Bettiol Tullio

Tullio Bettiol

Nato il 01.01.1927 a Belluno

Intervista del: 09.08.2000 a Belluno realizzata da
Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n. 60 – durata: 48′ circa

Arresto: il 19.06.1944 a Belluno

Carcerazione: a Baldenich (BL), Corpo d’Armata (BZ)

Deportazione: Gries-Bolzano, Maia Bassa-Merano, Karthaus

Liberazione: fuga da Certosa il 04.02.1945

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Organizzazione materiali ed inserimento dati: Elisabetta Mascarello, Elena Pollastri

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sono Tullio Bettiol nato a Belluno il 1 gennaio del 1927. Sono stato arrestato a Belluno a casa dei miei genitori da una squadra di tedeschi, saranno stati dieci o undici della SS che sono venuti alle 5 di mattina per arrestare mio padre che era in casa. Mio padre è riuscito a nascondersi in un nascondiglio che avevamo creato nella casa, mentre io sono rimasto a letto.

D: Scusa Tullio, perché volevano arrestare il tuo babbo, chi era il tuo babbo?

R: Mio padre era un componente del Comitato Liberazione Nazionale Provinciale per conto del Partito Comunista Italiano. Partecipava, da lungo tempo, prima all’antifascismo e poi alla guerra di Liberazione. Si era assentato da casa, ma quel giorno era in casa, casualmente, probabilmente c’è stata qualche soffiata che indicava che mio padre era in casa e sono arrivati questi tedeschi. Noi eravamo come Alpenvorland, cioè annessi al grande Reich e quindi c’erano sì i fascisti ma non la Repubblica Sociale, c’era il commando, c’era la Federazione Repubblichina ma il territorio era governato e comandato dai tedeschi.

D: Quando sono venuti ad arrestarti?

R: Ricordo bene la data perché erano finite le scuole da pochi giorni, era esattamente il 19 Giugno del 1944. Sono venuti alle 5 di mattina, hanno circondato la casa. Mia madre ha dovuto aprire la porta di casa, sono entrati e io me li sono trovati in camera con i fucili puntati. “Raus!

Raus!”, i soliti discorsi che facevano, alzarsi in breve tempo. Mi hanno fatto caricare la radio che avevamo in casa e una macchina fotografica.

Mi hanno portato subito al distretto militare dove c’era il commando della polizia tedesca, della SS. Lì sono stato chiuso in una stanza assieme ad una ventina di persone, venti/trenta persone della città di Belluno che erano state arrestate insieme a me. Ad una certa ora sono arrivati anche il gruppo di feltrini che erano stati arrestati anche loro quella mattina. Sono stati trattati, devo dire la verità, in misura peggiore che noi, nel senso che a Feltre si erano presentati questi SS certamente ubriachi e hanno anche creato fatti di sangue; tant’è vero che sulle scale di casa, di fronte alla moglie, hanno ammazzato il Colonnello Zancanaro medaglia d’oro poi al valor militare e il figlio che era a scuola con me, era un anno più vecchio di me. Sulle scale di casa li hanno ammazzati.

C’erano anche dei preti e sono arrivati al distretto verso le 7,30/8,00 del mattino.

Ci hanno tenuti tutto il giorno chiusi in queste stanze, dopo di che in colonna, a piedi, ci hanno portato nel carcere della città a Baldenich, in località Baldenich. Siamo stati smistati, io sono stato posto in una cella singola, non so perché, e sono rimasto lì parecchi giorni, una quindicina di giorni in segregazione. Non vedevo nessuno, non sapevo niente. L’unica cosa che potevo fare era leggere qualche libro che mi passava la biblioteca del carcere. Non ho mai visto nessuno.

Finalmente dopo una quindicina di giorni mi hanno tolto dalla segregazione e mi hanno messo assieme ad altri.

D: Non ti hanno mai interrogato?

R: No, non sono mai stato interrogato. Anche questo è un mistero che non ho mai capito. Una mattina, eravamo ai primi di luglio il giorno preciso non me lo ricordo, deve essere stato intorno al 5/6 luglio, alle 5 di mattina ci hanno fatto svegliare in due o tre, ricordo io e Germano Sommavilla che poi abbiamo vissuto tutte le vicende che sono seguite assieme. Prima ci ha fatto vestire soltanto, tant’è vero che tutti hanno preso un po’ di paura, perché l’ora non era la più indicata, le 5 di mattina quando ci fanno alzare significa che può succedere sempre qualcosa di molto grave.

Per fortuna ci hanno detto di prendere le nostre poche cose che avevamo e quindi abbiamo capito che non succedeva niente di grave, ma succedeva qualcosa di diverso rispetto a quello che avevamo vissuto fino ad allora. Infatti ci hanno fatto scendere nel cortile del carcere, ed eravamo una trentina. Ci hanno caricato su dei camion e da lì in colonna siamo partiti verso Feltre.

Quando siamo arrivati a Feltre hanno caricato su questi pullman dei Carabinieri, non ricordo il perché. Ricordo benissimo che c’erano delle mogli, delle madri che piangevano, che urlavano intorno ai pullman. Ci sono state anche delle sparatorie in alto da parte dei tedeschi per allontanare la gente. Hanno caricato questi Carabinieri ed assieme abbiamo proseguito il viaggio, sempre con autocarri davanti e dietro con fucili mitragliatori e abbiamo imboccato la Valsugana.

Fatta la Valsugana siamo arrivati a Trento e poi a Bolzano al Corpo d’Armata. Nel Corpo d’Armata ci hanno tenuti tutto il giorno seduti sul campo e ad un certo punto hanno fatto uno smistamento. Io, Sommavilla e se ricordo bene, nessun altro, siamo stati portati a Gries.

Altri che ricordo sono: un certo professor Viaggi che era stato mio insegnante, allora si insegnava anche cultura militare, che era un ufficiale dell’esercito, dicevano che era dell’Intelligence Service. E’ stato portato a Dachau e non ha più fatto ritorno.

Altri sono stati tenuti al Corpo d’Armata e sono stati trasferiti nelle celle, credo, nei sotterranei del Corpo d’Armata. Io, Germano e credo altri tre o quattro, ma non di più, siamo stati portati a Gries, dove c’era questo campo che era in formazione perché allora, non ricordo la frase in tedesco, perché un po’ l’ho voluto dimenticare, sbagliando tutto, probabilmente, ma non importa, era indicato come campo di punizione e rieducazione SS. Forse punizione si può comprendere, cosa significasse rieducazione non l’ho mai capito.

Siamo entrati in questo campo, ci hanno portato in una stanza, ci hanno fatto spogliare completamente, ci hanno fatto mettere i nostri indumenti in un sacco e ci hanno dato una tuta di colore blu con delle strisce sulla schiena, sui calzoni e con il triangolo rosso sul taschino della giacca e un paio di zoccoli. Ci hanno messo nel cortile seduti ed è venuto uno con una macchinetta elettrica e ci ha pelato completamente.

É stata la prima volta che ho subito una grossa umiliazione, chi sa perché ma mi è venuto perfino da piangere a subire questa umiliazione.

D: Scusa Tullio, oltre al triangolo ti hanno dato anche un numero?

R: Sì, mi hanno dato una catenina di spago con un ciondolino sul quale era inciso il numero einundachtzig, 81, che ho dovuto sempre tenere al collo e come mia identità personale sono sparito, sono diventato solo un numero, dovevo rispondere solo al numero einundachtzig quando venivo chiamato per l’appello o per altre incombenze nel campo. Ormai Tullio Bettiol a quel punto non esisteva più, almeno secondo i tedeschi. Erano delle guardie tutte SS.

Eravamo in pochi allora, infatti io avevo il numero 81 poi invece il numero è sempre più aumentato perché sono arrivati quelli internati, deportati dal campo di Fossoli che si stava sciogliendo perché stavano avanzando le truppe alleate. Quando sono arrivati quelli di Fossoli il numero è notevolmente aumentato.

Io sono stato portato all’interno del campo poi assegnato al blocco A, era un capannone con dei letti a castello. Ci hanno dato una coperta e si dormiva in questo capannone. La vita del campo era abbastanza dura nel senso che come tempi ci svegliavano alle 5 di mattina, spogliare completamente all’interno del capannone, attendere che aprissero la porta, poi si doveva uscire nel cortile e fare la così detta doccia che consisteva in un risciacquo del corpo. L’acqua arrivava da un tubo forato, acqua fredda, eravamo in luglio però alle 5 di mattina allora non era molto caldo. Quindi si faceva questa doccia senza sapone, senza niente, un risciacquo del corpo con acqua fredda attraverso questo tubo. Dopodiché ci si doveva rivestire e ci davano la colazione che consisteva in una gavettina di, chiamiamolo caffè, era acqua sporca, acqua un po’ nera con un po’ di pane. Dopo incominciava la giornata vera e propria e dovevamo o trasportare nell’interno del campo delle travi, del legname, da un posto all’altro, oppure ci portavano in una cava del fiume vicino al campo di Gries e dovevamo caricare dei carrelli, dei decouville, di sassi e portarli, spingendoli a mano, portarli su nel campo. Era una vita molto dura soprattutto quando raccoglievamo i sassi perché era caldo, era un lavoro improbo, pesante. Quando si arrivava al campo ci davano qualcosa da mangiare, il mangiare era una cosa incredibile, era acqua sporca con una patata dentro e un po’ di pane quello nero che alle volte era anche ammuffito e poi si riprendeva lo stesso lavoro di prima e verso sera ci rinchiudevano dentro nel campo. Ci davano la cena che consisteva sempre delle stesse cose e ci chiudevano nelle baracche. Nelle baracche in silenzio si doveva dormire fino al giorno dopo. Devo dire che credevo non si potesse dormire su di un tavolaccio, invece ci si abitua, si dorme molto ma molto bene.

Alle volte succedeva o perché non si sentivano bene gli ordini tedeschi, o perché qualcuno commetteva secondo loro qualche grave fatto, allora c’erano le punizioni: calci o botte oppure punizioni vere e proprie soprattutto quando qualcuno tentava di scappare dal campo. Io ho assistito a scene veramente poco belle, poco simpatiche anche da raccontare, a dire la verità. Ma a Bolzano sì, botte sì ne ho prese perché magari uno spingeva questi carrelli e secondo loro non li spingeva con sufficiente forza allora era qualche calcio o qualche bastonata sulla schiena. Non si poteva reagire certamente a ciò che ci veniva ordinato di fare.

D: Ecco scusa, ritornando indietro un momento, tu dicevi che prima era campo di rieducazione e poi era diventato campo di punizione, cioè, è cominciato come campo di punizione, il personale di guardia, i comandanti eccetera, sono rimasti sempre gli stessi, che tu sappia?

R: Che sappia io sì, però io non ricordo i nomi di guardie che sono state poi citate nei vari documentari e nei vari documenti. Io non ne ho memoria. So che il campo, da campo di punizione è diventato campo di smistamento “DurchgangsLager“. Però i nomi non li ricordo, assolutamente. Eravamo controllati da questi SS, dai cani lupo, che erano lì nel cortile a disposizione delle guardie. No, ma i nomi non li ricordo.

D: Ti ricordi se all’interno del campo c’erano anche delle donne deportate?

R: Sì, a Bolzano sì. Direi soprattutto però ricordo le donne nel campo di Merano. Però è un episodio che forse viene dopo.

D: Ecco, e sempre a Bolzano ti ricordi dei sacerdoti deportati, dei religiosi?

R: No, non ne ho memoria.

D: Ebrei?

R: Ebrei sì, molti. Però devo dire che io a Bolzano sono rimasto un mese o poco più, perché poi sono stato trasferito in altra sede.

D: Come è avvenuta questa selezione?

R: La selezione è avvenuta in questo modo: ci hanno messo nel cortile in fila e ci hanno detto “Si facciano avanti quelli che sono disposti ad andare anche fuori dal campo o a trasferirsi in un altro campo”. Il mio amico Sommavilla, che era un pezzo di ragazzo, lo vedo, “Alza su le spalle, io sono un po’ curvo per natura, alza su le spalle, fagli vedere che sei forte e andiamo via di qua”. Siamo stati selezionati anche noi e ci hanno trasferito su dei camion, ci hanno trasferito a Merano nelle caserme di Maia Bassa.

D: Eravate in molti in questo trasferimento?

R: No, direi che saremmo stati una cinquantina, cinquanta/sessanta, però a Merano abbiamo trovato già dei prigionieri e donne anche che erano già lì, ma da poco, penso.

Eravamo divisi come sesso, da una parte gli uomini, dall’altra le donne. Lì si è modificata un po’ la situazione nel senso che la vita era meno dura che a Bolzano: botte no, mangiare se si può dire un po’ meglio…sì un po’ meglio. E ci portavano fuori dal campo, nella stazione ferroviaria vicino a Maia Bassa, saranno stati cento metri di distanza, e ci facevano scaricare del materiale dai vagoni ferroviari che avevano razziato un po’ in tutta Europa. Ricordo tessuti pregiati, quadri, tappeti, anche zucchero e generi alimentari, ce li facevano caricare su dei camion e poi ce li facevano smistare, portare e scaricare nei castelli vicino a Merano. Io ricordo benissimo il castello, sono riuscito a trovarlo anche recentemente, dove si doveva salire su per le scale con questi tappeti pesantissimi, a parte che eravamo un po’ debilitati anche noi questo è logico, e si doveva salire per le scale e portare su questi tappeti e accatastare tante di quelle cose in questi castelli… cioè, era materiale che era stato razziato un po’ in tutta Europa, direi, materiale anche prezioso. Prezioso nel senso: tappeti persiani, telerie anche di pregio e cose del genere.

Un’altra cosa che ricordo è lo zucchero: i sacchi maledetti, scusate il termine, di zucchero che ci si caricava sulle spalle e si dovevano portare su per le scale. Ed io ero un ragazzetto, insomma, non ero un colosso, avevo sedici/diciassette anni, ma non è che fossi un gran colosso. Poi ho dovuto sopportare questi carichi…eppure li ho sopportati, sono ancora qui. Quindi vuol dire che la capacità di sopravvivenza e la resistenza hanno un certo peso nella vita di un uomo. Lì a Merano si faceva questo tipo di vita. Anche da lì, senza preavviso né niente, ci hanno caricato, un gruppo, e ci hanno trasferito a Karthaus, Certosa.

D: Ecco, un attimo: il campo di Merano era allestito dove?

R: Il campo di Merano era nella zona di Maia Bassa vicino all’ippodromo e vicino alla vecchia stazione ferroviaria di Maia Bassa, erano delle caserme dell’esercito italiano. Si dormiva in questi stanzoni, non più in gran capannoni, ma in stanzoni come quelli delle caserme, insomma.

D: E lì le sentinelle, le guardie, chi erano?

R: Le guardie erano sempre SS. Sempre, sempre. Io ho sempre avuto a che fare con SS, tranne su, se volete lo dirò dopo, tranne su a Karthaus, dove c’erano come comandanti SS, però c’erano delle truppe della Wermacht, cioè truppe, scusate, c’era un gruppo, un drappello della Wermacht.

D: Il lavoro che facevate lì di scarico, di portare ed occultare questi beni all’interno dei castelli lo facevate durante il giorno?

R: Sì, sì, durante il giorno. Sì, sì, di sera mai.

D: Ed anche le donne partecipavano?

R: No, le donne rimanevano all’interno del campo. Forse accudivano ad altre incombenze, ma non fuori. Io non ho mai visto portare fuori le donne.

D: E di italiani eravate in molti lì a Maia Bassa?

R: Beh direi che eravamo tutti italiani ed ebrei. Italiani ed ebrei. Però ebrei italiani. Non mi ricordo di prigionieri di altre nazionalità. Però adesso, ripensandoci ricordo che su a Karthaus eravamo assieme, c’era un gruppo di ebrei e c’erano anche ebrei francesi. Ricordo benissimo, invece, un tipo simpaticissimo che aveva un basco in testa, era un ebreo francese, che cantava sempre un ritornello che ricordo tuttora proprio. Ricordo che lo cantava sempre questo ebreo francese.

D: Ascolta Tullio, tu dici che c’erano degli ebrei perché erano contraddistinti in un altro modo da voi?

R: Sì, gli ebrei avevano il triangolo giallo. Noi il triangolo rosso, gli ebrei il triangolo giallo. Forse avevano anche, se si può dire un trattamento quasi peggio del nostro, nel senso che pigliavano più botte di noi, ecco. Per il resto alla pari.

D: Lì a Merano quanto tempo sei rimasto?

R: A Merano credo di essere rimasto fino a settembre, adesso non so se all’inizio o alla fine di settembre, e poi sono appunto stato trasferito a Certosa.

D: Tutti siete stati trasferiti a Certosa?

R: No, solo alcuni. Solo una cinquantina di persone, mentre a Merano eravamo sicuramente più di duecento.

D: C om’è che siete stati scelti?

R: Così, non saprei che scelta abbiano fatto i tedeschi.

D: Con cosa vi hanno portato a Merano?

R: Ci hanno portato con dei camion militari, sempre con la scorta. Ci hanno portato su in alcune baracche che forse erano state dell’esercito italiano, sotto il paese. Successivamente quando è venuto più freddo, ci hanno portato in una caserma che era una caserma di confine dell’esercito italiano. Nelle baracche siamo stati fino a novembre, si dormiva per terra, trattati veramente male e anche lì ci facevano lavorare nel senso che alla mattina ci caricavano sui camion e attraverso la valle che arriva giù al paese di Senales, se ricordo bene, una valle molto stretta, valle pericolosa anche. Ci portavano alla stazione ferroviaria e ci facevano scaricare dei vagoni ferroviari e caricare sui camion del materiale che erano, ricordo benissimo, soprattutto zaini e scarponi dell’esercito francese, erano proprio dell’esercito francese. Mi ricordo bene perché me lo avevano detto gli ebrei francesi che erano lì, ci si chiedeva la provenienza di questa roba. Ce la facevano portare su nelle baracche a Certosa. Quando è aumentato il freddo ci hanno portato in questa caserma sopra il paese di Certosa, ma eravamo in pochi, eravamo rimasti una trentina di ebrei e quattro o cinque italiani, non di più, pochissimi. Era proprio un minicampo. Chi comandava era un sorgente delle SS reduce della guerra di Russia, era stato ferito, era lui il comandante, un certo Otto, un pezzo d’uomo che poi aveva avuto la sua lezione, ho sentito, su a Bolzano. E un caporale delle SS polacco, Daloch, che poi i tedeschi avevano ribattezzato …. che dimostrava di avere una paura maledetta perché sentiva che gli alleati stavano avanzando e oramai era convinto dentro di se che probabilmente la guerra l’avevano persa e aveva una gran paura di ritornare in patria per le conseguenze che forse avrebbe subito. Questo non è che ce lo dicesse ma riuscivamo a capirlo noi.Mentre gli altri, saranno state una decine le guardie, erano della Wermacht. Eravamo in questa caserma recintata e si faceva quel lavoro di avanti e indietro con questi camion fino giù alla stazione di Senales poi ritorno. Ad un certo momento gli ebrei sono partiti per essere portati all’interno, non so se siano tutti arrivati… non so la fine che hanno fatto. Ho cercato di uno e purtroppo so che è morto ma credo sia morto in campo. Deve essere stata l’ultima spedizione che è partita da Bolzano verso l’interno perché poi sono state bombardate le linee ferroviarie e non ci sono stati più traslochi verso l’interno. Eravamo rimasti alla fine, era proprio in smobilitazione il campo, eravamo rimasti quattro italiani soli: io, Sommavilla che citavo prima; un giovane di Pavia, un certo Carlo che non ho più ritrovato, non ho più avuto notizie dopo la guerra e un certo Contiero di Bressanone che preparava il cibo ed era d’accordo con i tedeschi, faceva un po’ la spia, il controllore.Partiti gli ebrei, credo verso Natale o subito dopo Natale, avevamo capito che si metteva male anche per noi perché non si poteva sostenere un campo con quattro prigionieri, tenendoli lì a far cosa? Infatti ci avevano fatto capire che saremmo stati trasferiti nuovamente a Bolzano e di lì non si sa. Allora abbiamo pensato se si riusciva ad organizzare una fuga, ma solo noi tre, io, Sommavilla e questo ragazzo di Pavia, non il cuoco del quale non ci si fidava. Andando giù a caricare questo materiale alla stazione di Senales, abbiamo avuto modo di conoscere il capostazione che era italiano, di fede italiana, il quale aveva anche un po’ di compassione, pietà per noi ragazzi. Parlando assieme in qualche modo siamo riusciti a spiegarci e a fare in modo che lui avvisasse Belluno che avevamo intenzione di scappare perché si metteva male qua su. In quel momento ha funzionato l’organizzazione nel senso che mia sorella con il fidanzato sono venuti su da questo capostazione di Senales, con vestiti, con carte di identità false, con cibo e una bottiglia di cognac con del sonnifero che mia sorella si era fatta dare, o mia madre non ricordo, da un farmacista di Belluno che poi era venuto in campo insieme a noi. La farmacia funzionava ancora e sono riusciti a fregare il sonnifero, era una polvere quasi impalpabile bianca, ricordo.

Allora, i vestiti e tutto li ha tenuti il capostazione; noi in qualche modo ci siamo fatti dare questa bottiglia con il sonnifero e l’abbiamo portata su a Senales con la scusa che era il compleanno di Sommavilla e abbiamo offerto il cognac anche alle guardie, non alle SS perché questi dormivano non nella caserma ma in un albergo del paesetto, mi pare si chiamasse Croce Bianca l’albergo, ci sono due alberghi. Potrei dire l’episodio dell’albergo La Rosa dove invece c’erano due ragazze meravigliose che ci hanno anche aiutato quando Sommavilla stava male.

D: Dopo questa ce la racconti però.

R: Sì, questa posso raccontarvela perché poi è successo un episodio qualche anno fa, un paio d’anni fa anche difficile da raccontare ma emozionante per come è avvenuto.

Allora abbiamo inventato che era il compleanno di Sommavilla e abbiamo offerto da bere alle guardie che anche loro erano ragazzi giovani e hanno bevuto volentieri, solo che nelle cose che abbiamo offerto loro c’era il sonnifero che ha funzionato subito molto bene perché dopo un’ora dormivano tutti della grossa, tutti i soldati all’interno della caserma.

Quando abbiamo sentito che dormivano, perché russavano proprio, allora abbiamo deciso: “Qui, si scappa”. Abbiamo scavalcato la finestra di un bagno, abbiamo scavalcato il muro di cinta della caserma e siamo scesi giù per la valle. Avevamo dei ramponi, che ci erano stati forniti da mia sorella, perché c’era molto ghiaccio, era febbraio, c’era neve e ghiaccio, la località è a 1800 metri, mi pare. Era un freddo, freddo, ma devo dire che nonostante il freddo e io avessi solo un vestito di tela addosso, nient’altro, non ho avuto un raffreddore che fosse uno. Una volta il fisico reagiva bene, si mangiava poco, si lavorava come cani, senza vestiti, senza niente a queste temperature, non ho mai avuto niente. Solo Germano Sommavilla aveva preso una specie di bronchitaccia ma poi con l’aiuto di quelle sorelle che accennavo prima e che riprenderò, è guarito in poco tempo anche lui.

Tornando all’episodio della fuga, siamo scesi giù per la valle, sarà stato mezzanotte, l’una di notte, noi tre, io, Sommavilla e questo ragazzo di Pavia, in fila indiana siamo andati giù per la valle. Ad un certo punto del percorso è avvenuto un episodio un po’ strano, drammatico anche. Abbiamo incontrato, che salivano a piedi, dei militari tedeschi, erano dell’aviazione tedesca. Credo, che da quanto mi hanno detto dopo, che c’era un campo… una specie di rifugio per aviatori tedeschi, per riposare a Madonna che è un paese vicino a Certosa.

Erano in tre o quattro, loro venivano in su sulla loro destra contro la roccia, e noi eravamo sulla nostra destra sul ciglio dello strapiombo, perché è molto stretta e a strapiombo. Quando li abbiamo visti “Cosa facciamo?” io ero l’interprete ufficiale del campo, parlavo il tedesco e quando ci siamo incontrati è stato un momento di suspance perché ci hanno visto che avevamo ancora indosso i vestiti dei prigionieri e ci hanno detto “Gute Nacht”. Forse hanno capito che noi eravamo decisi un po’ a tutto, forse hanno avuto paura anche loro perché erano dei ragazzi, il fatto è che loro hanno proseguito, noi anche e appena passati noi ci siamo messi a correre come dei matti però loro non hanno avuto reazioni in quel momento.Così siamo arrivati giù a Senales dove siamo stati dal capostazione il quale ci ha rifocillato, ci ha dato dei vestiti diversi, ci ha dato i documenti e ci ha chiusi in un carro ferroviario. Con quello siamo partiti e siamo arrivati a Merano. Lì avevamo un punto di riferimento, una famiglia, i Pasi, che ci hanno accolto, avevamo l’indirizzo che ci aveva fornito mia sorella. Ci hanno accolto, ci hanno rifocillato, ci hanno dato una bicicletta e ci hanno indicato la strada per proseguire verso Bolzano, Belluno. Noi quindi siamo partiti e siamo arrivati oltre Bolzano, non mi ricordo mai il nome del paese sotto il passo del Campolongo….non mi ricordo mai il nome, eventualmente posso controllare e riferire.

Arrivati in questo paese siamo entrati in una trattoria, in un bar ed abbiamo trovato un gruppo di contrabbandieri, allora facevano contrabbando di sale e di tabacchi. Abbiamo cominciato a parlare “Dove andate?” “Andiamo a Pieve di Livinallongo” “Anche noi dobbiamo fare il passo del Campolongo, possiamo venire con voi perché non conosciamo la strada?” erano italiani. Loro ci hanno detto di sì, a condizione che portassimo anche noi una di quelle valigie piene di sale o di tabacchi. Noi abbiamo detto “Sì, volentieri” e abbiamo fatto di sera tardi, 9/10 di sera, tutto il passo del Campolongo e siamo arrivati a Pieve di Livinallongo. Lì siamo andati in un albergo, che abbiamo sbagliato tutto perché era una sede del comando Tedesco, l’Albergo Italia e lì abbiamo consegnato i documenti, questi li hanno guardati e hanno creduto che fossero validi, invece erano documenti falsi e ci hanno lasciato stare. Quindi abbiamo dormito e la mattina abbiamo preso una corriera, si chiamava allora, che faceva il servizio Pieve Livinallongo/Belluno e siamo arrivati a 7/8 Km da Belluno, dove ad una frazione del comune di Sedico, dove c’era un posto di blocco. Noi siamo riusciti proprio prima a far fermare il pullman dicendo che dovevamo scendere e siamo passati oltre il torrente e siamo andati nel convento dei frati che è un convento che c’è tuttora, i frati di Vedana. C’è un laghetto, c’è un bellissimo convento ma adesso non è più frequentato. Sembra che riprenda vita, ma non si sa, allora c’erano i frati domenicani.

Ci hanno accolto nel convento, nel frattempo siamo riusciti a far avvisare che eravamo lì, sono venuti con un mio vecchio compagno, si chiamava Bossi, poveretto è morto. É venuto con la macchina, ci ha caricato, facendo un giro largo ha evitato il posto di blocco, andando su per le frazioni e ci ha portato a Belluno. Naturalmente dimenticavo di dire che eravamo rimasti in due perché con il ragazzo di Pavia ci siamo separati a Merano, lui è andato verso la Lombardia e noi verso Belluno.

Arrivati a Belluno a casa mia non c’era più nessuno, la famiglia si era disgregata per necessità, non volontariamente. Mia madre era a Belluno, mio fratello da un’altra parte, mia sorella con la mamma e mio padre era in tutt’altre faccende. Verso Padova, anche lui è stato arrestato, è riuscito a fuggire e anche qui è successo un episodio che varrebbe la pena di raccontare.

Ci hanno rifocillato per sette/otto giorni in questa casa di amici che partecipavano al movimento della Resistenza, di Liberazione. Dopo di che ci siamo separati: Sommavilla è andato con il comando piazza a Belluno, si chiamava comando piazza, cioè un movimento partigiano e aveva giurisdizione nella città. Io invece sono andato con la bicicletta fino a Padova e da lì in Cansiglio dove mi sono aggregato alla Brigata Fratelli Bandiera della divisione partigiana Nannetti e sono stato lì fino alla Liberazione.

Lì ho avuto modo di rincontrare mio padre che nel frattempo era stato arrestato dai fascisti della Repubblica Sociale Banda Carità, famosa Banda Carità di Padova. Era riuscito a fuggire in maniera quanto meno rocambolesca con l’aiuto di mia madre ed era stato accolto nell’arcivescovado di Padova e poi con una macchina dell’arcivescovado portato su in cascina dove ci siamo incontrati, tutti e due fuggiti da due posti diversi quasi contemporaneamente e lì siamo stati assieme fino alla fine della guerra, alla Liberazione.

D: Ci racconti adesso quell’episodio di solidarietà delle due ragazze.

R: Lo racconto volentieri perché sul piano umano è stata veramente una cosa che può colpire, io sono sempre stato grato a queste due ragazze.

Erano due ragazze proprietarie dell’albergo La Rosa di Certosa, ci avevano aiutato perché quando il mio amico Sommavilla era stato male una delle due ragazze aveva avuto il coraggio di entrare nel campo, scavalcando le guardie, dicendo alle guardie che lei non portava niente ma sapeva che c’era un ammalato nell’interno. Ha portato dei medicinali, delle aspirine in modo che è guarito, una ragazza molto coraggiosa, devo dire la verità.

Questa ragazzo l’ho incontrata nuovamente dopo quaranta anni, sono stato ospite dell’Assessorato e Cultura di Bolzano e della RAI e siamo stati assieme a Certosa. Mentre la RAI cercava un posto per fare delle riprese e farmi un’intervista, aveva individuato un cortile, una casa che sembrava andasse bene e io mi sono messo là. Da questa casa è uscita una signora anziana che ha chiesto chi eravamo, è stato detto che era la RAI e che doveva fare un’intervista. Ci siamo guardati e lei mi ha riconosciuto, era una delle due sorelle che ci aveva aiutato. É stato veramente un fatto emozionante che, devo dire la verità, mi commuove tutt’ora. Perché ritrovare le persone conosciute in quelle situazioni è stata una cosa incredibile, ci siamo abbracciati fortemente, siamo stati assieme qualche ora e poi successivamente abbiamo avuto anche corrispondenza. Lei mi chiede sempre di andare a trovarla e io purtroppo non sono mai andato e mi riprometto sempre di andare, ma bisogna che mi decida di andare a trovare questa cara ragazza.

D: Quando tu poi sei rientrato e ti sei aggregato alla formazione partigiana Fratelli Bandiera, lì cosa avete fatto? Avete avuto modo di fare altre azioni?

R: Sì, perché ormai eravamo alla fine della guerra, perché io sono scappato dal campo di Certosa il 4 febbraio del ’45 quindi sono stato una decina di giorni a Belluno, eravamo già a marzo/aprile. Lì si era molto bene organizzati come corpo partigiano, dormivamo nelle tende, alle volte si scendeva nei paesi o per rifornimenti o per altri mansioni.

Quando le truppe alleate si sono avvicinate, sono arrivate su nel nord, siamo scesi a Vittorio Veneto per essere anche noi partecipi, o forse prima degli alleati, alla Liberazione di Vittorio Veneto e come divisione Nannetti, abbiamo liberato Vittorio Veneto. Dopo noi siamo risaliti e si doveva liberare Belluno, c’erano le truppe tedesche che ormai erano in ritirata disordinata, proprio abbandonando un po’ tutto, però reagendo delle volte in maniera molto crudele.

Siamo arrivati a Belluno, io sono entrato dopo le esperienze vissute, sono entrato a Belluno con un carro armato, per modo di dire, era un automezzo corazzato, con le ruote di gomma ma corazzato e sono arrivato in centro a Belluno con questo Tank con tanto di mitra a tracolla e divisa partigiana. Così è finito l’episodio della guerra.

D: Tu hai conosciuto il maggiore Tilman?

R: Sì, ho avuto modo di conoscere il maggiore Tilman della Missione Alleata perché lui era il coordinatore delle varie divisioni di varie estrazione politica, perché c’era Giustizia e Libertà, i Garibaldini… Uno dei suoi trasferimenti dalla zona del feltrino doveva venire in Cansiglio e una notte io sono stato fino alle 5 di mattina ad aspettarlo giù al ponte, si chiama ponte delle Schiette, e da lì è arrivato e l’abbiamo portato assieme ad un altro giovane che ricordo era sempre triste, è dovuto rientrare perché aveva tanta nostalgia di casa, malinconia, un giovane inglese. Invece il maggiore Tilman l’abbiamo portato su al comando della divisione, io ero semplice ragazzo garibaldino e quindi non partecipavo alle riunioni importanti.

D: Alle quali invece partecipava il babbo?

R: Alle quali partecipava mio padre che era allora il commissario politico della Brigata Fratelli Bandiera con il nome di Garibaldi.