Camangi Silvio

Silvio Camangi

Nato il 16.04.1924 a Parma

Intervista del: 08.04.2003 a Parma realizzata da
Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n. 178 – durata: 35′ circa

Arresto: dicembre 1944 a Specchio (PR) durante rastrellamento

Carcerazione: sede SD a Parma, carcere San Francesco a Parma

Deportazione: Bolzano

Liberazione: il 30 aprile 1945 a Bolzano

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Organizzazione materiali ed inserimento dati: Elisabetta Mascarello, Elena Pollastri

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Io mi chiamo Silvio Camangi, nome di battaglia Giuliano. Sono andato in montagna il 29 di giugno 1944.

D: Quando sei nato, Silvio?

R: Sono nato a Parma il 16 aprile del 1924. Dapprima sono stato a Bardi, poi sono andato nel distaccamento Pellizza, che operava nella zona di Varano Marchesi. Lì rimasi fino al rastrellamento.

Anzitutto, prima c’è stato il rastrellamento di luglio. Durante il rastrellamento di luglio io riuscii da Bardi a venire qui in città a Parma. Nella stessa giornata andai poi a Pieve di Cusignano, dove c’erano sfollati i miei genitori.

Dopo andai nel distaccamento sempre nostro del Pellizza. Ad un bel momento dopo una bella attività con il distaccamento, abbiamo fatto saltare un ponte ferroviario, poi altri attacchi alla polveriera di Noceto, poi a Noceto stesso c’è stato uno scontro con la Brigata Nera nel quale nessuno è stato ferito dei nostri.

Però erano rimasti uccisi tre della Brigata Nera e feriti altri. Poi ci fu la cattura da parte della Brigata Nera di tre partigiani, che furono poi fucilati nei pressi di Noceto sempre nel settembre del ’44.

Poi venne purtroppo il rastrellamento del dicembre. Quindi i reparti dei bersaglieri attaccarono, noi resistemmo due giorni. Poi ci siamo dovuti sganciare, cioè ritirare, verso Pellegrino Parmense, in quanto venivano alle spalle nostre dei reparti dei tedeschi.

A Pellegrino rimanemmo due o tre giorni e anche lì ci furono dei combattimenti, ma erano combattimenti sparsi, non era una cosa unitaria d’attacco. Poi noi ci sganciammo di nuovo con un gruppo di sette, otto, dieci partigiani. Andammo verso Specchio, nel comune di Solignano. Attraversammo il Ceno con tanto d’acqua. Eravamo bell’asciutti.

Quando arrivammo poi a Specchio, arrivammo verso le tre del pomeriggio, ci portammo in una frazioncina distante da Specchio un chilometro o due. Specchio, non so se l’ho precisato prima, è sempre nel comune di Solignano.

Lì rimanemmo fino alle quattro, quattro e un quarto del pomeriggio, cinque massimo. Abbiamo visto in lontananza dall’altra parte della vallata un reparto di tedeschi che si inoltravano verso…allora la chiamavano la Foppla, una località. E’ quasi alla foce del Pezzola, torrente Pezzola.

Quando vedemmo questa colonna a nessuno è venuto in mente di dire: “Andiamo alle spalle e lì noi siamo già fuori dalla cerchia”, niente. Avevamo nel gruppo anche gente che aveva fatto la Russia, con certe esperienze.

Tornammo ai Filippi, che è un’altra frazioncina di Specchio. Lì ai Filippi cos’è successo? E’ successo che un nostro amico, anzi due, il povero Spiga e un certo Tedeschi, tenente, scendono ancora verso la valle. Gli altri si inoltrano verso Specchio, io corro alla ricerca dei due e mi trovo un mitra nello stomaco, bel preciso.

Era un reparto d’alpini tedeschi, una compagnia d’alpini tedeschi. C’è scappato anche il morto, perché quello che mi ha fermato ha visto il mio amico, un certo Zucchero, Zucchero si chiamava, il nome di battaglia, un certo Reggiani Antonio, che ha cercato di scappare.

Lui lo ha preso subito di mira e l’ha fatto fuori immediatamente. Nel frattempo gli altri, perché io poi mi ero girato e ho urlato: “I tedeschi”, gli altri sono spariti. Sono riusciti a scappare, ma non tutti, quindi dieci di noi sono stati catturati. Fra i quali anche i due famosi che erano andati verso la valle.

Ci portarono in casa di un certo signor Ruffini, che ricordiamo sempre con molto affetto. Questo signor Ruffini aveva due figlie, una delle quali sapeva molto bene il tedesco. In questa villa ci portarono a contatto col comandante della compagnia, il quale prese i nominativi, tutto quanto.

Poi venne il prete di Specchio, don Caramatti, il quale incominciò da quelli che erano in borghese a dire: “No, questo non è un partigiano, questo è un mio parrocchiano. Questo è un altro mio parrocchiano, questo…”. E ne ha tirati via diversi.

Quando è arrivato davanti a me, siccome io avevo un vestito mimetizzato, giacca, pantaloni, tutto completo, berretto, mi dice: “Bel ragazzo, non posso fare niente io per te”. “Reverendo, come si fa?”.

Dopo ci portarono nel solaio e al mattino ci dovevano fucilare. Anzi, dimentico proprio un particolare molto importante: quando ci catturarono, per andare a Specchio c’era una carraia che faceva una curva. Nella curva c’era un muro.

Ci misero tutti quanti contro questo muro bell’e pronti come il plotone d’esecuzione, quando avvenne una discussione tra il maresciallo che ci voleva fucilare e il capitano. Sicché il capitano disse: “No, domani mattina, domani mattina” e ci portarono in casa di questo Ruffini.

Lì pernottammo e il giorno dopo invece… Siamo ancora qui. Praticamente non ci fucilarono né ci impiccarono. Ci portarono poi a piedi da Specchio, Forlignano, Fornovo, Pontremoli, poi abbiamo fatto tutta la Cisa. Ci abbiamo impiegato tre o quattro giorni perché a Fornovo ci siamo fermati, abbiamo pernottato lì due o tre notti.

Finalmente arrivammo a Pontremoli. Dopo Pontremoli ci hanno portato a Parma con dei camion e ci portarono direttamente alla SD del viale, nello stradone di fianco al “Petitot”. C’era la sede della SD, c’era il comando tedesco. C’era quel comandante, quel capitano Albert, come si chiamava adesso non mi ricordo, il quale ci ha interrogati tutti quanti, poi uno alla volta separatamente, messi in locali separati.

Io fui richiamato di sopra due volte, perché la mia versione non concordava con quella di un altro, perché io avevo detto che il comandante di distaccamento era un napoletano, invece lui aveva detto che era romano. E’ andata liscia.

Poi ci portarono in San Francesco, in San Francesco siamo rimasti una decina di giorni buoni e da San Francesco una bella sera ci hanno prelevato tutti quanti e ci hanno portato a Verona.

D: Scusami un secondo, lì a San Francesco le guardie erano italiane o tedesche?

R: Le guardie italiane, però con anche SS tedesche. Erano dei sorvegliati, le guardie carcerarie…

D: L’amministrazione però era tedesca?

R: Sì, senz’altro.

D: Dicevi questa cosa prima, che ti hanno portato nella sede della SD.

R: Sì.

D: Quindi qui a Parma c’era la SS e la SD?

R: Sì. La SS dipendeva dalla SD.

D: Ma qui a Parma c’era un insediamento…

R: Sì.

D: Ascolta, qui a Parma rispetto alla RSI c’era anche lì la casa del fascio?

R: C’era ancora la casa del fascio. La casa del fascio era in Piazza Garibaldi. Poi c’era la prefettura che era in mano ai repubblichini.

D: Quindi c’erano questi distaccamenti?

R: Sì.

D: Allora, ti prendono e ti portano a Verona.

R: A Verona c’è stato il battesimo, però io mi nascondevo sempre dietro gli altri, come faceva Walter, sicché li ho schivati. A Verona ho il ricordo di quel famoso partigiano che era vestito all’inglese e quello delle SS italiano gli ha detto: “Come mai tu porti la divisa dei nemici della tua patria?”.

Gli ha risposto: “E tu sei vestito da tedesco, quindi siamo tutti e due…”. Allora cos’è successo? E’ successo che gli ha dato un pezzo di legno addosso; in fondo all’asse di legno, c’erano due o tre chiodi e l’ha preso di striscio.

Lui non ha detto niente. Ad un bel momento gli ha detto: “Tu sei il tale, non so, Rossi Amilcare, abiti ad Ancona al numero tot, 36 tanto per dire”. E’ rimasto esterrefatto. Questo era un suo vicino di casa, con tanto di barba e non l’ha riconosciuto.

Allora l’ha cominciato a lisciare, una balla e l’altra. Lì ho preso un mestolone alla testa, perché quando hanno detto del rancio mi hanno chiamato per vuotare il coso, per prendere le gamelle e intanto mi è arrivato questo mestolo sulla testa. E’ andata anche abbastanza bene.

Poi siamo andati a Bolzano sempre in corriera, erano tre corriere, da Verona siamo arrivati a Bolzano. A Bolzano siamo stati ricevuti con tutti gli onori, con abbracci, una roba fuori dall’ordinario.

D: Ti ricordi, ti hanno spogliato?

R: No, io sono rimasto sempre vestito com’ero. Io di tute

D: Non ti ricordi?

R: No.

D: Il numero te lo ricordi?

R: Sì, 9191.

D: Con il triangolo?

R: Rosso. Ci hanno messo nel blocco E, quindi eravamo pericolosi. Poi a un bel momento ci hanno caricato sul treno dopo un mesetto.

D: Ma in questo mese dentro nel campo cosa facevi?

R: Niente. In marzo c’era stato un bombardamento e venne dentro uno delle SS dicendo: “Chi è che vuol venire fuori a lavorare?”. A fare che cosa? Mah. Ci siamo andati, una decina. C’erano da togliere le bombe, scavare tutto.

C’era una bomba che era andata a finire sotto ad un marciapiede, c’era appena il marciapiede sollevato e sotto a tre, quattro o cinque metri c’era la bomba. Cominciammo a scavare, scoprire questo ordigno.

D: Questo in città?

R: In città di Bolzano. Nel quartiere degli italiani. Lì i nostri connazionali ci hanno portato del riso, ci hanno portato un po’ da rifocillarci. Ci andammo due volte a scavare attorno alle bombe, sperando sempre di non saltare per aria. Poi all’infuori di quella faccenda non ci siamo più andati noi.

D: Stavi dicendo prima iltrasporto.

R: Il trasporto da Bolzano per andare a Mauthausen. Ci incolonnarono e ci portarono in stazione, in stazione c’era già pronto il convoglio. Ci caricarono su questi carri bestiame, eravamo in centodue, centotre in un carro bestiame.

Vuol dire essere come le acciughe. C’era, mi ricordo ancora, quel povero cieco che stava poco bene, aveva anche la dissenteria, robe da chiodi.

Ad ogni modo ci siamo stati un giorno, una notte e un altro giorno. Al mattino ci hanno dato un po’ di roba calda da bere. Poi c’è stato il bombardamento della ferrovia da Bolzano al Brennero, la rotaia più lunga era venti chilometri.

Allora imbestialiti questi della SS ci hanno fatto scendere e riportati in campo. Lì rimanemmo…

D: Due cose volevo chiederti, ti ricordi quando ti hanno portato sul Transport? Che periodo era?

R: Sarà stato verso la fine di febbraio penso, in febbraio.

D: Dicevi, alla stazione. Era la stazione o era uno scalo?

R: No, la stazione, uno scalo merci sarà stato.

D: Ma della stazione?

R: Della stazione, sì.

D: Tu dici la stazione perché vedevi delle persone, dei civili che prendevano gli altri treni?

R: Adesso questo non me lo ricordo, non c’erano civili in quel momento che noi siamo arrivati lì, non c’erano mica civili.

D: Quindi non siete partiti e ti hanno riportato sempre nel blocco E?

R: Sempre nel blocco E. Siamo rimasti nel blocco E sempre chiusi fino ai primi di aprile. Dopo ai primi di aprile cominciavamo ad andare fuori in quello spazio circoscritto del cortile.

A sinistra avevamo le donne e a destra c’erano gli altri che potevano circolare per il campo, quelli che andavano fuori anche al lavoro.

D: Lì sei rimasto fino a quando?

R: Fino al 30 aprile. Al mattino del 30 aprile entrò il capo blocco e disse: “Guardate di mantenere la calma, qui hanno già piazzato tutte le mitragliatrici attorno al campo e andate a casa”.

Sono meticolosi i Deutschland quando ci si mettono. Tanto di timbro, tanto di lasciapassare. Eravamo infestati di pidocchi, perché il nostro lavoro era lo spidocchiamento. Tutto il santo giorno, dalla mattina. Era proprio l’annullamento della persona.

Praticamente tu eri un animale, eri un numero anzitutto ed eri una bestia. Forse meno di un cane. Allora cosa hanno fatto? Hanno portato il famoso Cyclon, che usavano per gli ebrei, poveracci, e nelle bacinelle hanno messo queste pastiglie, non so poi cos’erano.

Noi fuori tutti nudi, lasciando quei pochi indumenti che avevamo nella camerata, nei castelli. Nel giro di una mezza giornata fuori così, c’era fresco, perché a Bolzano faceva fresco, quando siamo rientrati prendevi la roba e facevi così, ce n’erano tre dita per terra.

D: Dopo lì alla Liberazione stavi dicendo?

R: Con la Liberazione siamo passati in fureria, ci hanno lasciato il soggetto, una storia e l’altra. Poi ci hanno caricato su dei camion e ci hanno portato verso Merano. Io sono andato verso Merano, verso in su.

Hanno portato una parte verso Trento, una parte verso Merano, una parte… Da lì poi pian piano a piedi abbiamo fatto la Val di Non, la Val di Sole e siamo arrivati a Brescia a piedi. “Pedibus calcantibus” pian piano e via.

Quando siamo arrivati poi a Brescia, lì a Brescia ci hanno tenuti due o tre giorni. Poi da Brescia sempre con i camion ci hanno portato a Cremona. A Cremona ci hanno rifocillato tutti con la mostarda, mostarda al mattino, mostarda a mezzogiorno e mostarda alla sera.

Poi ci hanno portato in curia, lì in curia ci hanno dato mille lire a testa. Mille lire. Eravamo senza documenti, niente, né soldi. Mille lire erano soldi allora. Chissà, il Vaticano… Io non penso che il vescovo di Cremona avesse avuto la possibilità di avere queste banconote.

Prelievi fatti forse presso la Banca d’Italia per conto del Vaticano.

D: Da lì poi?

R: Da Cremona poi siamo venuti a Parma sempre in camion.

D: Camion di chi?

R: Erano camion militari alleati, però guidati da borghesi. Si vede che avevano preso questi camion nei campi di raccolta, avevano acquistato questi camion, poi facevano i trasporti di questi prigionieri. Pagati poi da chi non lo so.

D: Nel periodo che tu sei rimasto a Bolzano, ti ricordi di aver visto nel campo dei religiosi?

R: Sì, c’era un frate cappuccino nel nostro blocco, il quale aveva confessato dei partigiani a Trento. Questo frate poi era stato portato presso la SD, il comando delle SS e volevano sapere che cosa avevano detto i partigiani.

Botte, botte, poveretto, avrà avuto una settantina d’anni.

D: Addirittura?

R: Sì.

D: Non ti ricordi il nome però?

R: Non me lo ricordo. Poi c’era il prete, Don Daniele. Il frate non era Don Daniele. Il frate, poveretto, mi ricordo quando ci portarono fuori nel cortile per la disinfestazione nudi, lui stava là poverino… C’erano anche le donne tutte belle…

D: Ti ricordi di bambini?

R: Sì, c’erano dei bambini ebrei di due anni, due anni e mezzo. Poverini, anche loro erano lì con le loro mamme.

D: Tu sei rimasto a Bolzano…

R: Dal febbraio, dai primi di febbraio fino alla fine di aprile.

D: Il giorno di Pasqua del ’45?

R: C’è stata la Santa Messa dentro nel campo con il vescovo, mi pare, di Belluno.

D: Te lo ricordi quel giorno?

R: Sì, molto bene me lo ricordo. Fece un’omelia molto sostanziosa per quello che ha detto, poi aveva anche sotto sotto…

D: E’ entrato nel campo lui?

R: Sì, è entrato nel campo. C’era l’altare proprio in mezzo al campo, noi tutti attorno. La Santa Messa.

D: Tutti voi intorno?

R: Sì, i prigionieri.

D: Tu non hai potuto scrivere a casa?

R: No.

D: Né ricevere pacchi?

R: No, per l’amor di Dio, niente.

D: Ti ricordi che qualcuno dei deportati riceveva?

R: Sì, c’erano dei bellunesi, mi pare, di Belluno, di quelle parti. Mi ricordo che uno aveva disfatto il suo pacco. Io ho ancora l’impressione al giorno d’oggi di aver visto il pane con in mezzo la marmellata.

Allora gli ho chiesto un pezzettino di pane, ha detto no. Va beh, grazie lo stesso. Non mi ha dato niente. Allora un mio amico di San Secondo, “adesso lo frego io quello”. Aveva una gran bella penna d’oro, perché lui aveva assistito al colloquio.

Gira e rigira dopo quattro o cinque giorni gli ha fregato la penna. L’abbiamo passata poi all’altro blocco attraverso un foro, c’era un mercato nero spaventoso. Mi ricordo che io avevo un po’ di danaro in quanto mio papà mi aveva mandato dentro un pacco in San Francesco con due o tre mila lire.

Mi sono durate tre giorni, c’era un mercato fuori dell’ordinario. Dei pezzi di castagnaccio. Stavo dicendo, scusate?

D: Della penna.

R: Della penna. Allora gli ha fregato la penna stilografica, abbiamo passato la penna stilografica all’altro reparto e abbiamo ottenuto due pani, quelli dell’esercito tedesco. Era una penna d’oro, il cappuccio e tutto d’oro.

Era disperato questo a cercare la sua penna. “Se trovo quelli che mi hanno fregato la penna…”, era il mio vicino di branda.

D: Ti ricordi se periodicamente entravano dei civili nel campo, non so, a vendere le mele?

R: No. Una volta c’è stata la distribuzione delle mele. Il Vescovo o il Papa, non lo so. Fatto sta che ci hanno dato delle mele, ci hanno dato anche qualche cosa d’altro forse da mangiare. Una volta, una volta sola.

D: L’ultima domanda, ti ricordi se nel campo tra i deportati c’erano dei deportati che avevano dei soldi del campo? Della cartamoneta dove però c’era scritto “campo di concentramento di Bolzano”? Non ti ricordi di averla vista?

R: No, questo no. Forse l’avranno vista negli altri blocchi, perché avevano possibilità di comunicare anche tra di loro.

D: Però tu non te lo ricordi?

R: No.

D: Come si chiamava il tuo capo blocco, se ti ricordi?

R: Non me lo ricordo. So che era un colonnello dell’esercito vestito da prigioniero. Mentre delle donne c’era la capessa, quella mora.

D: La Tigre?

R: No, la Tigre forse è quella olandese. Mi ricordo io quella olandese.

D: Ti ricordi questo nome della Tigre?

R: Sì. Era un donnone di due metri con due spalle… Un uomo travestito da donna. Mi ricordo che faceva trainare un carretto pieno di neve, un carretto abbastanza grosso, ad una ebrea. Aveva un odio particolare per quest’ebrea.

Questa poverina non ce la faceva, spostava appena appena così. Lei con un nerbo le dava di quelle botte, con una ferocia, con una cattiveria che non era mica una roba umana. Sono dei pazzi.

Io ho sempre pensato che fossero un po’ alienati di mente, perché per fare quello che facevano non si poteva farne a meno.

D: Altri nomi di capo blocchi?

R: No, vedermi dentro il reticolato per me era come claustrofobia. Mi abbattevo molto facilmente. Una volta attraversando il campo negli ultimi giorni incrociai quello delle SS, non quello famoso, quell’altro, quello tarchiato. Ce n’era uno tarchiato, basso.

Sarà stato maresciallo, non so. Ad ogni modo l’ho incrociato e a un bel momento dice: “Cappello, cappello”. Io l’ho visto, però ho detto: “Il cappello non me lo levo”. “Ya, ya”, allora io ho preso il mio berretto, sembrava quasi da ebreo, e ho fatto così, l’ho gettato via.

Perché? Perché me ne fregavo della mia vita a un bel momento. Gli ho detto: “Ma vattene a quel paese, io piuttosto di levarmi il cappello davanti a te lo getto”. Allora c’era il povero Bucci, c’era anche Walter Cantoni, che erano seduti contro il muretto del blocco.

Mi hanno visto fare questo gesto. Questo s’è portato la mano alla pistola, poi ha bestemmiato come un turco, s’è girato ed è andato via. Allora gli altri due: “Vuoi far l’eroe proprio all’ultimo momento”.

Tu non ti consideravi nemmeno più come una persona, tutto lì.