Isola Luigi

Luigi Isola

Nato il 30 giugno 1925 a Varazze

Intervista del: 11/06/2000 a Savona

realizzata da Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n. 16 – durata: 96’

Arresto: 28 luglio 1944 a Varazze

Carcerazione: a Savona, Genova e Milano

Deportazione: Bolzano, Mauthausen; Auschwitz 2 – Birkenau; Golleschau; Oranienburg

Liberazione: 1 maggio 1945 a Berlino

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Isola Luigi, sono nato a Varazze il 30 giugno 1925. Sono stato arrestato il 28 di luglio del 1944, sempre a Varazze, da un manipolo di bersaglieri. Fui condotto subito alle prigioni locali, interrogati dagli ufficiali dei bersaglieri. Alla sera ci portarono alle carceri di Sant’Agostino a Savona, sotto la giurisdizione delle SS tedesche. Rimasi a Sant’Agostino circa una settimana, dopo una settimana ci trasferirono a Genova, ci dovevano portare alla casa dello studente; senonché durante il tragitto, siccome ci misero sopra una corriera – le corriere di quell’epoca andavano a gas – a metà strada mancò la bombola del gas e rimanemmo fermi a Cornigliano. L’autista si diede da fare per sostituire questa bombola, ma si vede che il tempo è passato perché non la trovava ed è venuto tardi; finché siamo ripartiti e quando siamo arrivati alla casa dello studente, che era praticamente chiusa, non ricevevano più nessuno, e ci dissero che dovevamo essere portati a Marassi.

Infatti ci portarono nel carcere di Marassi a Genova. Anche qui rimasi mi sembra otto o dieci giorni, non di più. Dopo dieci giorni un mattino vennero le SS e ci tirarono fuori dalla prigione, noi eravamo convinti di andare all’interrogatorio alla casa dello studente. Invece quando siamo usciti fuori nel piazzale mi ricordo c’erano dei pullman che ci aspettavano, tre grossi pullman e insieme a degli altri, che erano forse delle altre celle, ci caricarono su questi pullman. E partimmo per la volta di Milano. Il viaggio fu …

D: Scusa un attimo Luigi perché ti hanno arrestato?

R: Venni arrestato perché mi incolparono di far parte di una cellula comunista. Mi arrestarono per quello, io mi scuso di non averlo detto prima, perché dovrei fare dei passi indietro per spiegare come diventai comunista, per dire, diventai comunista, avevo 17 anni potevo essere, insomma …

Dunque la mia infanzia purtroppo è stata un’infanzia un po’, non dico brutta ma una infanzia da povera gente. Era un’infanzia da povera gente, mio padre e mia madre lavoravano tutti e due, mia madre faceva la lavandaia, mio padre lavorava alla Tubi Ghisa di Cogoleto, nell’andare a lavorare un giorno cadde di bicicletta e purtroppo morì. E restammo io mio fratello e altre due mie sorelle ad aiutare la mamma. Io ero ancora un ragazzino, avevo circa 10 anni. A 14 anni mi misero a lavorare nei cantieri Baglietto; nel frattempo scoppiò la guerra, mio fratello fu richiamato, fu mandato in Grecia, dove purtroppo morì anche lui, in un combattimento.

Io avevo in casa mia un giovane che faceva il tubista all’officina gas dove lavorava prima anche mio fratello. Il giovanotto che era di qui, di Savona, dormiva e mangiava da noi, veniva a casa il sabato. Propose al proprietario dell’officina gas, visto che mio fratello era mancato, di prendere me al suo posto. E andai a lavorare all’officina gas. Qui conobbi bene questo giovanotto, che io in casa insomma si conosceva così ma le sue idee, le sue cose non le aveva mai confessate e conobbi che era un fervente comunista, proprio un militante, che poi infatti fu fucilato con i tredici qui, lo presero e lo fucilarono qui in Valloria, insieme ad altri tredici. E sovente mi parlava di questo comunismo, di questa cosa, come doveva essere composto, la società non era giusta, insomma mi convinse e divenni anch’io partecipante a queste cose. Infatti alla sera si andava ad attaccare i manifesti, a scrivere, si cercava di fare quello che si poteva fare. Mi fecero la spia, che a volte si dice chi trova un compagno trova un tesoro, io purtroppo trovai un serpente, mi fecero la spia e mi arrestarono.

Mi arrestarono quella sera del 28 di .. E feci tutta la trafila.

D: Scusa Luigi, tu non hai mai subito quindi interrogatori?

R: Gli interrogatori li ho subiti sì, la prima sera, lì a Varazze, poi basta, poi non ho mai subito un altro interrogatorio, non ho mai avuto qui sevizie e cose non ne ho mai avute; qui sono sempre stato prigioniero, ma con i nostri, diciamo le nostre ansie, le nostre cose perché si sapeva che essendo in prigione sotto le SS qualunque cosa poteva succedere fuori potevano anche prenderci come ostaggio e metterci al muro, fucilarci.

In sostanza partimmo per Milano dal carcere di Marassi a Genova. Il viaggio fu un’odissea, fu un’odissea perché chi guidava i camion erano degli ufficiali tedeschi e pure se non erano pratici di viaggi, non erano pratici dell’itinerario, non eravamo ammanettati, eravamo messi così tranquilli; l’unica cosa che mancava era il mangiare e il bere. Le cose per andare a fare che bisognava aspettare che loro fossero comodi. Infatti io avevo ho parlato, avevo con me una, sul sedile avevo una signorina che diceva di essere una giornalista, poverina se la fece addosso perché non la lasciarono scendere, se la fece …

D: Scusa Luigi quindi non eravate solamente uomini?

R: Eravamo uomini e donne. Poi adesso vengo ad un particolare che … Vuol dire che si arrivò persino in un punto che sbagliarono strada, presero un fiumiciattolo, una cosa che era asciutta la presero per una strada, ci infilammo lì dentro e poi dovemmo tornare indietro. Oltre a tutto venivano i caccia a mitragliare, allora ogni tanto si scappava, si scendeva, ci facevano scendere; io mi ricordo che in un momento di quelli lì ho cercato di scappare, mi sono infilato in un cespuglio. Quando han chiamato non mi sono presentato; senonché uno, forse senza pensarci, ha detto, siccome avevo un vestito un po’ da marinaio, dice “Il marinaio dov’è? Il marinaio dove è andato?” E allora ho dovuto far finta di abbottonarmi i pantaloni e dire che ero andato a fare, dico “Sono qui, sto arrivando, un momento”. E va be’.

Si arrivò in un punto dove c’era da attraversare il Po; eravamo a San Benedetto del Po, c’era da attraverso ‘sto ponte che mettevano solo di sera, lo facevano di chiatte perché quello che c’era normale era stato buttato giù. Oltre tutto sì che lo mettevano di sera ‘sto ponte, ma prima passavano tutti i militari che venivano in giù, tutte le colonne tedesche, poi se c’era tempo si passava noi. Insomma rimanemmo lì a San Benedetto due giorni, ci infilarono in una stalla e mi ricordo che in due giorni che siamo stati lì ci hanno dato un pezzettino di formaggio parmigiano e una cosa di pane. E una sera mentre eravamo lì c’erano marito e moglie, che oltretutto poverini li avevano arrestati mentre andavano al lavoro, avevano lasciato a casa i due bambini con la nonna, due bambini piccoli con la nonna e li avevano arrestati e non avevano più saputo niente. Mi ricordo che si sono messi a cantare una canzone genovese, non le dico la commozione che venne a tutti.

Dopo due giorni, una sera allora ci imbarcarono, si passò il ponte. Si passò e si arrivò a Milano, nella mattinata, nei giorni che si arrivò a Milano e ci portarono a San Vittore. A San Vittore ci misero in uno stanzone, eravamo parecchi in quello stanzone lì, e mi ricordo come dicevo che era forse il 15 e il 14 di agosto e c’era un temporale; noi lì dentro si vedeva ‘sti lampi, si sentivano ‘sti tuoni, speravamo sempre che fossero gli alleati che stessero arrivando, perché dicevano c’era sempre radio bugliolo che diceva sempre “arrivano, arrivano, i tedeschi sono in rotta, son di qua son di là”. Beh lì a San Vittore siamo stati anche poco, forse cinque o sei giorni. Un mattino ci chiamano e ci portano fuori, ci caricano sui camion, camion di quelli militari, ci hanno stivato dentro con piedi, calci, pugni, han fatto tre camion, … si parte dove si va non si; e poi ci han portati con destinazione era Bolzano mi ricordo.

D: In questo trasporto c’erano ancora delle donne con te?

R: No, in questo trasporto eravamo tutti uomini; non ce n’erano donne; le donne le ho riviste poi a Bolzano, perché a Bolzano quando sono andato io non era un campo di concentramento, ma quando sono andato io più che altro era un campo di smistamento, perché a Bolzano arrivavano tutto quello che i tedeschi rubavano in Italia, macchinari, di tutto, arriva lo immagazzinavano, lo catalogavano poi di lì si imbarcava sui camion e si portava alla stazione e si caricava sui vagoni. C’era un blocco a parte che arrivava la gente, la mettevano in questo blocco e quando c’era il numero sufficiente facevano i treni da mandare in Germania.

D: Cosa ti ricordi tu del campo di Bolzano?

R: Io mi ricordo che quando sono arrivato al campo di Bolzano .. avevano detto prima che era un autocentro, dove c’era un autocentro italiano, lo avevano requisito e avevano fatto questo campo. E c’erano quattro enormi padiglioni, fatti a tetto, come si entrava c’era una villa, una palazzina, poi c’erano ‘sti padiglioni, poi c’erano i gabinetti che li avevano fatti, avevano fatto una tettoia, avevano fatto dei buchi con una tavola, quelli erano i gabinetti, perché non c’era ancora … Poi c’era un’altra grossa palazzina che lì serviva da magazzino. Sul fianco di qui c’erano le cucine, c’erano dei cosi vuoti che poi in uno di quei sgabuzzini abbiamo fatto la cosa del dentista, non so a chi aggiustavano i denti o se gli serviva per poi togliere i denti, e dietro ancora c’erano i laboratori, la falegnameria e l’officina. Lì hanno cominciato poi a selezionarci. Piano piano siccome avevano i nostri documenti, a seconda del mestiere, delle cose che si aveva. Infatti c’era la baracca a, b, c e la baracca d. La baracca d era quella dove avevano messo un po’ di recinto perché poi c’era un piazzale enorme; avevano messo un po’ di recinto, lì mettevano quelli che arrivavano e che erano di passaggio, quelli che non servivano, quando li avevano selezionati. Poi c’erano le altre baracche che servivano per la falegnameria, ognuno aveva la sua baracca; e io fui messo nella baracca dove c’erano i meccanici, gli idraulici, quella roba lì, facevo l’idraulico e fui messo lì.

Fui destinato come dico nella baracca lì dei lavoratori meccanici.

D: Ricordi che blocco era?

R: Blocco a, era il blocco a, il primo. Poi c’era la b, la c, poi c’era quell’altro dove, come dico, mettevano quelli che non servivano. Infatti di noi, dei miei amici, eravamo in quattro, no eravamo in cinque e lì vi fu un po’ un mistero perché ce n’era uno che faceva il panettiere, non serviva, quindi lo misero; un altro che era un .. come ho detto, aveva un’officina di auto … non gli serviva forse neanche lui; ci tennero in tre, io che facevo l’idraulico, no in quattro ci tennero, io che facevo l’idraulico, due che facevano il falegname e uno che non faceva niente, uno che era un manovale, quello lo tennero.  Questo lo mandavano a caricare e a scaricare, e lì cominciammo a fare i lavori.

Come dico si arrivò lassù che non c’era niente. Alle finestre di questi cameroni non c’era niente; noi abbiamo cominciato a fare le grate. C’era era un fabbro che era di Udine, era una cannonata e avevamo il capo che era un altro fabbro di Milano, era un dirigente del partito comunista; venne il momento che dovevano deportarlo anche lui fu fatto scappare.  Io ero ancora lì.

Devo dire che abbiamo fatto tutte queste grate, abbiamo messo tutti i ferri che sporgevano in fuori per mettere poi i reticolati. Quando abbiamo finito quello poi venne il momento che si doveva ripristinare tutto l’impianto dell’Alfa e allora mi ricordo che c’era un maresciallo che si chiamava maresciallo König, mi diceva “Dimmi cosa ti serve, vado a Milano e vado a prendere gli attrezzi”. E infatti andò a Milano, prese un cavalletto, prese le filiere, dei tagliatubi, prese tutto quello che poteva servire. E cominciai a fare questi impianti, cominciammo a mettere un po’ d’acqua nelle baracche, a mettere un lavandino nel cortile, cominciammo a mettere l’acqua nei gabinetti, perché nei gabinetti non c’era niente, come dico era un buco, e poi c’avevano messo sopra una tavola, e lì si andava, ci si teneva così. E cominciai a fare tutti questi impianti. Poi portarono un autoclave, me la ricordo, un’autoclave che era rotta; io l’aggiustai, però mancava un manometro, che era spaccato. E ‘st’ufficiale mi disse: “Adesso quando vado a Milano cerco di procurarvelo, cerco di procurarvi ‘sto manometro”; avevamo girato dappertutto lì si vede che non erano ancora riusciti a trovare un manometro. 

Nel frattempo, come dico, lì a Bolzano non si stava male, non si stava male perché il rancio era quello che era, però c’era chi poteva pagare e si faceva dare, facevano il supplemento rancio. E allora, specialmente nella baracca lì dove ero io c’erano tanti che avevano qualcosa e pagavano anche per noialtri che eravamo indigenti e allora si prendeva sempre un po’ di più di zuppa. Mi ricordo che facevano quella zuppa di orzo, soltanto che non la lasciavano cuocere bene, allora si mangiava ‘sta zuppa e cresceva nella pancia, dei dolori di stomaco. E poi alle volte la sera ci davano una fetta di polenta, polenta dura, la facevano bollire tanto che diventava, ti davano una fetta di polenta e una fetta di marmellata, dura anche quella. E quello era il rancio della sera.  E lì, come dico, ci stetti fino a novembre.

D: Scusa Luigi, ti ricordi il tuo numero di immatricolazione di Bolzano?

R: Di Bolzano non ne avevo, non ce n’erano numeri di matricola. A Bolzano, chiamavano ancora per nome; hanno cominciato a darci poi il numero di matricola a Mauthausen.

Io mi ricordo che un giorno lì, non era ancora, come dico, un campo di concentramento, però un giorno uno gli venne la cattiva idea di scappare, lo presero con i cani, con i cani lo portarono in mezzo a quel piazzale, ormai era più morto che vivo, tutto azzannato da questi cani; misero un palo in mezzo al campo e lo legarono lì, e lo lasciarono lì. Io mi ricordo che lo abbiamo sentito gridare per tre giorni, senza bere, senza mangiare, giorno e notte lì, sotto il sole se c’era il sole, sotto l’acqua se c’era l’acqua, stette due notti senz’altro, e poi mi sembra ancora un altro giorno. Ma due notti senz’altro che non si poteva dormire perché lo sentivamo gridare, finché poi morì poverino. E quello fu l’unico episodio che vidi lì che mi impressionò.

D: Visto che tu hai girato tutto il campo di Bolzano, ti ricordi del blocco celle?

R: Non c’era ancora il blocco celle. L’hanno fatto dopo il blocco celle.

D: Dicevi che nel blocco A hanno raggruppati tutti i meccanici, nel blocco B e nel blocco C chi c’era?

R: C’erano gli altri che facevano … c’erano i cuochi, c’erano quelli che lavoravano nel campo, c’erano gli inservienti, c’era tutta quella gente lì. E lì arrivavano i pullman. Io mi ricordo che andavo a vedere se vedevo gente di Varazze; infatti ne vidi due, poi non ritornarono lì, quattro gemelli, due si chiamavano Piombo e due Cinelli, erano gemelli che abitavano a Varazze, non son tornati, sono morti tutti e quattro. Mi ricordo che li vidi arrivare con un pullman; lì arrivavano pullman misti: donne, bambini, non li separavano, li mettevano nella baracca lì, che poi dovevano essere trasportati. Infatti prima che andassi via io fecero mi sembra due trasporti, due volte partirono questi qui.

Quando toccò poi al mio trasporto …

D: Prima del tuo trasporto due cose importanti, quando tu eri dentro a Bolzano hai visto se c’erano anche dei religiosi?

R: Sì, c’erano anche religiosi; c’erano i Geova anche e c’erano tanti tanti zingari. Tutti, bambini, donne, zingari ce n’era tanti. Sì religiosi ce n’erano; sul mio convoglio uno l’avevo nel mio vagone, ma poi ce n’erano altri tre o quattro che erano preti, uno era sul mio vagone che era un prete di Genova. Quando è stato il momento che io dovevo partire …

D: Scusa sempre Luigi, dicevi prima che un funzionario del partito, che era dentro nel campo …

R: Un mattino ci chiamarono a far l’appello, ci portavano fuori a far l’appello poi ci chiamavano per nome, e questo non rispose. Allora cominciò il trambusto: ci infilarono di nuovo dentro la baracca, ci chiusero, in genere non ci chiudevano. Cosa è successo, cosa non è successo? Non si sapeva perché non si sapeva; poi, quando tutto si calmò e siamo andati di nuovo in officina, disse perché  questo che era scappato, perché era il capo officina oltretutto non c’era più, disse che avevano procurato una scala, gli avevano buttato la scala, aveva saltato il coso e c’era una macchina che lo aspettava. Altrimenti da Bolzano non si andava via.

Da Bolzano coi cani che c’erano non si andava via.

Domanda: Ti ricordi il nome di questo?

R: Non me lo ricordo, eppure ce l’ho in mente, ce l’ho in mente da qualche parte.

D: E di dov’era questo?

R: Di Milano. Era un milanese, un fabbro in gamba anche lui; e mi ricordo che faceva cornici di ferro battuto per ‘sti ufficiali, per essere un po’ … Ce l’ho nella mente ma non mi viene in mente, è l’unico forse che mi è rimasto nella mente questo qui.

D: Luigi, com’è che facevano l’appello lì a Bolzano?

R: A Bolzano ci mettevano baracca per baracca sul campo e lì chiamavano per nome, si rispondeva “presente”. L’appello era una cosa semplice, non avevamo, come dico, numero di matricola, come se fossimo stati in prigione, come ritorno a dire.

Quando venne il momento che dovevo partire anch’io, mi misero nella baracca naturalmente, mi spostarono; allora si sapeva che c’era la spedizione, finito un lavoro quando non si serviva più si mandavano lassù. Però non eravamo scontenti di andare in Germania perché eravamo convinti di andare a lavorare. Nessuno sapeva niente di cosa succedeva, di quelli che erano in Germania cosa succedeva, si va a lavorare si va a lavorare. Infatti mi ricordo che quelli del blocco lì ci diedero una scatoletta di carne, perché se le procuravano, ci diedero una maglia di lana, dicendoci “lassù farà freddo”, la carne vi servirà magari nel trasporto, che poi ci si avesse potuto parlare e dire tenetevela per voi che a noi non serve a niente qui perché qui ci portano via tutto, quindi è inutile che ci date la maglietta di lana, qui non serve più niente.

Ci misero in colonna, ci portarono alla stazione di Bolzano dove c’era la tradotta che ci aspettava. Questa tradotta l’avevano, c’erano i finestrini con le sbarre va bene, dove non c’erano avevano tirato dei reticolati e lì cominciammo a vedere cos’era la disciplina tedesca, perché ci infilarono dentro a calci, pugni, tutto quello che poteva capitare ci infilarono dentro. E lì c’erano donne e bambini, tutto, lì c’era tutto. Lì non c’era selezione, la selezione c’era soltanto per chi non lavorava e poi dentro tutti insieme. Fatevi conto in un vagone che non ci si poteva neanche sedere da tanti che eravamo pigiati dentro. Quindi non ci si poteva sedere, non si potevano fare i nostri bisogni perché quello, sì, si facevano, un bel momento bisognava farli ma farli tutti insieme del vicino, senza mangiare e senza acqua. Sì, avevamo la scatoletta di coso, ma la scatoletta di carne con cosa si apriva? Con i denti, la scatoletta di carne di latta non si apre, il più era la sete però. Mi ricordo che in ogni stazione che si fermava c’era qualcheduno che sapeva il tedesco e diceva “Gridate Eine Miski Wasser” e gridavamo sì “Eine Miski Wasser”, ma nessuno si muoveva.

Perché il viaggio, noi non si sapeva che si andava a Mauthausen, ma quando poi si è calcolato da Bolzano a Mauthausen, il viaggio è una stupidata, non è distante, non so quanti chilometri farà ma non è una distanza eccessiva. Un giorno abbiamo messo più di cinque giorni, cinque giorni e quattro notti, sì perché passavano i convogli, ci infilavano in un coso morto finché passavano convogli, quando la linea era libera noi si andava. E si stava delle giornate fermi in una stazione per quello che si gridava che avevamo sete; la fame sì, ma la sete … Meno male che dopo uno o due giorni si mise a piovere, allora con un po’ di carta, con un po’ di cartone abbiamo fatto dei canalini e chi aveva un bicchiere, qualcosa, prendevamo quest’acqua che veniva giù dal tetto del vagone. Insomma siamo arrivati a Mauthausen in una sera di novembre, una serata nuvolosa, pioveva, piovigginava, pioggia fitta, un freddo cane; metà siamo scesi dai vagoni, metà li abbiamo tirati giù e li abbiamo messi sulla panchina, se ne erano andati. Metà erano andati.

D: Sul tuo trasporto c’era questo sacerdote? Ti ricordi chi era?

R: Il nome non me lo ricordo, ma mi ricordo che mi raccontò il fatto, perché dice: “Io sono qui per una mia parrocchiana”. Gli aveva detto che si erano rotte le calze e che non trovava le calze e lui per scherzo gli aveva detto “Te le dà Mussolini le calze”, questa aveva fatto la spia e lo avevano portato. Non mi ricordo. Era un parroco di Genova.

Arrivammo a Mauthausen ci scesero, come dico, quelli che scesero, gli altri li tirammo giù e li mettemmo lì; ci fecero incolonnare ci portarono su, mi ricordo che come si uscì dalla stazione, Mauthausen rimane un po’ su una collinetta e tra la nebbia si vedeva un riverbero rosso, noi abbiamo detto sarà un’officina, sarà una fonderia, sarà qualcosa, ci portano lì a lavorare.

Poi dopo venimmo a sapere che era un crematorio che funzionava.

Arrivammo al campo di Mauthausen, ci fecero fermare su un piazzale ci fecero attendere e allora cominciammo a vedere qualcheduno vestito con queste zebre che girava lì per il campo, veniva lì furtivamente, cercava di farsi capire. Voleva sapere se avevamo degli anelli, degli orologi, se avevamo qualcosa da dare a loro poi ce li avrebbero restituiti, perché altrimenti i tedeschi ce li portavano via. Qualcheduno glieli diede; io non avevo niente non gli diedi niente, poi sparirono, anche le scatolette di carne gli abbiamo dato, nessuno era riuscito ad aprire queste scatolette. Ci diedero l’ordine di spogliarci, di mettere la roba in un angolo che poi alla fine della disinfezione l’avremmo ripresa. Andammo dentro tranquilli perché non si sapeva ancora che tante disinfezioni erano camere a gas; in un salone grande, ci saremo stati in un migliaio di persone, tutto un treno era stato caricato … Stavo dentro e c’erano tutti i cosi dell’acqua, in quel momento aprono l’acqua, acqua gelata, fredda, fredda e non ci si poteva spostare. Un bel momento acqua fredda finita, acqua calda, bollente, anche lì peggio che l’acqua fredda perché l’acqua fredda resisti, ma l’acqua bollente. Bene, un po’ di tempo acqua fredda, acqua calda, acqua fredda, acqua calda, poi entrano due o tre con dei rasoi e qui la pelata. Pelata completa … Mi ricordo che ‘sto prete l’avevo vicino, dice: “Io ho una certa età ma dice non mi sarei mai creduto di vedere degli spettacoli così, di dover finire così con donne bambini nudi qui”. Dice: “Io non avrei mai detto che si arriva a questo punto qua”.

Bene ci pelarono e poi ci buttarono fuori. Manganellate ancora niente, ci buttarono fuori sul piazzale nudi, vestiti non c’erano, nudi. Un’ora sotto la pioggia al freddo, nudi sul piazzale. Poi ci portarono alla baracca, mi ricordo che andammo alla baracca 27; sapemmo dopo che era una baracca di eliminazione perché le baracche avevano quel dato posto che erano dei castelli a tre, si stava due per castello il minimo, due, due e due, e lì c’eravamo quattro, cinque anche più seduti uno sopra l’altro, perché, come dico, ci infilarono dentro anche in quella camera come ci si stava, chi era per terra, chi era, sempre nudi, nudi. 

Alla notte allora cominciarono le bastonate. E chi ci comandava a noi, chi era il capo blocco, chi era il capo campo, era un ex, uno spagnolo preso in Spagna, gli mancavano tutte e due le orecchie, gliele avevano fatte cadere, gliele facevano congelare poi con la bacchetta tac, ti tenevano fuori al freddo. Ed era uno dei pochi che era ancora superstite lì e faceva quel lavoro lì, anche lui era diventato; per la sopravvivenza si faceva di tutto.

Di notte entravano dentro, secchi d’acqua freddi, tubo di gomma, cinghie, cinghiate, insomma che al mattino quando ci si svegliava ce n’era sempre sei-sette, dieci partiti, li tiravano fuori. Piano piano ci siamo fatti il posto per dormire. Piano piano ci siamo fatti il posto, si faceva così. Quattro giorni e quattro notti nudi, completi senza vestiario e senza niente; si usciva, ci chiamavano al mattino dieci per volta, ci facevano infilare nella doccia, c’erano quelle docce rotonde così che venivano giù, si infilava sotto col busto, quello aveva l’acqua gelata, c’era quello col tubo, se uno si tirava fuori perché … tubate. Poi aveva il fischietto “pirilì” e si usciva. Dieci, ne entravano altri dieci, si andava fuori dalla baracca nudi. Allora ci si metteva due a due, ci si brancava così, a fregarsi la cosa per scaldarci. Dopo quattro giorni, ci hanno dato un paio di mutande, ma non mutande di lana, mutande di cotone lunghe, però di cotone e una camicia e basta. Scalzi e una camicia.

Al mattino ci hanno incolonnato e ci hanno portato in un ufficio. In questo ufficio ci chiamavano dentro uno per uno, ci hanno fatto una fotografia, prima davanti poi di profilo, ci hanno chiesto tutti i dati che volevano sapere: quando si è nati, di che religione eravamo, tutto quello che si poteva dire, il mestiere che si faceva. E poi ci diedero il numero di matricola, ci diedero una striscetta di tela dove c’era scritto la nazionalità, Italy, e dove c’era il triangolo; io avevo il triangolo rosso perché i deportati politici avevano il triangolo rosso.

D: Il tuo numero di Mauthausen?

R: Il mio numero di matricola me lo ricordo anche in tedesco perché me lo fecero imparare, era: “Hundertdreizehnneun”, quello era il mio numero di matricola. E quando si uscì, l’ufficiale che era lì ci  disse: da oggi voi non vi chiamate più per nome, voi avete soltanto un numero, dovete rispondere soltanto con questo numero, altrimenti son castagne.

Io mi ricordo che ci portarono poi di nuovo al blocco, e al mattino fecero l’appello. Allora cominciò l’appello vero e cominciò a fare i numeri. Quando arrivò il mio numero – ero zero completo  di tedesco, non sapevo proprio niente – quello là continuava “”Hundertdreizehnneun”. Allora si degnò un bel momento … Isola Luigi, “Presente”, “Oh, jawohl”; mi fece avvicinare, mi fece mettere sull’attenti, mi sputò in fronte e con la matita copiativa mi fece il numero sulla fronte. Poi mi fece voltare a destra, mi sputò sulla guancia, me lo fece qui, poi a sinistra, “Gira per il campo finché non sai il tuo numero”. Ecco perché ho imparato il numero anche in tedesco. Questo di Auschwitz non lo so in tedesco, ma quello là l’ho imparato, l’ho imparato subito. E allora al mattino quando chiamavano bastava che dicessero “”Hundertdreizehnneun”,“jawohl”, non ho mai più preso.

Le botte si prendevano, bisognava stare attenti quando si usciva per il campo se si incontrava un ufficiale, un soldato: mettersi sull’attenti, lasciarlo passare mettendosi sull’attenti e non guardarlo, guardare da un’altra parte perché se per caso uno lo avesse scontrato, guai, allora erano nerbate … se non si andava a finire alla famosa scala del pianto, quella dei trecentottanta gradini, quanti erano? Trecentottanta gradini mi sembra che fossero. E come dico lì la disciplina era quella; lavoro, l’aveva chi aveva qualcosa, ma lì era già quasi tutto preso: o che  si andava alla cava o si portavano i morti al crematorio. Nostro compito era quello di raccogliere i corpi che erano in giro e quelli che arrivavano da fuori, perché ne arrivavano dei camion da fuori, di carne maciullata, loro dicevano che era carne di animali, di cosi morti nei combattenti, per noi era carne di cristiano. Si tiravano giù da ‘sti cosi, si mettevano nelle griglie, poi si portavano dentro al coso, dove li stendevano sulle griglie, poi c’erano gli addetti apposta per il crematorio. I crematori erano in funzione tutto il giorno. Io mi ricordo che il blocco 28, era proprio quasi sotto, quando si mangiava a mezzogiorno quella ciotola di brodaglia che ci davano, ogni tanto veniva giù qualche lapillo, eppure purtroppo si toglieva con le dita, perché si mangiava così come gli animali, perché non c’era niente; ah sì qualcheduno che aveva scheggiato per avere una scheggia di coso, il castello dove si dormiva ha preso legnate ma legnate in abbondanza.

In sostanza la vita del campo di Mauthausen era quella, noi eravamo destinati lì e io non feci in tempo ad ambientarmi perché un mattino mi chiamarono, mi riportarono lì a questo ufficio e mi diedero il vestiario: un paio di pantaloni, una giacca zebrati, un paio di zoccoli, un paio di pezze da mettere ai piedi al posto delle calze, e un berretto. E mi dissero: “Tieniti a disposizione perché devi andare in Polonia a Auschwitz”. E io, quando mi dissero Polonia, capii Polen. Ho detto: “Se vado a Pola sono vicino a casa, posso anche cercare di scappare”.

Due giorni dopo mi chiamarono e ci portarono di nuovo alla stazione di Mauthausen, ci infilarono sul treno, però questa volta su un treno normale, un treno comune. Ci infilarono su questo treno, io capitai in uno scompartimento, ero praticamente solo nello scompartimento, perché questo treno era carico di ebrei, rumeni, ungheresi reclutati un po’ dappertutto e li stavano portando a Auschwitz. Il viaggio, a parte il mangiare, perché mangiare non ce ne diedero, non fu bestiale come fu bestiale quell’altro per arrivare a Mauthausen. La sete ci si poteva togliere perché l’acqua nei gabinetti c’era, era acqua cattiva, ma c’era, quindi la bocca si bagnava. Verso metà pomeriggio, arrivammo; il treno si fermò e c’era questa consolazione; poi riprese perché ad Auschwitz il treno andava direttamente dentro il campo, non si fermava fuori, aprivano i vagoni, si scendeva; dopo la pensilina c’era un caseggiato, un salone che era immenso sembrava una piazza, ci infilarono tutti lì dentro. Io non conoscevo nessuno, come dico, di lì eravamo partiti in due, uno diceva che era italiano, che poi non era, era un serbo, … parlava un po’ italiano, e lì persi anche a lui. Ci infilarono in questo camerone e lì c’era da attendere, si aspettava; in fondo a questo camerone c’era una balaustra di legno e c’erano due ufficiali tedeschi e c’erano due addetti come noi, vestiti a zebre come noi, non so cosa facessero perché ero distante e non riuscivo a comprendere; poi, piano piano che si avvicinava il mio turno, vidi che si alzavano la manica della cosa e quando poi toccò il mio turno mi facevano la matricola.

La matricola di Mauthausen non serviva più, qui serviva solo Italy con il triangolo, perché la matricola era fatta qui nel braccio, era impressionata qui. Questa era la matricola, davanti a me ne erano già passati 201.825, perché io porto il 201.825, quindi guardate quanta gente era già passata davanti a me, quanta ne sarà passata ancora poi, ma non tanta perché poi anche lì hanno distrutto tutto. Ecco la fortuna che ho avuto io … a volte mi dicono “Ma come hai fatto a ritornare indietro?”. Perché sono stato fortunato, sono capitato in un periodo in cui i tedeschi avevano più bisogno di manodopera, cioè ammazzare la gente e finché uno era valido e faceva qualcosa lo tenevano in vita, gli davano solo il necessario per vivere. Io sono capitato in quel periodo lì. Mi ricordo che mi fece: “Italiano?”. Dico: “Sì.” Dice: “Giudeo?”. Dico: “No, son cristiano.” “Come cristiano? Qui cristiani non ne viene.” Dico: “Io son cristiano, perché devo dirvi che sono giudeo se sono cristiano? Se  poi volete che vi dica che sono giudeo…”. Questo era un polacco zebrato come me, forse non aveva il coraggio, poi prese il coraggio e parlò all’ufficiale, che non si poteva parlare, e gli disse: “Questo dice che lui non è ebreo”. Dice: “Ma perché sei qui?”. “Mi han detto che devo venire a lavorare qui, mi han mandato per lavoro, io non so”. E allora l’ha detto a questo ufficiale tedesco. Questo ufficiale tedesco ha fatto segno, “Si sposti, si metta lì”. Mi misi lì ad un fianco, questo ufficiale andò via e ritornò dopo una mezz’oretta circa … poi arrivò e mi fece capire che dovevo uscire e cercare la baracca numero 9. In questa baracca dovevo fermarmi e poi sarebbe passato un addetto che avrebbe chiesto Golleschau e io mi dovevo presentare. Uscii fuori, fate conto di uscire in un campo dove ci sono un’immensità di vita di baracche e non si sa da che parte girare, le prime baracche erano tutti uffici, tutti magazzini, tutta roba. E io cercavo questa baracca, non avevo il nome, il tempo stava passando, stava venendo buio, luci non ce n’erano e non trovavo questa baracca. Gira e gira, girai tanto che un bel momento stanco mi buttai in terra e per la prima volta, vi dico la verità, mi misi a piangere perché avevo proprio pensato che questa fosse stata l’ultima ora, perché mi avevano raccomandato, sotto l’acqua mi avevano fatto capire di non sbagliare perché se sbagli poi se ti vedo ancora ti saprò dire.

Infatti in un bel momento mi rialzai … la forza della disperazione, devo trovarla questa baracca, le girerò tutte e infatti poi la trovai, trovai …

D: Le baracche erano di legno o in muratura?

R: Le baracche ad Auschwitz erano in muratura, non erano di legno, soltanto che la zona dove mi avevano mandato era una zona ormai forse abbandonata, era in disfacimento; infatti non c’era più niente lì, c’era solo questa baracca che gli stava cadendo il tetto, dentro c’erano sì i castelli, c’erano i cosi, ma non c’era più niente, c’era un po’ di paglia ammucchiata e basta. Io cercai di ammucchiare ‘sta paglia e adattarmi per passare la notte. Senonché mentre ero lì in questa paglia, era già buio, sentii dei passi e io credetti che venissero a cercarmi, mi venissero a chiamare, mi alzai e mi tenni pronto. Invece era quel polacco, che rimpiango ancora adesso di non sapere il nome, di non sapere di dov’era, di non sapere niente, perché io una parte, per essere venuto indietro, forse la devo a lui. Sto polacco è venuto, in un gabellino aveva due o tre patate schiacciate, e aveva una coperta, mi ha detto: “Ti porto una coperta”. Parlava anche discretamente un po’ l’italiano, poi mi disse che era stato a Milano a fare dei lavori, aveva un po’ imparato l’italiano. Mi diede questa coperta e mi disse: “Non muoverti di qua, perché se perdi il posto qui sei fritto”. Dico: “Possibile?”. Dice: “Se domani mattina sei ancora qui io vengo, in mattinata presto, vengo, ti spiego e ti faccio vedere”. Infatti al mattino io ero ancora lì, arrivò e dice: “Vieni e vieni di corsa. Vieni, vieni vieni”. E mi portò dove il giorno prima facevano le matricole e da un finestrino, siccome rimaneva un po’ sotto mi fece vedere, dice: “Guarda dentro”, c’erano tutti quelli che erano il giorno prima tutti andati, tutti gasati. Ha detto: “Questa è la disinfezione”. Infatti ce n’era qualcheduno dalla porta che aveva cercato di aprire questa porta, ce n’era qualcuno avvinghiato alle gambe, quando se ne accorgevano ormai era tardi e dicevano “li portiamo alla disinfezione”. Per quello poi c’era venuta la fobia della disinfezione: ogni volta che c’era da andare a fare la disinfezione si aveva paura che la disinfezione si tramutasse in una camera a gas. Mi fece vedere, dice: “Te sei stato fortunato quindi non muoverti di qui perché se no passano al tuo turno vai a finire lì, domani è il turno tuo”. E stetti lì quattro giorni e lui veniva la sera, veniva sempre a portarmi un pochettino di cose, si fermava due o tre minuti lì e poi andava via. Poi una mattina non mi trovò più perché al mattino arrivarono, chiamarono Golleschau passarono con un camioncino, io salii sopra ‘sto camioncino e andammo via. E andammo su una montagna vicino ad Auschwitz, vicino, insomma si viaggiò circa un’oretta su questo camioncino, inerpicandosi su questa montagna. Da una parte c’era un fabbricato, un’industria, una fabbrica e dall’altra c’era una cava, e poi era una industria di cemento, facevano cemento, e avevano bisogno di un idraulico perché ci sono tante flange, ci son tante guarnizioni, funziona quasi tutto a vapore; e loro avevano bisogno. Io infatti divenni poi un esperto dei sotterranei, perché i tubi passavano tutti nei sotterranei, io mi infilavo lì dentro al mattino e uscivo alla sera quando suonava la campana dell’adunanza, che si ritornava dentro. E come dico in quel campetto non si stava male, perché eravamo pochi. C’era tanta disciplina, infatti anche lì due rumeni tentarono di scappare. Li trovavo al mattino, c’era una scaletta dove si dormiva che veniva giù, fatta a chiocciola e poi c’era un po’ di pianerottolo.

Erano tutti e due lì che gli avevano sparato alla testa, tutti e due lì che bisognava o saltarli o passarci sopra.

D: Quanti italiani c’erano con te?

R: Lì non c’era neanche un italiano, era tutta una colonia di ebrei grechi; ne ho trovato uno che adesso poi vi racconterò e ne ho trovati altri otto proprio all’ultimo, quando ormai si stava scappando; ci portarono via dalla zona sovietica cercarono di portarci in quella americana. Lì non ce n’era, c’erano soltanto come dico degli ebrei.

Insomma una sera suona la campana, che suonò prima del previsto, come mai suona la campana, bisogna radunarsi al campo. Ci siamo radunati dentro e allora è venuto il capo campo, l’ufficiale dice: “Dobbiamo evacuare il campo, il fronte si sta spostando, noi dobbiamo evacuare il campo. C’è da fare quattro chilometri a piedi, prendetevi una coperta, quello che avete; ci diedero un pezzo di margarina e si uscì. Questi quattro chilometri son venuti lunghi; noi eravamo lì circa un seicento, settecento e non eravamo tanti, ma piano piano la colonna cominciò ad ingrossarsi, perché tutti i campi che erano limitrofi ad Auschwitz venivano evacuati per portarci tutti a ‘sto Auschwitz e si cominciò a marciare: un giorno, due giorni, tre giorni, quattro giorni, si arrivò a Auschwitz. Auschwitz era stato evacuato anche lì, si passò in questo campo, c’erano i morti, c’era una desolazione e si continuò. Ogni tanto ci davano qualche cosa, ogni tanto si mangiava un pochettino di questa margarina, finché un giorno arrivammo in una stazione vicino ad un treno convoglio che ci aspettava. Era un convoglio merci, i vagoni coi piani non coperti. Ci fecero salire anche lì, chi ci stava, ci stava, chi non ci stava non ci stava, sotto la neve perché nevicava, mi ricordo che veniva la neve con dei fiocchi grossi così e partimmo con ‘sto treno. E su ‘sto treno ci si stette anche lì due giorni e più, lì come si poteva, al freddo; meno male che ci avevano lasciato prendere ‘sta coperta. Mi ricordo che quando poi sono riuscito ad alzarmi, perché era difficile anche potersi sedere, c’era chi bisticciava per sedersi, perché quello che rimaneva in piedi bisticciava per sedersi. Mi ricordo che quando mi sono alzato non riuscivo a piegare la coperta, era dura dal ghiaccio.

E anche lì quando si arrivò in questo campo, il campo di Oranienburg, vicino a Berlino, ci fecero scendere. Anche lì chi scese e chi non scese, più tanti non scesero, più tanti erano già eliminati in partenza, tra la stanchezza del viaggio e tutto il resto. Anche lì ci infilarono, qualcheduno aveva bisogno di fare i suoi bisogni. Allora avevano allestito un camerone: avevano tagliato quei bidoni della benzina, gli avevano tagliato il coperchio, avevano messo sopra delle tavole, una scaletta; si andava lì sopra e quello era il gabinetto. Quello lì era il gabinetto. Per dormire un altro stanzone: avevano fatto una riga intera come quella delle macchine e avevano diviso il posto per dormire, un po’ di paglia. Quello era quello che avevano preparato. Poi, piano piano ci assegnarono una baracca e mi misero a lavorare alla mia squadra di lavoro; c’era una strada e ci si andava a fare il ciotolato, quando si poteva fare; quando non si poteva fare, perchè magari c’era stato un bombardamento a Berlino, ci prendevano e ci mandavano a togliere le macerie e ci mandavano alle bombe, cioè a cercare le bombe che non erano esplose, ci davano la bacchetta di ferro, le bandierine rosse: se si sentiva qualcosa di metallo si mettevano. Noi si cercava di scappare nel campo, ma a volte però facevano una retata, ti rimaneva dentro e si andava a finire lì. E ci portavano a fare quei lavori lì. Senonché c’era un campo grosso, immenso di cani Dobermann che erano addestrati a tirare delle slitte con le rotelle, che erano i porta-ordini. Erano addestrati ‘sti cani, ci mandavano a fargli la pulizia e a dargli da mangiare, ma ci mandavano quando non c’erano; quando c’erano, non conoscevano altro che la divisa: quello che non fosse stato in divisa lo sbranavano. Gli davano da mangiare nelle ciotole, la carne secca, quella roba lì; li mantenevano bene. Allora cosa si faceva? Si aspettava che non ci fossero degli ufficiali in giro, poi in due, uno andava dietro la baracca di questo cane, e gli faceva … e l’altro prendeva la ciotola e la portavamo via per mangiare. Sì, per mangiare le gallette e le cose che davano a ‘sti cani. Però erano talmente furbe ‘ste bestie, che quando se ne accorgevano, facevano un buchetto in terra, rovesciavano la ciotola poi ci si sedevano sopra. Allora non si muovevano di lì. Però erano una cosa … Poi divennero un pericolo. Mi ricordo che poi gli ufficiali russi gli spararono perché circolavano persino liberi questi cani, erano ritenuti un pericolo.

Come dico lì il lavoro consisteva di andare a togliere le macerie, di togliere le bombe esplose, perché purtroppo il campo si era ristretto perché stavano arrivando i russi, anche lì. Infatti tutte le sere si cercava in baracca di capire se il fronte andava bene, chi diceva di sì, chi diceva avanzano; insomma la speranza era sempre quella che arrivassero da un momento all’altro gli alleati a liberarci.

Lì cosa si faceva? Si faceva questo: al mattino c’era l’appello, l’appello in cosa consisteva? Un momento prima di parlare dell’appello parliamo un po’ di un’altra cosa, poi ci arriviamo all’appello.

Dunque la vita della baracca era una vita che potete immaginare in un campo di concentramento, si dormiva in due e avevamo l’obbligo alla sera, quando si andava a dormire, di toglierci gli zoccoli, i pantaloni, la camicia; insomma di metterci nudi, avvolgere gli zoccoli nella camicia e nei pantaloni che servivano poi per cuscino, di mettersi sotto nella coperta, c’era una coperta e un po’ di paglia. Alla notte si prendevano la briga, i tedeschi, la sentinella che era fuori, di venirci a svegliare, veniva dentro ci diceva “aufstehen”, ci faceva uscire, vestire, ci faceva mettere in fila, poi diceva “schlafen”, ci mandava di nuovo dentro; così due o tre volte per notte, fino alle quattro e mezza del mattino, quando c’era la sveglia per tutti per l’appello. L’appello serviva più che altro per le razioni di zuppa che dovevano arrivare alle baracche. Cosa succedeva? Che nella notte magari era morta una persona, due, tre, a seconda, morivano tutti i momenti di stenti; allora si aveva l’obbligo se se ne accorgeva di prenderlo e portarlo nel gabinetto, si metteva nella doccia. Al mattino, quando c’era, veniva il nostro capo baracca, prigioniero come noi, ormai erano tutti delinquenti comuni che li avevano messi a dirigere le baracche, e guardava quanti morti c’erano. Poi si usciva, ci  metteva in fila, ci contava, poi prendeva due, due o tre a seconda di quanto, si andava a prendere questo morto si cadeva in piedi, in fila; si portava al campo dove poi facevano l’appello generale. Perché si portava questo morto? Perché poi quando finito l’appello scivola giù e va be’ si lasciava lì poi passavano gli addetti col carretto, li ramazzavano e li portavano via. Si faceva questo perché doveva corrispondere a tante razioni: se eravamo venti consegnati il giorno prima, venti dovevamo essere. Ma perché? Perché portavano venti razioni, però due o tre razioni dei morti le prendeva il capo baracca che le barattava. Io adesso non l’ho detto, perché come dico, a volte succedono tante cose che … quando si era a Mauthausen ci hanno dato ‘sto numero di matricola: con cosa si cuciva? Con cosa si attaccava? Con lo sputo? Non avevamo mica niente. Mi ricordo che lì c’era addirittura un prete che gli faceva ‘sti lavori, gli faceva le calze, dava il filo e l’ago, però voleva un pochettino della razione. E bisognava dargliela perché altrimenti come si faceva? E così succedeva: volevano contare ‘ste razioni perché poi rimanevano a loro e poi loro le barattavano per le sigarette o per le calze, o per le maglie, o per qualcosa insomma. Perché si deve sapere che ogni quindici giorni facevano la die Läuse, cioè i pidocchi. Veniva dentro il capo baracca diceva: “Die Läuse”. Allora in cosa consisteva? Si andava in una baracca di disinfezione, la doccia, se c’era della peluria perchè erano nati i capelli, rasavano di nuovo. Poi la roba si metteva da una parte, la mettevano in un carrello e la mandavano all’autoclave, la sterilizzavano e noi ci facevano ‘sta doccia, poi quando si usciva, si usciva da una porticina. Lì c’era un addetto con un bidone di creolina, non so se sapete cos’è la creolina, ma pura non diluita e aveva un guanto di spugna. Ci faceva allargare le braccia poi metteva ‘sta cosa qui, una manciata in testa, una qua sotto e una qui. Figuratevi voialtri, all’indomani faceva così, la pelle se ne andava come quando le bisce cambiano la pelle. Poi si andava a prendere i vestiti, svelti a prendere i vestiti che fossero i miei, i suoi, di qualcheduno l’importante è prenderli, averli, qualcheduno ne prendeva due perché poi faceva commercio col capo-campo. E l’altro rimaneva nudo. Rimanere nudi per il campo voleva dire andare a finire al crematorio, non si poteva mica circolare nudi per il campo. O uno aveva qualcosa in baracca da barattare, allora lo barattava con delle mutande, con delle camicie, o se no rimaneva nudo e andava a finire nel crematorio. C’era anche quella cosa, dover correre a prendere, poi uno diceva “Ma c’hai la mia, te”. E si cambiava. Era anche quello.

Si cominciava questo appello, come dico, alle quattro e mezza ci portavano sulla piazza, si calcolava, lì avevano detto che eravamo circa venticinquemila dentro a quel campo, ci mettevano sull’attenti, col berretto in testa, e quando il capo campo, eflin prigioniero come noi, consegnava i documenti gli effettivi all’ufficiale tedesco, dava l’attenti, volevano ci si togliesse il berretto, dicevano “Mütze ab”, cioè levarsi il berretto; bisognava togliere il berretto, picchiarlo sulla coscia, voleva sentire un colpo unico. Non puoi capire. Allora consegnava la cosa, poi “…”, dalle 4 e mezza alle cinque, quanto era durato il coso, a fare quel lavoro lì; finché venivano le otto, l’autoparlante diceva “Arbeitskolonne formieren”, “formate la colonna dove lavorate”, allora ci si scioglieva e si andava alla colonna dove si lavorava.

Quella era la vita del campo di Oranienburg… Soltanto che lì non c’era il crematorio, allora cosa succedeva? Che questi morti li accumulavano e poi coi residui della benzina gli davano fuoco. Tanto che Luftwaffe aveva protestato perché diceva che questi falò facevano i segnali agli apparecchi nemici.

Finché un bel momento arrivarono veramente i russi. Si cominciarono a sentire, a veder passare gli aeroplani, han cominciato a buttare anche dei manifestini che incitavano a ribellarsi, a fare. Ma prima di tutto, io il russo non lo capivo, ma lo capivano i russi perché ce n’erano tanti e cominciarono ad evacuare il campo. L’evacuazione del campo … chiamavano per autoparlante, chiamavano perché lì c’erano tanti norvegesi, svedesi, ce n’erano tanti. Hanno cominciato a chiamare gli svedesi, i norvegesi e a portarli via. E piano piano han chiamato per nazione, finché han chiamato gli italiani e io mi sono presentato; qua ho trovato otto italiani. Che poi non erano prigionieri politici, erano prigionieri militari; era per quello che non li avevo mai visti, perché erano in un’altra zona, in un’altra parte del campo. Lì trovai ‘sti otto italiani, ci siamo messi d’accordo, perché avevamo paura perché dicevano che li portavano via a gruppetti ‘sta gente e poi li fanno fuori, per non avere delle testimonianze. Quando hanno chiamato gli italiani non ci siamo presentati, loro non stavano mica a guardare per il sottile, se c’erano gli italiani c’erano. Quando han chiamato i russi, che sono stati gli ultimi, allora ci siamo presentati insieme ai russi. Lì ci hanno fatto marciare giorno e notte, di corsa, perché pioveva; avevamo sempre il fronte che incalzava e loro volevano portarci verso gli americani. Ci han fatto viaggiare tanto che a un bel momento ha cominciato a morire la gente. Io mi ricordo, e quello mi dispiace, mi ricordo che c’era uno, un sardo, mi si è aggrappato alle gambe, è caduto, si è inginocchiato, si è aggrappato alle gambe, ho cercato di alzarlo, c’era l’ufficiale tedesco che seguiva la cosa, mi ha fatto segno di andare. Allora questo mi ha detto: “Se ritorni in Italia avverti la mia famiglia”. “Come avverto la tua famiglia? Come faccio? Mi dai l’indirizzo, ma dove me lo scrivo? Dove me lo metto?”. La testa non era mica poi più a posto; so che era un sardo, so che il tempo che lui mi diceva così, l’ufficiale col boschetto mi ha dato un colpo nella schiena, ho fatto in tempo di far così, gli aveva sparato. E quello è l’unico ricordo degli italiani che mi è rimasto perché mi è rimasto proprio, mi dispiaceva anche gli altri morti, ma quello era … quello mi è dispiaciuto proprio. E va be’ insomma che ci hanno fatto marciare, questo così arriviamo poi alla fine.. Ci hanno fatto marciare per una quindicina di giorni, tanto che si mangiava, meno male che i russi conoscevano, si mangiavano delle radici che loro cercavano nei campi dove ci si fermava, cercavano ‘ste radici, che erano commestibili.  

Un giorno ci han fermato tre o quattro camioncini della Croce Rossa Internazionale, della Croce Rossa Svizzera, perché si stava morendo tutti, lì si stava morendo tutti, non solo noi, anche quelli che ci accompagnavano, erano rimasti tagliati fuori, se andavano da una parte arrivavano i russi, se andavano di lato c’erano i russi, allora si cercava sempre … a volte si faceva la stessa strada due o tre volte. Arrivano e ci diedero un pacco ogni cinque persone, dice: “C’è un pacco da dividervi in cinque”. Allora cosa abbiamo fatto? Non si sapeva cosa c’era dentro questo pacco. Vediamo se riusciamo a prendere uno una cosa e uno l’altra, insomma un po’ di cose differenti. Allora non ci siamo messi insieme, ognuno si è messo in un .., io mi sono messo per esempio … avevo un francese, avevo un polacco, avevo un ungherese, eravamo in cinque, non c’era nessuno di italiani, ci siam divisi così. Poi abbiamo aperto ‘sto pacco, in cui c’era una scatoletta, una lattina di latte condensato, un sacchettino di prugne secche, una scatoletta con delle vitamine, un pacchetto di sigarette e una confezione di tè. Erano le cassette di conforto dell’esercito americano. Cosa si divide, chi è che vuole il the? Avevamo voglia di prendere tè coi biscottini? E allora cosa abbiamo fatto? Uno si è girato, si è messo con la testa più così e abbiamo fatto … uno prendeva qualcosa in mano… a chi questo? … dice a chi questo? E questo all’italiano per esempio. Solo che a me  toccarono le prugne. Ma insomma non ce la cavammo tanto male perché qualcheduno gli toccò le sigarette, qualcheduno gli toccò il latte condensato e qualcheduno purtroppo il tè … e va be’; però il latte e le prugne venivano già bene perché per lo stomaco, non son venute poi bene perché abbiamo mangiato latte e prugne, poi abbiamo cominciato dissenteria a non finire. Ma le sigarette si cambiavano con qualcheduno che aveva qualcosa, perché c’era sempre quello furbo, che si era fatto le scorte.

Poi una sera si arrivò in un fienile. Ci fermarono lì, per la notte, ci chiusero dentro, i tedeschi andarono via perché c’era un paesino, si vede che sono andati a vedere se trovavano da mangiare. Cosa si fa cosa non si fa, qui qualche giorno ci levano di mezzo, adesso è venuta la Croce Rossa ma poi se non viene più, un bel momento questi si stufano, ci fanno fuori. Allora io e altri due abbiamo deciso di cercare di scappare. Questo fienile era fatto a due piani, soltanto quel piano che era di sopra era venuto giù, c’era rimasto un angolo con un po’ di fieno sopra ancora. Ci siamo arrampicati su per le colonnette che tenevano su ‘sto coso, siamo andati in quest’angolo, e al mattino ci siamo lì messi, dove il tetto spiove, ci siamo tirati sopra il fieno e abbiamo aspettato; infatti sono arrivati i tedeschi un bel momento, fanno la conta e sento il tedesco che dice “Drei Mann weg”, “tre sono scappati, tre non ci sono. Sono partiti…” e han lasciato due lì e con le Maschinenpistolen hanno cominciato a sparare, diciamo dentro al fieno, non son stati lì a guardare, han fatto due o tre raffiche dentro al fieno e neanche gli è venuta voglia di girare e sparare su, magari non ci avrebbero preso lo stesso, ma siamo stati fortunati; il mattino poi loro sono andati via. Siamo stati tutto il giorno ancora lassù in silenzio, la sera siamo scesi, è venuto il padrone, bagna la testa, e se vi trovano qui vi ammazzano, vi fucilano. Be,’ insomma ci ha dato un po’ di tabacco e dei fiammiferi e ci ha detto: “Uscite di qui, c’è una stradina che va su in campagna, prendete quella stradina, troverete una baracca. Dentro la baracca ci sono gli arnesi di lavoro, gli aratri, c’è tutta quella roba lì e ci sono le patate della semina”. Noi non aspettavamo altro e siamo andati a finire in quel fienile lì, siamo stati lì fino forse il primo di maggio. Il primo di maggio perché la guerra è finita poi dopo, il primo di maggio sono arrivati i russi dove eravamo noi, e allora siamo stati liberi. Lì è stata la liberazione.

Soltanto che poi i russi ci hanno detto che dobbiamo organizzarci per venire in Italia, che loro non hanno la possibilità e i mezzi di venire e di portarti in giù, perché dice che dalla parte loro i tedeschi avevano rotto tutto, non ce erano treni, dovevamo andare nella zona americana. Però ci fecero una carta, un benservito che diceva: “Con questa carta potete andare da qualunque parte, potete rivolgervi a qualunque comando russo, che vi saranno dati aiuti”. Ci hanno organizzato, abbiamo preso un carro, abbiamo preso un po’ di provviste perché c’erano dei magazzini tedeschi e poi siamo partiti, siamo venuti verso l’Elba. Quando siamo stati all’Elba non volevano lasciarci passare.

D: Dov’è che esattamente ti hanno liberato?

R: A Berlino; ma un momento.

I russi proprio dove sono arrivati era un paesetto, era Freistein, era un paesetto di campagna. Ma poi dove avevamo avuto proprio la liberazione perché il comando era Berlino poi, lì erano di passaggio; loro passavano, poi lasciavano una guarnigione, ma poi siamo andati a Berlino con loro poi. E lì ci hanno fatto questa carta, ci han dato ‘sto carro, siamo arrivati fino all’Elba. All’Elba bisognava lasciare lì il carro; c’era da passare di là dell’Alba e non c’era il ponte, avevano buttato giù dei carri armati, poi ci avevamo messo le tavole sopra; passavamo sopra questo ponte di tavole, dove a metà c’era la sentinella, di qua c’era la sentinella russa, di là c’era la sentinella francese, perché eravamo finiti nella zona francese. Non ci han lasciato passare perché han detto che non avevano l’ordine di lasciar … tutti passavano, fuorchè gli italiani; gli italiani dovevamo ritornare a Berlino … allora cosa c’era? C’era uno con noi, uno di quelli che è scappato con me, che viveva e lavorava in Francia, era scappato in tempo di guerra, era venuto qui in Italia e l’avevano arrestato. Ha parlato lui in francese; mi ha detto: “Facciamo una lista di doni”, quando siamo andati là che chiedevano il nome lui gliela diceva in francese; ci hanno mandato in un campo di concentramento francese e lì hanno cominciato ad uscire i guai perché non ci potevano vedere, dicevano che gli avevamo dato la pugnalata alla schiena, di qui e di là e … Siamo andati avanti così, finché poi loro sono andati via, noi abbiamo cercato di venir via con loro perché il treno veniva a Mentone e han detto, da Mentone in Liguria ci si va anche a piedi. Quando siamo stati lì hanno fatto la spia agli americani perché allora eravamo già passati con gli americani, che non siamo francesi che siamo italiani. E ci han fatto scendere. E poi quando son partiti sul treno ci facevano le mani, ci dicevano italiani maccheroni, ma qualcheduno con la testa spaccata a casa c’è andato perché le pietre che erano lì in ferrovia … A volte mio figlio mi dice “Ma te ce l’hai più coi francesi che coi tedeschi”. Dico: “Certamente, perché i tedeschi perlomeno sapevano che eravamo contro, dicevano che li avevamo traditi, può darsi anche a ragione, ma dico ma questi qua dico erano in campo di concentramento come voialtri, mangiavano la zuppa che mangiavate voialtri, e mi venite a dire che io ero fascista!”. E allora me la son presa con loro, mio figlio mi dice “te la prendi coi francesi, ce l’hai coi francesi”.

D: Luigi ma tu quando sei arrivato in Italia?

R: Io sono arrivato dopo un anno preciso.

Dunque mi hanno preso il 28 di luglio e io sono arrivato al 28 di luglio dell’anno successivo. Era un’odissea venire poi in Italia, perché poi siamo andati a finire nel campo degli inglesi, poi gli inglesi ci han portato nel campo dove finalmente si riunivano tutti gli italiani, perché siamo i soliti noi che non abbiamo mai organizzazione. Lì mi sono preso la pleurite. Una sera arrivo in baracca, c’era lì un compagno che mi dice: “Ma te hai la febbre”. Dico: “Ma che febbre!”. Dice: “Aspetta che te la misuro, ho un termometro io”. Avevo la febbre a 40. Allora va a chiamare il dottore del campo che comincia a fare dei segni davanti agli occhi, dice: “Domani mattina ti portiamo all’infermeria”. L’infermeria era una birreria, dove c’era una sala da ballo, avevano messo dei letti e fatto un’infermeria. Il medico tedesco mi ha visitato anche lui, poi ne è venuto un altro, un polacco, han fatto un consiglio, poi mi ricordo che dice: “Oggi a mezzogiorno te non mangi”. “E perché?” Dice: “Te non mangi, hanno da fare un lavoro che te non mangi”. Mi hanno fatto sedere poi su uno sgabello, han chiamato uno, mi hanno fatto abbracciare, poi han preso una siringa che era grossa così, con l’ago, han cercato qui poi tac, due litri e mezzo d’acqua han tirato fuori. Prima ha cominciato a sgorgare da sola, poi han cominciato a tirarla fuori. E lì non so se son stato tre o quattro giorni, poi vengono i miei amici, mi dicono: “Guarda che domani noi partiamo, domani c’è il convoglio noi partiamo”. “E io?”. E il dottore mi dice: “Te…”

D: Questo dov’era?

R: E chi lo sa dov’era ‘sto campo di concentramento, non lo so. Non sono mai riuscito a sapere dov’era, perché questo campo di concentramento era in un posto dove prima c’era un campo di aviazione; avevano fatto questo campo di raduno per gli italiani, ma non so dove fosse la località.

D: Ma in Francia?

R: No no, in Germania. Eravamo sempre in Germania. Han fatto ‘sto treno; io mi sono impuntato, non ho più voluto stare lì. Allora il dottore, come dico, mi aveva fatto ‘sta carta, siamo partiti con ‘sto treno, a me m’avevano messo su un vagone solo, con un infermiere, che era il vagone che serviva da infermeria. Mi ricordo solo che siamo passati da Amburgo; qui ci siamo fermati, ma non so da dove si venisse; siamo arrivati fino a Innsbruck. Quando siamo stati a Innsbruck ci hanno fatto scendere e han detto: “Qui vi facciamo la disinfezione, domani ripartite”. Infatti quelli che erano arrivati il giorno prima prendevano il treno nostro e venivano giù in Italia; questi prendevano il treno che arrivava poi all’indomani. Siccome ero malato, avevo questa pleurite, non mi hanno fermato, non mi hanno fatto neanche scendere dal treno, mi han fatto stare lì e son partito subito. Col treno siamo arrivati fino a Bolzano; no, fino a Pescantina dove ci hanno dato un panino di pane bianco e un limone; chi dava poi ste cose erano quelli del Vaticano. Ci han fatto scendere e ci hanno imbarcato sui camion che ci hanno portato fino a Milano. In stazione ci hanno imbarcato su un treno a seconda delle destinazioni verso cui si doveva andare. Ci hanno fatto scendere a Genova, dove c’era poi il treno che veniva verso Ventimiglia.

Io mi ricordo che il treno che portava la carrozza per gli internati c’era dopo tre ore; io ho preso il primo che c’era, oltretutto avevo trovato un vicino di casa, che lavorava a Genova. Gli ho domandato: “Come sta la mamma, come sta mia madre?”, dice “Tua madre sta bene”. Dico: “Allora fammi un favore, quando arriviamo a Varazze scendi un momento, vai su un momento prima te cerca un po’ di prepararla sta vecchietta”. Quando sono stato sul treno ho dovuto fare poi una lite col controllore che voleva che pagassi il biglietto, io mi ricordo che gli ho detto: “Glielo dò il biglietto, gli dò una manciata di pidocchi con la croce uncinata”. E poi si son messi in mezzo i viaggiatori, hanno detto “E’ una vergogna!”. Dico io, è un anno che manco da casa, mia madre che ha già perso un figlio, che non sa dove sono andato a finire, ma io ci andavo a piedi piuttosto a casa.

E ricordo che sono arrivato a casa, questo era andato su e dice che poi gli aveva detto alla mamma: “Lo vedreste volentieri vostro figlio?” Dice: “Eh!”. E dice: “Allora se vi dicessi che a Genova?” Dice: “Mi cambio e ci vado subito!”. Dice: “No, no stia lì che è qui che arriva su dalle scale”. E lì è finita l’odissea.

D: Luigi tu non sei mai stato intervistato in questi cinquantacinque anni?

R: No. E’ venuta una volta una, ma due domande così, mai più saputo niente. Non ho mai più saputo niente. Una cosa, che a volte mi dicono: “Ma avete aspettato tanto a farvi vivi e a parlare, perché non …”. Dico: “Quando siamo arrivati prima di tutto c’era l’euforia della fine guerra, la gente ballava, cantava, non pensava nemmeno a noialtri. Poi abbiamo cominciato a parlare quando abbiamo visto che si era deciso Levi a scrivere, qualcheduno insomma un po’ più istruito di noi … e ti dico la verità, non si credeva neanche noi di aver passato quello che si era passato. Ma è verità o non è verità? Ma saranno immaginazioni? Saremo scemi? Possibile che sia così? Infatti quando mi dicono “Ma come ha fatto?”. Ragazzi fortuna, fortuna. E’ fortuna, perché altrimenti non si veniva a casa, se non si era fortunati non si veniva a casa. Fortuna perché magari nel periodo che si stava male qui io ero andato un po’ più in là … infatti mia moglie a volte mi dice, le dico sempre: “Ma io sono scarognato, non riesco a vincere una cosa”. Dice: “Ma te hai già avuto la fortuna, quella di venire a casa”. A volte mi dico: “Ma sarà una fortuna o sarà una disgrazia? Ero già pronto là, qui invece mi tocca di nuovo, là ero già pronto per andare, adesso qui invece ho dovuto iscrivermi per farmi bruciare, invece là ero già, senza spese, senza niente. Dice: “Ah, sei fortunato” e dico “Sì, per quello sì”.

D: Luigi tu non sei più ritornato su nei luoghi?

R: No, no. Non ce la faccio. Non ce la faccio.

Siamo partiti in cinque amici e sono ritornato solo; ero il più gracile, il più esile, a parte uno, quello che aveva l’autofficina, che era già anziano, gli altri erano tutta gente che erano più … Sono venuto solo.

Grazie Luigi.