Buttol don Raffaele

Don Buttol Raffaele

Nato il 09.05.1918 a Belluno

Intervista del: 09.08.2000 ad Agordo (BL) realizzata da
Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n. 68 – durata: 46′ circa

Arresto: inizio novembre 1944 a Vodo

Carcerazione: a Tai di Cadore (BL)

Deportazione: Bolzano

Liberazione: a Silandro

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Organizzazione materiali ed inserimento dati: Elisabetta Mascarello, Elena Pollastri

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sono don Raffaele Buttol, nato il 9 maggio 1918 ad Agordo, ordinato sacerdote nel 1943, mandato cappellano a Vodo di Cadore in novembre. Ho avuto una pleurite proprio in quell’anno e ci sono rimasto un anno; durante l’estate del 1944 sono cominciati i movimenti partigiani da quelle parti.

La scintilla è scoppiata con la morte di Bill, avvenuta in un rastrellamento da parte della Gestapo al rifugio Venezia.

I partigiani erano accampati sul Monte Rite, dove ora stanno trasformando il forte in museo di montagna.

Alcuni partigiani sono scesi, sapendo che c’era questo rastrellamento, incontro ai tedeschi.

Due sono scesi sul ponte sul Boite, dove il passaggio dei tedeschi era obbligatorio e con imprudenza si sono nascosti là per combattere.

Sennonché due tedeschi li hanno visti, hanno buttato una bomba, Bill è morto, Penna ferito ad una spalla è stato preso prigioniero, portato alle carceri di Belluno e si pensa che sia stato fucilato in quelle carceri.

Ho avuto un incontro con i tedeschi che portavano via Penna, i quali mi hanno detto che c’era un partigiano che aveva fatto kaputt.

Il giorno seguente, insieme ad un certo Pietro Talamini, fratello di Riccardo Talamini, chiamato Orso, nome di battaglia, si trovava sul Rite, abbiamo perlustrato il bosco alla ricerca della salma di Bill.

D: Raffaele, quando è avvenuto questo? Ti ricordi la data?

R: All’inizio di agosto del ’44. Siamo saliti fino al Monte Rite cercando la salma, ma non l’abbiamo trovata, siamo scesi.

La salma è stata ritrovata poi da un cacciatore, perché sentiva l’odore di corruzione. Da allora ho avuto continui contatti con i partigiani, dato che li abbiamo incontrati sul Rite. Ho avuto contatti anche con Gallo, il nome di battaglia era… mi scappa il nome.

D: Dopo lo recuperiamo.

R: Era comandante della Brigata Calvi. L’ho incontrato la prima volta in bicicletta e si è fermato a chiacchierare con me e mi ha chiesto se potevo conservare dei viveri per loro in canonica e li ho conservati. Questo perché un battaglione della Calvi si era trasferito proprio nella nostra zona, il battaglione Bepi Stris.

Il motivo perché si era trasferito lì era questo: il trenino di Cortina faceva servizio di trasporto d’armi; le armi arrivavano via Linz a Dobbiaco, da Dobbiaco caricavano sul trenino di Cortina – Calalzo. A Calalzo le trasportavano su quello di Padova e così le armi arrivavano al fronte.

Questo a causa di bombardamenti del Brennero, per cui c’era molta difficoltà a portare armi attraverso il Brennero.

Una missione di alleati aveva avvisato i partigiani che gli alleati avevano intenzione di bombardare la Valle del Boite per impedire che il trenino funzionasse.

Allora la Calvi promise che avrebbe trasferito nella Valle del Boite un battaglione per sabotaggi e così è stato.

E’ stato affidato questo compito al battaglione Bepi Stris ed allora ci sono stati diversi scontri.

Di notte i partigiani facevano saltare ponti, venivano minati e saltavano, finché i tedeschi stanchi di questo continuo sabotaggio avevano rastrellato truppe per l’Austria e portate fuori, hanno fatto un grande rastrellamento sui boschi dell’Antelào, da sopra San Vito, verso Vodo.

Sono stato avvisato del rastrellamento da un certo Signor Ragni, che era interprete della gendarmeria di San Vito, la quale gendarmeria si era collocata all’Alberto Malgora, dove questo signore era direttore. Avendo visto come mi trovavo, la mia situazione, quel signore mi ha avvisato del rastrellamento, pregandomi di dire ai partigiani di scappare e di non combattere, di nascondersi perché anche per un solo tedesco che fosse morto, avrebbero, per rappresaglia, bruciato Vinigo.

Non potevo muovermi perché era domenica ed ho mandato su sempre il fratello di Orso, Piero Talamini, il quale avvisava i partigiani; i partigiani sono scappati, si sono nascosti e non è successo nulla, è andato tutto liscio.

Qualcuno si è accorto del mio colloquio con un ragazzo che è arrivato in bicicletta e che mi ha avvisato della cosa e hanno denunciato me e sono stato arrestato ai primi di novembre del 1944.

D: Prima, ad ottobre, qualcuno aveva denunciato i tuoi rapporti con i partigiani?

R: Penso di sì, perché i tedeschi nell’interrogatorio mi hanno chiesto anche altre cose.

D: Ti hanno arrestato dove?

R: Mi hanno arrestato a Vodo. Sapendo di dover essere arrestato, perché avvisato, andai a Belluno e poi venni a casa mia; andavo a salutare i miei e ritornando a Calalzo ho incontrato una signorina che mi avvisava che i tedeschi mi cercavano, erano stati a Vodo per arrestarmi e non trovando me avevano portato via il parroco e la domestica.

Il parroco mi hanno detto che era sul trenino che ritornava a casa, rilasciato dopo un interrogatorio, e la domestica era ancora agli arresti. Sono salito sul trenino, sono arrivato a Peaio, una frazione prima di Vodo.

La mia intenzione era di tenermi nascosto, scappare per le montagne e ritornare ad Agordo.

Invece mi sono rifugiato la mattina presto in asilo, è arrivato il parroco per dire la messa in asilo, ci siamo incontrati, poi è ritornato in canonica, ha trovato i gendarmi che volevamo arrestarmi e lui ci è cascato: ingenuamente ha detto che ero in asilo ed ho dovuto presentarmi, di conseguenza; così è andata la cosa.

Mi hanno arrestato, mi hanno portato a Tai, là sono stato interrogato per tre ore, insistevano perché firmassi un verbale e mi sono rifiutato di firmarlo. Ad un certo momento ho buttato la penna sul tavolo, dicendo che mai mi sarei condannato da me firmando delle cose false e presi la porta per uscire: mi hanno lasciato andare.

D: A Tai dove ti hanno portato?

R: Nelle caserme, c’è una caserma, a Tai.

D: Da chi era gestita questa caserma?

R: Dalle SS penso in quel momento.

Avevano rastrellato anche tutto il Cadore, c’erano stati anche degli impiccati in Cadore in quel periodo ed addirittura avevano incominciato ad impiccare con il gancio anziché con il laccio, una cosa tremenda e pensavo che avrei fatto quella fine anch’io.

Quando sono uscito dall’interrogatorio, lungo il corridoio c’erano uomini armati da una parte e dall’altra con la baionetta in canna. Quando arrivai davanti alla mia cella volevo entrare, invece un soldato mi ha detto: “No, reverendo, venga con me”.

Mi ha accompagnato giù per le scale ed allora ho pensato che mi portassero sulla piazza d’armi per impiccarmi o per fucilarmi ormai, invece mi hanno portato, guarda che sorpresa, al cancello perché una donna mandata dal parroco di Pieve di Cadore ci portava da mangiare.

Dopo alcuni giorni ci hanno portato via, eravamo in diversi prigionieri, ognuno di noi aveva un angelo custode tedesco, con il trenino fino a Dobbiaco, e a Dobbiaco siamo scesi.

Nel frattempo è venuto un allarme aereo, sarebbe stata l’occasione buona per scappare, ma avevo sempre il mio angelo custode attaccato e quindi sono dovuto salire sul treno assieme agli altri e siamo arrivati a Bolzano.

Di notte ci hanno accompagnato al Corpo d’Armata e di lì immediatamente, senza neanche entrare, al campo di concentramento di Bolzano: lì sono rimasto per alcuni mesi.

D: Raffaele, quando sei entrato a Bolzano vi hanno spogliato e vi hanno immatricolati?

R: Subito in campo di concentramento. Abbiamo lasciato i nostri vestiti, ci hanno dato una tuta di canapa, color canapa mi sembra, con la croce di Sant’Andrea sulle spalle, il numero, il mio 6.447.

D: Assieme al numero vi hanno dato qualche altra cosa?

R: Il triangolo rosso, il segno della causa per cui eravamo dentro, politici.

D: In quanti eravate voi, nel tuo gruppo?

R: Partendo da Tai? Saremo stati una ventina penso, non ricordo il numero, ma una ventina sì.

D: Ti ricordi il nome di qualcuno?

R: No, non ricordo proprio, non ricordo più, mi dispiace.

D: C’erano anche delle donne in questo gruppo?

R: No, solo uomini.

D: Quando sei entrato a Bolzano in che blocco ti hanno messo, te lo ricordi?

R: Confinavo con il blocco delle donne, il D mi sembra. So che parlavamo anche con le donne attraverso i reticolati in alto, la parete che divideva.

D: Gli altri sapevano che tu eri un sacerdote?

R: In campo sì, mi sono subito manifestato come sacerdote e venivano anche a confessarsi, venivano anche a consolarsi, io cercavo di aiutare quanto più potevo.

Il lavoro però era faticoso, portare travi, era un lavoro veramente faticoso, si facevano le piaghe sulle spalle.

C’era un deposito di travi fuori del campo di concentramento, dovevano allargarlo, abbiamo portato via tutte quelle travi, dopo abbiamo preparato i plinti in cemento armato alti meno di un metro, per porci sopra altre baracche ed allargare il campo.

Una curiosità: un giorno, mentre lavoravo a fare i plinti fuori del campo di concentramento, vedo una donna fuori dai reticolati: era mia sorella.

Allora ho detto ai miei compagni: “Là c’è mia sorella, fuori!” “Prenditi un piccone, vai su vicino”, mi hanno detto.

Ho preso un piccone, ho cominciato un buco, ma mia sorella come mi ha visto mi ha riconosciuto e si è messa a gridare il mio nome ed una guardia sulla garitta ha cominciato a gridare, urlare e puntare il fucile, per cui io sono scappato e mia sorella ha dovuto allontanarsi.

Ero stanco per le fatiche; i lavori di fatica erano affidati sempre a chi aveva un titolo di studio, a chi non aveva un mestiere pratico: medici, maestri, laureati ed anche preti.

Un giorno mi lamentavo del lavoro, della fatica che facevo con un tizio incontrato prima della conta sul campo aperto: mi ha chiesto chi ero ed ho detto: “Sono un prete della diocesi di Belluno e faccio veramente fatica a fare certi lavori”.

Allora lui, veramente buono, era un emiliano, mi ha detto: “Guardi, sono responsabile dei falegnami in campo, chiederò un altro falegname perché ne ho veramente bisogno. Quando il comandante chiede se c’è un falegname tra voi, tu alza immediatamente la mano, senza esitare.” Così ho fatto ed il giorno seguente o la sera seguente, non so, mi hanno chiamato fuori e sono andato a lavorare in falegnameria.

D: Dov’era la falegnameria?

R: Dentro nel campo.

D: Quindi non uscivate dal campo.

R: No, preparavamo le baracche per l’allargamento del campo.

Mi hanno dato una tavola da piallare, la pialla si piantava come una zappa nel campo e non andava avanti, allora si sono messi tutti a ridere. Erano tutti emiliani in quell’ambiente. Allora mi hanno detto: “Tu non sei mica falegname!” “No” dico “Qual è il tuo mestiere?” “Indovina!” Hanno cominciato a chiedermi i mestieri, poi i titoli, lauree niente.

“Insomma che cosa sei tu?” “Prete” ho detto. Da quel giorno mi hanno dato sempre del Lei, gli emiliani.

D: Raffaele, mentre trasportavate i pali lo facevi assieme ad altri deportati?

R: Sì, c’erano questi due di Lentate sul Seveso, sono poi venuti a trovarmi qui ad Agordo. I Parisio, due fratelli.

D: Nel campo c’erano altri sacerdoti?

R: C’era un certo don Andrea Gaggero, che era chiuso nelle celle perché aveva fatto il damerino della mensa degli ufficiali. Una volta entrando gli avevano affidato denari, non so chi, da portar dentro per i deportati genovesi, glieli hanno trovati addosso e quindi lo hanno chiuso in cella e castigato per diverso tempo.

A quello, sapendo che c’era, ho passato una Divina Commedia, un Dantino piccolo, formato tascabile, perché si passasse il tempo, anzi mi hanno permesso di entrare a vederlo, una guardia. La guardia delle celle era un altoatesino, era un buon individuo, portava dentro anche sigarette se gliele davano.

In cella, fra l’altro, c’era anche il segretario comunale di Vodo di Cadore, Filippi Antonio, incarcerato perché non aveva testimoniato contro di me.

Quel Dantino è rimasto in cella, lo so perché dopoguerra ho letto un giornalino femminile ed una deportata raccontava del campo di concentramento di Bolzano e di aver avuto tra le mani, nelle celle, perfino un Dantino, con grande meraviglia sua: come aveva fatto ad entrare quella Divina Commedia? Era il mio io penso, senz’altro.

D: Raffaele, ti ricordi di un medico all’interno del campo?

R: Lo ricordo sì. Sono andato da lui perché ero pieno di macchie rosse attorno alla cintura; siccome c’era la scabbia in campo pensavo di avere anch’io la scabbia.

Sono andato da lui, mi ha guardato e mi ha dato uno schiaffo sulla pancia, dicendo: questi sono pidocchi, non scabbia.

D: E’ stato quel medico che è stato colpito, che ha subìto dei maltrattamenti?

R: Non ricordo, mi sfugge.

D: Anche un falegname…

R: Un falegname sì, l’ho visto. Un falegname aveva lavorato nel blocco delle donne; finito il lavoro percorreva il corridoio di reti con la scala sulle spalle e un martello nel taschino. Ad un certo momento si è fermato perché il corridoio era chiuso da dei sottufficiali che ascoltavano il maresciallo, lui parlava.

Si era fermato a distanza, uno di questi sottufficiali ha fatto un passo avanti per lasciarlo passare, lui, credendo che fosse l’invito a passare si è mosso, sennonché il maresciallo pensando che avesse scomodato quegli ufficiali, è andato lì, ha levato il martello dal taschino e gli ha dato un colpo in testa.

Dopodiché io non lo incontrai più quel falegname, non lo vidi più.

C’erano delle avventure in campo di concentramento.

D: Non ti ricordi il nome di questo?

R: No, non lo sapevo, non l’ho mai saputo neanche.

D: Adesso ti dico un nome che ti ricorderai. In campo c’era anche un maestro, il maestro Palmeri.

R: Quello lo ricordo, faceva il facchino del carro, e un giorno mi ha avvisato: “Guarda don Raffaele che domani ho un incontro con mia moglie in un magazzino, incontro progettato da un magazziniere, se hai bisogno di qualcosa”. Allora ho preparato una lettera per il mio vescovo, gliel’ho data, se l’è messa nelle scarpe, nel magazzino ha finto di doversi allacciare la scarpa, l’ha levata e l’ha consegnata alla moglie e quella lettera è arrivata al mio vescovo.

In quella lettera io dicevo al vescovo che ero stato processato, ma non avevano testimonianze contro di me, anzi, mi ero rifiutato anche di firmare il verbale. Per cui il vescovo ha avuto la lettera ed è intervenuto. Si è incontrato con il Dott. Sailer, presidente del Tribunale Speciale di Bolzano ed hanno progettato di levarmi dal campo di concentramento e trasferirmi ancora alle carceri giudiziarie di Bolzano per rivedere il processo.

Al vescovo, me lo ha detto il vescovo quando uscii, ha detto che avrebbero rivisto la causa, ma se mi trovavano colpevole avrei avuto la fucilazione come minimo, fucilazione al petto anziché alla schiena.

Ma la cosa è andata liscia, nessuno più testimoniava perché la guerra andava male per i tedeschi. Tutti avevano paura a parlare e così riaperta l’istruttoria in Cadore non sono venuti a capo di niente, anzi il Tribunale Speciale aveva preparato il foglio di scarcerazione, era venuto Sailer, assieme a Hölzl, in carcere a dirmi che avevano preparato il foglio, ma le SS lo avevano cestinato.

Nel frattempo hanno detto che avrebbero pensato a qualcos’altro per farmi andare a casa, ma nel frattempo mi avrebbero mandato nelle carceri giudiziarie, nelle carceri mandamentali di Silandro.

Difatti una sera è venuto un gendarme che mi ha preso perché doveva trasferirmi a Silandro ed ho fatto il viaggio con lui.

D: Hai parlato più volte del vescovo, del tuo vescovo, ma chi era?

R: Monsignor Maffeo Ducoli, un eroe. Mi commuovo quando parlo di lui. Un eroe anche della Resistenza, davvero, sotto tutti gli aspetti, ha sempre difeso le popolazioni, ha parlato forte contro gli occupanti e ha difeso quanta più gente poteva. E’ stato anche lui sequestrato per lavoro lungo una strada tra Belluno e Feltre.

E’ stato sequestrato anche a Feltre e portato dentro nel piazzale della fabbrica dell’alluminio e poi è stato rilasciato, ma sulla strada ha dovuto lavorare anche lui una volta, assieme agli altri fermati.

Poi è merito suo una cosa che resta in memoria di tutti i bellunesi: a Belluno hanno impiccato quattro partigiani che erano in carcere, è stata una rappresaglia e lui, saputo questo, si è presentato in piazza, sfidando anche l’ira dei gendarmi e di chi era lì.

Si è fatta portare una scala ed è salito, ha dato l’olio santo a tutti quanti quei quattro.

D: Scusa Raffaele, come si chiamava il vescovo?

R: Maffeo Ducoli.

D: Non c’entra con Bortignon?

R: Scusi, sbagliavo io! E’ Bortignon. Bortignon, era amministratore apostolico della diocesi di Belluno, poi è stato trasferito con grande nostro dispiacere a Padova ed è morto a Padova. Come si fa a correggere ora?

D: Non c’è problema, è corretto. Quindi il tuo vescovo era Bortignon, ed è venuto anche nel campo.

R: Io ero già fuori dal campo, forse ero in carcere, so che è andato in campo ed ha detto anche una messa in campo di concentramento.

D: Aveva portato anche dei generi alimentari.

R: Sì, certo. Ha sfidato le ire dei tedeschi; ha scritto una lettera a Franz Hofer, ferrata, chiusa, forte, in difesa delle sue popolazioni.

D: Nelle carceri di Silandro quando ti hanno portato? Ti ricordi?

R: Ai primi di marzo, ma sono rimasto pochi giorni a Silandro, 17 giorni. Là ho incontrato gente che avevo conosciuto nelle cantine delle carceri di Bolzano, dove si scendeva durante gli allarmi per i bombardamenti aerei. Cioè Gino Lubich e Giorgio Tosi. Gino Lubich l’ho rivisto. Arrivati a Silandro mi hanno assegnato una cella, mi hanno dato il necessario per fare il letto, mi hanno chiuso dentro. Fatto il letto, avevo tracciato una croce sulla parete di calce e mentre ero inginocchiato che pregavo, aprono la cella ed entrano Gino Lubich e Giorgio Tosi: sono rimasto quanto mai contento e soddisfatto di incontrarli.

Ora Gino Lubich l’ho incontrato ancora a Roma, è fratello di Chiara Lubich, la fondatrice dei Focolarini. L’ho incontrato alla redazione di Città Nuova e Giorgio Tosi ha comprato una casa qui nella nostra valle di San Lucano e viene in villeggiatura in Valle di San Lucano.

Una casa vicino alla chiesa di San Lucano, vedesse che posto.

D: Raffaele, tu eri nel campo di Bolzano, ti hanno prelevato dal campo di Bolzano e portato in carcere a Bolzano e lì hai avuto un incontro….

R: Con questi due nelle cantine, durante i bombardamenti.

D: Anche un incontro con SS? Non hai avuto un incontro, un interrogatorio?

R: Sì, con il Dott. Hölzl. All’inizio si mostrava molto severo, mi ha chiesto: “Tu sei il tal dei tali? Sei nato in questo luogo? Tu hai avuto relazioni con i partigiani, sì e quali?” “Amministravo dei sacramenti, sepolto morti” “Ma ti sei interessato anche per altro?” “No”, ho detto io. Allora come una vipera mi ha sgridato ed ha detto che ritornassi in carcere, che ci ripensassi, se non volevo rimanere in carcere a vita. Allora dentro di me mi sono detto: “Se tu mi tieni in carcere a vita sono ben contento, se parlavi di impiccarmi avevo paura .. ma così…”

In seguito ha cambiato tono, forse si era incontrato con il Dott. Sailer ed ha cambiato anche tono, più remissivo, più buono direi.

D: Lì c’è stato l’interessamento anche del Comitato di Liberazione?

R: Penso di sì, perché la moglie del Segretario di Vodo, Antonio Filippi, è andata al Tribunale Speciale a chiedere informazioni di suo marito ed è stata trattata male, male e male, probabilmente era andato da Dott. Hölzl. Uscita, si è appoggiata ad un ippocastano del viale a piangere. E’ passato di lì un signore che vedendola piangere l’ha interrogata, ha detto il motivo e le ha detto: “Stia tranquilla, signora, pensiamo noi a quel tizio, vedrà che cambierà tono”. E così è stato.

D: Dalle carceri di Bolzano…

R: Dalle carceri di Bolzano sono andato a Silandro e lui, invece, qualche giorno prima è stato lasciato libero, per fortuna sua, perché è ritornato a casa con il tifo addosso ed è stato ricoverato a Belluno e per fortuna in tempo, sennò guai.

D: A Silandro c’erano altri religiosi?

R: Quattro preti, altoatesini tutti e quattro. Non ricordo i nomi, ma buoni, buoni religiosi, celebravo con loro la messa alla mattina, mangiavo con loro perché i frati del convento portavano dentro loro il vitto per noi. Il primo giorno che ho mangiato con loro non mi saziavo più. Hanno portato dentro delle palle grosse così, i canederli, mi sentivo pieno fin qua ed ancora ne avrei mangiate se avessi potuto; si era risvegliata la fame, perché ad un certo momento a Bolzano non si sentiva neppure più la fame. Si perde anche quella.

D: Oltre a questi quattro sacerdoti, a Silandro c’erano altri prigionieri?

R: Sì, delinquenti comuni ma di passaggio più che altro, ho conosciuto un tizio che mi ha parlato di un certo Stradelli, che era stato incarcerato con lui.

D: Erano sacerdoti tedeschi?

R: Sì, uno poi aveva 97 anni. E’ stato condannato a morte prima, per una stupidaggine direi.

Dopo Natale aveva disfatto il presepio nella sua chiesa, però l’hanno chiamato nel frattempo non so dove ed ha lasciato lì il bue e l’asinello, era di sabato. La domenica seguente entra in chiesa un signore e gli chiede come mai sono rimasti soltanto il bue e l’asinello sul presepio e dice: “Vogliono rimanere loro due soli al mondo, lasciali”. “Ma chi?” “Hitler e Mussolini!”, ha detto lui.

Per questo motivo è stato arrestato e condannato a morte per lesa maestà e lui si è messo a ridere, dicendo: “Ormai tanto non mi rubate, ho 97 anni!”

Ma poi è scoppiato a ridere quando ha sentito che la sua condanna veniva commutata in diciotto anni di carcere. Si è messo a ridere dicendo: “Voi volete regalarmi vita, ma dovete fare i conti con il Padre Eterno!”

D: Le guardie a Silandro chi erano?

R: C’era un custode, un certo Giuseppe Semola, mi sembra si chiamasse, o Segala, con la famiglia che custodiva il carcere, non c’erano altri.

C’erano i gendarmi sulla caserma, tanto è vero che si poteva uscire nel giardino della prefettura e un giorno sono salito su per il colle a spidocchiarmi un po’, per pulirmi. Parlavo sempre con Gino Lubich più che con Giorgio Tosi dell’esistenza di Dio, perché si diceva ateo, ma non era ateo, era alla ricerca io penso e con Giorgio Tosi abbiamo discusso dell’autenticità del Pentateuco. Aveva ragione lui, aveva studiato un testo di un certo cardinale Beha, il quale insisteva che l’autore del Pentateuco era Mosè e che le differenze di stile erano dovute a periodi diversi e luoghi diversi dove aveva scritto.

In realtà oggi gli esegeti dicono che è di autori diversi, però la fonte sì è Mosè, poi gli altri hanno redatto i testi. Aveva ragione lui quindi, questo è Giorgio Tosi.

D: A Silandro sei stato interrogato?

R: No, in santa pace, anzi…

D: Fino alla Liberazione.

R: Sì, è arrivata subito su una sera mia sorella e dice: “Sono venuta a vedere se sei ancora qui. Devi scendere a Bolzano per firmare un contratto di scambio di prigionieri”, è venuta mia sorella a dirmelo, quella che mi portava i viveri a Bolzano, ma io dico: “Mi sembra impossibile la storia!” Invece è arrivato un gendarme la sera mi ha preso e mi ha portato a Bolzano. Siamo arrivati alla sera al Tribunale Speciale e ci siamo incontrati con altri quattro, un certo Armando Osta di Comelico, che era già condannato a morte, l’avevo conosciuto nelle celle dei condannati, perché andavo con il cappellano, don Giovanni, mi sfugge il nome, cappellano delle carceri di Bolzano, portava la comunione tutte le mattine e l’accompagnavo in quella cella a portare la comunione ai condannati a morte.

C’era lui dunque liberato, una signora di Seren del Grappa e due ragazzi di Fonzaso; ricordo il cognome di uno, Balestra, ma dell’altro non ricordo niente, e siamo usciti tutti assieme.

Io ho firmato. Don Mario Martinelli che era dell’ufficio prepositurale ci ha offerto la cena; quella sera abbiamo fatto festa e poi il giorno dopo siamo partiti per tornare a casa. Un mese prima che finisse la guerra.

D: Tu cosa hai firmato?

R: Il contratto di scambio. Io purtroppo ho dato i miei documenti a chi ha stampato questo libretto e me li hanno persi. Eccolo qua, il contratto è qui. E’ un contratto di scambio: per sei gendarmi il Tribunale liberava cinque politici.

Mi sembra che tra questi sei gendarmi ci fosse un alto ufficiale, è per quello che hanno accettato lo scambio. Per la prima volta, io penso: forse è il primo contratto di scambio che combinano con i partigiani di Belluno. Il contratto dice: Scambio di prigionieri tra il Tribunale Speciale e il Corpo Volontari della Libertà della provincia di Belluno. Forse è la prima volta che danno un riconoscimento ufficiale ed anche l’ultima penso, perché ormai la guerra finiva.

D: La tua lettera al vescovo è stata conservata?

R: Sarà stata conservata dal vescovo penso, io non ho copia.

D: Il maestro Palmeri dove si incontrava con sua moglie?

R: In un magazzino.

D: Di scarpe forse?

R: Non lo so, è entrato, non credo di scarpe, perché andava fuori per i generi alimentari del campo di concentramento, faceva il facchino di quel carro. Dunque il magazziniere ha dato l’appuntamento alla moglie; lui, entrando nel magazzino ha finto di doversi allacciare le scarpe ed intanto parlava, la signora era vestita da commessa e così potevano scambiare qualche parola, così è stato.

Bravo quel Palmeri, non so come mai non è rimasto a Feltre, è ritornato in Italia meridionale.

D: Ti ricordi come nel campo di Bolzano facevate l’appello?

R: Sì, eravamo tutti in squadra, a graticola, mi sembra dieci per dieci, se mancava uno si vedeva subito il suo posto, perché tutti avevamo il nostro posto fisso: il compagno di fianco, quello davanti, quello dietro, tutto fisso, quindi era facile notare se uno mancava: lo si vedeva subito.

D: Quante volte al giorno veniva fatto l’appello?

R: Al mattino ed alla sera. Alla mattina prima che partissero quelli che lavoravano nella galleria della Lancia ed alla sera. Era triste quando c’erano le partenze, quando facevano l’appello di chi doveva partire per la Germania al mattino: partivano alle volte le mogli con i bambini ed il marito era alla Lancia a lavorare, alla sera, quando ritornava non trovava più la moglie, una desolazione era.

Poi erano tremendi anche contro le donne, i tedeschi. Era di partenza una spedizione per la Germania e non essendo partiti immediatamente per colpa dei bombardamenti hanno dovuti trattenerli in un blocco vicino alle donne, già scaricati dal campo di concentramento. Le donne avevano passato i viveri per il viaggio, consumati tutti i viveri, non avevano più niente da mangiare le donne, una sera hanno passato i loro viveri e per questo motivo sono state castigate, una giornata intera in piedi all’aria, fuori. Cadevano e dovevano rimanere a terra così come cadevano, fino a sera.

D: Hai parlato di donne ed hai accennato a dei bambini. Ti ricordi dei bambini nel campo?

R: Sì, erano sempre con le donne e li ricordo, poverini, ma loro avevano la mamma ed erano abbastanza tranquilli, ma le mamme! Per loro erano spine.

D: Gli appelli per la partenza per la Germania erano diversi dall’appello del mattino o della sera del campo?

R: Mattina e sera ci contavano solo, non facevano l’appello, ci contavano quanti eravamo nella graticola per così dire, in squadra, invece per la partenza in Germania chiamavano i numeri. Erano momenti di tremore quelli, avevamo tutti paura.

D: Tu hai visto tuoi amici partire?

R: No, amici si diventava lì in campo. Il 31 dicembre del ’44 abbiamo fatto un po’ di festa fino a mezzanotte, gridato, urlato, anch’io ho recitato preghiere con gli altri, tre rosari in gruppi diversi, poi a mezzanotte si sono quietati tutti quanti, sennonché un ragazzo era usciti in piedi su una cassetta, la cassetta della legna e stando lì in piedi raccontava barzellette ai suoi amici attorno. Io fingevo di non sentire, dormivo là vicino, ma ad un certo momento ho cominciato a ribollire, perché erano tutte barzellette sudicie e sono sceso dal mio castello al quarto piano, ed ho detto: “Per favore raccontate barzellette belle che possa ascoltare anch’io invece di queste cose sporche”.

E’ saltato un capocellula dell’Emilia, tutto ansimante e mi ha detto: “Reverendo, lasci che si divertano, cosa interessa a lei?” “Io non volevo mica disturbali, volevo soltanto che cambiassero barzellette per sentirle anch’io” e cercavo di ragionare con questo tale.

Un avvocato di Biella che dormiva vicino a me ha detto questa frase: “Reverendo, nolite abicere margaritas ante porcos, vuol dire non butti pietre preziose ai porci”, è una frase del Vangelo. Allora questo capoccia è andato a discutere con lui, ma lui non ha risposto, ha adagiato la testa, ha lasciato che l’altro gridasse e non ha risposto per niente ed anch’io ho potuto adagiarmi.

Alcuni giorno dopo quei ragazzi, incominciando da quello che raccontava barzellette, hanno chiesto di confessarsi da me, li ho confessati tutti ed il giorno dopo, alla conta, li hanno chiamati fuori in partenza per la Germania. Guardi la provvidenza come lavora.

D: Tornando un passo indietro: in questa zona ci sono state delle azioni repressive, paesi bruciati?

R: Caviola e Voltago. Due paesi bruciati. Voltago dista quattro chilometri da Agordo e Caviola quindici.

D: Perché sono stati bruciati?

R: A Caviola è arrivato un battaglione tedesco, non so quanti ed i partigiani hanno cercato di resistere in fondo alla valle di Canale d’Agordo e poi hanno distrutto quel paese, dimentico i nomi. Poi hanno combattuto la sera i partigiani. Questi tedeschi sono scesi dalla valle, hanno fatto il Passo San Pellegrino mi sembra, sono scesi a Canale d’Agordo, hanno bruciato il primo paese, il paesino, poi sono usciti per la vallata e poi, arrivati verso Falcade hanno trovato la resistenza da parte di partigiani, c’è stato un combattimento forte ed i tedeschi hanno bruciato Caviola, proprio per rappresaglia.

D: Gli abitanti di questo paese li hanno fatti evacuare?

R: No, erano tutti là. Hanno assistito all’incendio. Hanno dovuto ricostruire tutto nel dopoguerra. E’ una cosa triste.

A Voltago è successo pressappoco la stessa cosa: sono arrivati i tedeschi in rappresaglia, avevano preso prigioniero un partigiano, non so come, hanno voluto che questo partigiano indicasse le case dei partigiani, l’hanno portato avanti, non so se abbia indicato le case dei partigiani, fatto sta che hanno bruciato tante case ed un ragazzo di Voltago, uno studente, scendeva ad un villaggio per prendere il latte per la sua famiglia, ha visto i tedeschi che arrivavano con questo partigiano, è corso in paese a gridare “I tedeschi, i tedeschi!”.

In paese c’erano già tedeschi che l’hanno preso, Loris Scussel si chiamava il ragazzo, il nome del partigiano invece non lo ricordo; sono stati uccisi ambedue, il partigiano impiccato e questo ragazzo fucilato, sedici anni il ragazzo, ed hanno bruciato molte case del paese.

In campo di concentramento ho incontrato un sacerdote, don Vittorio Tiscornia, di Chiavari, il quale celebrava la messa la domenica, quando permettevano che fosse celebrata. Come facesse ad avere vino e particole io non lo so, ma certamente la domenica quando diceva messa distribuiva anche la comunione e conservava alcune particole per la settimana e quando volevo fare la comunione andavo da lui al mattino presto, prima della conta e mi dava la comunione.

Questo sacerdote era stato deportato perché quando ha avuto la primizia dell’olio, anziché conferire l’olio all’ammasso, l’ha distribuito ai poveri della sua parrocchia.

D: Bellissima questa cosa: è rimasto nel campo?

R: E’ rimasto nel campo fino alla fine.

D: Ti ricordi in che blocco era? Nel tuo blocco?

R: Mi sembra che fosse il blocco B.

D: Il numero non te lo ricordi?

R: No.

D: La messa dove la facevate?

R: Sul campo, all’aperto. Potevano venire da qualsiasi blocco, non potevano entrare naturalmente quelli delle celle, chiusi in cella, quelli no, per forza, ma gli altri potevano venire tutti.

D: Quindi all’aperto.

R: Sì, all’aperto. Non tutte le domeniche era permesso, se succedeva qualcosa in campo contro la disciplina o altro allora non permettevano più la messa, altrimenti sì.

D: Questo da quando è iniziato, te lo ricordi?

R: Quando sono entrato in campo io. Mi ricordo che a Natale un gruppo di deportati altoatesini hanno cantato Stille Nacht e tutti i loro canti tradizionali dell’Alto Adige; hanno commosso la gente, davvero.

D: Quindi c’era anche il coro?

R: C’era il coro, tutti altoatesini.