
Elidio Miola
Nato il 14/03/1924 a Torino
Intervista del 31/08/2000 a Torino
TDL n. 43 – durata: 35’
Arrestato nel maggio del 1944 a Redipuglia (GO)
Deportato nei lager di: Trieste, Dachau, Allach, Blaichach
Liberato nell’aprile del 1945 a Blaichach
Nota sulla trascrizione della testimonianza:
La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.
Mio nome è Miola Elidio, sono nato a Torino il 14/3 del 1924. Ero dipendente della Fiat dal 1942. Nel ’45…nel ’44, ’43-’44, mi hanno chiamato di leva, per la chiama di leva. Io mi son presentato, mi han destinato alla fanteria di Marina, e poi dopo ho continuato a lavorare. Dall’azienda, dato che non ero ancora operaio specializzato, non mi hanno trattenuto. E allora ho dovuto andar fuori, e andar fuori era andare a militare, e allora andare a militare lo sapevo dov’è che andavo a finire in Germania per l’istruzione. E allora mi sono… andato nei partigiani della zona, dalla parte di… della Valle di Lanzo, su vicino a Chialamberto, e han fatto quel famoso rastrellamento che io sono potuto fuggire e ho passato nell’altra vallata, nella Valle Locana. E dopo di lì non potevo più stare a casa, stare a Torino, perché da una parte ero renitente, dall’altra parte non potevo più lavorare, e sono andato nella zona lì di Trieste, che erano altri militari anche che erano lì. E abbiamo deciso… ci siamo trovati circondati dalle SS, perché qualcuno ha fatto la spia che c’era un gruppo di militari. E ci han portati nella Risiera di San Sabba. Dopo ci hanno chiusi nel secondo… al secondo piano.
D: Ecco, scusa, ti ricordi quando ti hanno arrestato e dove eravate?
R: Eravamo nella zona vicino a Redipuglia.
D: E quando più o meno te lo ricordi, quando ti hanno arrestato?
R: Ma, il giorno preciso non lo ricordo, so che era verso la fine di maggio i primi di giugno.
D: Di che anno?
R: Del ’44.
D: Dicevi che ti hanno portato in Risiera.
R: In Risiera, tutti quelli che han preso lì li han portati in Risiera, e ci hanno rinchiusi sopra al secondo piano della Risiera, e poi ogni tanto veniva delle SS a prendere qualcuno per far fare dei lavori lì intorno. Poi è venuto il colonnello delle SS, quello che comandava lì, e allora lui, questo qui ha chiamato se si voleva collaborare con loro o essere fucilati o morire da partigiani, in parole povere è così. Eh, si capisce che a 20 anni nessuno ha voglia di morire, allora abbiamo deciso parlando tra di noi – che è ritornato poi una seconda volta con l’interprete – che si collaborava, tanto per avere un po’ di vita un po’ più lunga, per vedere. E poi un bel giorno chiamano 55-60 nomi, adesso non mi ricordo più quanti erano di preciso, e ci fanno andare nel cortile, e ci danno una pagnotta di pane e han detto che ci mandavano a lavorare in Germania. Si è sollevato quasi il cuore, perché abbiamo detto: meno male, piuttosto che combattere per loro, arruolarsi con loro, andare a lavorare in Germania sarà un lavoro ma il lavoro almeno non ti ammazza, non è lì a ammazzare nessuno. E così ci han portati, avessero ben detto che ci portavano a Dachau: nessuno sapeva cosa voleva dire Dachau eh, per me era un nome qualunque. Difatti siamo partiti da Trieste, insomma, in vagone dei carri bestiame, eravamo 50-55 per vagone, con la consegna che se scappava qualcuno ne avrebbero ammazzati altri dieci. E allora ci sorvegliavamo a vicenda. Comunque siamo arrivati a Dachau nella notte.
D: Ecco, dalla Risiera, dove vi hanno portati per mettervi sui carri?
R: Ci han portati alla stazione di Trieste.
D: Ti ricordi quand’era più o meno?
R: So che era verso l’8 o il 10 di giugno, io penso quell’epoca lì, perché a giugno eravamo già a Dachau, dopo [eravamo] arrivati a Dachau nel mese di giugno.
D: Ecco, scusa Miola, in Risiera ti hanno immatricolato?
R: No no no in risiera niente. No.
D: E anche i tuoi vestiti, t’han lasciato i tuoi abiti?
R: Ci han lasciato i vestiti che avevamo indosso.
D: Ti ricordi se hai visto delle donne in Risiera?
R: Io donne non ne ho viste in Risiera, perché… magari erano chiuse in altri, perché c’erano tre piani, cioè il primo il secondo e il terzo piano, io non so sopra. Ho capito che sopra c’erano degli ebrei, perché Milani, non so se l’hai intervistato, era anche lui in Risiera, lui lo prendevano sempre per fare dei lavori sotto, e aveva visto un po’ di più. Noi si sentiva sempre della musica forte o dei rumori di camion, così, e sentivo a volte anche un odore acre che non capivamo cosa fosse. E poi abbiamo poi saputo che…
D: Ascolta, e dalla Risiera per fare dei lavori non siete mai usciti?
R: No no.
D: Cioè, i lavori li facevate ma solamente lì.
R: No lì eravamo in attesa di destinazione, noi non si sapeva noi… cosa avrebbero fatto di noi, in parole povere.
D: Ecco, poi ti hanno portato alla stazione di Trieste.
R: Trieste, un bel giorno, dopo che ci han chiusi, isolati dagli altri, e ci han caricati su questi carri bestiame, han fatto una tradotta che siamo partiti per Dachau. Adesso non so se sono scesi tutti a Dachau o no. Noi, perché nel nostro vagone di sicuro, ma il treno è arrivato a Dachau.
D: E lì a Dachau cosa è successo?
R: Lì siamo arrivati… no alla stazione, perché a Dachau non c’era una stazione, c’era un binario che portava vicino al campo, so che c’era come una riva, il treno era […] dentro, ci facevano uscire di lì, e ci siam trovati circondati dalle SS coi riflettori, i cani lupo, e siamo rimasti lì perché non sapevamo cosa significasse. Allora gridavano 5 …, 5 per 5 e ci han fatto mettere in colonna, e siamo arrivati che era di notte, era verso mezzanotte. E ci han portati dentro il Lager, non ho neanche capito bene da dove siam passati o non passati. Ho visto poi che al mattino, quando ci han messo dentro il camerone, dove adesso c’è il museo, lì c’era i posti che ci spogliavano, prendevano la roba, ti immatricolavano, ti depilavano, ti disinfettavano, ti tagliavano i capelli, facevano tutte quelle cose lì. E siamo stati lì dentro fino all’alba. Quando è venuto chiaro io sono andato a vedere dalla finestra, sono stato il primo a vedere, saran stati anche altri. Ho visto uno vestito a righe, e ho detto “ehi ragazzi c’è uno che gira in pigiama lì fuori”. Non era una battuta, è capitato proprio così. E poi difatti il pigiama ce l’hanno dato anche a noi. Ci han tagliati e rasati con la creolina, e poi ci hanno dato il numero, 69.786, il triangolo rosso, e ci han mandato al blocco numero 15. E io sono rimasto lì al blocco numero 15 per la quarantena. Io di Dachau ho sempre visto la Stube dove ero io dentro, il di dietro della baracca che c’era davanti, e da dove siamo entrati c’era il portone di legno tra una baracca e l’altra. E l’appello lo facevano lì, sul posto, non siamo mai andati sulla piazza dell’appello. Poi dopo un certo periodo che non mi ricordo bene, sarà stato poi fine di giugno, i primi di luglio, un giorno ci fanno andare nudi dietro in un’altra baracca, in mezzo a due baracche, eran tutti nudi, c’era un tavolo con un SS che non so più, non so che grado avesse allora, e ci faceva passare uno per volta davanti a lui: ti guardava in bocca, ti guardava, poi… da una parte, l’altro dall’altra, e ci han mandati a Allach. E a Allach siamo andati, io sempre… chiedevano che mestiere uno faceva, io ho sempre detto [che] io ero lavoratore specialista della Fiat, ma non era vero, era solo per poter lavorare al coperto, perché ho fatto dei lavori lì a Allach, che han fatto un campo per gli ebrei lì vicino a Allach, di smistamento per gli ebrei, ci hanno fatto lavorare a picco e pala, scavare buche, spingere i vagoni di terra sulle rotaie, ed era un lavoro mica tanto piacevole. Allora io partivo sempre con la storia che io ero uno specialista, ero specialista, finché un giorno mi hanno poi mandato a Blaichach, un altro sottocampo, ma prima che succedesse quello io ho avuto un’infezione nel pollice del piede. Lì marciva no, allora sono andato all’infermeria. All’infermeria mi hanno strappato via la pelle, il marciume così, e han preso un pezzo di carta igienica, me l’hanno medicato così, mi han dato un giorno di riposo. In quel giorno di riposo, neanche fosse stato tutto combinato, tutti quelli che erano con me sono partiti in trasporti e non li ho più visti. Ero solo in mezzo a francesi, russi, polacchi, non capivo più una parola da nessuno. Mi son trovato perso, son sincero, in quel momento lì me la sono vista brutta perché non avevo più dialogo con nessuno, ero un po’ abbattuto. E ho trovato un francese, che parlava un po’ di Patois piemontese, allora io con lui ho poi dialogato. È lui che mi ha scrollato, mi ha detto “ehi ragazzo, se sei qua, se non vuoi lasciarci la pelle, non pensare agli altri, né ai tuoi, né alla famiglia, pensa a vivere da un giorno all’altro!”, era già più tempo che era lì. E allora mi ha scosso un po’, e dopo ho fatto diversi lavori del campo, sono andato anche a pelar patate, spaccare legna, finché battevo sempre il mio mestiere: “meccanico, meccanico”. Allora mi hanno poi, dopo un paio di mesi, mandato in quel sottocampo di Blaichach… no prima – un momento – prima ad Allach ho lavorato alla BMW, dove facevano i motori d’aerei, i motori stellari d’aerei, e poi han bombardato la fabbrica. È quando han bombardato la fabbrica che io ho avuto quella storia lì: gli altri sono partiti e io rimasto lì, non lavoravo più in fabbrica, e ho sempre detto che io ero meccanico. E [mi] hanno poi spedito a Blaichach, che abbiamo attraversato Monaco che era tutta bombardata la stazione, dicevo: “qua porca miseria c’era solo pipinare, non c’era più niente altro”.
E ci hanno portato a quel sottocampo. Quel sottocampo lì di italiani eravamo un 25 massimo, erano tutti russi, polacchi e francesi, ma la gran maggioranza erano francesi. Lì andavo di nuovo a lavorare a un reparto sfollato della BMW, perché si faceva sempre le bielle piccole e la biella madre dei motori stellari. E lì lavoravo… mi avevano messo addetto ad una stabilizzazione delle bielle. Difatti si prendevano ‘ste bielle e si mettevano in un forno che le portava a 500-600 gradi, dopodiché li prendevi con dei ganci così e li mettevi dentro i sali fusi a 900 gradi, e si schiacciava una lampadina. Schiacciando ‘sta lampadina dopo, quando si accendeva di nuovo, era rossa, si accendeva il verde e li tiravi su e li mettevi nell’olio, e poi li passavano nei forni, li pulivano, era la stabilizzazione. Un giorno, queste bielle si deformavano. Allora sono venuti lì tutti i dirigenti, le SS, e come dire che noi si dormiva, non si faceva il lavoro bene, che se era qualcosa che era colpa nostra ci avrebbero ammazzati tutti, “Alles kaputt”. E allora noi abbiamo detto “provate, fate la prova!”. Allora abbiamo fatto di nuovo la prova, messe prese, messe lì, messe là, si è accesa la luce e poi dopo si è di nuovo acceso il verde, le abbiamo tirate fuori, messe nell’olio, poi le han controllate e si deformavano lo stesso. Allora non era più colpa nostra, abbiamo già tirato un po’ il fiato. Poi era quella lampadina che era un relè: invece di durare un minuto durava un minuto e 15 secondi, bastavano quei 15 secondi in più che si deformava. E lì l’abbiamo messa bene così. Poi ho lavorato un po’ ad un tornio, prima, adesso ricapitolo a Allach. A Allach alla BMW, mi avevano messo a un tornio, perché io ero un tornitore no, e c’era un cecoslovacco che mi preparava la macchina, e mi diceva sempre “mi raccomandato fai attenzione” mi faceva “guarda bene” e mi diceva “guarda dentro il cassetto dei ferri, ma occhio, guarda in giro prima di…”, e mi metteva sempre una fettina di pane in mezzo ai ferri… io si capisce bene, che io dovevo guardare bene, in un boccone la mangiavo e via. E questo cecoslovacco era un lavoratore libero là, praticamente. E lì un giorno siamo ritornati al campo di Allach e c’era la forca, pronta, “adesso qui marca male”. E allora ci han fatto… c’era l’appello prima no, ci han messo tutti squadrati per dice, tutte le file, ogni baracca per baracca, blocco per blocco, e poi chiamano un russo, e lo fanno andare fuori, leggono la sentenza in tedesco, che io non ho capito niente. Comunque, poi l’hanno impiccato e noi si doveva stare tutti a guardarlo impiccare, non voltarti perché i capò giravano, se giravi la testa ti picchiavano. Poi, ho poi saputo che questo russo lo hanno impiccato per sabotaggio. Sabotaggio che faceva ridere perché quando ho saputo che aveva sabotato un bel niente… praticamente aveva preso un prezzo di cinghia, buttata via insieme al pattume, aveva gli zoccoli e camminava storto, l’aveva messa sotto, potuta inchiodarla sotto, non so come, e han detto che aveva fatto sabotaggio, ha portato via un pezzo di cuoio, e lo hanno impiccato per quello.
Ritornando poi a Blaichach, lì abbiamo sempre lavorato, in quella fabbrica si faceva il turno, 12 ore di notte e 12 ore di giorno, da 6 a 6 della sera e da 6 a 6 al mattino, e alla domenica qualche volta si andava anche a lavorare la domenica. Però la vita era un po’ migliore che a Allach e che a Dachau, perché il campo non era grande, era un sottocampo, eravamo 1.500-2000 persone al massimo, e si faceva i due turni, dalle 6 del mattino alle 6 di sera di giorno, come ho detto prima. Quando si faceva la notte si smontava al sabato sera no, alla domenica invece non ti davano più il mangiare a mezzogiorno, te lo davano alle 4, perché poi ti facevano andare a lavorare la notte, ti facevano partire alla sera alla notte della domenica andar a lavorare. E il mangiare della sera te lo davano a mezzanotte, facevano il giro così. Ma lì insomma, era dura, perché era dura, 12 ore erano dure, ma eri al coperto, il campo dalla fabbrica c’erano sì e no 400-500 metri, non di più, però faceva un freddo cane perché la sera andava fino a 20 sottozero. E noi avevamo solo e sempre la solita camicia, la solita giacca di tela, avevo una giacca un po’ pesante, non l’avevo mai cambiata per quello, pieni di pidocchi, perché poi avevi i pidocchi non contiamo più i pidocchi, si ammazzavano i più grossi.
Si cercava di tirare avanti così. Una volta ho provato, mentre ero lì che facevo la tempra delle bielle, che sgrassavano le bielle dall’olio no, abbiamo detto “proviamo a mettere la camicia per ammazzare i pidocchi”, e l’abbiamo messa. Poi l’ho tirata fuori quasi quasi si smontava tutta, ho detto “porca miseria guarda che rimaniamo senza camicia, teniamo i pidocchi che è meglio”. È andata un po’ avanti così la storia, finché un giorno – mi ricordo era verso il Natale, Capodanno tra il ‘44 e il ’45 – il comandante che comandava quel campo lì era poi un maresciallo maggiore delle SS, viene su e mi ricordo sempre che ha fatto un discorso che io sono rimasto un po’ lì, ha detto che sperava che il prossimo anno ognuno passasse il Natale a casa sua. Porca miseria sentir dire quelle parole lì da un comandante del campo, qui le cose vanno male, perché se viene a fare un discorso così si vede che cerca di riabilitarsi da solo. E difatti poi a Natale avevano fatto un po’ da mangiare, avevano fatto un po’ di pasta, con il sugo, una roba, loro lo chiamavano il gulasch, un po’ di carne dentro perché avevano ammazzato diversi cavalli, che bombardavano nella zona. Ha suonato l’allarme che era quando è ora di mangiare, abbiamo mangiato ‘sta pasta che era verso le cinque così, comunque era pasta, abbiamo mangiato quel pasto lì, il pasto più buono che ho mangiato.
Dopo bombardavano sempre, e siamo arrivati fra bombardamenti e una cosa e l’altra fino ad aprile. Ad aprile dovevano portarci via, difatti una sera ci hanno incolonnati tutti, cercavano di portarci a Mauthausen. E abbiamo camminato due giorni e due notti, ci facevano dormire nelle campagne, dentro quelle baracche per gli attrezzi, per roba di campagna. E poi arrivati ad un bel punto sentivo, abbiamo visto che discutevano fra di loro, che non potevano più andare avanti perché c’erano gli americani che arrivavano di là, e da dove eravamo noi arrivavano i francesi. Allora ci han fatti a marce forzate a tornare indietro, e ci han di nuovo chiusi nel campo, ci han bloccati, chiusi dentro; poi han detto così, che chi metteva il naso fuori gli avrebbero sparato, avrebbero sparato contro. E allora siamo stati un po’, poi la curiosità era grande, e abbiamo guardato, uno fa “non ci sono più le sentinelle”. Quando abbiamo sentito così abbiamo sfondato la porta, siamo usciti fuori, e abbiamo visto che non c’erano più sentinelle. E poi abbiamo visto arrivare una camionetta, con dei marocchini sopra vestiti da militare, “la guerra è finita! meno male arrivano questi qua”. Poi sono andati via. Dopo è arrivato un carro armato. Qualcuno dal paese, si vede di questi fissati, han sparato qualche colpo no, l’avesse mai più fatto, questo qui ha sparato una cannonata, ha messo tutto a tacere e il campo è stato liberato così. E poi siamo rimasti, era verso la fine di aprile, mi ricordo che dopo qualche giorno i francesi hanno celebrato il primo maggio, e abbiamo cantato la Marsigliese quando ci hanno liberato perché ci hanno liberato i francesi, e la maggioranza che erano lì erano francesi. Allora cosa è successo? I primi a rimpatriare son partiti i francesi, poi ci sono rimasti i russi che sono andati via anche loro, i polacchi sono andati, e sono rimasti solo gli italiani, nessuno si interessava di noi. Solo che avevano dato ordine, quelli che erano i militari che avevano occupato il paese, di farci da mangiare, di portarci il mangiare tutti i giorni. E poi un bel giorno noi abbiamo deciso, “ma dobbiamo stare qua fino a quando? nessuno si interessa di noi”. E allora abbiamo poi deciso di partire a nostra volta, tanti sono andati via per conto, e noi in 4 o 5 abbiamo preso un carrettino con un po’ di provviste, ci avevano detto che a 60 km, o 80 che fosse, c’era il presidio americano, che gli americani rimpatriavano. E allora noi siamo – perché i francesi, quando avevano occupato prima, ci han fatto un documento a tutti che eravamo nel campo di concentramento, ce l’ho ancora qua – siam partiti a piedi, si dormiva dove si poteva, andava bene che per la strada, dopo era già finita la guerra e tutto, mettevano il latte nei bidoni che passavano a caricare, noi si riempiva le borracce, almeno c’era da bere. E siamo poi arrivati in zona americana in quella maniera lì. Zona americana, siamo rimasti due o tre giorni lì, poi coi camion ci han portati a Innsbruck. A Innsbruck, sempre con carri bestiame perché vagoni non ce n’erano ancora, ci han portati a Bolzano. A Bolzano ci han dato qualcosa da mangiare, poca… un po’ di frutta, qualche cosa così, e chiedevano che paese uno era, fa[ccio] “io sono di Torino”, “beh, se volete partire, domani c’è dei camion che vanno a Milano, vi avvicinate già un po’”. Allora abbiamo preso questi camion, io e i due o tre degli altri, e siamo venuti a Milano. A Milano poi gli altri sono andati per altre destinazioni, io mi han detto che c’era un camion che faceva da Milano a Torino, un camion che viaggiava ancora a gasogeno, con quel legno che faceva… e ci ha messo 12 ore da Milano arrivare a Torino. E sono arrivato a Torino, aspettavo il tram a Porta Palazzo, il 14, perché prima di andare via c’era il tram numero 14. Il tram numero 14 non arrivava mai, allora chiedo “ma non c’è il 14 oggi? come mai?”, “eh non c’è più, adesso è il 17, non c’è più”, no il 17 aveva un altro numero, non ricordo più neanche il numero, ma avevano cambiato il numero al tram, però faceva lo stesso tragitto. Allora ho preso questo tram.
Quando arrivo nella mia zona… perché sono venuto a casa con i pantaloni a righe, li avevo portati a casa, poi mia sorella, Dio bono, li ha buttati via, volevo tenerli per ricordo. Comunque, prendo ‘sto tram e vado a casa. Il primo che incontro per la strada prima di arrivare a casa, trovo mio cugino, che era stato nei partigiani, allora gli dico “guarda, dimmi subito com’è la situazione a casa che… tanto sono abituato a sentirne di tutti i colori”. Lui mi disse: guarda tua mamma è all’ospedale, tuo fratello l’hanno ammazzato. Mio fratello era andato nei partigiani, avevano fatto la spia uno vicino e l’hanno ammazzato – mio fratello era nei partigiani, aveva fatto la spia uno vicino e l’anno ammazzato – e poi l’altro fratello è ancora prigioniero degli inglesi, non è ancora venuto a casa”, “beh, meno male io son già arrivato il primo allora”. Sono arrivato a casa, io avevo preso tutta la roba che avevo indosso, mia cognata ha fatto bollire tutto, perché mia mamma era all’ospedale, sono andato il giorno dopo a trovarla, e aveva una forte depressione, era qui proprio in questo ospedale qua, perché qua era l’ospedale psichiatrico femminile. Era sotto al pian terreno dove adesso c’è l’anagrafe. E sono andato vicino, l’ho salutata “mamma, non ti ricordi di me?”, e lei mi ha guardato bene e fa “sei Mario?”, “no non sono Mario, Mario è morto, sono Elidio! sono Elidio!”. E si è messa a piangere, poi non ha più parlato, non so se mi ha riconosciuto. Quindici giorni dopo è morta. Sei mesi dopo è morto mio padre di tumore, e sono rimasto quattro anni a casa di un fratello finché mi sono poi sposato. E mio fratello figurati che l’hanno ammazzato per 5 mila lire, che uno ha fatto la spia, per prendere 5 mila lire lo ha fatto ammazzare. E l’altro fratello che era prigioniero è ritornato poi a casa nel ’46.
D: Ascolta Miola, tuo fratello che hanno ammazzato, dov’è che l’hanno ammazzato?
R: Proprio vicino a casa, perché era nei partigiani della… Lui era militare no, doveva andare militare sul fronte, quando è stato lo sfacelo che la Francia è caduta, lui era militare: non è più andato militare, allora è andato nei partigiani della zona di Casellette, da quelle parti lì, a quel tempo lui era più anziano di me, era del ’14. Eran venuti a Torino che gli avevano detto che alla [Michelin] davano dei copertoni dei camion che avevano perso; arrivando lì in via Terni, si chiamava la via, e c’era un’osteria che noi conoscevamo, come il padrone il mio papà lo conosceva bene. In questa osteria – erano lì che mangiavano no – qualcuno li ha visti che conosceva per prendere ‘sti soldi, che abitava mica tanto lontano, a cento metri da noi, gli ha fatto la spia: si son presentati i repubblichini, no. E l’osteria aveva l’ingresso verso la strada e uno dal cortile, sono entrati due dall’ingresso principale, lui si è alzato, il primo, e ha cominciato a sparare lui, ha sparato a ‘sti repubblichini. L’altro che era vicino a lui si è messo da parte, quelli che erano vicino a mio fratello sono scappati, gli altri tre, e mio fratello, sono entrati gli altri di dietro, gli hanno sparato dietro, lo han preso nella schiena e nella testa, lui è rimasto lì. E’ morto così. Difatti, sempre proseguendo la storia di mio fratello, quando è finita la guerra, quello che ha ucciso mio fratello, i tre che erano insieme, han saputo… son venuti a sapere chi era, sono andati a prelevarlo e l’han fucilato poi lì davanti a quell’osteria, lì. E mi ricordo di un vecchietto che mi diceva quando sono ritornato “le vedi queste scarpe qua? le ho preso io perché avevo bisogno di scarpe, sono di quello che aveva fatto ammazzare tuo fratello”. Se volete riepilogare qualcosa che… se mi viene in mente, se perdo il filo dopo…
D: Miola, ti ricordi se a Dachau, ad Allach, oppure nell’altro sottocampo, hai visto anche delle donne?
R: A Dachau no. A Allach nemmeno. A Blaichach ho visto quelli che lavoravano in fabbrica, a Allach nella fabbrica, nell’infermeria, in quei posti lì. No, nel campo non ho mai visto donne io, mai.
D: E dei religiosi, ti ricordi se c’erano dei sacerdoti?
R: No, con me no. Non mi ricordo. O perlomeno nessuno si è mai dichiarato tale, no.
D: Qualche nome di qualche tuo compagno te lo ricordi?
R: Sì, Milani, questo qui mi ricordo bene, poi c’era uno che si chiamava Todeschini, poi un altro che è morto adesso, non mi viene più in mente il nome, perché è difficile tenere in mente i nomi. Invece Moretti ha una memoria! Lo invidio per quello.
D: Elidio, da Allach quando siete partiti per Blaichach, più o meno?
R: Quando siamo partiti? Dopo la quarantena a Dachau, che quarantena si fa per dire, poteva essere venti, trenta giorni, quindici.
D: Poi siete andati a Allach.
R: Poi siamo andati a Allach.
D: Però da Allach verso Blaichach, quando?
R: Dopo un paio di mesi, circa, più o meno, per preciso le date, non avevamo neanche da segnare, non potevi…
D: E come siete andati? Perché ho visto che Blaichach è abbastanza lontano.
R: Sì sì siamo andati in treno. Ci han portati alla stazione di Monaco, adesso non so che stazione fosse, e ci hanno messo in un vagone con le sentinelle, isolato, noi eravamo lì dentro. Eravamo mica tanti, eravamo dieci o dodici.
D: Però quando sei arrivato lì, il campo era già in funzione?
R: Il campo sì sì, il campo era già in funzione, certo.
D: Ecco, ascolta, invece Allach, il campo era grande?
R: Sì, a Allach c’erano… saranno state almeno 10 mila persone io credo, era grande il sottocampo di Allach. Difatti c’è un libro che si vede la liberazione di Allach.
D: E vicino lì ad Allach, al campo, c’era il paese, c’era qualcosa?
R: No il paese no, era abbastanza… non si vedeva il paese da vicino, il campo era isolato dal paese. Invece a Blaichach era nel paese, a Blaichach il campo era dentro un… come si dice, uno stabilimento che sopra i primi due piani, quelli che lavorano sopra entravano da un’altra parte che noi non sapevamo dove entravano, noi si entrava di fianco, avevano fatto una scala, si andava su per due piani, si era isolati. Dove c’erano le finestre che davano dalla nostra parte erano tutte bloccate, gli altri due piani sopra, e noi eravamo in quei due piani lì. Lì dietro, io mi ricordo sempre che c’era il reticolato, il cortile dell’appello e delle case… delle villette più avanti sulla… perché era fatto un po’ in salita così, e noi siamo rimasti sempre lì dentro. E mi sono accorto, perché da una parte fa ridere perché lì a Blaichach ero a dormire… eravamo in un castello che erano undici russi e io solo italiano, che dormivo con undici russi. Ho poi visto ‘sti russi che prendevano dei biglietti, non so come li facevano passare, c’erano tutte ragazze che lavoravano sopra, erano tutte russe, e allora si passavano dei biglietti così. Poi mi sono accorto per caso perché ho visto una volta che mi sono svegliato, ho visto che era chiaro, che prendevano ‘sti biglietti.
D: Miola scusa, ritornando indietro a San Sabba, tu sei riuscito a comunicare a casa tua?
R: No no no, niente, niente. Nessuno ha più saputo niente… Ah, adesso ti faccio sapere una cosa che mi è scappata, adesso parlando di quello mi è venuta in mente. Nell’ultimo sottocampo lì di Blaichach, dopo un periodo che lavoravo lì – lavoravo io dove temperavano ‘ste bielle, e c’era anche dei torni lì vicino – degli altri che lavoravano nella meccanica mi ha detto uno “te sei di Torino, c’è un torinese che lavora là dentro, civile, c’è un civile che lavora lì”, uno che abitava a Torino, abitava vicino alla Fiat Lingotto. Allora io ho detto “porca miseria, ma com’è? dov’è?” gli ho detto, “ma, è lui che lavora alla pulitrice, che lucidava ‘ste bielle; proprio vicino ai gabinetti, ci sono due linee, lui è lì in mezzo, te vai al gabinetto vedi che lo incontri”. Mi han dato tutte… E io di notte sono andato, perché di giorno non parliamone perché di solito c’è troppa gente, di notte c’era solo il turno di notte, e c’era meno sorveglianza. Comunque vado di notte al gabinetto, e vado lì vicino a questo qui, lui era lì vicino alla pulitrice che fregava ‘ste bielle, che puliva ‘ste bielle, e vado vicino e faccio in piemontese “l’è vera che […] de Turin?”, lui fa “sì, e chi te l’ha detto?”, “me l’han detto dei compagni, così – fa[ccio] – avrei bisogno di un favore grande da lei”, gli ho detto sempre in piemontese eh , “ho bisogno di un favore grande da lei: che mi mandasse a dire a casa solo che sono vivo, solo quello”. E lui fa “ma, adesso vedrò”, io gli ho dato l’indirizzo, lui l’ha tenuto a mente, e ha detto così “però non ti dico che te lo mando subito o come, perché io ho solo due cartoline da spedire al mese, e devo passare alla censura, devo fare in maniera che non dia nell’occhio”. E difatti poi ha mandato ‘sta cartolina, l’ha mandato, e ha detto ai miei che ero vivo. E i miei a casa, quando sono arrivato, credevano che fossi mutilato perché ho fatto scrivere da un altro, pensavano che io fossi mal messo.
Ricapitolando mi è venuta in mente quella cosa lì. E difatti dopo liberato, che sono poi tornato a casa e tutto, sono andato a cercarlo, e lui era ancora lì che abitava, dice che poi stava per partire per andare nel Veneto, lui era di origine veneta, E andava a lavorare laggiù. Io gli ho detto “vieni a casa nostra almeno a passare una giornata con me che mi hai aiutato”, perché mi aveva portato anche delle patate questo qui, mi faceva bollire delle patate allora, sempre di notte le prendevo no, perché poi le mettevo dentro alla camicia, e mi mangiavo ‘ste due o tre patate, tutto serviva. Mi è venuto a trovare, ha fatto tutta la giornata con me, ha fatto il pranzo dai miei, ha conosciuto mio padre perché mia madre era già morta. E poi è partito e non ho più saputo niente. L’unica cosa positiva di tutto, quella cartolina che aveva mandato. Peccato che non l’han tenuta.
D: Sempre alla Risiera in quanti più o meno eravate su al secondo piano?
R: Là dentro penso fossimo stati almeno un 150, 180 persone.
D: Italiani, solo italiani?
R: Erano solo italiani.
D: Tutti militari?
R: Eh, quasi tutti militari. Poi c’era già un mucchio di scritte sopra, tante cose sui muri, io non ho scritto niente.
LA REGISTRAZIONE FINISCE QUI. SEGUE TRASCRIZIONE DELL’ULTIMA PARTE D’INTERVISTA NON RIPORTATA IN AUDIO.
Non ho scritto niente perché non avevo anche niente da scrivere, non avevo neanche una matita.
D: E quand’è che sei arrivato a casa?
R: Sono arrivato a casa il 15 giugno del ‘45.
D: Da solo.
R: Da solo.
D: E a Bolzano dicevi che ti sei fermato?
R: Mi son fermato fino al mattino che è partito quel camion.
D: Sì ma in stazione in un edificio?
R: A dire il vero eravamo in un ristoro, che davano del ristoro a quelli che ritornavano.
D: Vicino alla stazione?
R: Vicino alla stazione, davano qualcosa da mangiare. Mi ricordo che c’erano diversi che chiamavano “di dove siete? siete di qua? siete di là? Noi cerchiamo quelli di questo paese, di quell’altro paese, di quella città”.
D: Ti ricordi se era la Croce Rossa che faceva questo?
R: C’era la Croce però han dato poco lì, c’era poca roba da…
D: E questo Milani chi è?
R: Milani è uno che è stato con me, prigioniero lì a Dachau, che poi è partito. Lui è di quelli che erano partiti da Allach, che quando siamo ritornati mi ha detto così “te hai avuto un coso così per andare a finire lì, di non venire con noi”: sono andati a finire nell’Alsazia, lavoravano in galleria, sempre in galleria, e io l’ho schivata perché, praticamente un male mi ha portato del bene.
D: Si chiama come, Milani?
R: Milani Gottardo
D: Era di Milano?
R: Sì, c’è nel libro qua, no non c’è, ‘La vita offesa’ c’è.
D: Era di Torino?
R: Sì sì di Torino. Lui aveva anche il padre in Germania, non solo lui
D: Cioè, tutti e due insieme?
R: No non erano insieme, però era andato a finire in Germania anche lui.
D: Ma è vivo ancora questo Milani?
R: Sì sì, adesso ha il cuore un po’ a pezzi ma vive ancora.
D: E questo Todeschini è vivo ancora?
R: Non lo so, non l’ho mai più sentito, ma deve essere ancora… adesso chiedo poi se è ancora scritto. Se guarda ne ‘La vita offesa’ c’è tutta la biografia, ognuno scrive la…
D: Non so se ho capito bene, la fabbrica di Blaichach era su più piani?
R: No non era la fabbrica, era dove c’era il campo che c’era due piani che faceva campo di concentramento. C’eravamo noi dentro, e sopra lavoravano dei civili, delle donne russe…
D: Tu non sei mai stato intervistato?
R: Sì sì, due o tre volte, da uno e dall’altro, solo che la memoria ogni tanto vengono delle cose a rate.
D: Sei bravissimo, ti ricordi tutto...
R: Ma proprio tutto, a volte quando vado via “porca miseria mi sono dimenticato”.
D: […]
R: Sì sì una volta sola, 69.786 a Dachau. E ho sempre tenuto quel numero lì perché erano tutti sottocampi di Dachau.
D: … sentivate rumori, musiche…
R: Sì perché, quando volevano bastonare, torturare qualcuno allora facevano dei rumori, sentivi quei rumori, con quei rumori coprivano tutto, dalla musica al rumore dei camion.
D: Ascolta, tu ad Allach sei più ritornato?
R: Ad Allach non c’è più niente, sono andato una vola ma non c’era più niente.
D: Sai che hanno messo due targhe?
R: No.
D: Non lo sai? I francesi e i tedeschi.
R: Perché erano tanti francesi anche lì, bisogna che vada a vedere poi una volta, che fanno un viaggio che è da dirlo, perché adesso magari vai lì non ti orizzonti più.
D: No, adesso ci sono tutte le casette.
R: E’ come la prima volta che sono andato a Dachau, non si entra dall’ingresso del portone da dove sono entrato io, quando sono entrato lì sono rimasto, poi ho visto il fabbricato, che quello lì c’era già allora, fatto così.
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