Jerman Ada

Ada Jerman

Nata a: Trieste il: 06.10.1926

Intervista del : 23.06.2000 a Trieste realizzata da
Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n.100 – durata: 79′

Arresto : ottobre 1944 a Cormons (TS)

Carcerazione : a Gorizia

Deportazione : Ravensbrück, Belzig

Liberazione : 26 aprile 1945 durante evacuazione

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Organizzazione materiali ed inserimento dati: Elisabetta Mascarello, Elena Pollastri

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

R: Mi chiamo Ada Jerman, sono nata a Trieste, sono di famiglia slovena, sono nata nel 1926, precisamente il 6 ottobre.

Nel ’43 mi è morto il papà e noi, io, mia madre e mio fratello, essendo anche in condizioni economiche precarie, non c’era nessuna entrata, siamo andati ospiti dai parenti di mia madre nel goriziano, perché mia madre appunto è goriziana di nascita, di famiglia contadina.

Siamo stati ospitati in casa di una zia, mio fratello in casa di uno zio, e mia madre in casa di un’altra zia, un pochino sparsi ma uniti nello stesso tempo.

Dopo l’8 settembre immediatamente, come per incanto, ma come per incanto ancora oggi mi chiedo come e quando era tutto quanto preparato, ad un certo momento si sono visti i primi… C’era un fuggi fuggi, il comune, il comune di Castel Dobre in questo caso, è stato lasciato libero, i funzionari che c’erano erano scappati. Dunque tutto questo dal primo settembre era una cosa già preparata, forse io come ragazzina e tanti altri non sapevamo che questo fosse stato già preparato in anticipo. Ed è evidente che era preparato in anticipo, il malcontento e tutto quello che è successo, che poi dai libri di storia lo si sa ancora meglio.

Dunque, in quel momento subito dopo l’8 settembre si sono presentati come per incanto i partigiani. I partigiani con la stella rossa, con… non si può dire una divisa, ma quelli che avevano avuto la fortuna di avere delle divise militari. In quel momento si sono manifestati i partigiani. Si sono manifestate anche delle persone civili e si cominciava ad avere dei meeting, così detti, quella volta si diceva meeting. Naturalmente era un’insurrezione praticamente, io direi un’insurrezione.

Ma l’entusiasmo che la gente aveva, e non parliamo dei giovani poi, sapendo che i tedeschi ed i fascisti, nota bene là erano i civili che dirigevano il comune, le scuole ecc…, erano i fascisti italiani. A questo punto per me era incominciato il movimento di liberazione, anche se evidentemente preparato prima.

Da quel momento specialmente noi giovani con la direzione delle persone più preparate cominciavamo ad organizzarci per la resistenza. Resistenza erano anche le cose più piccole, più modeste, non resistenza solo quella di andare in montagna, di sparare, di avere dei collegamenti con i militari ecc… La resistenza era tutto ciò che poteva nuocere ai tedeschi occupatori. Ciò vuol dire che da quel momento anche una piccola informazione poi, diciamo così, operava come un tam-tam. Anche con i bambini più piccoli: dalle collinette si vedeva arrivare una colonna di tedeschi, nota bene che subito dopo l’8 settembre, dopo un momento di incertezza anche da parte dei tedeschi si erano manifestati i tedeschi, con la massima ferocia. Ho detto bene ferocia, giusto. Ecco, si erano manifestati.

Allora io ancora oggi mi domando come era nata questa spontaneità, questa spontaneità di tutti quanti. Tutti quanti. Non bisogna dimenticare che quella parte del Collio era di popolazione slovena, era ed è tuttora perché adesso è anche divisa dai confini: una parte è rimasta sotto l’Italia ed una parte è andata oggi come oggi alla Slovenia.

Dunque in questa maniera io ho cominciato con mia cugina, eravamo in casa giovani. Ho cominciato a collaborare in tutti i modi, in tutti i modi, facendo la staffetta, andando ad informare di tutto quello che si sapeva; tutto era collegato, eravamo collegati l’una all’altra, non c’era uno solo che lavorava. Io per esempio portavo qualche cosa ad una persona e sapevo che quella la portava avanti fino ai vertici che dovevano saper operare.

Questo era l’inizio.

In concreto sono stata presa così. Siccome ho detto che noi avevamo questa casa abbandonata, la mamma era abbastanza malata e c’era questa mia zia che la curava, di tanto in tanto si veniva a Trieste per vedere se la casa fosse aperta. Era una casetta, ancora adesso esiste la nostra casetta. Così venivo di tanto in tanto, ed avevo anche in queste occasioni da parte di queste organizzazioni giovanili il compito di portare quello che si poteva. Andavi in farmacia e se vedevi che ti davano di più garze le dovevi comprare, qualunque cosa poteva venire buona, anche noi in casa si facevano i biscotti, in casa, proprio in casa di mia cugina. Allora si faceva alla sera, magari andavano a dormire i genitori e noi si facevano i biscotti, il pane biscottato. Si faceva il pacco e si mandava su perché questo era per i partigiani feriti, per gli ospedali, organizzati come si poteva.

Per ritornare al punto concreto, come e quando, io sono venuta un giorno a Trieste, era circa prima della festa dei morti ad ottobre. Vengo a Trieste e nel mio rione con molta circospezione parlavo con i miei amichetti, amici di diciassette, diciotto, diciannove anni. Però pensavo che fosse quasi un mistero, invece anche qui era già tutto…

Difatti ho saputo che l’amico Attilio era andato con i partigiani. Poi mi rivolgo ad una amica, una certa Ninfa, che da poco tempo è anche morta; era impiegata al cantiere o alla fabbrica macchine, non saprei dire esattamente, comunque uno di questi due stabilimenti a Sant’Andrea. Lei era impiegata. Dico: “Sai, io dovrei portare qualche cosa, sono qui per casa, privatamente dico, ma dovrei portare quello che posso o devo racimolare qui, carta per ufficio, carta carbone, bende, garze, tutto quello che poteva servire diciamo ai partigiani, alle formazioni partigiane”.

Per lei non era un mistero, ho capito subito che già in fabbrica lavorava il movimento clandestino.

Allora ho detto: “Senti, tu, così che sei là, potresti procurarmi qualcosa di cancelleria?” Mi interessava. Ha detto che avrebbe fatto il possibile. Difatti la Ninfa mi ha portato non una risma completa ma una mezza risma di carta ciclostile che io, nota bene, sempre lo ripeto, non sapevo neanche che fosse carta ciclostile, dico la verità, non sapevo. Io d’altra parte mi ero procurata, pagando anche di tasca mia, della carta per dattilografia, carta semplice, quello che c’era.

In poche parole io avevo in una sporta questo materiale, parte comperato, parte ricevuto da Ninfa, carta ciclostile. Poi c’erano delle bende, della tintura di iodio.

Ecco, io avevo nella sporta tutte queste cose; sapevamo da noi che dovevamo portare, fare qualcosa per il movimento.

In quest’occasione voglio ribadire anche questo: non era solamente che ti davano un ordine perché tu facevi parte di quell’organizzazione o come volevi dirla, ma era veramente che sentivamo in blocco, in massa, di lavorare. Lo ribadisco sempre più di ogni cosa; poi certamente altri avevano anche compiti molto più impegnativi, compiti di direzione, come vorrei dire, ma eravamo tutti compatti. Perciò io dico la verità, non ero un eroe ma facevo parte di quella massa, di quel mosaico, potrei dire un mosaico di quello che era tutto contro il nazifascismo. Ed io questo ribadisco, e sottolineo, contro il nazifascismo.

Ritornando da Trieste quel giorno mi ero fermata con la mamma, perché la mamma era molto malata quella volta, mi sono fermata a Cormons perché là c’era la stazione ferroviaria, poi si prendeva la strada a piedi per andare verso il Collio. Per Cormons mancavano ancora forse uno o due chilometri, si poteva andare, era popolata, dopo di che c’erano già le tabelle “Achtung Banditen”, non so se ci fosse qualche parola in più, non mi ricordo, ma questo “Achtung Banditen”, la zona dei banditi. Anche qua li si chiamava o ribelli o banditi, no? Ma adoperavamo molto anche la parola “ribelli”, i ribelli partigiani.

Ecco, in quel momento c’era una pattuglia di SS e mi ci sono imbattuta, non solo io, ma tutti quelli che andavamo verso quella zona, ed eravamo diverse persone, anche del Collio. La cittadina dove andavano a comperare qualcosa era Cormons, nella parte sud occidentale del Collio. Là era una zona molto ben organizzata, e c’era una zona anche di operazione, là si combatteva o si facevano operazioni militaresche, non so come dire, sempre partigiane, anche tra i partigiani italiani ed i partigiani garibaldini. Era un incontro molto ben riuscito e con una collaborazione ottima direi. Ma a questo anche dai libri di storia del movimento si può risalire.

Bene, niente; a questo punto ci portano tutti in caserma, in una piccola caserma a Cormons, dei carabinieri, e questo ci tengo a dirlo: ci rinchiudono, ci consegnano ai carabinieri, ci hanno richiuso, a me ed alla mamma ci hanno separate con la raccomandazione ai carabinieri di non aprirci e di non metterci in contatto. Però tengo a dire che i carabinieri appena erano usciti i tedeschi delle SS avevano chiuso dietro la porta e ci avevano lasciati liberi. Bisogna dire la verità, eravamo in sette persone, se qualcuno suonava andavano a vedere e ci rinchiudevano. Questo lo devo dire anche ad onore della nostra gente italiana, era evidente che a loro i tedeschi non piacevano. Questo tengo a dirlo, sì.

Niente, mi sembra che era una settimana circa in cella dei carabinieri, invece il bello venne dopo, nelle carceri di Gorizia. Nelle carceri di Gorizia siamo state rinchiuse: una vera prigione, c’erano molte e molte persone, molte specialmente ragazze sempre dei dintorni della parte goriziana, e là la prima cosa è l’interrogatorio.

L’interrogatorio era con un interprete sloveno-italiano, e devo dire tutto quello che mi è successo. Loro volevano a tutti i costi sapere per chi lavorassimo. Facevo finta, cascavo dalle nuvole, dicevo di non lavorar per nessuno, e naturalmente tiravo fuori, come era vero, anche la storia anche della mia famiglia, come siamo dovuti venire via e avanti. Tiravo fuori la questione che non esisteva più il comune, ma che c’era il prete. In questa maniera io giustificavo che questo materiale che ho, in fondo in fondo fosse per la parrocchia perché non esisteva più il comune. Ad un certo punto l’avranno anche creduto, ma quando era venuta fuori la questione del ciclostile quella me l’hanno sbattuta in faccia.

Ma io torno a ripetere, non avevo pensato, non sapevo neanche, quando la Ninfa mi portò questo ciclostile; c’erano delle gomme mi sembra ed anche delle matite se non mi sbaglio, quello che aveva potuto arraffare, diciamo così. Me l’hanno sbattuto in faccia: “Ma questo tu lo sai, tu lo sai questo, sai che c’è la propaganda, noi sappiamo tutto”. Allora cominciavano a terrorizzarmi: “Noi sappiamo tutto di te, delle famiglie”. “Ma sì, va bene, sapete tutto e so che sapete”. Insomma, mi arrangiavo abbastanza a cercare di giustificarmi più o meno, ma sempre così, con questa del prete che fa ridere anche adesso, dico ma come è che mi è venuta in testa quella del prete? Il prete era anche per noi quel prete che era lassù.

A questo punto mi hanno dato uno schiaffo. Casco da una parte, ritorno su e me ne danno un altro. Questi erano i due schiaffoni che ho ricevuto, che mi hanno fatto…

D: Scusa Ada, quando è accaduto questo?

R: Questo è accaduto gli ultimi giorni di ottobre. Gli ultimi giorni di ottobre, primi di novembre, adesso…

D: Di che anno?

R: ’44. Ecco, ho fatto un paio di giorni nelle carceri di Gorizia, la mamma fortunatamente l’avevano lasciata fuori: mia madre stava appena in piedi, era abbattuta dalla morte di mio padre, ma poi anche… è stata una fortuna che se la sia ripresa questa mia zia.

La mamma l’avevano lasciata fuori, poi i parenti mi avevano contattato: c’era un’infinità di parenti che venivano a portare qualcosa da mangiare, che poi ci portavano le suore, e così avanti. Ma il 1. novembre, no il 2 novembre, al 6 siamo arrivati in Germania, non mi ricordo esattamente se era il 2 o il 3, comunque alla sera venne una suora nella stanza, nella cella che era abbastanza grande, con una lista e disse: “Per domani mattina preparatevi, queste partono”. Ero anche io con queste.

Naturalmente noi eravamo convinte di andare a lavorare, in una fabbrica, non saranno le baracche. Si sapeva che c’erano le baracche dei civili che lavoravano, e questa per noi era già la prigionia, diciamo così, se vogliamo dirlo.

Mai e poi mai avremmo potuto immaginare qualcosa di più tremendo. Tutte quante, ognuna come poteva, aveva qualcosa di caldo, di indumenti caldi, tutti cercavano in qualche modo i genitori, i familiari, e tutti avevamo la nostra valigia. Mi ricordo un vestito caldo di mia madre e l’ultimo momento prima di andare fuori dalla cella mia mamma si era presa dalla mano un anello di fidanzamento di mio padre e me l’aveva dato, dicendo: “Non si sa mai”. Probabilmente lei aveva più esperienze ed ha pensato che con un pezzetto d’oro… Ecco, mi aveva dato quell’anellino. Io di oro avevo solamente quell’anellino che mi aveva dato la mamma all’ultimo momento e gli orecchini che avevo da bambina; addosso non avevo altro perché non ne avevamo, per dire la verità.

Siamo partiti. Io sono partita da Gorizia con il carro merci, prima su un torpedone militare mi sembra fino alla stazione e poi con il carro merci, carro bestiame. Ci siamo collegati, ci siamo incontrati con il carro che veniva da Trieste. Ma noi del goriziano eravamo nel nostro carro, erano due questi carri.

Così al 6 dicembre, dopo peripezie, quattro giorni di viaggio tra fermate, poi ci hanno dato… Qua ancora erano un pochino questi che ci accompagnavano, che poi c’erano questi delle Brigate Nere, italiani, che ci accompagnavano. Ci hanno fatto anche scendere mi sembra ad Udine, c’era un bar, non so se era della stazione, non mi ricordo più esattamente. Ci hanno dato un the o qualcosa.

Poi ci si doveva fermare perché c’erano i bombardamenti durante il tragitto, e so che ci si fermava su dei binari morti, e là si aspettava quando davano loro il via per proseguire.

Fino a là penso che ci fosse ancora un po’ di speranza di arrivare ad una meta, non certamente al paradiso ma almeno…

Quando siamo arrivati verso sera, all’imbrunire, davanti all’ingresso di Ravensbrück era terrificante, in una parola. In quel momento c’è caduto tutto il morale, quelle speranze che solo i giovani possono avere, quell’ottimismo che solo i giovani possono avere, che non vedono, non vedono il pericolo e la bruttura, tanta bruttura davanti.

In quel momento era finito tutto.

Allora ci hanno fatto entrare e scendere con i nostri bagagli, con le nostre valigie, ci hanno fatto scendere, ci hanno fatto entrare dentro in questo Lager, era sull’imbrunire, non era ancora notte completa. Tutto nero, grigio. Difatti io non ricordo del Lager i colori. Il nero, il grigio, il grigio ed il nero. Anche per il fatto che lì anche il cielo era grigio perché era inverno, dunque questo è il colore, come quei vecchi film neri.

Non ci hanno fatto entrare in una baracca bensì in una tenda. Questa tenda che qualcuno chiama la “tenda nera”, io questa non la potrei definire perché non ho visto se era nera, se era quella di cui parlano, però era una tenda, perché si vedeva che non avevano baracche e roba a disposizione.

Là in quel momento, in quella notte abbiamo capito che non c’era più speranza di avere né gli indumenti né il nostro mangiare: avevamo tutte qualche barattolo di marmellata, tutto quello che si poteva avere anche durante il tempo della guerra.

Quella notte abbiamo cominciato ad aprire e mangiare tutto quello che si aveva, un po’a sonnecchiare là per terra; qualcuno ha buttato questi barattoli, ha buttato oltre perché vedevamo. Io penso, questo è un mio pensiero, che l’impatto fosse ancora migliore di quello che abbiamo visto dopo. Così si è anche buttato qualche barattolo, e c’era qualcuna che poi li raccoglieva. Abbiamo capito, diciamo.

Io dico per me, ma penso che più o meno sia uguale, da quel momento ho capito che bisognava solo subire. E a chi parla di ribellarsi non credo. Io non credo, almeno in quelle condizioni verso dicembre, arrivata su, in ottobre.

Alla mattina, non so se è il caso che ritorno a raccontare la solita cosa perché era il solito sistema, ti spogliavano tutta, ti rasavano, ti tosavano i capelli. A me no, avevo i capelli corti e non mi hanno… Specialmente si divertivano se avevi trecce, capelli belli. Poi c’era qualcuna che veniva dalle prigioni ed aveva i pidocchi. Loro sempre in nome della pulizia… A me non mi hanno tagliato, li avevo anche corti io, mi ricordo molto bene.

Niente, la solita vestizione, ti spogliavano tutta, passavi in lunghe file, era un triste defilè. Io a diciotto anni non avevo mai visto una donna nuda, mai: in casa no e fuori tanto meno, dunque non sapevo neanche, tranne il mio corpo, non conoscevo i corpi, perché c’era un pudore, erano i periodi del pudore che voi sapete, almeno per quel che non c’era come adesso, è inutile parlarne. Perciò eravamo molto… ogni donna si copriva, in quel momento non c’erano più… Passavi, era un triste defilè infernale.

Passavi con le mani, avevi le braccia alzate, ti guardavano sotto le ascelle, ti rasavano e ti guardavano evidentemente se avevi anche qualche bestia. Ti trovavi completamente nuda. Poi c’erano anche degli uomini, non c’erano solo le donne, quando ero io c’erano tre o quattro uomini seduti su una panca e passavi, questi me li ricordo. Parlo sempre del caso mio e per tutte quelle che erano quella volta con me. Quella volta erano le donne che ti guardavano con una specie di una familiarità falsa, diciamo così, e ti toglievano quello che di oro avevi addosso. Io avevo, come dico, questi due orecchini piccoli che penso fossero della Cresima, proprio piccoli orecchini, e l’anello della mamma. Questo me l’avevano tolto. Se qualcuna aveva di più insomma…

Passavi in questa famosa stanza delle docce, che era come una palestra grande, rustica, con tante docce. Passavi, ti facevano la doccia, tornavi fuori da una parte e ti consegnavano un asciugamano ruvido, grigiastro, e quello che capitava di vestire.

Io e questo nostro gruppo non avevamo più rigato, perché evidentemente non avevano più i vestiti, allora ci davano dei vestiti civili conciati in maniera peggiore di quelli rigati. Se volete vi dico anche come era.

Io avevo ricevuto un paio di mutandoni, una sottoveste, i calzettoni mi avevano lasciato i miei, quando ero partita avevo un paio di calzettoni di lana, quindi me li avevano lasciati. Non mi ricordo i particolari ma questi erano i miei. Mi avevano dato un paio di scarpe trovate là, alla rinfusa, di due numeri più grandi, non gli zoccoli ma un paio di scarpe.

Poi mi avevano dato un vestitino di cotone verdino di velluto rigato, con davanti e dietro una X fatta con la vernice, perciò indelebile. Sopra un cappottino blu ritagliata la schiena ed inserita una stoffetta molto leggera verdina, che non aveva niente a che fare con questo cappottino, e davanti la stessa cosa. Sul davanti inserita anche questa stessa. Perciò eri uno spaventapasseri e ti vedevano a mille miglia, per cui era bloccato dappertutto. A parte che poi per quanto riguarda le fughe, neanche a sognarsi.

Questo era il primo impatto.

Ma il terribile era, ma questo l’ho pensato dopo, come mai in un’Europa poteva esistere, in mezzo all’Europa, un pianeta infernale? Come mai nessuno ha fatto niente, non so, russi ed americani, tutti con i loro servizi, non parliamo anche dei servizi segreti? Poi oggi si conoscono molte cose, si sa anche quanti contatti segreti tra di loro, chi, dico io. Era un pianeta infernale.

Questo posso dire in una parola, e non si può dire altrimenti, come era tutta questa organizzazione, con questi grandi pianeti e con questi piccoli satelliti attorno.

Non c’era meglio o peggio, il sistema era uguale dappertutto per quanto riguarda i campi di sterminio. Poi c’erano quelli di lavoro, erano migliori perché almeno potevano andare fuori, avevano lo stesso un rapporto più civile. Ma parliamo di questi.

Per ciò dico questa era la situazione.

Poi ormai anche era la fine del ’44, naturalmente c’erano sempre anche gli eventi bellici, venivano avanti, di conseguenza cominciava a mancare la luce, e poi non sapevano più cosa fare con questi, questi che man mano venivano eliminati, ma era sempre pieno, sempre pieno, sempre pieno.

Allora, per farla breve, a Ravensbrück non c’era più un letto, un giaciglio per persona, non esisteva più un giaciglio perché erano tre giacigli, non due, a castello, ma tre uno vicino all’altro, ce n’erano tre, tre e tre, in ogni giaciglio eravamo in tre persone.

Quando sono venuta io, io e questo mio gruppo, perché non ero singola, non mi ricordo il numero della baracca …. Dico che delle cose potevi portartele dietro e non le ho portate. 92.000 e rotti, questo mi ricordo.

Dico, eravamo in tre e ci eravamo messe così come si poteva, una di piedi… Ma vestite come eravamo. Alla mattina quando c’era il primo non si sapeva se erano le tre, le quattro, la mattina alle cinque, chi sapeva l’ora? “Raus, Aufstehen, Los…” tre parole malefiche che ci hanno accompagnato fino alla fine dei Lager.

“Aufstehen, Los e Raus”. Fuori, svelto, alzarsi. Quella mattina ci siamo alzate, ci siamo scaraventate giù da queste… come eravamo, sotto di me c’era un’ebrea, so che penzolava, alla sera ha parlato ha parlato ancora con me, mi chiedeva da dove venivo, non so se era tedesca, non era italiana, mi sembra. Alla mattina io scendo dal letto e vedo questa gamba e questo braccio tumefatto, tutto blu: era morta.

Scendevamo, ma non era il tempo… Non mi dice nessuno che era il tempo di avere pietà perché dovevi fuggire, fuggire sempre, continuamente fuggire. Tu dovevi sempre… Almeno c’erano dei momenti che non era il tempo, tu non potevi… “Fuori”, “Raus, Raus, Schnell, Raus…” Si andava in quei gabinetti; il gabinetto e la brodaglia che ti portavano aveva tutto un odore nauseante, tutto lo stesso odore. Perché una cosa mi ricordo, io sono molto … agli odori, più che una sensibilità agli odori. Mi ricordo di quegli odori. Era come una cosa nauseante, non so, una cosa nauseante. Dopo ti abitui a tutto, naturalmente.

Questo era il primo impatto con il Lager di Ravensbrück.

Dopo per farla breve, queste ultime arrivate naturalmente all’appello … Lo sapete già, tutte hanno raccontato la solita storia: davanti c’era l’Appellplatz e tutte per cinque incolonnate, due per cinque, tutte ferme come mummie quando venivano a fare la conta ecc…

Dopo quelle che erano prima e sapevano già dove andare, noi che eravamo le ultime si aspettava sempre di essere mandate ad un lavoro. Venivano, sceglievano, ti potevano mandare a portare via i morti, ti potevano mandare alle cucine a pulire, ti potevano mandare…

Noi ci mandavano, facevano un gruppo, c’erano le russe anche, ci mandavano fuori dal Lager in una specie di palude direi io, questa terra grigia paludosa, non ho mai capito perché ci facessero mettere questa terra con le pale nella carriola e portarla in un altro posto. Io non ho mai capito.

Dopo un po’ di tempo siamo alla mattina, sempre in attesa dopo l’appello di essere mandate a qualche lavoro, dovevi stare là.

Vediamo capitare una delle Ausirke, “Ausirke sarebbero le ausiliarie, le SS che erano nuove nei campi, con una nuova Ausirka. Vediamo arrivare verso la nostra colonna dove eravamo in attesa, ancora là, sempre ancora incolonnate per cinque. Si fermano davanti a noi, guardano, parlottano un po’ ed incominciano a selezionare all’inverso, a tirare fuori le meglio diciamo, perché era evidente che se… E tirano fuori di queste nostre triestine un dieci, ed un altro sette circa russe o francesi, non so.

Abbiamo capito, siamo andate di nuovo a farci la doccia naturalmente per disinfettarci, ci hanno dato però quegli stessi abiti, solo disinfettati. Ci hanno dato un pezzo di pane, qualcosa, un po’ di margarina, quelle cose che usavano là, un pezzetto di una specie di salame. Siamo andati ed iniziavano il trasporto, Transport.

A questo punto non sapevamo niente ma eravamo come intontite, non avevamo neanche la voglia di parlare, di fare delle congetture, niente. Con questa nuova Ausirka che era una bestia siamo andate alla stazione di Ravensbrück e di là abbiamo attraversato Berlino, questo mi ricordo, naturalmente era tutto abbrunito perché era il coprifuoco. Quello mi ricordo, che era Berlino, ma se…

Verso le nove di sera, penso, siamo entrati in questo Lager, Arbeitlager, di Belzig. Ritornata a casa, perché non sapevo dove ero, guardando ben bene la carta geografica, anzi una carta geografica più locale, più topografica che geografica perché era un paesino in una cittadina, poi l’ho individuata anche tre anni fa quando ero a Berlino ed a Ravensbrück. Insomma, abbiamo attraversato questo paesino di Belzig e fuori dal paese c’era il Lager. Questo Lager era una miniatura diciamo dei Lager, una miniatura.

Nonostante le torrette, il fil di ferro, i cani e le baracche non i numeri e tutto, nonostante tutto ci parve un paradiso. Perché era almeno.. i letti a castello, ma almeno ognuna aveva questo letto. E poi il paradosso di questo loro sistema, da una parte eri… vorrei dire una parola, lo dico, eri proprio niente, anzi più che niente, eri un rifiuto per non dire un’altra parola; d’altra parte volevano pulizia, ordine. Di fatti in queste Stube c’erano questi letti, una ventina penso che eravamo in quella Stube. C’erano questi letti, ognuno, due a due. C’era un gancio anche dove dovevi appendere i tuoi vestiti. Questo pagliericcio, perché avevi una coperta sotto ed una sopra, non lenzuola, una copertina sotto e sopra, però doveva essere perfettamente come nelle caserme quando…

A questo punto ci parve veramente molto meglio. Però la solita solfa. A quell’ora ti portavano… e dopo c’era la questione di andare in fabbrica.

Si lavorava quella volta ancora in piena produzione direi, la fabbrica era un due chilometri fuori dalla baracca, a piedi, dentro in bosco, non la vedevi perché c’erano pini, abeti ecc…

Poi ti facevano la sistemazione quando e come e cominciavi a lavorare. Nove giorni consecutivi, nove giorni, non dico sei o sette come… nove, poi due giorni di riposo, questi sì, due giorni di riposo per così dire. Nove giorni tu lavoravi, la fabbrica lavorava ventiquattro ore su ventiquattro, con mezzora di pausa quando c’era il cambio dei turni, a mezzanotte ed a mezzogiorno.

Lavoravi in piedi dodici ore, mezzora di pausa, in quella mezzora ti davano quel mangiare. Dove eravamo noi in questa fabbrica c’era una specie di veranda, dove c’era questo refettorio, diciamo così, mezzora e poi riprendevi a lavorare. Questo per i primi tempi, fino a che andava la produzione.

Poi naturalmente pian piano anche il lavoro si era ridotto, non si lavorava più dodici ore ma si lavorava otto o nove ore, perché si vede che ormai l’elettricità mancava e così avanti.

Però io in questo frattempo, dico in questo Lager in miniatura, ho avuto tutto quello che si può avere da un Lager. Io arrivo da Ravensbrück a Belzig e mi porto il microbo, il virus del tifo. Quando sono all’appello un giorno cado svenuta. Le nostre ragazze naturalmente pensando che si potesse fare tutto: mi tirano su, viene la Ausirka o la Blockowa a farmi tutto, mi tirano su e mi portano in Revier, perché c’era il Revier, la cosiddetta baracca ospedale. La chiamavano Revier, non so.

La prima cosa hanno avuto subito, perché erano accorti questi diavoli, hanno avuto il sospetto che si trattava, visto che siamo venute da Ravensbrück, di qualche cosa di contagioso. Perché? Nota bene, non per me o per gli altri, ma per la fabbrica. Noi eravamo state portate lì per andare a lavorare in fabbrica.

Allora a questo punto mi portano in questo Revier, là c’era una dottoressa russa, prigioniera di guerra. Lei era proprio prigioniera di guerra, ma poi portata in questo campo, era un medico militare, così mi raccontava. Conoscendo lo sloveno potevo comunicare abbastanza bene, sai, si era anche giovani, è più facile recepire, diciamo così, e si poteva abbastanza bene comunicare, abbastanza dico.

Così mi raccontava che era stata prigioniera di guerra sul fronte, poi non so perché era arrivata qua.

Febbre, febbre, mi hanno messo in una stanzetta separata, subito isolata, immediatamente, e vedevo questo comandante, nel Lager c’era il comandante, quella stessa che era venuta a prendere il gruppo di cui facevo parte io. C’era il comandante e vedevo il comandante venire su. Allora ho capito nella mia febbre, ma i primi giorni non ho capito niente, poi … vi era questa dottoressa russa, e… un momento non ho capito niente, ma ho capito che si trattava di tifo.

Poi ad un certo momento viene un dottore da un altro Lager, uno grande, mi hanno detto anche il nome ma non lo ricordo. Allora so che per prima cosa mi hanno tagliato i capelli. Là sì che mi hanno tosato. Poi mi hanno guardato, molto mi guardavano sull’addome e sul torace, parlottavano e non capivo.

Comunque era appurato che si trattava di tifo petecchiale. Perciò io ero rimasta isolata, ma in questo caso che non tutti i mali vengono per nuocere; anche il mio blocco dove erano le ragazze che andavano a lavorare era rimasto in quarantena. La quarantena non era di quaranta giorni, era un periodo. Erano chiuse dentro, portavano loro anche il mangiare, glielo mettevano davanti alla porta e poi le richiudevano, non dovevano uscire.

Questo mi raccontavano poi le ragazze, tra l’altro dicevano: “Non so se ce la farà, chi andrà a dirlo a sua madre?” Questo mi raccontavano dopo, erano già preparate che qualcuno lo dovesse andare a dire a mia madre.

Come vedete io sono qui ancora, perciò il diavolo non mi vuole, Dio non mi vuole, fino a che non mi vuole. Così devo anche ridere perché bisogna metterla anche un po’ su questo piano.

Ecco, questa è in sintesi la mia storia personale.

D: Ada, scusa, … cosa costruivate? Che fabbrica era?

R: Questa fabbrica era di munizioni, e per quel che ho capito, e per quel che facevo io proprio, erano dei missili contraerei, dei proiettili; erano lunghi circa una ventina di centimetri. Per quello che mi avevano detto, di cui si parlava, io ero proprio nel reparto dove si faceva l’ultima fase: prima veniva messo dentro in un sacchettino di seta del piombo, che era tutto a nastro. Erano ben organizzati quei diavoli, sì. Poi venivano portati ad un altro tavolo, questi li rinchiudevano con un anello, con un tappo di metallo, poi passavano al mio tavolo dove eravamo non so, mi sembra che fossimo otto ragazze, con le cassette, perché erano inseriti nelle cassette questi proiettili, e noi mettevamo l’ultimo, diciamo si metteva l’ultima vite di questo proiettile. Poi a questo punto andava invece ad un altro tavolo dove c’era sulla parete elettricamente collegata l’ultima chiusura ermetica di questo tappo.

Ecco un altro piccolo episodio che vi posso dire, che poi di episodi ce ne sono stati tanti in questo frattempo. Verso gli ultimi, verso diciamo il 6 marzo, io ero già rientrata in fabbrica dopo il tifo, nota bene con la testa pelata e con la pancia come un barile, gialla, ero gialla. Tanto è vero che quella che faceva la capo reparto era una civile, con il vestito bianco, la vestaglia bianca, era come una mummia questa donna. Non so se le facevamo compassione o no, però era sempre in un certo qual modo controllata dalla Ausirka, perché le Ausirke venivano dentro improvvisamente, noi eravamo sotto il controllo delle Ausirke del campo.

Per la fabbrica invece era questa civile, questa donna, una bionda, mi ricordo. Aveva chiesto se ero incinta. Dunque voi capite che pancia dovevo avere, perché sapete, questo è già stato detto, che per prima cosa cessavano le mestruazioni in Lager, e naturalmente anche questa era una anomalia che senza dubbio aveva i suoi effetti.

Adesso con il tifo, senza mestruazioni, una ragazzina di diciotto anni non so se proprio può essere… Comunque una pancia gonfia, la testa pelata, e con quel vestito di spaventapasseri.

Adesso non mi fa ridere, o mi fa ridere per non piangere.

Questa civile aveva domandato perché forse pensava chissà… io dopo ho pensato, forse era così, per curiosità, o forse mi avrebbe alleggerito dal portare quella cassetta, perché dovevamo noi portare le cassette. Questo è un mio pensiero.

Ad ogni modo verso la fine della guerra, verso marzo, aprile, anche la tensione elettrica diminuiva. Al momento si aveva meno elettricità, ed un giorno quando avevamo portato queste famose cassette per farle chiudere dall’elettricità, … mettevano, inserivano in queste buche, elettricamente. Però non era finita, perché alla fine veniva l’Ausirka e dava con una specie di gomma, qualcosa così, e dava un colpo su queste cassette di proiettili. Quel giorno erano cadute tante capsule, le ultime.

Non fosse mai stato. Allora si gridava subito che c’è sabotaggio, sabotaggio… e così avanti. Noi eravamo già mezze morte, probabilmente sabotaggio non ce n’era, perché tutti facevamo il nostro, era l’elettricità stessa che non aveva la forza di chiudere bene.

Comunque quel giorno, tanto per dire le cose che facevano, io parlo di me perché poi più o meno c’era… Quel giorno tutto il nostro reparto andava verso il Lager dove ci davano, tutto sommato ci spettava, quel pezzetto di pane, per tanto o poco che era, era l’unica risorsa che si aveva; con le Kübel ci portavano il mangiare dal Lager, e alla sera dovevamo noi stesse prigioniere portarle.

C’era quel fuggi fuggi per mettersi per cinque, quella che rimaneva fuori doveva portare le Kübel. Non potevo camminare neanche io, le Kübel in due si portavano, se c’erano i manici. Mi ricordo che c’era una belga e toccava a noi due. Quella donna ha trascinato la Kübel ed anche me. Erano circa due chilometri per arrivare in fabbrica, non era dietro l’angolo.

Arriviamo in questo benedetto Lager, sempre con il cane, accompagnate con i cani e con le guardie con i fucili. Arriviamo in Lager, pensavamo che poi ci avrebbero dato quella brodaglia. Davanti al Bunker, c’era un Bunker, lo chiamavo così ma dentro c’erano anche le casse di morto, forse era un Bunker per le Ausirke nel caso di bombardamenti. Era un Bunker sotto terra.

Era ancora chiaro quando siamo venute; a distanza di qualche metro dovevamo stare in piedi, le altre erano rientrate nelle baracche. Noi non so dove prendevamo la forza, prendevamo la forza finché c’era la forza, poi si cadeva per terra, non c’era altro.

Ad un certo momento avevano aperto il Bunker, ecco che dentro il Bunker … Quel giorno, senza mangiare, dentro nel Bunker c’era una fila di casse di morto, perché se una moriva ti mettevano là accovacciate perché non avevano il posto neanche per sdraiarsi per terra, accovacciate, aspettando la mattina dopo di andare in fabbrica di nuovo.

A pranzo, guarda mi pare impossibile, qualche volta sembra di dire bugie, a te stesso sembra di dire bugie, e queste cose non le si fa volentieri, ragazzi. Questi ricordi sono come tante… oggi siamo vecchi e siamo molto più sensibili. Prendete un ragazzo di venti anni e prendete una donna di settanta, settantacinque anni.

A questo punto torniamo in fabbrica, andiamo a lavorare ed all’ora di pranzo pensavamo di andare a mangiare questa brodaglia. Davanti ho detto che c’era una specie di veranda a vetrate, fuori davanti alla veranda di nuovo in piedi senza mangiare. Non so come, passata la mezzora, il cosiddetto rancio, di nuovo in fabbrica.

Arriviamo alla sera a casa, diciamo casa, nel Lager, di nuovo niente. Niente perché eravamo tacitate di sabotaggio. Niente.

Mi ricordo che c’era la mia amica Margi che adesso purtroppo sta molto male, lei si dava da fare per quello che poteva, ed aveva fatto una cosa, almeno per me, non mi ricordo per le altre, parlo per me in questo momento, era andata da una certa Desi, era una slovena che faceva la cuoca, ed era andata a pregarla: “Ti prego Desi almeno un pezzettino di pane perché guarda, è così”. E questa Desi nonostante tutte quelle che lavoravano in questo o nel magazzino del vestiario, o nelle cucine, tra loro si aiutavano, magari prendevano un pezzo di benda. Insomma questa Margi mi aveva tramite questa Desi procurato una fetta di pane. Quel pane nero. Quella sera ho mangiato. Questo dico per me, non so le altre come si erano… Perché non erano tutte della mia stessa baracca.

Questa era una delle cose particolari, diciamo.

D: Scusa Ada, ti ricordi il nome della fabbrica per caso?

R: No, no, me lo hanno già chiesto, non ricordo. Però non è certo una cosa segreta. Era a Belzig, la fabbrica era a due chilometri in un bosco, questa fabbrica di munizioni.

D: Dicevi che c’erano anche dei civili.

R: C’erano anche dei civili perché a Belzig c’era un accampamento, non saprei come dire, una baraccopoli, non mi ricordo quante erano le baracche, e vicino al nostro, noi eravamo chiuse, c’erano dei civili, sì. Questo lo dico, non dovrebbe essere molto difficile, penso che qualcuno abbia questo nome, era a Belzig, questo sicuro.

D: E lì sei rimasta quanto, Ada?

R: Lì siamo rimasti fino all’evacuazione. Dopo la fabbrica però ha cessato di operare. La fabbrica ha cessato di operare quando cominciavano i bombardamenti. Allora in quel momento noi non siamo… era aprile, non siamo andati più in fabbrica. Ed anche il comportamento delle Ausirke stesse non era, sarebbe assurdo, affabile. Allora ci portavano prima di tutto a pulire le baracche, a mettere fuori i pagliericci di trucioli. Ci facevano portare fuori tutte queste robe. Ci facevano fare delle aiuole, capirai, delle aiuole in questa… Ci facevano andare fuori. Là cominciavamo ad andare per la prima volta fuori dal Lager, sempre incolonnate, di giorno, ma non più in fabbrica. Lungo la ferrovia c’era anche il bosco dove raccogliere delle stecche, del legname. Lavori così.

D: Lì sei rimasta fino all’evacuazione: quando è avvenuta?

R: Il momento cruciale che anche i tedeschi l’avevano capito, ormai si sentivano già le voci; c’erano certe prigioniere che cominciavano ad andare, sempre accompagnate e non libere, a prendere, per esempio la Margi questa mia amica, era andata una volta con il carro a prendere il pane fuori. Si vede che l’avevano fatto in qualche forno, non so. Mi diceva, io non sono mai stata fuori ma lei sì. Già tra queste prigioniere si sentivano le voci, poi c’erano quelle della cucina che avevano la possibilità di… sentivano…, poi si sentiva il rombo dei cannoni, si sentiva, si diceva: sono i russi. I russi venivano da questa parte.

Allora verso il 23 aprile cominciava ad esserci allarme, proprio l’allarme per i tedeschi stessi; sapevano che ormai non c’era più via di scampo. Si cominciava a vedere un certo trambusto. Si incominciava a vedere qualcuna che andava via con la valigia, si cominciava a vedere… Sì, solo una mi sembra che era andata via, poi si diceva… Poi c’erano le voci: mi sembra che è malata e queste cose.

Ad un certo punto però avevamo visto che dalle baracche, le loro abitazioni diciamo, si cominciava a portare via bauli, cesti e roba. Allora avevamo capito che l’ora era scoccata.

Ad un certo momento non c’erano più le Ausirke nel campo, e neanche in cucina c’erano più. Ad un certo momento capirai fame, ma cosa si poteva avere, se si poteva trovare un pezzo di pane o qualche patata, o qualche rapa, e questo era tutto.

Allora vedendo questo movimento da parte delle Ausirke, specialmente le russe erano corse in cucina a prendere qualcosa. C’era una russa, una ragazzina, avrà avuto vent’anni sì e no, che anche lei era corsa assieme alle altre. In quel momento il comandante si era reso conto che bisognava riprendere le redini, che non era il caso di arrendersi, capirai! Allora te lo vedi capitare nel Lager con la pistola in pugno, sparare per aria come un matto, come un matto, e queste ragazze che correvano via dalle cucine! Allora vedi, questa ragazzina correva con le due patate, questo non l’ho scritto nel diario, era passata davanti a me ed alle altre e lui correva dietro alla ragazzina, perché lei non era… Chissà, teneva queste due patate, forse non le aveva lasciate di mano. Lui era venuto in baracca, lei si era buttata sotto il lettino e lui le aveva sparato in testa, sotto la baracca. Queste due patate… erano scivolate per terra, e questo rivolo di sangue… avrà avuto vent’anni.

Queste sono le cose… eravamo impietrite a guardare, impietrite. Non c’era reazione, non c’era reazione, perché non avevi la forza di reagire, la forza fisica, e avevi il terrore. Questo è proprio il lato cruento che io ho visto con i miei occhi. Non parlo di quelle che dicevano ho visto questo e quell’altro, non mi piace parlare di quello che hanno visto gli altri, non mi piace, perché ognuno racconta la sua storia. Qualcuno dice anche quella degli altri, ma era talmente tutto in un certo qual modo di tutti e di una, le une di tutte, capisci?

Questo l’ho visto io, e parlo di quello che ho visto io. Basta.

Poi, come ho detto, siamo andate via incolonnate sempre per cinque.

D: Ada, scusa, accennavi al diario.

R: Sì, accennavo al diario.

D: Ma tu l’hai trovato questo diario?

R: Questo Tagebuch, cioè “diario” in tedesco, io l’ho trovato fuori dal Lager. Non so esattamente dove, c’erano tante di quelle cose buttate, qualcuno l’avrà buttato o qualcuno avrà rovistato in qualche casa, sai come è, tutto era ormai allo sfacelo.

Io non so esattamente, in qualche posto l’ho trovato, non mi ricordo. L’ho trovato nuovo. Non c’era scritto niente, era nuovo. Era nuovo perfettamente. Poi ho scritto qui, si vede anche la prima.. Io ho scritto qua il mio nome e cognome con il mio indirizzo di una volta. Era nuovo perfettamente, non era per niente scritto. Doveva essere di qualche studente, ragazzino, non so di chi poteva essere questa roba qua. Non so. Era comunque vergine, assolutamente non toccato.

Io però questi ultimi giorni che avevo fatto quel piccolo… lo avevo fatto nel Lager stesso perché ormai eravamo là. L’avevo fatto su una carta che poi non so neanche chi mi avesse dato questo pezzo di matita, perché c’era un pezzo di matita. Poi ci si arrangiava, qualcuno ti dava… Ti arrangiavi anche per avere qualche ago, qualcosa del genere. Non so neanche chi mi avesse dato quel pezzo di matita. Mi ricordo che era un pezzetto di matita, e l’avevo scritto su questa carta che noi avevamo presa da dei sacchi di carta che si usavano anche nella fabbrica, grezza così.

Però torno a ripetere, invece di portare nell’originale io l’avevo da diligente, mi sembrava più bello metterle così, e l’avevo ricopiato nei giorni subito dopo l’evacuazione, non a casa, intendiamoci.

Allora io l’ho riscritto il 23 aprile ’45, poi il 24 aprile, poi il 25 e poi finisce il 26 aprile. “Questa mattina ci viene detto che siamo passati sotto la Croce Rossa Internazionale”. Non siamo passati subito sotto gli inglesi…Te lo leggo dal giorno 23, quel giorno che si cominciava… E’ una cosa molto puerile, ragazzi! Come ero anche io al tempo. Posso leggerlo?

D: Certo.

R: “Già da giorni, questo è il 23 aprile del ’45, non si lavora più. Imminente si aspetta l’avanzamento in Belzig dei russi o anglo-americani. Tutti siamo in uno stato d’animo ansioso e nervoso. Noi prigionieri siamo esausti dalla fame, abbiamo mangiato soltanto mezzo litro di zuppa, ossia acqua calda, il giorno precedente, senza una briciola di pane. Guardandoci in viso ci vediamo ombre, scheletri, non più un corpo di donna.

Eppure oggi brillano i nostri occhi, un’insolita luce di contentezza. Siamo certe di essere presto alla fine delle nostre tribolazioni, o per lo meno di finire di essere le schiave”. Guarda ho usato schiave, “Le schiave dei tedeschi. Di questo sono testimoni i rombi dei cannoni che segnano la repentina avanzata dei nostri liberatori.” Questo era il 23 aprile.

Il 24 aprile del ’45: “Un altro giorno pieno di eventi. Le nostre ufficiali, ossia le nostre aguzzine, hanno sgomberato la loro baracca portando in fretta tutti i loro bauli fuori dal Lager. Diventa una confusione generale, ed a tale vista noi prigioniere non siamo più in noi dalla gioia. La cucina è stata abbandonata. Le più ardite, le russe, vi si lanciano all’assalto del pane. Dopo qualche ora però i superiori riprendono le briglie. Davanti alle cucine viene messa una sentinella. Il comandante come un forsennato minacciando con la pistola spara più volte, e sparando più volte nasce un fatto raccapricciante che ci ha scosso tutte: una giovane ventenne russa rimane vittima, una pallottola alla tempia la colpisce, e ciò perché il comandante l’aveva vista portare delle patate dalla cucina.”

Questo è quel dettaglio che vi ho spiegato prima: l’aveva colpita nella baracca quando si era rifugiata sotto il letto, sotto la branda.

“All’appello, che avviene poco dopo, il comandante ci fa tradurre in diverse lingue che chiunque commetterà una minima disobbedienza sarà freddato da lui stesso. Dopo ciò ci fa incolonnare e così si evacua il Lager.

Dopo circa venti chilometri di cammino la notte è già alta, in prossimità di un bosco ci fermiamo per pernottare. Il tempo è piovoso, tutto è bagnato.” Questa è la notte che noi abbiamo passato nel bosco. Non so se vi interessa anche il giorno 25.

“Allo spuntare del giorno si riprende la marcia, pane ed altro zero, di frequente molte donne cadono sfinite dalla debolezza e dalla stanchezza. Non è permesso soccorrerle, vengono abbandonate.

Noi sempre avanti, ma la forza ci manca. Finalmente arriviamo in una città, cittadina, Altegradhof, e scorgiamo già gli accampamenti di un altro Lager. Abbiamo percorso circa 35 chilometri. Siamo portati in un accampamento e consegnate ai soldati della Wehrmacht. È mezzogiorno ma non abbiamo ancora mangiato niente, nessuna cosa dal mezzogiorno del giorno precedente. Vinte dalla stanchezza ci stendiamo sul prato, aspettando dietro promessa il pane.

Le ore passano ma non arriva niente. Verso sera arriva la comandante che con i suoi più sgarbati modi ci fa mettere in fila a riprendere la marcia.

Piangendo ubbidiamo ma le gambe non ci reggono. Dopo circa un chilometro di strada ci lasciano riposare. Mangiamo erba e frumento del campo. Molte donne cadono e continuano a cadere.

A questo punto interviene la Croce Rossa Belga, giungono le autolettighe a raccogliere un’infinità di ammalate. Ormai la comandante ed il comandante non hanno più alcuna autorità su di noi, e di fronte al personale della Croce Rossa sono intimoriti.

Arrivano altre macchine e ci portano i pacchetti viveri americani. Vi è una grazia di Dio, ci sediamo e mangiamo. I soldati della Croce Rossa sono molto premurosi con noi, intervengono anche degli italiani che ci portano delle gallette.

Dopo essere ristorate ritorniamo sui nostri passi e ci dirigiamo verso una stalla che viene accomodata con paglia alla meno peggio. Questa stessa sera siamo passati sotto la protezione della Croce Rossa e siamo libere.”

Questo è l’ultimo. Ed abbiamo passato la notte in questa stalla. Questo non l’ho scritto perché si vede che non avevo neanche… Ormai eravamo già euforiche, ma poi dopo aver… Questo pacchetto era distribuito in quattro razioni, non era tutto il pacco, ma naturalmente era una conseguenza terribile perché quasi tutte avevano una diarrea tremenda dopo. Queste sono le cose che avete già sentito da tante altre…

D: Il tuo ritorno Ada.

R: Il mio ritorno. Il mio ritorno è stato tutta un’avventura, così come lo sono state tutte. Un arrangiarsi, diciamo, più che un’avventura. Abbiamo incontrato anche man mano facendo la strada dei soccorsi, delle emergenze che ci davano questi pacchetti.

Anzi, qua volevo dire che noi ad un certo momento siamo state consegnate perché da una parte venivano gli anglo-americani, e noi in quel momento eravamo sotto gli anglo-americani. Ma ad un certo momento, ad un certo punto, non so esattamente dire l’ubicazione, eravamo sempre nelle vicinanze di Berlino, un po’ sotto diciamo, erano venuti avanti i russi, e noi siamo passate sotto i russi, sotto il territorio russo.

In quel momento ci si arrangiava come si poteva. C’erano delle scuole libere, abbiamo visto degli istituti, ci facevano entrare, c’erano anche delle scuole militari, abbiamo capito che erano scuole militari, e là c’erano le docce. Ci davano dei pacchetti.

Nel frattempo si univano tutti questi che tornavano a casa, e noi abbiamo conosciuto anche nostri ragazzi italiani che erano militari italiani, più o meno nelle stesse condizioni, ma insomma, non nelle nostre. Così ci siamo riuniti in un bel gruppo. C’erano quelli di Monfalcone, di Trieste, i nostri ragazzi, appena abbiamo sentito che erano di Trieste capirai! Ci siamo uniti a loro, eravamo una ventina, e andavamo avanti secondo le indicazioni che ci davano anche i posti di ristoro. Era una cosa tutta accomodata secondo me, organizzata man mano che veniva avanti. Non saprei dire, direi così.

Di questi che eravamo ci siamo perdute, dopo. Molte sono andate a finire in ospedale. Noi che eravamo in grado di continuare ci siamo riunite in gruppi ed abbiamo fatto la strada assieme, e con l’aiuto della Croce Rossa e anche dei comuni, delle istituzioni locali, non saprei dire neanche io chi, siamo arrivate attraverso la Cecoslovacchia prima fino a Dresda, mi ricordo Dresda, era bombardata… un mucchio di macerie, da Wittenberg giù per l’Elba con una barca. Poi da là con mezzi di fortuna, sempre ferroviari.

Poi siamo passati in Cecoslovacchia… sempre con mezzi di fortuna, avanti fino a Bratislava, da Bratislava sempre con questo gruppo fino a Vienna. Da Vienna abbiamo attraversato il Danubio su un ponte rotto, c’erano solamente le colonne. Siamo arrivate a Vienna, sempre questo gruppo diciamo così, fatiscente proprio.

A Vienna siamo state accolte perché c’erano i gruppi di Croce Rossa che ci accoglievano, eravamo in un certo qual modo assistiti, qualche volta meglio e qualche volta peggio ma insomma assistiti durante il ritorno.

Poi a Vienna eravamo sotto l’assistenza della Croce Rossa jugoslava. Di là abbiamo preso un treno regolare, ci hanno dato anche un lasciapassare che io tengo, l’ho ancora sempre come documento perché era una dimostrazione da dove venivo anche, regolare, proprio da Vienna.

Da Vienna per Maribor giù per la Slovenia, fino a Trieste. Al 29 giugno sono arrivata a casa io, sono arrivata a casa il 29 giugno.

Le altre erano ancora peggio perché erano rimaste negli ospedali. Peggio, una parte erano ben guardate, così, ma noi avevamo questa forza fisica…

D: Scusa Ada, nella tua famiglia quante persone sono state deportate?

R: Arrivo a casa, arriviamo a casa in condizioni, potete immaginare, c’era ancora il coprifuoco a Trieste, il 29 giugno, perché noi siamo arrivate a Trieste, alla stazione di Trieste. Chi conoscevo, chi non conoscevo, erano molti questi che tornavano. Quella sera so che dovevamo fermarci in stazione perché c’era il coprifuoco e non si poteva uscire. Così abbiamo passato ancora quella notte in stazione di Trieste, c’erano i bacherozzi che camminavano e giravano, capirai, appena finita la guerra cosa poteva essere. Sporche perché cosa si poteva pensare?

Ognuna poi “ciao ciao” non vedeva l’ora di tornare alle proprie case. In quel momento quasi ci si dimenticava di tutte le nostre compagne vissute fianco a fianco, per tutte quante l’obiettivo era la casa, tornare a casa.

Però io non sapevo neanche se avrei trovato mia madre, in quanto io l’avevo lasciata fuori… C’era anche la vicina di casa che aveva le chiavi della nostra casetta. Mi incammino a piedi, presto presto perché mi vergognavo sinceramente di incontrare qualcuno, ero anche con i capelli di due centimetri, nota bene.

Arrivo a casa e trovo la mamma che ancora andava a fare legna nel bosco, quello che era rimasto perché non c’era l’elettricità in certi punti. Io pensavo che ci fossero gli americani, ci dicevano che ci sarebbe stato il caffè e tutto, invece non c’era niente; infatti nel frattempo erano già arrivati gli anglo-americani.

Insomma trovo la mamma. Felice e contenta di quello.

Però mi dice, io non sapevo di mio fratello: “Anche Nini è in Germania.” “Mamma arriverà, arrivano tutti”. Sai, capirai la gioia, l’entusiasmo… Arriverà, e giorno per giorno arrivavano i pacchi. Ci davano anche l’assistenza, ci davano dei pacchi…

Per me c’era la gioia di essere di essere tornata a casa. A diciotto anni, diciannove anni, ragazzi miei, immaginate la gioia, eravamo vincitori! Ci sembrava che tutto sarebbe stato miele e latte, tutto bello. Ma anche questa gioia non era solo una questione materiale, era proprio la gioia di avere vinto il nazifascismo; era il nazifascismo che aveva fatto tutto, tutte le colpe sono del nazifascismo. Qualche volta si confonde, a volte i tedeschi, italiani, ma il nazifascismo, il sistema, l’ideologia ed innanzitutto la loro dittatura malvagia e disumana.

Ecco, così passarono i giorni.

Noi, la gioventù di qua si era subito organizzata, c’erano i meeting, c’erano… C’era un’aria di festa e di liberazione. Ci siamo organizzati subito nelle organizzazioni giovanili antifasciste, poi c’era il Partito Comunista che aveva in mano una specie di egemonia. Non che tutti la pensassero così, intendiamoci, no, a Trieste. Ma in quel momento la maggioranza, la forza, era nostra. Dobbiamo ammetterlo, e devono anche ammetterlo perché certi erano anche terrorizzati, specialmente se avevano… Come in tutte le cose avvengono anche fatti spiacevoli che poi non erano anche colpa, non so, solo perché eri impiegato in quelli… Ma in quel momento…

Quando sono arrivata io ormai era già passata, si era già calmato tutto. Almeno quel che mi riguarda si era già normalizzato questo rapporto.

Poi c’erano i balli, c’erano le sagre, c’era questa stella rossa, queste parole, questi slogan. C’era un tripudio di gioia, di gioia ragazzi miei. Io ho assai lavorato per la gioventù antifascista, per la gioventù comunista, per tutte queste cose che in quel momento mi sembravano giuste e vere.

Poi c’era anche l’arrivare alla conquista di qualche cosa. C’era la gioia di chi vince. Dico la verità, oggi, oggi lo dico con tanto dolore proprio, dolore che mi fa male fisicamente, la gioventù non pensa ai dolori di quelle madri che aspettavano i figli, di quelle donne che aspettavano i loro mariti, di quei lutti che erano dappertutto.

Oggi penso che è terribile. Era una gioia da una parte ed era un dolore tremendo per quei vuoti che avevano lasciato, tutta questa gente. Ma per chi? Per cosa?

Cosa volete ragazzi, non si può, non si può pensare oggi, io non sono il tipo che odia, ma non bisogna dimenticare. Non dimenticare. Odiare no perché l’odio è già un sentimento che non ti dà pace, ma il ricordo è un’altra cosa.

D: Ada, ma tu e la mamma avete aspettato tuo fratello?

R: Sempre, tutta la vita.

D: E non è tornato…

R: Tutta la vita.

D: Conosci il campo in cui è stato deportato?

R: Sì, a Mauthausen.