
Pietro Pierini
Nato il 06/05/1928 a Pietrasanta (LU)
Intervista del 22/08/2000 a Bologna
TDL n. 44 – durata 43’
Arrestato il 12/08/1944 a Sant’Anna di Stazzema (LU)
Incarcerato a Pietrasanta (LU), Montramito (LU), Lucca, Bologna
Deportato nei lager di Fossoli, Bolzano, Reichenau-Innsbruck, Nordhausen (matr. 25.265), Halle
Liberato nell’aprile del 1945 a Buchenwald
Nota sulla trascrizione della testimonianza:
La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.
Mi chiamo Pierini Pietro. Sono nato il 6/5/1928 a Pietrasanta, provincia di Lucca. In quel periodo, dalle nostre parti, era fermo il fronte tedesco e americano. Di là dall’Arno di Pisa c’erano gli americani, di qua dall’Arno c’erano i tedeschi. Nella vallata della Versilia – Versilia, Ca’ Majore, Pietrasanta, Forte dei Marmi, le zone della vallata della Versilia – c’era il forte di tutta la truppa tedesca. I tedeschi fecero sfollare Pietrasanta perché doveva passare il fronte, e fecero mandare tutte le popolazioni verso la montagna. Su, nelle colline, nelle alte colline, c’era il paese di Sant’Anna, di Val di Castello, di Mauthau… di Monteggiori, e mio padre, che aveva cinque figli, era un uomo povero, non aveva soldi d’andare a rifinire dentro un caseggiato, ci portò in una baracca nell’uliveto della Versilia. La zona si chiama La Rocca.
Il 12 di agosto, all’improvviso, arrivò la famosa… sterminio di Sant’Anna: arrivarono i tedeschi all’improvviso, e casolare per casolare, distrussero tutto Sant’Anna. Nel ritornare indietro da questo eccidio passarono dalla parte dell’uliveto dove noi eravamo nascosti. Mio padre, mio nonno e altre persone erano nascosti in punti dove non potevano essere trovati dai tedeschi; noi che eravamo dei bambini, perché io avevo 16 anni, mio fratello appena 17 e qualche mese – che ci corrono 16 mesi da me a lui – entrarono in questa baracca, e ci videro, e ci presero dalle braccia di mia madre, e ci portarono, non dico il carcere di Pietrasanta, ma nel salone al carcere di Pietrasanta. Assieme a noialtri portarono anche dei partigiani che avevano preso durante il rastrellamento; che questi poveri ragazzi venivano torturati per sapere, perché da noi nella nostra zona c’era una zona chiamata ‘Casa Bianca’, che è tutt’ora nella vallata di Strettoia, Vallecchia, e Capriglia, c’è una zona chiamata Casa Bianca. Pare che a quell’epoca la storia della Casa Bianca, che fosse un nome convenzionato dei partigiani dove fosse il comando, il rifugio. Allora i tedeschi chiedevano di dove sei, dove abiti; se disgraziatamente una persona diceva “vengo dalla Casa Bianca” o “abito alla Casa Bianca”, quello era un uomo morto perché volevano sapere e veniva torturato.
A Pietrasanta, in questo casermone, questo stanzone, radunarono parecchi rastrellati di queste zone, di Sant’Anna e tutte queste zone. A un certo punto, fatta la colonna di un circa due o trecento persone, ci incollarono da Pietrasanta a Lucca a piedi…
D: Scusa Pietro c’erano anche delle donne?
R: No, donne non ce n’era, erano tutti uomini. Arrivati a un certo punto, vennero i tedeschi e ci incolonnarono, era di mattino, e ci portarono verso Lucca. Strada facendo, io dico nella zona del camposanto di Pietrasanta, vidi mia mamma e i miei due fratelli, con una scatola di scarpe, non riesco a parlare… con una scatola di scarpe che era piena di patate e polenta fritta, che ce la allungò, e io e mio fratello quel giorno mangiammo. Facemmo 32 chilometri a piedi. Ci fermammo al castello di Monsummano, dove anche lì c’erano altri partigiani presi nel rastrellamento che fecero durante i rastrellamenti che facevano in quel periodo nelle zone di Pietrasanta, Ca’ Majore. Da lì poi ci presero e ci portarono alla Casa Pia di Lucca.
D: Ecco, ti ricordi quando era questo?
R: Sì, mi ricordo il periodo, i giorni: io penso che fosse stato dal 12, dunque dopo siamo stati verso il 13, 14 di agosto; sì, dopo quattro giorni dal rastrellamento.
D: Del ’44?
R: Del ’44, del ’44. A Lucca ci fu una selezione di tutte queste persone: i vecchi che avevano preso li scartavano, i ragazzi li avrebbero scartati, ma siccome io, essendo già un ragazzo abbastanza ben messo, purtroppo non sapevamo di andare a finire in Germania, ci dicevano che ci avrebbero portato a fare le trincee lungo Pisa, nelle retrovie di Pisa. Invece un bel giorno, non so, verso il 24, 25 – che ci abbiamo passato un po’ di giorni tra Monsummano, tra il castello e tra la Casa Pia – ci presero, ci caricarono sopra dei mezzi, dei camion, e ci portarono a Bologna. Partimmo di notte. Però non sapevamo dove andavamo.
Arrivammo a Bologna e arrivammo qui alle Casermette Rosse di Bologna. Alle Casermette Rosse di Bologna io credo che ci sarò arrivato verso il 24, così, ma ancora non sapevamo di essere andati in Germania; infatti, io dico sono stato portato in Germania il 26, ma io sono stato preso ben molti giorni prima della deportazione. Qui alle Casermette Rosse di Bologna fecero una selezione: numero 1 per la Germania, numero 2 lavoravano in Italia, numero 3 erano quelli senza un occhio, senza un braccio, presi durante altri rastrellamenti. Fui preso e trasportato… ossia, mi dissero che mi avrebbero portato in Germania, deportato per la Germania. E da quel momento, non potendo dare comunicazioni ai miei genitori, incominciai a scrivere nei muri, qui delle Casermette Rosse, “Pierini Pietro e Pierini Franco deportati in Germania”. Che poi dirò il perché di questo scritto. Da Pietrasanta…
D: Qui a Bologna, le Casermette Rosse dove si trovano? Cosa sono, in periferia?
R: Sì, sono qui in periferia, qui verso la parte di San Donato, nella zona qui della Bologna bassa, adesso io come bolognese… come toscano non gli so spiegare le zone buone di Bologna, ma…
D: Pietro, perché si chiamano Casermette Rosse?
R: Perché dicono che erano le caserme dei soldati, erano di mattone chiamate Caserme Rosse.
D: E quando tu sei stato portato lì alla carcerazione, chi c’era a fare le guardie, italiani o germanici?
R: No, eran tutti tedeschi. Tutti tedeschi. C’erano medici tedeschi che facevano la visita a coloro che venivano, e infatti ci facevano andare a petto nudo, e sopra il petto scrivevano: numero 1 Germania, numero 2 lavorare in Italia, numero 3 erano quelli che venivano scartati. Dopo due o tre giorni che eravamo lì in attesa di dove ci avrebbero mandati, mi… arrivò un ordine di caricarci sopra dei pullman e ci portarono al campo di concentramento di Fossoli. Io a Fossoli, assieme a mio fratello, siamo stati a Fossoli due o tre giorni, adesso non ricordo preciso se sono stati due giorni o due notti, non mi ricordo con esattezza, ma non più di tre giorni. Da lì a un certo punto arrivò un ufficiale che caricò dei pullman, e ci portarono verso le parti di Peschiera… di Verona! Preciso, di Verona.
D: Ecco, scusa Pietro, scusa se ti faccio queste domande ma è importante. Nel trasferimento dalle Casermette Rosse a Fossoli, c’erano solamente germanici, o come quando ti hanno arrestato…
R: No, solo tedeschi.
D: Solo tedeschi?
R: Solo tedeschi.
D: Non come quando ti hanno arrestato, che oltre ai tedeschi c’erano anche…
R: C’erano anche le MM. No, io…
D: Cioè, degli italiani erano…
R: Italiani. Gli italiani li ho visti solamente nel rastrellamento, a Lucca e basta. Ma a Bologna, a Fossoli, e tutto il tragitto, eravamo con la SS.
Dunque, posso proseguire. Allora, portati a Fossoli arrivò un ordine, ci caricarono sopra dei pullman, e per sfortuna mio fratello rimase a Fossoli. A me mi presero e mi portarono a Verona. Verona in un salone. In questo salone dopo otto giorni arrivò mio fratello. Sentii della confusione e ritrovai mio fratello, mi ricongiunsi con mio fratello. Da quel momento sapemmo che noi si doveva essere portati in Germania, ed era più o meno il 26 di agosto. Da quel giorno io ho detto: il 26 di agosto sono stato deportato in Germania, perché prima parlavano di lavorare in Italia.
D: A Verona dicevi in un salone. Ma dove, in una caserma?
R: In una caserma. In una caserma. Che anzi, io dico ‘il carcere di Peschiera’ ma non credo che fosse il carcere di Peschiera, perché ho notato che il carcere di Peschiera è un po’ più lontano da Verona, ecco, ma più o meno, come si dice… tutto il concentramento era a Verona. Poi a sua volta un giorno, una mattina, ci riunirono tutti in un piazzale, e cominciarono a fare l’appello, a chiamare a nomi per rifare un’altra volta la colonna, per portare la deportazione in Germania. Certamente, io essendo arrivato un po’ prima fui chiamato Pierini Pietro, ma d’accordo con mio fratello dissi “ci hanno diviso a Fossoli, non vogliamo più essere divisi, perciò come ci chiamano Pierini Pietro, Pierini mi chiamo io, Pierini ti chiami te, facciamo i finti tonti e andiamo assieme.” E andammo assieme sul carro bestiame. Sul carro bestiame, eravamo circa una quarantina dentro il carro bestiame.
D: Ma alla stazione di Verona?
R: Di Verona. Da Verona a sua volta ci portarono a Innsbruck. A Innsbruck ci rifermarono, ci riportarono dentro un’altra volta dei saloni, non so che saloni erano, se erano caserme o che non glielo so dire, e di lì ricominciarono a richiedere chi era meccanico, chi era… Ah no, torno indietro, scusate mi sono confuso. Ci portarono… da Verona ci portarono a Bolzano. A Bolzano ci portarono in una caserma, un campo, non lo so, perché siamo stati un giorno e una notte. A mio fratello gli chiesero… Siccome sui documenti che ci presero, che avevamo in tasca, mio fratello era allievo fochista delle ferrovie, e gli fecero la proposta di fare il ferroviere insieme ai tedeschi. Allora lui gli disse: “Io accetto di fare il ferroviere pensando di andare in Germania, ma se fate stare con me anche mio fratello.” Loro gli dissero: “Il ferroviere sei tu non tuo fratello, in Germania ci va tuo fratello e tu stai in Italia.” Allora mio fratello disse: “No, io seguo mio fratello, e vado in Germania con mio fratello Pietro”.
Arrivati a Innsbruck. A Innsbruck purtroppo si riebbe un’altra volta la divisione fra fratelli, perché a me, sul mio foglio, sulla mia carta d’identità, c’era scritto apprendista meccanico, mio fratello c’era scritto allievo fochista. Lui era messo da una parte, perché lì facevano dei gruppi: dodici imbianchini, dodici contadini, facevano gruppi a seconda dove loro avevano bisogno di portare a lavorare. Però ci portarono di nuovo e rifecero, riformarono un’altra volta la tradotta. Mentre che eravamo alla stazione di Innsbruck rincontrai mio fratello, per puro caso, e ritornammo sopra il carro bestiame assieme, solamente che invece di essere quaranta praticamente eravamo in quarantuno, perché loro quando è… insomma, eravamo con una persona in più. Da Innsbruck a Berlino noi siamo stati sempre rinchiusi in questa tradotta, e lì è stato l’inferno che io ho potuto passare nel tragitto tra Innsbruck e Berlino. Ho subito un bombardamento nelle retrovie di… no, lo spezzonamento nelle retrovie di Monaco, poi il treno… la tradotta proseguì la corsa; a Norimberga ci riportarono su uno scartamento ridotto, sempre rinchiusi dentro: fame, sete, ogni tanto ci passavano con dei bicchierini di cartoncino della sbobba, una specie di riso bianco, non so cos’era, e ogni tanto qualche goccia d’acqua ci davano, ma comunque eravamo come bestie. E da lì risubimmo un’altra volta un altro bombardamento. Ma a Monaco spezzonavano e non cadevano gli apparecchi, ma a Innsbruck cadevano anche gli apparecchi, perché il cielo sembrava come gli storni di aeroplani, e cadevano bombe a tutto spiano.
D: Dopo Monaco questo?
R: A Norimberga, a Norimberga. Finito il bombardamento riparte la tradotta e arrivammo notte tempo a Berlino. Non so come si chiama la zona di Berlino perché Berlino ha molte zone, non so, ma comunque era un grandissimo campo anche a Berlino. E noi dicevamo sempre che arrivavano i compratori di bestie, perché venivano queste persone che avevano bisogno di 10, 20, 30, manodopera, braccia da lavorare, e compravano a noialtri, perché noi ci eravamo bestie, perché ci trattavano come bestie, dentro i vagoni, come le bestie. A sua volta, da Berlino, si venne a sapere che ci avrebbero portato, ossia ci fecero un gran numero di deportati, però non sapevamo noi dove dovevamo… la nostra destinazione. Però le voci, si svociferava “ci portano in un campo triste, in un brutto campo, che dice che di là dentro non si ritorna fuori, non si ritorna vivi”. Queste erano le chiacchiere che svociferavano nel momento della preparazione della traduzione. Arrivammo a Nordhausen, arrivammo…
D: Ecco, scusa, il campo di Berlino non te lo ricordi?
R: No, non mi ricordo il campo di Berlino.
D: Ti hanno immatricolato lì?
R: No.
D: Ah, niente?
R: A Nordhausen. Arrivati a Nordhausen ci buttarono dentro una caserma, non so se era una caserma, perché era roba in muratura. Da Nordhausen ci dettero una tuta, una tuta blu, in più ci dettero un numero, questo numero il mio era venticinquemila duecento sessantacinque [25.265]. Assieme a mio fratello ci portarono in una vallata – io sono venuto a sapere che adesso si chiama la Vallata della Dora, ma a quell’epoca, ragazzo com’ero o che, io non pensavo a questa Vallata Dora – e ci portarono in una baracca. Se dovessi dire il numero della baracca non la ricordo. Ricordo solo che alla mattina alle 5 arrivavano i tedeschi e cominciavano a dire “Italiener, raus für Arbeit”, e a piedi si percorreva una strada innevata, perché c’era già la neve; dovevamo passare due posti di blocco, che erano due cancelli, e fra questi cancelli c’erano i tedeschi con dei… non so se era chiamata la gendarmeria, avevano come dei medaglioni di traverso, e si arrivava all’imbocco della V2, della galleria, all’imbocco della galleria. Spiego l’imbocco della galleria.
L’imbocco della galleria era, come si vede nelle gallerie dei treni, c’erano due panzer all’ingresso della galleria, due tedeschi, come ripeto, con questi medaglioni, e noi passavamo tutta la colonna perché nella colonna dove eravamo noialtri di questa tradotta che durante il… veniva insomma caricata… la colonna dei deportati veniva aumentata da altre baracche, c’erano anche delle donne, polacche, che poi queste polacche dove andavano a finire non lo so. Comunque, si percorreva la galleria della famosa V2, il tunnel, e noi italiani andavamo oltre il ventesimo reparto. Io ero addetto a una fresa, a fresare un blocco di… non so se era un motore della V2 o di che cosa era. Questo blocco, io facevo con la fresa due piani, fresavo due piani di questo blocco, però il capò, il comandante, che ci dava questi ordini, mi spiegava come dovevo lavorare la fresa, ma io non capivo la lingua, non sapevo come adoperarla: tutte le volte che il mio blocco che andava al collaudo era sbagliato, perché ci mancava un millesimo da sbassare, e quando lui ritornava gomitate, gomitate, e io piangevo e non capivo, e lui mi diceva che io dovevo… ma non capivo niente. Finché ci fu una brava persona, una donna che teneva dietro alle donne polacche – perché c’erano alcune donne polacche che loro pulivano la fresa, pulivano il reparto, levavano i trucioli – mi disse che gli assomigliavo ad un suo fratello “tal egal mein Bruder” [così riporta il testimone, ndr], un affare del genere. Poi mi disse in parola tedesca “leise”, insomma “piano”, che mi fece capire che la fresa io la dovevo girare una manopola in più, che allora si alzava il piano, la fresa si abbassava e avrei corretto quello sbaglio che io facevo. Era una cosa semplice, che se questo capò me lo spiegava con delicatezza io può darsi che lo capivo e non prendevo botte. Questo capò lo chiamavamo ‘scimpanzé’, perché sembrava una scimmia, tutto peloso. Infatti mio fratello doveva prendere questo blocco come io prendevo, che lo fresavo orizzontale, mio fratello lo doveva fresare verticalmente. Se non lo bloccava bene veniva sbagliato. Infatti, a volte non lo bloccava bene, al collaudo era sbagliato, lui tornava là e lo menava, lo picchiava. E infatti a suon di calci e pugni gli fece andare quasi in cancrena una gamba, che poi gli americani, dopo, con le cure, gliela guarirono.
Io ci ho passato in questa galleria 12 ore di lavoro di notte, 12 ore di lavoro di giorno, una settimana di notte e una settimana di giorno. Una zuppa di carote e rape quando si lavorava, e una zuppa di carote e rape o quel che poteva essere quando si rientrava. Si dormiva in castelli di legno, io assieme a mio fratello, lui da piedi io da capo, quando eravamo in tanti. Quando eravamo in pochi…
D: Ma fuori dalla galleria dormivate, no?
R: Fuori dalla galleria.
D: Nel campo?
R: Nel campo fuori dalla galleria. Non ricordo la zona. Io ricordo la vallata della Dora, perché era una grandissima montagna fatta a ferro di cavallo, dalla parte diciamo sinistra c’erano tutte le baracche, mentre nel giro della collina sulla parte destra c’era l’imbocco della V2, della fabbrica.
D: Ecco, ma c’erano dei deportati che dormivano dentro nella galleria?
R: Ecco, noi sapevamo che oltre il ventesimo reparto c’erano deportati militari o tedeschi, o… che dormivano là dentro e che noi si diceva che erano… c’erano tedeschi giurati perché lì c’era l’assemblaggio del V2. Nei due ingressi della galleria, perché la galleria era formata da due ingressi con binari, entravano i vagoni del treno, uscivano anche i vagoni del treno coperti, e all’interno del vagone del treno sapevamo che dentro c’era – si svociferava perché non si poteva andare a scuriosare perché se no erano botte – dice che c’erano le famose V2 che uscivano. Subimmo – il secondo giorno di Pasqua in quel periodo – subimmo un bombardamento, che venne il lunedì di Pasqua. Questo bombardamento… Venne un bombardamento la sera alle 6, e ruppe i reticolati dove noi eravamo, e riuscimmo a scappare. Però mio fratello non era con me, era ancora… perché ci divisero, dal giorno che fu picchiato lo divisero, ci divisero, lui faceva la notte io facevo il giorno, ma eravamo quasi all’ultimo. Alla mattina alle 9 io ritrovai mio fratello, perché sfollai su per la collina, e ritrovai mio fratello nella confusione dello sbandamento. Poi cosa successe? Che quando mio fratello ci siamo ritrovati, alla mattina alle 6 ritornò un secondo bombardamento. Il secondo bombardamento che tornò la mattina fu più pesante di quello della sera alle 6. Incominciarono a venire gli apparecchi dalla parte, posso dire, opposta dalla collina, che andavano verso Berlino, per dire adesso la posizione, mettiamo da sud a nord. Noi spaventati già dalla sera cercavamo di scappare, vedevamo gli apparecchi lì, cercavamo di scappare. Invece ci fu – anzi questo particolare lo dico perché l’ho sempre tenuto in mente – un militare che ci chiamò e disse: “No, andiamogli incontro agli apparecchi, che andandogli incontro agli apparecchi può darsi che nel cadere le bombe noi ci possiamo salvare”. E infatti fu così, che mentre si sentiva il fischio delle bombe che cadevano, questo militare ci dava – lui era più pratico per l’aver fatto il militare – ci dava praticamente gli ordini, di fare come si poteva fare: “buttatevi a terra, perché se state in piedi lo spostamento d’aria vi può sfondare lo stomaco”. E infatti arrivò il primo fischio delle bombe che cadevano. Arrivò il primo fischio delle bombe che cadevano. Quando cadevano queste bombe lui: “buttatevi a terra, buttatevi a terra”; noi ci buttammo a terra, poi dopo ci buttammo dentro un buco di bomba, esplosa pochi attimi prima. Dopo, dentro questo buco di bomba, passammo tutto il periodo… perché finito il bombardamento c’era il mitragliamento degli apparecchi, perché c’era uno sbandamento, persone che andavano a destra, persone che andavano a sinistra.
Dopo il bombardamento c’era i tedeschi che sparavano a chi scappava. Allora ci disse questo soldato: “stiamo fermi, aspettiamo che si calmi, facciamo imbrunire, venire verso sera, facendo finta di esser morti, e poi cerchiamo di scappare”. E così facemmo. Cercammo di scappare e andammo a rifinire su per delle colline, e giravamo per queste colline, il giorno si stava rinchiusi in un fiume e la sera si girava verso l’Italia. A un certo punto avevamo fame, dalla fame cosa si fece? Si raccolse della roba che trovavamo, rape, barbabietole, qualche cosa: il fumo fece scoprire dove eravamo. Arrivarono dei ragazzi vestiti, li chiamavano ragazzi della Todt, vestiti con vestiti della Todt, e ci presero e ci portarono dal borgomastro del paesino. Borgomastro del paesino – ormai la guerra stava per finire – ci disse: “noialtri non vi possiamo dare manforte o aiuto, queste sono delle patate lesse, lì c’è la ferrovia, andate via perché se sanno la SS che noi vi abbiamo dato un aiuto fanno lo sterminio anche su di noi”. Infatti salimmo sopra un carro bestiame, un carro di carbone. Questo carro di carbone, questo treno di carbone, arrivò ad Halle. Ad Halle ci fu un bombardamento. La tradotta, il treno si fermò e ci ripresero di nuovo, ma però ci prese la Wermacht. Non ci prese la SS, ci prese la Wermacht che ci portò dentro un altro campo di concentramento, ma non era più un campo di concentramento come quello dove io… era un campo di concentramento dove si lavorava… dove lavoravano otto ore, era una raffineria di benzina, dove lavoravano otto ore, dove davano da mangiare due volte al giorno. Infatti noi quando arrivammo, che eravamo pieni di pidocchi, e avevamo la scabbia frammezzo alle dita, mal vestiti come eravamo, con qualche straccio levato ai morti, quando ci fu il bombardamento: perché noi buttammo via ciò che avevamo addosso, perché prima di tutto era tutto sporco, pieno di morca, poi pidocchi che ne avevamo a volontà, e prendevamo i vestiti che trovavamo ai morti. Arrivati a questo campo ci fecero la disinfezione e poi ci dettero la possibilità di andare a un’infermeria a curarci i nostri guai.
Una sera, verso le sette, venne un allarme. I tedeschi ancora lavoravano, e noi si diceva: “ma come fanno ancora a lavorare, che sentiamo i carri armati che sono qui a pochi chilometri e ancora lavorano”. Alla sera andammo a rifinire dentro un bungalow insieme ai tedeschi, alla mattina alle cinque arrivò la liberazione degli americani, e ci liberarono gli americani. E io credo che fosse stato dopo Pasqua, non ricordo però, è sempre in aprile, ma i giorni non me li ricordo.
La grande confusione dello sbandamento, l’arrivo degli americani, c’era… Io, non era il mio campo, non avevo odio con nessuno di lì perché non erano i tedeschi che mi avevano tenuto prigioniero nella zona della Dora, ma quelle persone che stavano lì da mesi, c’erano anche i militari, si buttarono a cercare i loro comandanti per cercare di menarli, di picchiarli. Invece io e mio fratello andammo a rifinire in un magazzino dove c’era ogni ben di Dio, e io riuscii a raspare e prendermi una bracciata di salami, che dalla voglia di mangiare ne mangiai uno, che mi bloccò l’intestino che poi gli americani – mi vennero dei dolori atroci di stomaco, di pancia – mi fecero una specie di lavaggio, mi svuotarono, e riuscii a liberarmi. Lì sono stato… siamo stati in una baracca per venticinque italiani, fra cui una ragazza, Despina, una certa Despina, greca, che era sposata a un toscano, un alpino, e questa ragazza – tutt’ora vive in Toscana – questa ragazza aveva perso, nel campo di Buchenwald, aveva perso il babbo e la mamma, ed era orfana. Allora questo soldato poveretto l’ha… ne ebbe compassione e la sposò per procura. Lì passammo parecchi mesi. Passò maggio, aprile, marzo, maggio, giugno, però arrivò che gli americani non ci rimpatriavano, poi gli americani ci lasciarono, se ne andarono perché fu divisa la Germania, e vennero i russi. Con i russi, a sua volta, decidemmo di ripartire, perché coi russi non è che ci dassero da mangiare come ci davano gli americani. Il capo baracca decise di poter rientrare.
Scappammo, da soli, insomma, sempre con questi mezzi, col treno, e arrivammo a Zuf, un paesino chiamato Zuf, che era al confino fra russi e americani. Solo che i russi non ci facevano passare, e si stette lì altri due o tre giorni in attesa di poter passare il confino. Finché un bel giorno ci fu un’anima buona, ci fece passare e rimanemmo tra il tratto neutro tra i russi e gli americani. Lì c’era seminato il segale, non è un grano ma ha la spiga come il grano. La fame, noi mangiavamo il segale strogolato così perché era nel periodo di giugno, finché uno dei più anziani del nostro gruppo si avvicinò ai confini degli americani e lì c’era un paisà, un americano che disse: “io non vi posso far passare dal posto di blocco ma passate dalle retrovie, che io farò finta di sparare per aria ma voialtri continuate”. Infatti noi riuscimmo a passare, oltrepassammo il confino degli americani e andammo nella zona degli americani. Ci presero di nuovo gli americani, la Croce Rossa, ci dettero da mangiare, una carta annonaria che aveva valore di 24 ore, poi ci avevano detto: “lì c’è una tradotta pronta, prendete la tradotta e uscite da Zuf”. Noi prendemmo questa tradotta e arrivammo a Norimberga.
Arrivati a Norimberga la tradotta si fermò, solamente che c’era una truppa negra, i negri, gli americani neri, e c’era la storia della quarantena. Noi la quarantena non la volevamo fare, e allora si diceva: “ragazzi, qui se ci fanno fare altri quaranta giorni quando ritorniamo a casa?” E cercammo di andare per conto nostro. Trovammo un treno che andava verso l’Italia, salimmo su questo treno, ma per disgrazia ci riportò di nuovo a Zuf. Ritornammo indietro, con fame, un’altra volta con la fame, sete, trovavamo quel che trovavamo da poter mangiare. A sua volta decidemmo, si disse “beh, a questo punto qui è meglio decidere, faremo la quarantena ma ritorniamo dove vogliono”, e ritornammo a Norimberga. A Norimberga, convinti che ci riprendessero, che ci portassero a fare la quarantena, invece arrivammo ad Innsbruck. Arrivati ad Innsbruck ci fecero una disinfezione, fecero la disinfezione con ddt sotto le ascelle, fra le gambe. Poi ci inquadrarono, ci ricaricarono sopra una tradotta, e riuscimmo a passare il Brennero.
Passati il Brennero ci prese in consegna la Croce Rossa. Dal Brennero arrivammo – strada facendo – arrivammo a Bologna, ma non più coi vagoni chiusi, ma bensì coi vagoni aperti, con le gambe di fuori a sedere, e arrivammo a Bologna. Da Bologna proseguì il treno per Ancona, noi toscani proseguimmo per Pietrasanta. Proseguendo per Pietrasanta passammo da Porretta, perché la direttissima era stata buttata giù, non c’era più la galleria, non c’era la possibilità Bologna-Firenze da passare. Arrivammo a Pisa, con il treno. Da Pisa a La Spezia tutta la ferrovia fu saltata da pezzi, pezzetti, da… ogni quattro metri facevano saltare. Si venne a sapere che a Pietrasanta c’era stato fermo sette mesi il fronte, e si disse “va a finire che se siamo noialtri salvi e troviamo a Pietrasanta come abbiamo lasciato, tutti morti”.
Arrivammo a Pietrasanta, arrivammo in un posto chiamato Ponte della Madonnina, e c’era un casolare che era chiamato il Carraio, che era un signore che faceva i carri. Arrivammo, eravamo in sette pietrasantini – io, mio fratello, la Despina e altri pietrasantini – arrivammo in questo casolare, gli si dice: “guardi siamo dei deportati, siamo i figlioli del Pierini, chissà se…”; e ci fu una ragazza, dice: “guarda il tuo nonno è passato stamattina col carretto, e lui è vivo, e tutti vivi, i tuoi genitori sono tutti vivi”. Ma siccome noi a Bologna, qui, si vide un esempio che fu brutto, perché una mamma con la fotografia girava vagone per vagone per vedere se avevano trovato o se avevano visto il fratello, vi incontrò il figlio, e l’impatto con il figlio si venne a sapere che a lei gli venne male. Allora con quell’esempio lì, noi si disse a questa gente: “volete andare sotto casa ad avvertire i nostri genitori, a dirgli insomma ‘ci sembra di aver visto… mi sembra di aver visto, andate a vedere’…”. Infatti mio padre non c’era, c’era mia madre. Mandò i miei fratelli, Davide e Bruno, a vedere se effettivamente c’erano Pietro e Franco. Infatti io vidi scendere da questa salita della Madonnina Davide e Bruno, che… anche loro un po’ sbandati, perché eravamo vestiti male, magri, con dei vestiti con delle stoffe tedesche, una giacchetta tedesca, un paio di pantaloni tedeschi. Allora questi ragazzi, che fra i sei, quattro, sette prigionieri che eravamo lì, guardavano: “O Davide”, “o Bruno”, “son Franco”, “son Pietro”. E ci siamo rincontrati coi fratelli: “come sta la mamma?”, “la mamma è nella contratoia”, la contratoia sarebbe una traversa di strada. Andammo coi miei fratelli, e lei si può immaginare, dopo un anno non aver visto la mamma, a rivedere questa faccia di questa povera donna… non riesco a parlare.
D: Pietro, che mese era?
R: D’agosto.
D: Del ’45?
R: Del ‘45. E rividi l’immagine di mia mamma che ci venne incontro a braccia aperte: “Sono ritornati i miei figli, son tornati i miei figli. Il babbo è in piazza, adesso lo andiamo a chiamare”. Ci riunimmo in casa, e fra me e mio fratello ci abbracciammo. Siccome c’era un detto in Germania, dai vecchi, che dicevano “cerchiamo di arrivare a stasera, cerchiamo di arrivare a domani mattina, cerchiamo di portare il telaio a casa”, e io mi abbracciai con mio fratello Franco, e gli dissi: “O Franco, abbiamo riportato il telaio a casa, cerchiamo di riempirlo”. E abbracciai mia madre. Dopo venne mio padre, e assieme papà disse: “Finalmente sono arrivati i miei figli”. Però io chiesi a mia mamma, e mia mamma disse: “Abbiamo saputo che siete andati a rifinire in Germania da quando sono cominciati a rientrare alcuni prigionieri, perché vi hanno letto, che noi chiedevamo ‘avete visto i miei figli? Dice, ‘io non ho visto i vostri figli, però ho visto scritto sia a Bologna, nei muri di Bologna, Pierini Pietro e Pierini Franco deportati in Germania, l’ho visto scritto a Bologna e l’ho visto scritto a Verona’…” – o questo carcere, non so se era Verona o se era quello di Peschiera, io dico sempre Peschiera ma era Verona, la zona di Verona. Da quel momento siamo stati riuniti con la famiglia e questa è un po’ la mia storia. Ci sarebbe tante cose da dire, se ho tempo da dirle, se mi fate asciugare un po’…
D: Scusa un attimo Pietro, quando sei arrivato a Nordhausen, che vi hanno immatricolato, vi hanno dato anche il triangolo?
R: Sì ci han dato il triangolino rosso, che tenevamo sopra la… come si dice… tuta.
D: I campi che tu hai fatto in Italia sono stati: Fossoli…
R: Fossoli.
D: e Bolzano.
R: Bolzano.
D: Poi invece dall’altra parte, in Germania cosa hai fatto?
R: Berlino, da Berlino a Nordhausen, da Nordhausen in una baracca nella vallata dicono della Dora, non so se era quella della Dora o… perché lì c’erano tante baracche, non lo so. Comunque so che ero sotto Buchenwald.
D: E dopo hai fatto un altro campo?
R: Dopo il bombardamento sono andato a rifinire in un altro campo ad Halle, però non lo so come si chiama, non so se è quello che si dice che si chiama ‘Scopau’ [dizione corretta: Schkopau, ndr] o si chiama non lo so. C’era una raffineria di benzina. Io, vorrei saperlo anch’io cos’è questo campo, perché io ho fatto le ricerche, ossia anche mio padre. E io ho un documento a casa, che adesso oggi non l’ho portato convinto che andasse bene questo, della ricerca dei miei genitori, che c’è scritto che Pierini Pietro è stato a Scopau. Ma questo Scopau io non lo so cos’è, se è ad Halle, se è a Nordhausen, o se è dopo il bombardamento, i campi che noi abbiamo trovato dopo il bombardamento.
D: Pietro, scusa, ti ricordi… già hai detto che le donne le hai trovate durante la deportazione.
R: Sì, sì. Polacche erano.
D: Durante la deportazione ti ricordi se c’erano tra i deportati anche dei religiosi?
R: C’era un prete. C’era un prete, che era di Trieste, però non è che lui facesse… so che c’era un professore. Era gente di Trieste, che noi eravamo in mezzo a parecchi polacchi. Nella baracca dove eravamo noialtri c’erano pochi italiani, ma quei pochi che c’erano c’era un professore, un religioso – se era poi prete – a Nordhausen, insomma nella zona di Nordhausen, sempre dalla parte dove lavoravamo, della galleria.
D: Pietro…
R: Dimmi.
D: Oltre alle violenze che tu hai subito, le botte dei capò e anche tuo fratello che dicevi della gamba eccetera, tu sei stato testimone di altre violenze all’interno dei lager?
R: Vedevo picchiare altre persone, ma c’era poco da muoversi perché tu non ti dovevi muovere dalla tua macchina, dovevi solamente stare lì a … e vedevi, ma non ti dovevi interessare di quel che facevano gli altri… che facevano agli altri.
D: E atti di solidarietà, te ne ricordi?
R: No, non mi ricordo, perché io pensavo solamente a poter mangiare, quel che potevo trovare e basta. Ero un ragazzo, non avevo la furbizia che poteva avere un militare, avere una persona anziana.
Io volevo dire più o meno come facevamo ad arrangiarsi in questo campo. Porto un esempio, non so, per i vestiti, perché nessuno ci aveva dato dei vestiti da poterci cambiare, avevamo dei pidocchi addosso…
D: Ma in quale campo?
R: Nel campo sempre quando lavoravo dentro il tunnel della V2. Siccome lì passavano dei pezzi di stoffa da pulir la macchina, da poter pulire le frese, noi prendevamo questi pezzi di stoffa, ce li mettevamo come pezze da piedi. Oppure prendevamo della stoffa, ne mettevamo un pezzo davanti, un pezzo di dietro, una cordella di traverso; per metterli assieme quando si rompeva una cinghia della macchina prendevamo i filini della cinghia, e con un ago rudimentale che avevano fatto i vecchi mettevamo assieme ‘sto corpetto. E assieme a questo corpetto noi lo chiamavamo lo ‘spidocchiatoio’ perché ci andavano a finire i pidocchi, perché pidocchi ne avevamo a volontà. Eravamo rapati a zero, perciò in testa non ne avevamo, ma ne avevamo parecchi addosso.
Come pure… come si dice… l’arrangiamento per poter mangiare non so, una patata o una carota che potevi trovare nella spazzatura, nell’immondizia che andavi a raspare, che trovavi anche con quelle persone quando tu rientravi nelle baracche che lavoravano all’esterno, se gli portavi un pezzetto di stoffa loro ti davano il pezzetto di patata; c’era lo scambio per avere ‘sto pezzetto di stoffa per mettere dentro gli scarponi, che erano scarponi di legno con sopra… non erano di cuoio ma erano di tela, che erano chiamati volgarmente gli ‘sgroi’, alla toscana, non so se voi conoscete… noi si diceva gli ‘sgroi’, che è un legno ricoperto sopra con della tela. Allora c’era questo piccolo scambio, e allora si vedeva chi aveva, lo vedevamo e lo facevamo, bucce di patate, pezzetti, dito di carota. I vecchi avevano fatto un lambicco di ferro, un bussolotto che mettevano un filo attaccato al recipiente e un filo nell’acqua, attaccavano dietro la macchina della fresa, bolliva l’acqua e bolliva dentro quel pezzetto di carota o quella rapa che ognuno riusciva a trovare. Questo era un po’ il sopravvivere, oltre alla sbroscia che ci davano in questa gamella. E quando distribuivano il pane – questo ci tengo a dirlo – quando ci distribuivano il pezzetto del pane che era fatto a cassetta, che era pieno con la muffa sopra, un pane grigio, scuro, di segale, ne davano mettiamo, non so, a seconda la giornata, a seconda anche quanto loro ne avevano per distribuire, ne davano un pezzo e dicevano “questo è per quattro, o per cinque, o per dieci persone”, allora venivano fatti i pezzettini precisi e poi facevamo girare una persona e si diceva “a chi lo diamo questo pezzetto? a tizio, un pezzetto a caio, quest’altro a caio”. Invece c’erano alcune baracche che avevano i vecchi, polacchi o ucraini – perché con noi c’erano anche gente ucraina – avevano fatto una specie di bilancino con due affarini, quattro fili e due piattini di legno che bilanciava, mettevano un peso specifico da una parte, dall’altra doveva essere pari, quella era la razione da dividere. E quello era il nostro, più o meno, modo di vivere.
Poi c’era alla sera quando, la sera o la mattina, quando si rientrava dal lavoro, che ci mettevamo a sedere sopra ‘sto benedetto letto, e cercavamo di toglierci questi animali da dosso, che eravamo pieni di pidocchi o semi di pidocchi, che stavano in mezzo alle cuciture. E questa era un po’ la vita del campo.
D: Pietro, tu non sei mai stato intervistato in questi 55 anni?
R: No, mai stato intervistato.
D: È la prima volta?
R: È la prima volta che mi hanno intervistato. Perché io poi, essendo militare non ne potevo nemmeno parlare, perché una volta mi sono azzardato – e questo lo voglio dire con orgoglio – mi sono azzardato che sono stato prigioniero in Germania, mi sono sentito dire “tu in Germania sei stato a rubare”, perché nessuno ci credeva che a 16 anni un ragazzo fosse stato prigioniero in Germania. Siccome io ho vissuto da 50 qui a Bologna, e qui i bolognesi son bolognesi, si conoscono tutti, io sono una pecora bianca a Bologna come deportato, io sono conosciuto più come deportato in Toscana, in Versilia. Poi per disgrazia è morto anche mio fratello, nell’83, perciò non posso neanche dire mio fratello…. Sì, poter far parlare anche mio fratello.
LA REGISTRAZIONE FINISCE QUI. SEGUE TRASCRIZIONE DELL’ULTIMA PARTE D’INTERVISTA NON RIPORTATA IN AUDIO.
D: E in famiglia non hai mai raccontato della tua deportazione?
R: Nella mia famiglia da ragazzo se ne parlava. Da ragazzo se ne parlava, ma si parlava del più o del meno così, non è come adesso che viene più richiesto, vengano più fatte le domande, perché a quell’epoca, quando siamo ritornati dalla prigionia, chi comandava lì era chi era rimasto a casa, chi era stato prigioniero… Io perché sono stato nell’arma dei carabinieri? Sono stato nell’arma dei carabinieri perché quando sono tornato a casa – lo devo dire con orgoglio – aver fatto la prigionia della Germania se ne son fregati tutti, tutti. E dovevo andare a lavorare o in Belgio o andare in Canada o andare altrove, e io per poter sbarcare il lunario imparai a suonare la musica nel paese di Pietrasanta. Feci domanda come arma dei carabinieri. Quando sono stato a Roma sono stato a cavallo, nella fanfara a cavallo; quando sono tornato a Bologna ho chiesto che ero stato nell’arma dei carabinieri, nessuno ci credeva, ossia che sono stato prigioniero in Germania, nessuno ci credeva. [Finché] feci la richiesta a mio padre se mi mandava questo documento che io ho… che c’è scritto che sono stato prigioniero. Infatti, il mio foglio matricolare fu riconosciuto che io avevo fatto la deportazione in Germania, che mi fu dato un anno di anzianità nell’arma dei carabinieri come deportato in Germania. Ma di Germania ne parlavamo poco. Io ho cominciato a parlare di Germania da quando ho cominciato a conoscere l’… di Bologna, perché qua c’è un po’ più libertà di parlare, mentre fuori molti ci credono e molti non ci credono.
D: Tu hai figli?
R: Ne ho tre di figli
D: Lo sanno?
R: Io ho scritto un diario per i miei figli, una bella mattina mi misi a letto e dissi su una cassetta: voglio scrivere un ricordo, voglio lasciare un ricordo ai miei figli. E c’ho tutta la mia tragedia della Germania dal giorno che mi hanno preso al giorno che sono rientrato, sono 21 pagine. E c’è tutta la mia storia. Adesso io questa storia che ho raccontato qui a voi l’ho raccontata in breve perché avete il tempo che ci date, ma se dovessi raccontare… poi, raccontandola così, sotto queste luci e compagnia bella ci si confonde anche un po’. Poi ci si commuove.
Il Dado ce l’ha un libro che c’è il mio racconto quando sono arrivato in Germania.
È intitolato ‘Il viaggio’. Ce l’ha il Dado, dal giorno che mi hanno preso al giorno che sono entrato nel campo. Han fatto solamente quel pezzo lì, poi quello che ho passato nel campo non c’è scritto, però io ce l’ho scritto a casa.
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