Riello Elio

Elio Riello

Nato a Ventimiglia (IM) il 10.07.1922

Intervista del: 03.08.2000 a Ventimiglia (IM) realizzata da
Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n. 142 – durata: 26′ circa

Arresto: a Ventimiglia il 21.05.1944

Carcerazione: carcere Marassi a Genova

Deportazione: Fossoli, Mauthausen, Peggau

Liberazione: a Mauthausen il 05.05.1945

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Organizzazione materiali ed inserimento dati: Elisabetta Mascarello, Elena Pollastri

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

R: Sono Elio Riello, nato a Ventimiglia il 10 luglio ’22 e sono stato arrestato a Ventimiglia il 21 maggio del 1944.

Ero il segretario del costituendo Comitato di Liberazione, perché qui eravamo proprio in fase iniziale allora, si parlava poco dei partigiani e di altre cose.

Sono stato arrestato dalla Guardia Repubblichina. Sono stato portato ad Imperia dopo un interrogatorio a Ventimiglia.

Ad Imperia siamo stati alcuni giorni e poi siamo stati portati nel carcere di Marassi a Genova. Da Marassi dopo un po’ siamo stati trasferiti a Fossoli.

D: Durante il periodo di carcerazione, Elio, sei mai stato interrogato?

R: A Ventimiglia e ad Imperia. Sono stato interrogato a Ventimiglia e ad Imperia. A Ventimiglia quando hanno fatto la retata e poi ad Imperia quando hanno proseguito nei particolari.

D: Da chi?

R: Diciamo dalla polizia di allora.

D: Italiani erano?

R: Sì, sì, tutti italiani. I tedeschi sono entrati in funzione solo dopo Mauthausen praticamente.

D: Quindi dal carcere di Marassi siete stati poi trasferiti…

R: Tutti a Fossoli.

D: Più o meno quando?

R: A Fossoli saremo stati… Non mi ricordo più… So che siamo partiti da Fossoli mi pare l’8 giugno, ho tutto scritto là, però non ricordo esattamente.

D: Con cosa siete stati portati a Fossoli?

R: Siamo stati portati sempre a Genova in pullman e a Fossoli su un camion. Da Fossoli invece a Mauthausen …

D: Nel campo di Fossoli è stato immatricolato?

R: Non mi ricordo.

D: E neanche il blocco, la baracca?

R: No, assolutamente.

D: E’ stato molto tempo a Fossoli?

R: Non molto.

D: Lavoravate?

R: No, assolutamente. A Fossoli non facevamo niente. A Fossoli praticamente, aspetti un momento, mi pare che l’8 giugno se non sbaglio siamo stati portati a Mauthausen, mi pare, ma non sono sicuro, non mi ricordo più…

D: Si ricorda se a Fossoli ha visto anche dei religiosi tra i deportati?

R: No, non ricordo.

D: Poi quindi all’8 giugno…

R: Mi pare che sia l’8 giugno, trenta.

D: Il 21 giugno circa.

R: Ecco.

D: Dovrebbe essere.

R: Trasferito da Genova a Fossoli.

D: No, da Fossoli partiti per il Lager d’oltralpe.

R: Allora l’8 giugno probabilmente siamo stati trasferiti a Fossoli. C’era un 8 giugno.

D: Durante il trasporto da Fossoli a Mauthausen com’è…?

R: E’ stato un po’ movimentato perché avevamo con noi un prigioniero della guerra del 1915/1918, il quale ci ha presentato Mauthausen come la fine del mondo, poi in realtà rispetto a quello che abbiamo vissuto noi erano rose e fiori quello che diceva lui. Quello del 1915/1918 in fondo era un campo militare, il nostro era un campo di sterminio.

Qualcuno ha tentato la fuga. Di questi tutti meno uno sono stati poi presi e portati a Mauthausen senza alcuna pena particolare. Li hanno riportati nel campo. Uno invece, un certo Airaldi di Ventimiglia è riuscito a scappare e non l’hanno più preso insomma.

D: Elio, come ti ricordi l’arrivo a Mauthausen?

R: L’arrivo a Mauthausen è stata una cosa deprimente diciamo perché è stato togliere tutta la personalità dell’individuo in definitiva, questo è il discorso. Ti hanno spogliato completamente, ti hanno dato degli altri vestiti, ti hanno rasato e tutto il resto. Da quel momento praticamente siamo diventati dei numeri.

D: Il tuo numero di Mauthausen?

R: E’ facile ricordarsi: 76543, 76.543.

D: E dopo vi hanno messo nel blocco di quarantena?

R: Il blocco di quarantena.

D: Che era il numero? Te lo ricordi?

R: Era uno dei più famigerati, non mi ricordo se era il 15, credo che fosse il 15, era il più famigerato. So che quando siamo andati a Mauthausen l’ultima volta ho detto un numero, ma mi hanno detto guarda che non ti ricordi è l’altro. C’era un Kapò terribile.

Diciamo che contrariamente a quanto si diceva sono state ancora rose e fiori rispetto a quello che è venuto fuori dopo.

D: Lì nel blocco di quarantena quanto tempo sei rimasto?

R: Siamo rimasti… Io sono rimasto… Credo verso la fine di luglio perché l’attentato a Hitler l’ho sentito ancora a Mauthausen, quindi mi pare che fosse il 20 luglio l’attentato a Hitler, no? Quindi qualche giorno dopo sono stato trasferito a Peggau.

Il periodo di quarantena, a parte che si dormiva come le bestie perché eravamo messi uno contro l’altro in fila indiana, incrociavamo, ci mettevamo a terra con i piedi davanti e dietro la testa. Ognuno s’arrangiava come poteva. Io sono riuscito anche a dormire perché c’era una stufa che serviva per l’inverno naturalmente, ma eravamo d’estate, dormivo tutto attorno alla stufa, curvo, di modo che riuscivo a dormire rispetto agli altri che avevano i piedi davanti e i piedi dietro. Qualche volta ho dormito anch’io con i piedi davanti.

E’ stato poi il momento decisivo dopo, direi che c’è stata anche un po’ di fortuna. In questo senso, che una sera eravamo destinati ad andare credo a Gusen, Gusen era l’infermo. Perché il problema qual era? Evitare Gusen, i campi più grossi, Mauthausen perché c’era la cava e tutto il resto e aver la fortuna di andare in un campo piccolo.

Quella sera che dovevamo essere trasferiti a Gusen non mi sono sentito bene. Qui ho rischiato grosso, perché se andavo a finire all’ospedale ero cotto, non uscivo più. Invece mi hanno tenuto lì, mi sono ripreso.

Dopo due giorni stavo abbastanza bene e invece di andare a finire a Gusen ho avuto la fortuna di andare a finire a Peggau. Fortuna che non mi hanno mandato in infermeria e fortuna che sono andato a finire a Peggau.

A Peggau si lavorava in galleria. Facevamo gallerie, costruivamo fabbriche, dei tunnel che servivano a fabbriche contro i bombardamenti aerei.

Lì ho preso una volta anche una serie di frustate di quelle come si devono perché io mi sono qualificato come studente d’ingegneria, poi mi hanno detto se sapevo fare il muratore, ho avuto la faccia tosta di dire di sì.

Ho provato a fare il muratore. Se ne sono accorti. Per fortuna che il capo che era un civile tedesco me l’ha mezza ancora aggiustata, ma qualche frustata me l’hanno data.

D: Com’era il campo di Peggau?

R: Il campo di Peggau in se stesso era abbastanza piccolino, insomma, tenuto conto della situazione degli altri campi si stava diciamo… Non che si stesse bene, ma era indubbiamente forse migliore degli altri.

Naturalmente lì si andava ad esaurimento, cioè quando uno non ce la faceva più… Lì per fortuna c’era un’infermeria, finché potevano ti facevano riuscire. Questo è stato…

D: Il campo era grande, c’erano molte baracche?

R: Eravamo due gruppi per esempio, eravamo mi pare quattro baracche più i servizi naturalmente.

D: C’erano molti italiani?

R: Eravamo mi pare circa otto/dieci non di più. Poi c’era qualche francese e poi russi “a gogò”.

D: E il campo era molto distante dal luogo?

R: Il campo… Eravamo a circa due chilometri e mezzo a piedi tutti i giorni. Il che era sotto un certo punto di vista una camminata, ma d’inverno era un affare serio perché mentre di giorno ti lasciavano anche dei vestiti di civili, basta con la targa dietro, la famosa striscia dietro, di notte dovevi andare con quei vestiti fatti da loro, erano vestiti praticamente di carta.

Siamo arrivati nell’inverno a circa 30/35 gradi sotto zero. Quando si faceva il turno di notte uscendo la sera verso mi pare le 18.00 o le 20.00 e al mattino rientrando dopo dodici ore, erano turni di dodoci ore, si aveva un freddo da matti, tenuto conto che le calorie che assorbivamo non erano molte.

D: Le gallerie che scavavate erano molte?

R: Perlomeno mi pare tre che però non sono servite a niente perché poi quando siamo andati via non erano ancora finite praticamente.

D: Elio, come avveniva lo scavo della galleria?

R: Con criteri, col martello pneumatico, sistemi moderni per allora. Io che sono abbastanza pratico, avevano le pale meccaniche. I criteri erano abbastanza moderni insomma. I martelli pneumatici e pale meccaniche … dietro. Non c’era niente di particolare. Noi facevamo tutto il lavoro manuale di caricare i carrelli, completare, spingere i carrelli, quell’affare lì ed era faticoso.

Qui ho avuto un altro colpo di fortuna perché… Il colpo di fortuna è stato questo. Una sera avevano rubato qualcosa nel campo e ci hanno messo tutti di fuori, ci hanno fatto spogliare praticamente.

Io avevo avuto da militari italiani che lavoravano lì delle coperte che mi facevano da pezze da piedi come si dice. M’è andata bene perché ho detto qui sono suonato, mi vedono con queste, mi dicono dove le ho rubate.

Invece per fortuna non mi hanno detto niente. Lì è stato un altro di quei colpi perché oltretutto con quelle specie di pezze da piedi andavamo, mi scaldavo i piedi che era una cosa importantissima.

Poi il problema di vivere e di sopravvivere era una questione anche di volontà per conto mio. Io per esempio ero riuscito a farmi un coltellino con della latta. Mi davano del pane alla sera, non lo mangiavo, lo tenevo tutta la notte, poi al mattino lo tagliavo in file sottili che neanche il coltello più affilato attualmente riuscirebbe a tagliare.

Era la questione di dire, beh, ho ancora qualcosa da mangiare. Era una cosa importantissima. Per conto mio, a parte che contava la salute che uno aveva, ma per resistere bisognava anche combattere moralmente.

D: Ti ricordi qualche nome degli altri italiani che c’erano con te a Peggau?

R: Non mi ricordo. Quello di Genova, come si chiama? Mi sfugge il nome. Ce ne sono diversi, li ho tutti presenti davanti ma ormai la memoria mi ha mollato, non solo per quello, per altre cose anche.

D: Lì a Peggau dopo il lavoro facevate sempre l’appello?

R: Sì, sempre l’appello. Al rientro in campo, al mattino e alla sera. Gli appelli erano due, prima di partire e quando si arrivava.

D: Nelle gallerie avevate contatto con i civili dicevi?

R: Sì, avevamo contatto con alcuni civili, ma militari. I militari italiani che erano stati arrestati come militari. Lavoravano anche loro e noi riuscivamo ad avere quei contatti lì, un po’ di straforo, ma riuscivamo ad averli.

D: E invece altri civili niente?

R: No, altri civili niente. C’era il capo loro, il capo dell’impresa, soprattutto ricordo quello che era il capo, lo ricordo molto bene.

D: Sai per che ditta lavoravate voi?

R: No, questo proprio no. Questo assolutamente.

D: Non c’era nessun segnale, nessuna indicazione?

R: No. Anzi due anni fa un tedesco che si è occupato di quel campo lì, un austriaco è venuto qua e abbiamo avuto una certa corrispondenza, poi ci siamo persi. Lui aveva avuto notizie molto precise su Peggau, aveva fatto un’indagine. A Peggau non c’è più niente, hanno fatto sparire tutto, come del resto hanno fatto sparire a Gusen. A Gusen non c’è più niente. L’unico che si salva è Mauthausen ridotto alla parte centrale e l’altro vicino a Monaco, Dachau anche, ma a Gusen hanno fatto sparire completamente tutto. Poi mi pare che siamo stati a Ebensee. A Ebensee facevano le gallerie tipo noi, uguali, erano le stesse gallerie.

D: Che dovevano servire queste gallerie per delle fabbriche?

R: Per fabbricati, erano come capannoni praticamente, erano destinati a quello. Andavamo ad esaurimento. Man mano che eravamo giù si passava dall’altra parte della barricata. Era tutto lì il discorso.

D: Il campo era vicino, nei pressi del centro abitato oppure no?

R: No. Nel campo io non ricordo praticamente di aver visto, né nel posto delle gallerie. La mia impressione, quella che mi è rimasta è che fosse un paesino allora assai piccolino. Può darsi che poi mi sia sbagliato completamente.

D: Lì nel campo tra i deportati c’erano anche dei ragazzini, dei giovanetti?

R: No, giovanetti no. C’erano dei russi giovani, ma non ragazzini, almeno, non mi risulta che ci fossero dei…

D: E lì a Peggau siete rimasti fino a quando?

R: Siamo rimasti fino mi pare all’1 o al 2 aprile, cioè all’indomani di Pasqua del ’45. Lì è stato di nuovo un altro viaggio avventuroso, perché siamo partiti da Peggau a piedi. Ad un certo momento ci hanno bombardato i russi, ci abbiamo lasciato due dei nostri di tutto il gruppo. Poi ci ha preso un acquazzone infernale, abbiamo continuato ad andare a piedi fino ad una certa stazione, non so quale sia.

Poi ci hanno caricato sul treno, vagoni scoperti, abbiamo attraversato un valico, nevicava. Io so che ad un certo momento ho detto, sono cotto. Mi hanno stretto in due, mi hanno scaldato, mi hanno dato una manciata di ricotta mentre eravamo su lì e mi sono salvato.

Quello che è stato doloroso è che uno dei due che mi ha salvato dopo che siamo arrivati a Mauthausen, a Mauthausen si va a piedi al campo, durante la camminata per andare al campo è caduto lì. Non si poteva far niente perché ti costringevano ad andare via ed è morto. Questa è una cosa che uno ce l’ha qui. Ma d’altra parte…

D: Quanto è durato questo viaggio di ritorno a Mauthausen?

R: Adesso non ricordo più, ma è durato una giornata mi pare. Ripeto, mi ha salvato una manciata di ricotta e gli altri fra i quali questo qui che mi hanno stretto in mezzo. Poi invece quando arrivavamo a Mauthausen, o camminare, o ti facevano fuori subito.

D: Ritornato a Mauthausen cos’è successo?

R: Ritornato a Mauthausen praticamente non abbiamo fatto più niente. Sono successi degli episodi perché ad un certo momento, un altro episodio di quelli che ti rimangono impressi lì. Arriva un gruppo nel quale c’era uno di Genova, essendo liguri ci siamo messi a parlare, finalmente sono arrivato lì, me ne vengo fuori. Quelli sono andati tutti a finire nel crematorio. Si vede che erano destinati. Lì avevano già fatto delle scelte.

Una volta ci hanno fatto una visita, ero indeciso tra quelli che dovevano stare e non dovevano stare. Fame, si mangiava pochissimo. Se moriva qualcuno ce lo tenevamo lì per pigliare il pane. Finché poi sono arrivati gli americani… No, no, pardon, noi siamo stati liberati il 5 maggio dagli americani di Patton.

Due giorni prima hanno abbandonato il campo, cioè abbiamo preso in mano noi il campo, noi, quelli che erano in grado di farlo. Anche lì tutto il mondo è paese, quelli che stavano a Mauthausen erano in fondo una specie d’imboscati rispetto… Fortunati loro, ma erano riusciti a tenersi in salute come in tutti i casi della vita.

Lì allora abbiamo cominciato… Dopo due giorni sono arrivati gli americani. Io non li ho visti perché con un altro mio collega qui di Ventimiglia stavamo curando due amici di Isolabona, dei quali uno è morto esattamente un anno dopo a Isolabona qui.

Non li ho visti gli americani, abbiamo visto che erano, cioè abbiamo sentito che erano arrivati, ma stavamo curando questo qui che era… Poi niente. Siamo stati lì finché sono arrivati, allora hanno cominciato a darci da mangiare, hanno cominciato a disinfettarci perché eravamo carichi di pidocchi da morire.

Poi lì sono cominciate le dissenterie, la TBC chi l’aveva. Io sono tornato a casa che avevo 39 di febbre. Ho detto questa qui è una bella TBC, invece per fortuna era solo colite. E crescevo di mezzo chilo al giorno a casa. Sono arrivato qua dopo un mese perché da Mauthausen gli americani ci hanno portato sul lago di Costanza. Gli svizzeri non ci hanno fatto passare. Ci hanno rimandato al Brennero.

Poi dal Brennero sono arrivato, ci hanno portato a Milano. No, dal Brennero ci hanno portato direttamente a Milano. E’ arrivata l’Opera Pontificia di Brescia. Poi da Milano sono riuscito ad arrivare a Genova in treno. Quando sono arrivato a Genova ho avuto già notizie dei miei. Ho trovato un amico, mi ha detto: “Stanno tutti bene”.

Poi da Genova a Ventimiglia è stato di nuovo un viaggio mezzo su un camion che si trovava, l’ultimo pezzo un mio vecchio conoscente mi ha portato in bicicletta da San Remo a Bordighera.

La cosa sarà strana, il mio cane se l’è fatta addosso quando sono arrivato.

D: Cioè in totale quanti mesi hai fatto nei Lager?

R: Praticamente io sono stato arrestato a maggio e sono arrivato a casa, beh, facciamo il 5 di maggio, quasi un anno.

D: E con te questo amico che accennavi di Ventimiglia?

R: E’ mancato due anni fa.

D: Ma è stato arrestato anche lui con te?

R: No, era di un altro gruppo. Del mio gruppo eravamo, io ho di là una relazione perché avevo fatto una relazione, eravamo un certo numero, siamo tornati a casa, mi pare, quattro o cinque, adesso di quel gruppo sono rimasto solo io. Invece questo mio amico era di un altro gruppo.

D: Che è sopravvissuto anche lui?

R: Sì, siamo tornati insieme. Lui è stato quello che appena… Siccome lui era a Mauthausen da un po’ prima, era riuscito ad intrufolarsi nelle cucine, faceva il macellaio. Allora mi ha fatto entrare nelle cucine, ecco perché curavamo il nostro amico, perché riuscivamo a prendere patate, qualcosa in cucina per dare a questo.

D: Ecco, di Peggau cosa ti ricordi ancora, di questo sottocampo di Mauthausen?

R: Mi ricordo com’era fatto, diciamo la parte delle gallerie, tutto quell’affare lì. Le linee generali me le ricordo. Poi i dettagli ormai, ripeto, anche per l’età stanno sparendo.

D: Ed eravate solo pochissimi italiani?

R: Eravamo non più di dieci penso.

D: Però oltre a queste baracche che dicevi, le vostre, c’era anche un’infermeria lì a Peggau?

R: Sì, c’era un’infermeria. Era un’infermeria dove però uno entrava, non è che lo facessero fuori, se riusciva a guarire… Meno quando siamo partiti che quelli che erano in infermeria li hanno fatti tutti fuori. Li hanno fucilati tutti.