscia con il triangolo rosso, l’iniziale “I” ed il numero, in più questo braccialetto da portare al polso, il numero inciso sopra una piastrina metallica, tenuta ferma da un filo di ferro.

D: E poi il triangolo.

R: E poi la giacca con la striscia, con il triangolo ed il numero 57.576.

D: L’impatto di quando sei arrivato all’interno di Mauthausen, avevate già una percezione per esempio del forno crematorio?

R: No, l’impatto fu tragico perché arrivammo, come ho detto, nel tardo pomeriggio, pioveva, entrando dal portone principale si arrivava sulla piazza dell’appello, completamente deserta e lucida dalla pioggia. Un senso di freddo, non c’era niente che ti desse qualche incoraggiamento, tutto freddo, silenzio assoluto, non un’anima, salvo quei due o tre che ci giravano intorno e quest’enorme spiazzo di cemento lucido per la pioggia. Si vedevano a sinistra delle baracche, la prima era quella dove c’erano le donne, il postribolo, poi ce n’erano delle altre invece per i prigionieri, poi più in là c’era il muro dell’entrata della quarantena, sulla destra invece c’erano degli edifici in parte in legno ed in gran parte in muratura, con dei camini, ma noi ancora non sapevamo che cosa fossero, poi ce l’hanno detto subito, si sentiva l’odore della carne bruciata. L’impressione fu durissima perché non c’era niente d’incoraggiante, assolutamente niente.

D: Poi il giorno della partenza.

R: Il giorno della partenza ci hanno portato alla stazione.

D: Da Mauthausen alla stazione sempre a piedi?

R: Sì, a piedi, però era pulito, non pioveva, era ormai il giorno 9 d’aprile, era il giorno di Pasqua, era una bella giornata. Tutti inquadrati scendemmo giù e ci misero dentro un treno, un vero treno, non un vagone bestiame, con i sedili, doveva essere di terza, ci sembrava di andare a fare un viaggio di piacere. Con questo treno ci avviammo, passammo diversi paesi Welz, Munden ed ad un certo momento ci trovammo a costeggiare un lago, che era il lago di Ebensee, la ferrovia corre lungo una delle rive di questo lago.

D: Scusa Franco, per prendere voi e portarvi in questo trasporto, hanno fatto una selezione?

R: Sì, ci fu una selezione, anzi lì c’era qualcuno che si era interessato per me, volevano cercare di salvarmi, credendo di potermi salvare, per cui avevano detto che avrebbero fatto in modo che il medico mi scartasse, perché ci fu una visita, una visita pro-forma e così non sarei andato lì perché la fama di Ebensee era spaventosa, era considerato, come lo era effettivamente, uno dei più duri campi, anche perché diversamente da tanti altri, era sotto la diretta amministrazione e sorveglianza delle SS, lì era un’istituzione delle SS. Questo non funzionò, io rimasi tra gli ultimi, furono scartati due, che erano due giocatori di football, che sono tornati tutti e due, sono tutti e due vivi perché dovevano servire per fare la squadra di football del campo. Loro rimasero, io no, quindi mi riunii agli altri e partii insieme agli altri.

Intraprendemmo questo viaggio, come dicevo, arrivammo lungo la costa del lago di Ebensee, paesaggio splendido, la giornata era meravigliosa, tra l’altro durante il viaggio si ebbe l’occasione di vedere la popolazione vestita con i costumi tradizionali perché era il giorno di Pasqua, gli uomini e le donne con i costumi nazionali, che già giravano perché era giorno festivo. Tutto questo faceva un certo piacere perché era la vita che si manifestava, anche se non per noi. Arrivammo in fin dei conti ad Ebensee, il treno si fermò un po’ dopo la stazione, doveva essere un piano di smistamento. Lì ci fecero scendere. Lì mi arrabbiai con un mio compagno di prigionia, era un avvocato, preferisco non fare il nome, era un avvocato che si rese famoso perché lo chiamavano il corvo di Mauthausen perché era un pessimista ad oltranza. Questo qui dovendo urinare, preoccupato di non farsi vedere, mi urinò completamente sui calzoni. La cosa era grottesca perché eravamo conciati in un modo tale, che gli dissi che cosa stava facendo.

A piedi ci portarono su al campo per una strada, anche quella allora era tutta in terra battuta, ci fecero entrare nel campo. Pioveva, tanto per cambiare, lì si ebbe subito un esempio immediato di quella che era la nostra sorte. Lì venne Magnus, che era il capo interno del campo, delinquente comune anche lui, aveva un numero a tre cifre, quindi era un vecchione. Si mise a sberciare contro di noi, ordinò che trasportassimo del materiale, che era accatastato sulla piazza dell’appello, all’interno.

D: Subito?

R: Subito, sotto la pioggia battente, con i capi e capetti che seguivano con il bastone e lo adoperavano. E’ inutile dire che dopo poco eravamo tutti completamente fradici. Cosa succedeva? Che qualcuno nei viottoli del campo, perché il campo era sistemato in un bosco d’abeti, riuscivano a scappare ed andavano a rifugiarsi nella baracca, dove c’era una stufa al centro, che non serviva a niente. Tutto questo serviva a poco perché ogni tanto arrivava un capo, veniva lì, tastava se eri fradicio o no, se non lo eri abbastanza botte e fuori di nuovo a lavorare. Ad un certo momento ero proprio grondante, seguii l’esempio, a me andò bene perché quello che mi ha tastato ha visto che ero fradicio e mi ha lasciato lì. Questo fu il nostro saluto all’arrivo ad Ebensee.

L’accoglienza nella baracca fu la più umana possibile, il capo della baracca, il capo blocco era uno spagnolo, Jornet, era un antifascista stragiurato, quindi questo qui ci fece trovare subito una zuppa calda, rape da foraggio, ma comunque calde. Questo fu un grande benessere. Lui era una brava persona, ho visto dare qualche scapaccione, purtroppo lo doveva anche fare, lui era uno dei diecimila spagnoli che erano stati decimati. Come tutti gli spagnoli aveva acquisito una posizione di rilievo perché lui era capo blocco; moltissimi altri, che non erano morti, erano barbieri perché era un modo per sottrarsi al lavoro e stare nella baracca.

Lì incominciammo la nostra vita da deportati, che incominciò abbastanza bene, grazie al famoso Georg Godsche, Giorgio, il quale come tedesco fu incaricato subito di una squadra che doveva portare pietre da fuori del campo. Si doveva uscire dal campo con un carrello, una decauville, e riportarlo dentro carico di pietre per fare il fondo di quella che avrebbe dovuto essere la piazza dell’appello, perché era ancora un terreno tutto avvallato, fango. Lui aveva preso questo comando e mi aveva detto di prendere i miei compagni e di farli andare con lui, che lui gridava per farsi credere. Non l’ho mai visto picchiare nessuno, il Georg Godsche. Lui pretendeva che io facessi il suo interprete, ma io volevo fare quello che facevano gli altri. Facevamo questo lavoro, lui era un assoluto inesperto, avevamo montato bene o male questa decouville, si usciva ogni volta dal campo, davanti alle SS annunciando il numero, si andava trecento metri più avanti, dove c’erano questi frantumi di pietre, li caricavamo nei carrelli, li portavamo indietro, avanti ed indietro, questo era il lavoro.

In quel periodo mi ammalai, avevo la febbre, non stavo bene, probabilmente era un’infiltrazione polmonare, come poi pare che abbiano riscontrato, lì intervennero i miei compagni, Dragoni & C., sai che cosa fecero? Noi lavoravamo sulla piazza dell’appello, e nella piazza dell’appello c’erano da un lato delle baracche che erano a quindici o venti metri dal filo spinato, allora mi portavano dietro a queste baracche, dal lato dove c’era il filo spinato, aprivano una delle finestre delle baracche, che era piena di balle di paglia, mi infilavano lì dentro. Io stavo lì fino a che poi venivano a riprendermi, dopo aver guardato bene che non ci fosse nessuno, mi tiravano fuori e ritornavo con loro. Intanto io dovevo andare avanti perché farsi visitare era anche un rischio, perché si poteva essere spediti subito. Intervenne anche qui la fortuna.

Nel momento in cui noi arrivammo nella baracca, ci ammassarono tutti nella prima Stube, era divisa in due stanze e fecero l’appello uno per uno, chiamando il numero, dopodiché si passava dalla porta dall’altra parte e si faceva quello che si voleva. Nel momento in cui arrivai io, che ero come gli altri, rasato, lo scrivano, che era un lussemburghese mi chiese in francese, Dio sa perché, che professione facevo. Dio sa perché, io gli ho risposto in tedesco, dicendogli una bugia, risposi che facevo il ragioniere. Quello mi guardò e non capiva perché mi parlasse in francese e io gli rispondessi in tedesco, così io gli dissi che conoscevo tutti e due. Guardò il mio cartoncino, fece una gran risata e mi disse che non ero un ragioniere, ero un pubblico ministero. Io ero stato zitto perché avevo visto che c’era una sfilza di triangoli verdi, se io andavo a dire che ero un magistrato mi conciavano subito per le feste. Successe l’ira di Dio, disse che avrei visto cosa volesse dire prendere i poveracci e mandarli in galera. Pensa che non ero giudice, ma proprio pubblico ministero, chi mi ha salvato è stato ancora Georg Godsche, che è venuto avanti con la sua autorità di delinquente professionale, ha detto che mi conosceva e che non avevo mai fatto il giudice penale, il che era vero, ma civile. Sai che non mi ha più toccato nessuno per quel motivo lì, per altri motivi sì, sotto quel profilo non ho avuto più nessun fastidio.

Io andai nell’altra stanza e mi venne incontro un perticone tedesco che mi disse se parlavo tedesco, mi feci furbo e gli risposi che parlavo ancora meglio l’inglese, tedesco, francese ed anche un po’ di spagnolo; lo inventavo lo spagnolo ma fa niente. Lui prende il mio numero e mi dicee “Fatto”, e se ne va. Appresi che questo era uno scrivano del blocco uno. Il blocco uno era quello dove c’era la segreteria del campo, con il capo scrivano e tutti gli altri scrivani che gli facevano corona per i lavori del campo. Io andai e ad un certo momento tornai nella mia baracca, ripresi il lavoro come al solito, faticando e tremando per la febbre, finché un giorno, alla fine dell’appello della sera, venne lo scrivano, che era anche lui un lussemburghese, e mi disse che domani dopo l’appello dovevo fermarmi perché mi voleva parlare il capo scrivano, che si chiamava Albert, era un lussemburghese pure lui, ed era un funzionario di un’impresa d’assicurazioni.

Dopo l’appello mi fermai lì davanti ad Albert che incominciò a parlarmi in francese, in tedesco, l’inglese lui non lo conosceva. Alla fine di questo colloquio, mi chiese diverse cose, come avevo imparato il tedesco, poi mi disse che da domani, presente l’altro scrivano, dovevo andare nel blocco 6, di presentarmi allo scrivano e che avrei fatto l’aiuto scrivano. Così fui destinato a questa baracca, il cui capo blocco era una carogna tremenda, un bestione polacco, che mi odiava a morte perché sapeva che ero magistrato, ormai lo sapevano tutti. Ebbi invece la fortuna di trovare uno scrivano che era un prete, Konrad, prete cattolico.

D: Di dove?

R: Il paese preciso non lo so.

D: Nazionalità?

R: Polacca. Arrivai lì e non c’era lo scrivano, quindi quando arrivai mi aggredì subito il capo blocco dicendo che ero scappato dal lavoro. Gli dissi che mi avevano mandato lì come aiuto scrivano, bofonchiò qualcosa di disapprovazione ed andò dentro la sua baracca. Finalmente arrivò Konrad, che era un prete, era un tipo stranissimo, dopo ti dirò anche perché, era una persona civile, colta, mi accolse cordialmente, mi chiese chi fossi, s’informò su di me e poi mi disse che dovevo aiutarlo, che mi avrebbe ammaestrato per quello che era il nostro lavoro ed io l’avrei aiutato. Preparavo il libro per gli appelli, tante altre cosette, sempre mal visto da tutti, tra l’altro in quella baracca c’erano solo due italiani. Appena ebbi la possibilità di farlo, andai a cercarli e mi dissero di tutto, del capo blocco prima di tutto, dei compagni che erano quasi tutti polacchi e russi e che li odiavano a morte. Un inciso, noi italiani eravamo particolarmente mal visti da tutti, anche dai nostri compagni di prigionia. I francesi ci consideravano i traditori, i russi ed i polacchi ci consideravano fascisti, le SS poi non ne parliamo addirittura. Eravamo in genere mal visti da tutti. Questi poveretti erano delle vere e proprie vittime, non so neanche in che squadra lavorassero. Io ho continuato per un po’ di tempo a fare l’aiuto scrivano.

In quel periodo ci sono stati degli episodi tragici. Il primo episodio tragico a cui ho assistito personalmente fu quando, accompagnando gli ammalati all’infermeria, fui chiamato a fare da interprete perché c’era il capo del campo SS, che si chiamava Rimer, non era l’ultimo Ganz, che poi fu mandato via, ed un altro che erano davanti ad un infermiere che stava medicando un uomo italiano, che si era tagliato con la falce due dita, volevano sapere come era successo, lo chiesi a lui e lui rispose che lo avevano mandato insieme ad altri a raccogliere degli arbusti sempre nel bosco dentro al campo, per il gelo della mano non aveva sentito e se le era tagliate. Io ho tradotto letteralmente, ed il capo blocco disse che era un sabotaggio, cioè ferirsi per non lavorare. Era presente anche Magnus, il prigioniero del campo, il quale si mise a berciare che quella gente non la voleva nel suo campo. Per farla breve, questo poveretto fu bendato in qualche maniera, mandato fuori e lì c’erano ad aspettarlo i soliti capi e capetti già istruiti, che a bastonate lo spinsero verso il filo spinato, la SS preavvertita gli sparò due colpi e lo ammazzò. Rimase lì, tornai dopo a rivederlo come senso d’omaggio, non sapevo neanche come si chiamasse, chi fosse, doveva essere un romano. Quello è stato il primo veramente grave episodio, di violenze ne avevo già viste, bastonature.

D: Anche tu ne hai subite?

R: Altroché.

D: In che episodio?

R: Tanto per cominciare, subito all’inizio, quando ero nella baracca appena arrivato, la mattina dovevamo andare a lavarci, io mi sbrigavo a preparare il mio letto apposta per andare fuori a lavarmi, lì c’era un altro spagnolo, perché il capo blocco era uno spagnolo, che mi disse di portarlo a vedere il mio letto, io lo portai e quello mi disse se era fatto bene, giù botte con il tubo di gomma. Era un pretesto perché il letto era perfettamente a posto. Questo è uno, poi ne ho avuti tanti altri, sberle.

Una volta, mentre ero ancora aiuto scrivano, ci fu il capo della Wäscheraum dove c’erano le docce, che mi aveva chiamato per fare dei lavori insieme agli altri aiuti scrivani, io dovevo andare ad accompagnare gli ammalati, e gli dissi che dovevo andare a fare quello, come risposta mi diede una sberla tremenda che mi buttò per terra, mi rialzai e mi diede un’altra sberla dall’altra parte che mi butto di nuovo per terra. Mi azzardai di grosso perché me ne andai dal mio capo blocco, il polacco, il quale evidentemente lusingato perché mi ero rivolto a lui, gli dissi che cosa era successo, che io dovevo andare là, cosa dovevo fare, e mi disse di andare ad accompagnare gli ammalati. So che l’altro era andato lì a protestare, l’aveva liquidato e finì la storia. Questo è uno dei tanti.

Poi potrei raccontartene altre di cose tormentose. Ogni tanto anche come aiuti scrivani ci facevano scaricare dei sacchi di cemento per portarli sul luogo del lavoro, mettevano sulle spalle cinquanta chili, con questi dovevo fare un certo percorso e poi salire una scala fatta a mala pena, con il rischio di farli cadere, farli cadere voleva dire sabotaggio, quindi morte. Questo è un altro degli episodi che ho vissuto. Potrei raccontartene un’infinità di questi, finché non sono arrivato ad essere un vero e proprio scrivano, io sono sempre stato alla mercé di tutti.

D: Nella gallerini non sei mai andato?

R: Sì, sono andato ma poche volte, per fortuna o per disgrazia, non lo so, come sono andato nella Steinbruch giù, sempre occasionalmente perché dopo quei primi quattro o cinque mesi, quando poi fui nominato aiuto scrivano, la mia situazione era ancora precaria, ma era migliorata, nel senso che avevo quel lavoro e bene o male ero tutelato dallo scrivano. Ogni tanto prendevano tutti e via. Una volta, quella fu una scoperta di un capo blocco, aveva nevicato, era l’inverno del 1945, c’era più di un metro di neve, questo qui diede disposizione che tutti gli aiuti scrivani andassero sui tetti delle baracche a tirar giù la neve. Io dovetti insieme agli altri arrampicarmi lì sopra, con il rischio di scivolare, a fare scivolare la neve perché c’era il pericolo che sfondasse le baracche.

D: Il campo rispetto al paese.

R: Era dislocato a qualche chilometro di distanza, quattro chilometri circa. Da alcuni punti del campo si riusciva a vedere qualche casa del paese.

D: Poi tu da aiuto scrivano…

R: Da aiuto scrivano, quando arrivò un trasporto d’ebrei ungheresi, che erano ancora tutti in buone condizioni fisiche…

D: Trasporto che arrivava da dove?

R: Non lo so. Fui incaricato di occupare una nuova baracca e di occuparmene come scrivano questa volta. Mi trovai con questi, ti dirò che all’inizio mi trovai un po’ a disagio, nel senso che loro mi consideravano uno dei capi da trattare con rispetto, mi chiamavano Herr Schreiber, io mi arrabbiavo, dissi che ero come loro, poi riuscii a farglielo capire. Ruppi questa che era la conseguenza delle persecuzioni avute nei secoli. Era un gruppo che era ancora abbastanza sano fisicamente.

Lì ebbi un altro esempio tragico. Il mio primo capo blocco era un polacco, si chiamava Zacroski, era come gli altri, lo manifestò una volta che venne nella baracca a dirmi che un ebreo l’aveva aggredito, mi disse chi, io gli dissi che quello lì aveva il fratello qui e che il fratello mi disse che era un po’ tocco nella testa, gli avrà gesticolato davanti, non voleva aggredirlo, era un po’ matto. Poi dovetti andarmene via per preparare l’appello, quando tornai trovai una macchia di sangue nella stanza dove stavo. Io vivevo con loro, con il capo blocco, in una stanzetta ricavata e stavano lavandola. Chiesi cosa era successo, mi dissero che aveva chiamato gli altri capi blocco polacchi, avevano caricato di botte questo poveretto, gli avevano fratturato la mascella, per cui fu portato in infermeria dove morì, perché lì non erano certo in grado di rimettergliela a posto. Mi ricordo il fratello che piangeva disperato e mi disse che non aveva fatto niente. Gli dissi che l’avevo detto al capo blocco, ma che non aveva voluto intenderlo. Questo è uno dei tanti episodi, ne ho avuti altri che forse non ho neanche scritto nel mio libro.

Sempre come scrivano, ero ormai in un’altra baracca, mi capitò che c’era uno che non so che cosa diavolo avesse fatto, allora il capo blocco diede ordine che fosse messo nella squadra dello Zigeuner. Lo Zigeuner era uno zingaro di una ferocia non comune, proprio feroce, istintivamente lo faceva, io credo, per suo piacere, massacrava tutti. Questo qui tornò la sera da questa squadra, lavoravano alla fognatura, dovevano preparare la fognatura del campo, ritornò ridotto a pezzi. Questo andò dal capo blocco e gli chiese prima di tutto dieci sigarette di compenso per l’opera prestata, poi gli disse che lui aveva cercato di accopparlo, ma che non c’era riuscito perché erano intervenuti i civili e l’avevano bloccato. Anche questo fu poi mandato all’infermeria dove morì. Questo è un altro dei tanti episodi che ho visto con i miei occhi. Questo disgraziato ebbe il coraggio di chiedere le dieci sigarette anche a me come scrivano, ma gliele rifiutai naturalmente, a parte che non ce le avevo neanche.

D: Ad Ebensee c’era in funzione un forno crematorio?

R: Ad un certo momento istituirono il forno crematorio. Prima i morti venivano messi in casse grezze e portati a Mauthausen per essere bruciati. Aumentata la mortalità, costituirono il forno crematorio. Era un forno crematorio in cui c’era anche una cella che avrebbe potuto servire come camera a gas, però non fu mai adoperata. Questo mi risulta di preciso, che non ce n’era bisogno del resto perché morivano in tanti. Era un forno crematorio a capacità ridotta perché mi pare che potesse portare tre cadaveri per volta, uno sopra l’altro, li mettevano dentro e poi bruciavano, ci mettevano un bel po’ di tempo, per cui lo smaltimento era molto lento. Quando poi ci fu la moria generale, quella di migliaia di morti al giorno, dovettero scavare due fosse comuni perché il forno non ce la faceva più.

D: Parlavi di trasporti prima, c’erano degli ungheresi, poi venne un altro trasporto?

R: Ne sono venuti diversi, più di uno, ma quello che fu clamoroso fu quello, era ancora inverno perché c’era ancora la neve, almeno l’inverno di quella zona lì, doveva essere tra febbraio e marzo, erano partiti in 3.000 dal campo di Gross Rosen in Polonia, con un viaggio lunghissimo in vagoni bestiame scoperti, per cui avevano viaggiato portandosi dietro i morti, gli ammalati. Arrivarono al campo in gruppi di cento, il sistema era dividerli in gruppi di cento per facilitare la conta, entrarono nel campo. Furono portati immediatamente in uno spazio dietro le infermerie, c’era ancora uno spazio libero, non occupato da baracche, coperto di neve, furono lasciati lì. Loro arrivarono nel tardo pomeriggio, furono lasciati lì tutta la notte.

Il giorno successivo, a gruppi spogliati completamente, anche loro furono avviati nella baracca della doccia, della disinfestazione, nudi. Da lì venivano avviati a quattro blocchi, di cui uno era il mio, erano stati sgomberati completamente perché la SS, che era Ganz allora, voleva che fossero tra di loro, capi blocco, tutti dovevano essere tra di loro. Io rimasi in questa baracca insieme agli altri tre delle altre tre baracche perché dovevo istruire il mio successore, che poi è venuto anche qui in Italia, a Milano, si chiamava Hausler, è morto libero per fortuna sua. Lui era destinato a sostituirmi, intanto io per un quindici o venti giorni sono rimasto insieme a loro. Era una cosa micidiale. Cosa era successo? Che tutti quelli che erano in condizioni spaventose, ridotti a pezzi, noi li chiamavamo musulmani, erano stati avviati alla quarta baracca, messi lì dentro. Una puzza di cancrena, tutto fradicio.

Lo scrivano, che era un bravo giovane, era lì e mi ricordo che una volta nella Schreibestube, durante la preparazione dell’appello, arrivò Ganz, il capo SS, il quale chiese allo scrivano del blocco, mi pare fosse il 27, come andavano queste morti, lui rispose che ne morivano molti al giorno, ed allora lui disse testualmente “Peccato che il forno non ce la fa più”, infatti, fu l’epoca in cui poi furono scavate quelle fosse perché, come ti ho detto, passavano tutti i giorni davanti a me le slitte, c’era ancora la neve, cariche di cadaveri. Quello che lui aveva ordinato era anche un’altra cosa. Siccome c’era una puzza tremenda di cancrena nella baracca, lui aveva ordinato che fossero tolte tutte le finestre, per cui erano al coperto, nel senso che non pioveva dentro, però al freddo gelato, non solo, ma quelli che potevano stare in piedi dovevano stare per parecchie ore della giornata inquadrati davanti alla baracca sul vialetto. Io mi ricordo che passando di lì vedevi questi poveretti che tremavano. Questo era Ganz. Io potrei andare avanti per delle ore a raccontare quello che…

D: La Liberazione.

R: La Liberazione. Ti dirò che ad un certo momento, faccio un passo indietro, quando ci fu questo sistema degli ebrei, dissi che non volevo avere più incarichi, allora allo scrivano, che era questo lussemburghese, dissi che non volevo fare più lo scrivano, di mandarmi dove volesse, allora mi affidò come aiuto scrivano di un altro scrivano, che era uno dei due altri giudici del campo, era un giudice polacco, si chiamava Taddeus Vesoloski, era uno stangone, alto, un uomo colto, educato, lui era lo scrivano di una baracca. Io andai lì come aiuto scrivano di questo, praticamente facevo poco o niente, mi ero ormai un po’ sistemato. Alla fine dissi che volevo farmi ricoverare.

Andai all’infermeria, andai dal Dottor Derbries, francese, che non si chiamava Derbries, ma si chiamava Dreifuss, era ebreo ed era riuscito a nasconderlo perché era stato arrestato come partigiano, gli dissi che tante volte gli avevo portato dei miei compagni, gli portai Dragoni per esempio che venne da me conciato, l’aveva ricoverato e poi Dragoni divenne infermiere, ed a Derbries dissi che non me la sentivo più di stare in quell’ambiente perché poi ero mal visto dai polacchi, dai russi, ed allora mi trovò una pleuritis sicca, che a quell’epoca non avevo, e mi ricoverò nella stanza dell’infermeria il cui capo stanza chi era? Era Georg Godsche, non ti dico, venne a prendermi, mi portò nella mia cuccetta e lì sono rimasto fino alla Liberazione.

Vengo alla Liberazione. Era il 5 maggio, no, adesso mi confondo. Il 5 maggio è stato a Mauthausen, allora è stato il giorno dopo, il 6. Un gran frastuono, io ero in infermeria, fracasso, rumoreggiare da lontano perché le infermerie erano sul lato opposto dell’ingresso, il campo era lungo quasi un chilometro, ottocento metri circa, novecento, si sentiva vociare “Gli americani”. Allora amen, erano arrivati gli americani, si era sparsa la voce, incominciò ad arrivare lo scrivano dell’infermeria, che venne ad annunciare che il capo blocco dell’infermeria era stato ammazzato, l’avevano ammazzato i prigionieri perché era stata una carogna tremenda, come lo era anche quel periodo lì, tra l’altro aveva picchiato questo scrivano, gliene aveva fatte di tutti i colori, questo venne in giro dappertutto a raccontare che quello era morto, che gli americani erano qui. Da lì c’è stata la Liberazione.

Nella Liberazione è successo l’ira di Dio perché si sono buttati prima di tutto all’assalto dei magazzini viveri, per cui portavano via tutto quello che c’era, la farina dentro il cappello, per cui vedevi per il campo strisce di farina per terra, la seminavano così. Gente che poi è morta per le indigestioni fatte mangiando la farina cruda, erano in condizioni veramente tremende. Il giorno dopo dissi che volevo andare fuori anch’io a vedere, così andai e constatai quello che c’era da constatare, che diversi li avevano accoppati in quattro e quattr’otto. C’era un grande bacino che doveva penso servire in caso d’incendio, abbastanza profondo, dove c’erano tre o quattro cadaveri sul fondo, li avevano sistemati in quattro e quattr’otto. Sempre in quell’epoca lì vidi sempre trasportare davanti alla baracca dove mi trovavo uno trascinato per i piedi, erano due uomini che trascinavano un terzo per i piedi, chiesi chi fosse, mi dissero che era lo zingaro lo Zigeuner. Ti confesso che non ho provato nessuna pietà, l’hanno ammazzato a botte, lo portavano al crematorio perché quello ne aveva ammazzati un’infinità con le sue mani. Ho questa sensazione, di non aver provato proprio niente, che fosse giusto così, tragico che fosse, era giusto così, non poteva essere diversamente.

Una sensazione analoga, non in condizioni così tragiche, l’ho avuta un giorno sempre dopo la Liberazione, in cui incontrai il capo campo numero due, parlo sempre dei prigionieri, non di quelli esterni, che era Lorenz, quello che faceva le esecuzioni, impiccava, era addetto alle impiccagioni pubbliche ma anche private. Uno per esempio lo impiccò attaccandolo ad un abete davanti alla mia baracca, era uno che era scappato, era un delinquente comune, non so cosa disse o cosa avesse fatto, era andato a rifugiarsi nella fossa della latrina, poi l’avevano trovato, lui l’aveva preso e portato lì, l’avevano portato in cima su una scala, gli avevano messo il cappio al collo, avevano tolto la scala ed era rimasto lì appeso. Mi ricordo che, infatti, venne la SS a vedere, Ganz, questo Lorenz gli disse che l’uccellino era lì appeso. Rimase lì per tutta la giornata perché doveva servire come esempio per gli altri. Incontrai questo Lorenz, dopo la Liberazione, seguito da un guardaspalle perché aveva dei buoni motivi per temere. Lui mi conosceva bene perché ero uno scrivano ed ero in quella parte del campo che era affidata a lui, in tono cordiale mi chiese cosa stessi facendo, io gli risposi molto freddamente. C’era con me un mio compagno di prigionia e gli dissi, senza nessun rimorso, che avrei preferito vederlo morto.

Queste sono piccole pennellate, rispecchiano poi quella che era la nostra situazione, la nostra sensazione, eravamo sotto certi profili diventati insensibili. Ti dirò per esempio che quando raccontai al mio scrivano Konrad, agli inizi, il primo episodio, quello d’uccisione del poveretto, io glielo andai a raccontare, smarrito, cosa avessero fatto, lo trovai non dirò freddo o calmo, ma disse che purtroppo nel campo succedevano queste ed altre cose. Si era creata una mentalità per cui vedere ammazzare uno era una cosa normale, come vederlo soggetto a torture. Per esempio mi ricordo di aver visto uno, non so cosa avesse fatto, con le mani legate dietro alla schiena, appeso con le braccia dietro, il che voleva dire lussazione completa degli arti, in modo irrimediabile. Oppure c’era una specie di casottino di più o meno un metro di larghezza, dove mettevano dentro il prigioniero, chiudevano, questo doveva stare lì, non poteva sedersi perché non c’era spazio, pioggia, neve, gelo, freddo, caldo, per lo più si afflosciavano e morivano lì dentro. Questi erano dei sistemi previsti perché l’avevano costruita apposta questa baracchetta qua. Come ho visto quell’altro, lo sapevo già che lo facevano quel lavoro lì, ma l’ho visto con i miei occhi questo poveretto appeso con le braccia dietro, conciate in quella maniera, che puoi immaginarti.

D: Franco, che cos’è un Lager?

R: E’ difficile esprimersi. Lager nella sua etimologia vuol dire un campo, una zona circoscritta da un filo spinato, con dentro delle baracche, in cui stanno i deportati. Questo è niente. E’ un luogo di perdizione, dove non esiste più nulla, non esiste più nessuna morale, nessun principio valido, nessun principio di diritto, di tutela dell’uomo, si compie qualsiasi cosa pur di salvare la pelle. Devo dirlo con dolore, anche tra i miei compagni ci sono stati dei casi di cannibalismo, l’ho constatato io, dentro la mia baracca, ad uno gli avevano tagliato un pezzo di carne da un gluteo, era un morto. Cose di questo genere, per il mangiare si faceva qualsiasi cosa, si vendeva anche l’anima, ammesso che avesse un’importanza. Lo stesso Konrad che era un prete, non l’ho mai visto pregare, ma l’ho visto molte volte chiuso in sé, ho pensato che stesse pregando mentalmente. Non c’era nessun ausilio, qualcuno che ti desse una mano, che ti diceva di farti coraggio, mancava assolutamente. Era un luogo proprio spietato, affidato a persone spietate, che lo facevano per salvare la loro pelle se vuoi. Tutti i capi tedeschi, tutti questi capi, capetti, sotto capi, era tutta gente che, in fin dei conti, si prestava a fare qualsiasi cosa per portare la pelle a casa, triste ma è così. Il quadro è difficile descriverlo, è un quadro che più nero non lo si può descrivere.

D: Dopo la Liberazione, peripezie per tornare a casa?

R: Peripezie no, nel senso che ci siamo trovati in una situazione, il gruppetto di quelli che erano ancora abbastanza validi, tra cui c’ero anch’io, c’era Enzo Ferrari e compagni, c’era Dragoni, avevamo detto che appena ci liberavano noi ce ne andavamo. Conoscendo il tedesco ero in grado di muovermi, sennonché ad un certo momento abbiamo guardato intorno, abbiamo visto i nostri compagni, ignoranti poveretti, senza una conoscenza della lingua, ammalati, ridotti a pelle ed ossa, così abbiamo detto che non li potevamo lasciare lì. Allora abbiamo deciso, salvo qualcuno che se n’è andato per conto suo, tra cui il nipote di Carlo Scorza, a cui avevamo affidato una cassettina di medicinali, di organizzare una baracca per conto nostro. Prendemmo una delle varie baracche, la ripulimmo e tutti quelli che non sapevano dove andare, venivano lì. C’era un gruppo notevole d’italiani divisi in due categorie, quelli che erano ancora in grado di muoversi che facevano la loro vita tranquilli, nei limiti della libertà che era concessa, e poi un altro reparto invece in cui c’erano quelli che erano malati, ma non avevano bisogno di cure vere e proprie, per cui c’era ormai l’ospedale americano che li ricoverava. C’eravamo organizzati, c’era Enzo Ferrari che faceva il cuoco, i viveri li andavamo a prendere nel magazzino.

Passo indietro, il comandante del campo americano, non quello che ci ha liberato perché era andato via, che si chiamava Kepten Schien, era rimasto lì a comandare i reparti, tutta la zona militarizzata che comprendeva anche gli ospedali. Allora appena seppe che c’erano tre giudici, rispetto estremo della giurisdizione nei paesi anglosassoni, li mandò a chiamare. Diede a ciascuno un incarico, uno che era Vesoloski non mi ricordo che incarico gli diede, all’altro gli diede l’incarico dei ragazzi, c’era una baracca di ragazzini.

D: C’erano dei bambini?

R: Sì, erano addirittura tutti in una baracca, quando non servivano per altri scopi ignobili, di cui usufruivano i capi, lavoravano nelle baracche per fare pulizia, facevano quelle che si chiamavano i lavori di stanza, ma non tutti. Erano parecchi, c’era una baracca completa.

Uno di questi tre giudici fu incaricato di dirigere questo. Io fui incaricato dal Kepten Schien, virtù della conoscenza dell’inglese, al magazzino viveri. Il magazzino viveri veniva rifornito giornalmente dal basso perché gli americani andavano, requisivano, portavano su il materiale ed io tutte le mattine ricevevo i delegati dei vari gruppi che mi dicevano tanti, presenti, e distribuivo quello che avevo, di volta in volta. Davo il cibo, poi se lo preparavano loro, ciascuna baracca se lo preparava per conto proprio, infatti, da noi c’era Enzo Ferrari che faceva da mangiare e mangiavano bene. Io quello che avevo lo davo, regolarmente. Questo è stato il primo periodo di liberazione ancora sul campo, che si è protratto per un mese buono, in attesa del trasbordo ad Innsbruck .

Questo trasbordo avvenne poi per mezzo di camion americani. Lì ci fu un’altra tragedia nell’insieme delle tragedie perché purtroppo quelli che erano ammalati non potevano essere trasportati, fu estremamente difficile far comprendere a questi che dovevano rimanere lì, nel loro interesse, per essere curati. Ricordo che uno, non ci fu verso di tenerlo, scappò, arrivò sulla piazza dell’appello, dove c’erano già questi camion carichi, si fece issare anche lui sul camion ed arrivò a Salisburgo, dove facemmo sosta. A Salisburgo fu ricoverato e morì perché era ridotto in condizioni tali. Prima di andarmene feci il giro di tutte le infermerie per trovare tutti. Mi ricordo che andai, un’altra cosa che non dimenticherò mai, in una baracca che era degli infettivi, trovai il maestrino, era un maestro di Sesto S. Giovanni, adesso mi sfugge il nome purtroppo, gli portati qualche cosa, era ridotto male, infatti morì poi lì di tubercolosi. Andai in giro per vedere, per chiedere a questi infermieri americani se c’era qualcuno che poteva ancora venire via. Qualcuno sì, me li indicò, questi tutti contenti si presero il loro straccetto e furono portati a Salisburgo. A Salisburgo ci misero in una caserma dove rimanemmo praticamente due o tre giorni.

D: Croce Rossa Internazionale?

R: No, era arrivata prima una delegazione francese, insieme agli americani, poco tempo dopo. Ho anche delle fotografie di tre che erano lì. Praticamente fecero tutto gli americani.

D: Però a Salisburgo c’era…

R: No, a Salisburgo c’era Monsignore Bicchierai. Lì avvenne un fatto di cui non ho parlato, ma posso parlarne senza fare nomi. Devo fare un piccolo passo indietro. Lì ad Ebensee con noi c’era un nostro compagno, di cui non intendo assolutamente fare il nome, che era certamente un antifascista, ma che era uno strano tipo, usando strano uso un termine eufemistico, riuscì brillantemente a venirne fuori, fino ad un certo punto, perché raccontava un mucchio di storie. Lui raccontava per esempio di essere un capitano di corvetta, vantava questa sua posizione nei confronti degli ufficiali delle SS, soprattutto dell’Ufficiale Medico, che abboccavano perché lì uno diceva di essere il Padre Eterno, chi gli diceva di no. Lui raccontava questa storia, aveva anche il taglio un po’ del militare.

Dopo la Liberazione venne una sera nella baracca dove viveva insieme a noi, quella che avevamo istituito, a dirci che aveva sentito alla radio italiana che era stato promosso contrammiraglio. Inutile dire che erano tutte balle. Io ho avuto poi una piena conferma assoluta, nel senso che fu ricoverato, dopo essere rientrati in Italia, perché affetto da tubercolosi fulminante, infatti, morì in poco tempo in un sanatorio, dove c’erano tra l’altro altri ufficiali, tra cui due ufficiali di marina, ma c’era soprattutto un mio compagno di liceo, avvocato, anche lui ammalato di tubercolosi. Lui mi raccontò questa storia, che anche lì questo disgraziato, non si può dire altro, continuava in questa leggenda, raccontando di essere un ufficiale, ufficiale a rapporto perché era il più alto in grado, li convocava, faceva prediche, cose di questo genere. Capirai, lì c’erano, come ho detto, due ufficiali di marina, si conoscono tutti, hanno chiesto informazioni e hanno scoperto che non era neanche marinaio. Il risultato è che fu cacciato via da questo sanatorio, che era qui su al monte, sempre raccontatomi da questo mio compagno di scuola, che è ancora vivo e che conosco molto bene. Dopo un po’ è ritornato, ha ripreso con quella storia lì. Per fortuna sua, mi dispiace dirlo, è morto perché quello finiva veramente male.

Questo a Salisburgo saltò fuori con una storia del genere perché ci fu uno dei miei compagni che, come io del resto l’avevo capito che era tutto un bluff, l’aveva capito e ad un tenente colonnello, che era un cretino integrale che era lì, gli raccontò questa storia per cui quando questo si fece avanti per andare anche lui a parlare lo cacciò via. Lì fui preso un poco da una sensazione particolare, cioè la sensazione di chi, giusto o non giusto, buono o cattivo, aveva ingiustamente sofferto, allora presi un po’ le difese di quest’uomo, pur sapendo chi era ormai, tanto che Monsignor Bicchierai voleva invitarmi a mangiare con loro, privilegio di quest’etichetta di giudice. Io ringraziai e rifiutai, di fronte ai miei compagni, lo feci anche nei confronti di questo e nei confronti di quell’idiota d’ufficiale, che si era comportato villanamente, senza sapere per altro perché erano voci. Monsignor Bicchierai ad un certo momento siccome venne fuori uno che era quello che aveva organizzato quella specie di campo, di quella loggia a Salisburgo, che era un torinese, anche lui non so quanto raccomandabile, aveva preso posizione contro questo qui. Allora io in presenza di questo gruppo d’italiani, di cui Monsignor Bicchierai, dissi che titolo avevano per giudicarci, e Bicchierai disse che avevo ragione, che non avevano nessun titolo per giudicarci. La cosa finì lì.

Da lì fummo portati, sempre con mezzi degli americani, fino ad Innsbruck. Ad Innsbruck c’era un comitato italiano diretto, non mi ricordo chi era, non l’ho mai saputo il nome, il quale si occupava di fare l’ultima fase del trasporto. Avevano riattato la ferrovia da Innsbruck fino a Bolzano e quindi aveva organizzato questi viaggi. Capitò anche il nostro turno, ci portarono a Bolzano. A Bolzano fummo mandati in una caserma, quartierati, in attesa di essere poi portati alle rispettive destinazioni.

D: A Bolzano ti ricordi dove ti hanno messo?

R: No. Noi eravamo dei poveretti dispersi, non sapevamo niente.

D: Quanto pesavi Franco?

R: A quell’epoca lì pesavo già un pochino di più, quarantadue chili.

D: Ed avevi quanti anni?

R: Avevo ventisette, ventotto anni. Il mio peso normale, già allora, era sui sessantasette, sessantotto chili. La mia acquisizione di scrivano mi aveva dato il grande vantaggio di sfuggire al lavoro pesante, ma di benefici non ne avevo perché le SS mangiavano quello che volevano, ma a me non davano mai niente, io vivevo di quello che vivevano gli altri, né più né meno, avevo il vantaggio di non essere logorato fisicamente, come dieta era quella, salvo due episodi. Una volta, non mi ricordo come, mi furono date delle carote, allora chiamai Enzo Ferrari, che è ancora mio carissimo amico, che era nella mia baracca, gli dissi di mettere insieme quel nostro po’ di salsiccia e di friggere le carote tutto insieme, e che poi ce lo dividevamo, lui fu subito d’accordo, sulla stufa mettemmo questo pentolino con un po’ di margarina, con questo pezzettino di salsiccia e le carote tagliate a fettine. Ci preparammo questo mangiare, ma ti assicuro che non arrivammo neanche ad aspettare che fosse del tutto cotto, ce lo mangiammo così, tutti contenti di averlo mangiato.

Poi c’era Jim Dobroceck , che è un altro capitolo triste, perché lui figurava italiano ma non ha avuto nessun beneficio di quelli che avremmo potuto avere noi, anzi, una volta riuscì a raccapezzare della farina, allora mi mandò a chiamare per fare le palacinche. Fecero queste frittelle, appena impastate con l’acqua e cotte in qualche maniera. Al di fuori di questo e di qualche altro episodio…

D: Franco, cosa ti è rimasto del Lager dentro?

R: Tutto. Io per fortuna ho una forza di carattere notevole, riesco a sotterrare tutto, però ci sono dei momenti, soprattutto sono i momenti d’insonnia, che alla mia età purtroppo sono frequenti, allora riemerge tutto, emergono anche particolari che magari lì per lì non ricordo, ma lì mi vengono fuori tutti. Sono ferite che non si rimarginano.

D: E’ ancora importante, secondo te, che i giovani d’oggi conoscano queste storie?

R: Enormemente importante, anche se è difficile credere che possano rendersi conto di quello che era. Quando io vado nelle scuole e parlo a questi ragazzi, cerco soprattutto di far comprendere loro com’è difficile realizzare la vita di allora, anche a cominciare dal periodo fascista, è difficile far comprendere a loro che non si poteva parlare perché c’era il rischio delle botte, c’era il rischio del padre che perde il lavoro, non le capiscono queste cose, soprattutto oggi che hanno acquisito una capacità di raziocinio formidabile, è veramente difficile fargliela intendere questa situazione. Bisogna farlo io credo, qualche cosa resta io penso, anche che resti poco, qualche cosa deve restare, deve restare come ammonimento per il futuro perché purtroppo gli uomini sono sempre gli stessi, quello che è avvenuto nel passato può verificarsi ancora, inutile farsi illusioni. Basta guardarsi in giro e vedere che cosa succede nel mondo, cose di questo tipo, anche se non così matematicamente organizzate, com’era il nazismo, l’olocausto, si verificano ancora. E’ veramente molto importante.

In quest’opera dovrebbero esserci d’aiuto, lo dico al condizionale, gli insegnanti. Gli insegnanti spesso non le sanno queste cose, ed è comprensibile che non le sappiano perché solo chi le ha vissute sa cosa significano. Il sentirlo raccontare è qualche cosa che sfugge, che sa di barzelletta, se è lecito dirlo, nel senso che chi ascolta dice che sto esagerando, chissà cos’era in realtà. E’ fatale che una persona normale possa ragionare così di fronte a certe vicende, a certi episodi che non sono umanamente concepibili, se non in quell’atmosfera, in quel mondo, con quegli uomini, non può essere altrimenti. Io ho avuto un pugno che mi ha spaccato un dente, perché? Non lo so perché, forse perché non sono rimasto rigidamente sull’attenti e basta. Mi hanno spaccato un dente, che poi ho dovuto farmi togliere perché mi faceva male. Come si fa a far comprendere ad un giovane che oggi è libero, che il professore lo chiama prof, che fa quello che vuole, parla in classe, insomma tutto un mondo diverso. E’ quasi impossibile, è estremamente difficile farlo comprendere, però bisogna farlo lo stesso.

D: Franco, è importante secondo te portare i giovani ad Ebensee?

R: Questo sì, questo è molto istruttivo perché lì toccano con mano, lì vedono. L’impressione visiva è più forte di quella uditiva, di quella di chi racconta. Uno può raccontare nella maniera migliore, più convincente, ma non riuscirà mai a convincere come quando tu arrivi a Mauthausen e gli fai vedere il salto dei paracadutisti, dove buttavano giù gli ebrei a sfracellarsi nella roccia. Questo è importante. Non avrai mai la stessa impressione che hai quando li porti davanti ad un forno crematorio, che in sé per sé era un modo di eliminare dei cadaveri, solo che lì erano moltiplicati perché la molteplicità dei cadaveri era tale che non bastava. Questo è estremamente utile, secondo me, perché lì li immedesimi nel campo, nella classe sono ancora tra di loro, se sono poi tanti, come mi è capitato a Castano Primo, dove sono venuti in duecento circa, ci sono quelli che ridono, scherzano, non la pigliano neanche sul serio, nonostante ciò bisogna farlo. Spero di continuare a farlo, nonostante i guai in cui mi trovo.

D: Trascorsi 53 anni dalla liberazione dei campi, in questi 53 anni le istituzioni italiane, da quella centrale, il Governo, a quelle periferiche, tutte quelle che vuoi, hanno fatto qualcosa per i deportati?

R: E’ stato fatto qualche cosa. Moltissimi anni fa tu sai che è stata stabilita una somma di risarcimento, è un significato simbolico, diciamolo pure, quanto meno c’è quello, ma poi per il resto è stato fatto poco o niente. Io ricordo ancora nei primi anni dopo la Liberazione, di essere stato invitato in casa di alcuni amici che avevano organizzato una specie d’incontro con un apparecchio ricettivo, in cui mi chiesero qual era la mia sensazione, fin da allora dissi che avevo la sensazione che si fosse fatto poco o niente, non per noi, ma soprattutto per gli altri perché tutto ciò che è avvenuto non si ripercuota. Guardando il seguito, guardando quello che succede fino ai giorni nostri è un vero macello, un disastro in cui domina dappertutto la ricerca della posizione sicura, dell’opportunismo, dei dané, come dicono a Milano, e basta.

Ci sono queste istituzioni che ancora resistono e cercano di fare qualche cosa, ma con mezzi molto ridotti. Tra l’altro anche la nostra associazione che, sotto quel profilo lì, si può dire benemerita perché non solo assiste gli ex prigionieri, ma assiste anche i parenti quando ne hanno bisogno e quando ciò è necessario, anche noi ormai siamo quattro gatti, quando saremmo finiti noi, mancheranno i testimoni oculari. Speriamo nell’istituzione di un qualcosa che possa garantire una continuità, però sarà sempre qualcosa di diverso. Una fondazione è in progetto perché un certo giorno finirà la nostra vita, e finirà anche la nostra possibilità di andare in giro a parlare soprattutto ai giovani, diventerà un vero problema.

D: Perdonare sì, ma non dimenticare.

R: Una volta ad una trasmissione televisiva, mi pare di Telenova, ho detto una frase della quale non so se devo pentirmi francamente, mi hanno fatto la stessa domanda, se io perdonavo. Lì non me l’hanno posta in questi termini, non dimenticare ma perdonare, io ho detto che non me la sento di perdonare chi ha preso delle giovani ebree e le ha messe nei postriboli, dove sono morte o per malattia o perché non potessero poi dichiarare quello che avevano fatto, non mi sento di perdonare la gente che ha fatto le atrocità che ho visto coni miei occhi. Sarà una minoranza, sarà quello che volete, ma certo io quelli non me la sento di perdonarli, non posso perché penso che farei un grosso oltraggio a quelli che poveretti sono rimasti là.