Cressina Letizia

Letizia Cressina

Nata a Parenzo (Croazia) il 16.06.1924

Intervista del: 10.08.2000 a Feltre (BL) realizzata da
Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n. 79 – durata: 42′ circa

Arresto: a casa

Carcerazione: Pola (Croazia), a Trieste al Coroneo

Deportazione: Auschwitz, Wittenberg, Mauthausen

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Organizzazione materiali ed inserimento dati: Elisabetta Mascarello, Elena Pollastri

Nota sulla trascrizione della testimonianza: L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

R: Io mi chiamo Letizia Cressina, sono nata a Parenzo, il paese è Radmami dove sono nata io. Hanno arrestato me e mio papà…

D: Scusa, Letizia, quando sei nata?

R: Io sono nata il 16 giugno 1924.

D: Dicevi, ti hanno arrestata a te e al tuo babbo.

R: A me e al mio babbo, alle 3.304.00 di mattina sono venuti col rastrellamento e ci hanno portati via dal letto.

D: Chi ti ha portato via?

R: I tedeschi.

D: Perché?

R: Non lo so.

D: Dove ti hanno portato?

R: Ci hanno portato in un paesino che era la caserma dei carabinieri una volta, si chiama Sbandati. Siamo rimasti là tre giorni, poi ci hanno portato a Paenze in caserma, poi siamo andati in un albergo che era il comando delle SS. Poi da là sia io sia mio papà siamo andati in carcere e il mio ragazzo dentro in questo albergo. Poi di nuovo in caserma, siamo andati a Pola in carcere e ci siamo stati due mesi in carcere a Pola.

Ero con una suora là che mi voleva un bene di vita, la aiutavo a nettare le carote così almeno mi dava un po’ di mangiare, le carote. L’amico di mio papà era cuoco dentro dei tedeschi e ci portava. Però io pregavo la suora che mandi a mio papà e a questo ragazzo questo mangiare su in caserma, perché loro non potevano arrangiarsi come mi arrangiavo io.

Siamo rimasti là non mi ricordo quanti giorni per dire la verità. Siamo andati con la nave da Pola a Trieste sempre durante la notte. Siamo venuti a Trieste nel Coroneo e là volevo a tutti costi domandare per quale motivo mi hanno arrestato. Perché poi io avevo tre fratellini piccoli a casa, mio nonno cieco di novantaquattro anni e papà invalido della prima guerra mondiale, quindi non potevo far niente di male a nessuno.

Quando siamo venuti a Udine dal Coroneo siamo partiti per la Germania. A Udine di nuovo sono andata, là c’erano i fascisti e anche i tedeschi. Volevo parlare con mio papà, prima con questo SS, questo capitano che mandi a casa mio papà, perché gli ho detto: “A casa io ho tre bambini piccoli. Chi li guarda a casa? Lui è invalido”. L’hanno preso per detto e l’hanno portato in corriera un’altra volta. Ho detto: “Fate quello che volete di me”. Poi noi siamo stati imbarcati su questo treno merci e ci hanno portato via da Udine. Siamo partiti, per dove non sapevamo. Siamo venuti a Salisburgo mi pare, sì.

Là mi hanno fatto scendere, solo noi donne. Siccome io avevo cinque lire, quella volta cinque lire valevano soldi, che mio papà mi aveva dato, ho preso questi pomi, ho alzato su la gonna così perché non avevo dove metterli e ho portato questo ragazzo in vagone, che era quell’altro.

Quella volta noi siamo partiti per Auschwitz e loro non so per dove, non l’ho mai più visto. Non ho saputo più niente di lui, neanche del suo babbo.

D: Ascolta, Letizia, quindi ti hanno portato a Trieste al Coroneo?

R: Al Coroneo, dal Coroneo siamo partiti per Udine e da Udine siamo andati col carro merci, siamo partiti per la Germania, ma non sapevamo dove andavamo. A Salisburgo c’era un croato, c’era una mia compagna che sapeva parlare in croato, ha detto: “Se avete i soldi, guardate, io vi do la cartolina, scrivete a casa dove siete, una roba e l’altra”.

Io non potevo scrivere, mi tremavano le mani, allora ha scritto questa mia amica che adesso penso che si trovi a Sidney, se è viva ancora. In questa cartolina ho scritto solo: “Saluti, siamo fermi, così e così, non sappiamo dove andiamo e saluti cari, bacioni. Vostra Letizia”. Dopo per un anno non ho sentito né visto nessuno.

D: Eravate in tante sul tuo vagone?

R: Come le sardine eravamo. C’era un buco dove dovevi fare pipì e tutto quello che c’era giù e andava per la strada. Non dovevi neanche pensare a questa roba, di mangiare. Quando siamo venuti ad Auschwitz dopo tanti giorni mi hanno portato in una stanza grande, mi hanno portato via tutto l’oro quei mascalzoni assassini, scusatemi se dico queste parole, hanno portato via tutto l’oro alle ragazze, tutti i soldi che si avevano.

Per questo oggi sono ricchi, si sono rifatti, ma non con il loro lavoro, il loro oro, ma con i nostri sacrifici, col nostro oro. Ce l’hanno portato via. Noi pensavamo di andare a lavorare là e basta, invece non era vero. Io avevo ottantasei chili quando sono andata in Germania, ero un tocco di ragazza.

Poi siamo andati in questa stanza, ci hanno denudati tutti completamente, ci hanno sbarbati tutti. A me i capelli no, solo un poco, ma non tutti i capelli, perché hanno visto che ero pulita. Dopo ci hanno messo sotto la doccia fredda che veniva sopra di noi e ci hanno dato questo unico, senza avere mutandine, senza niente, zoccoli e questo vestito con questa giacca, l’unica roba che c’era. Praticamente quando c’era freddo e neve andavamo in giro così, fino alla pancia, tutti dentro nella neve con gli zoccoli, senza calze, senza niente.

Lavoravamo, io lavoravo proprio vicino alla mia baracca. C’era un canale grande, dovevo, scusatemi, slargare le gambe abbastanza bene e tirare fuori il fango di questo canale, con questa palla pesante. C’era tipo graia, ma era fatto tutto di frasche, capisce cosa sto dicendo? Come un muro, dentro c’era cric, cric, cric facevano le ossa della gente che bruciavano.

Bruciavano la gente, perché vedendo che c’erano due carneri, quando venivano specialmente questi ebrei dentro, due carneri che parte per parte li prendevano per le spalle e per le gambe, giù dal camion e li portavano dentro.

D: Scusi un attimo, Letizia. Quando tu sei arrivata ad Auschwitz con il treno, con il Transport, il treno dove vi ha lasciati?

R: Dritto dentro in Auschwitz, dritto dentro nel campo è andato.

D: Dopo la spogliazione?

R: Siamo andati in baracca.

D: Ti hanno immatricolata?

R: Sì, prima di tutto mi hanno messo subito il numero sul braccio, poi mi hanno messo qua un numero, 120, e anche qua sul braccio. Sì, sì, me l’hanno messo.

D: Qual è il tuo numero?

R: Questo, 87062.

D: Quando ti chiamavano, come ti chiamavano?

R: Zweite Reihe italienish.

D: Poi ti hanno mandato in baracca?

R: Poi ci hanno portato in baracca. Dormivamo sulla paglia per terra, le russe avevano la loro baracca a piani, noi dormivamo per terra sulla paglia che si bagnava due o tre volte al giorno questa paglia. Quindi dormivamo in acqua. Capisce? Iole e Emma, ci credo, loro avevano lavorato nei campi però, quella che ha parlato ieri con loro.

D: Tu invece dove hai lavorato, oltre a quel fosso?

R: Vicino alla baracca, in questo canale lavoravo. Io non sono andata in campo.

D: Sei sempre stata lì a lavorare?

R: Fino a che è venuto un signore di Kirchenberg, è venuto e mi ha guardato le mani bene, così, avevo le mani forti. Poi mi ha portato lì per andare a lavorare in fabbrica di munizioni.

D: Quanto tempo sei rimasta ad Auschwitz Birkenau?

R: Penso un due mesi e qualcosa. Guarda, questa è una domanda che non mi ricordo più niente. Perdo i colpi adesso. Sul serio, sa? Perdo colpi. A Kirchenberg siamo rimasti abbastanza, camminavamo per andare dove lavoravamo dodici ore, sia di notte sia di giorno.

Cosa che non dava quel pochettino di patate marce che bollivano in acqua. Io aspettavo quando vedevo un tedesco che spellava le patate, speravo che andava via presto che le andavo a ingrumare, le mettevo in vaso tipo di conserva in cui si tiene la salsa, questa roba qua, per poterle lavare e cucinarle, mettere un goccio di sale e mangiarmele.

D: Le bucce delle patate?

R: Le bucce delle patate, sì. Quando andavamo anche a tirare fuori, perché loro facevano un fossato e dentro mettevano un tubo per dare aria alla patate dentro, un fossato grande e le patate erano marce. Però erano come impuzzate dentro queste patate, però noi facevamo così e le mangiavamo. Per non morire.

D: Ascolta, a Birkenau…

R: Non so cos’è Birkenau.

D: Auschwitz.

R: Allora parlami di Auschwitz, non di Birkenau.

D: Quando tu sei rimasta lì a Auschwitz…

R: Sono stata poco là. Siamo restati poco perché poi è venuto quel signore che mi aveva scelto e siamo andati subito là a Wittenberg.

D: In questa fabbrica di munizioni.

R: Fabbrica di munizioni.

D: Il Lager dov’era rispetto alla fabbrica? Era vicino?

R: No, la fabbrica era sul monte e giù in pianura c’era il Lager. Quando c’era il coprifuoco e quando volevano bombardare, noi eravamo in un bunker che era tutto munizioni sotto. Noi pregavamo Dio e la Madonna che mi ha salvato la vita, perché tutto in giro avevamo le munizioni e se scoppiava la bomba scoppiavamo anche noi tutti per aria.

D: Quindi voi ogni giorno lasciavate il Lager per andare in fabbrica?

R: Sì, ogni giorno. Durante il giorno dovevamo pulire intorno quando c’eravamo, dopo andare a lavorare. A me m’avevano fatto questa bua, allora le russe maledette, cattive come il diavolo, loro non volevano fare, le capisco, e quando veniva il controllo dentro e non era fatto, davano addosso a me. Ero ventiquattro ore coi miei ginocchi, che oggi non posso camminare, sulla giarina, inginocchiata finché veniva fuori il sangue con un tedesco collo schioppo davanti.

D: Questo per punizione?

R: Per la punizione. Prima le ho prese col manganello, dopo mi hanno messo a fare per punizione quella roba là, inginocchiata ventiquattro ore.

D: Ma tu cos’avevi fatto, Letizia?

R: Io ho nettato tutto sotto i nostri Lager, di Emma, di Iole, perché eravamo insieme e questa signora Anna che prima ti dicevo che è in Australia, eravamo insieme. Io e Emma eravamo sempre state insieme nella stanza. Però queste disgraziate non volevano pulire niente, allora noi le prendevamo per loro. Dopo è venuto questo signore, che siamo andate a Kirchenberg. Là avevo trovato un vecchio, povero, che faceva la guardia in fabbrica. Noi per settimana prendevamo sette sigarette per paga, allora questo tedesco vecchio mi diceva che se io gli davo le sigarette, lui mi lasciava tutto il suo mangiare. Beato Dio, che almeno ho portato trentacinque chili a casa, trentacinque chili. Come ti chiami di nome?

Così io gli dicevo di sì, perché o mi dava la polenta o le patate o qualunque cosa sia avevo qualcosa in stomaco. Poi avevamo anche le cape dentro che stavano vicino a noi, poi avevamo dei piatti così capovolti, lisci e questo era per le capsule che si mettono sulle munizioni per tirare. Guai se c’era una striscia.

Noi avevamo cinquecento lampadine sopra di noi, noi avevamo perso la vista del tutto, ma là non perderemo mai. Anche questa capa nostra a me lasciava un piccolo pomo o un goccetto di pane, mi mostrava con la mano, non poteva venire vicino a noi. Intanto non avevamo proprio lo stomaco vuoto, allora quell’altra che fumava ne diceva di tutte brutte parole, diceva: “Anche noi ti lasciamo mezzo nostro pane”.

“Ma tu mi davi mezzo così del tuo pane, mentre io avevo un bel piattino di patate. E’ facile per te stare senza fumare, ma io senza mangiare no”.

Così si è andato avanti parecchio tempo. Venivamo a casa, buttavano scorze di patate, patate neanche lavate, marce, come c’erano, e buttavano un poco di grish e questo lo mettevano in questo coso che avevamo, tipo militare, dentro e mangiavamo sempre con questa roba. Noi la chiamavamo Miska.

Ce la portavamo sempre con noi. Sul petto, per non farcela portare via. Il cucchiaio e questa roba qua. Questo lo davano alla mattina, finché non venivi a casa non ti davano più da mangiare. Venivi a casa e ti davano la stessa roba. O ti davano il tè alla mattina, acqua e basta che ti slavazzava lo stomaco e nient’altro. Là dovevi stare tante ore con quella roba.

D: Prego, Letizia.

R: Dove eravamo?

D: Lì in fabbrica di munizioni…

R: Eravamo in fabbrica dove lavoravamo. Facevamo tanto che avevamo una cara amica di passato il fiume, verso il Bona, non so poi se è viva o se è morta. Perché poi via dalla Germania, io sono andata una delle prime via, sono andata per la Jugoslavia, siamo venuti a casa.

Quando siamo venuti a Trieste col treno del bestiame naturalmente siamo scappate fuori di modo da non metterci in quarantena. Ma questo è tutto dopo. Là lavoravamo le ore che dovevamo lavorare ed eravamo per diverso tempo. Questo vecchietto che mi dava da mangiare mi diceva: “Non preoccupatevi che si avvicina il fronte russo”. Se non che dopo siamo andati a Mauthausen da là.

D: In questa fabbrica che facevate le munizioni quanto tempo sei rimasta?

R: Non lo so, so abbastanza, la maggior parte del tempo eravamo in questo Lager dove facevamo le munizioni. Assai tempo eravamo là, vedevi che morivano. Non occorre neanche pensare, poi ti racconto cosa mi è successo a me.

Là lavoravamo, venivamo a casa e facevamo lo stesso lavoro, sempre con le gambe nude, senza calze, senza niente. Poi un giorno cominciano a bombardare e questo signore mi ha detto: “Guarda che presto si avvicinano i russi verso di voi”.

Allora a noi ci hanno fatto rendere con tanti di quei carri di quattro cavalli, ne toccava menasse la poletta con le gambe, con le mani, avanti, tutto con le mani. ….Carichi questi carri, dormivamo per i fienili alla notte che ci fermavamo, finché siamo arrivati a Mauthausen.

Là ci hanno portato in un bunker giù, non su in alto, in alto c’erano gli uomini, di sotto eravamo solo donne. Io sempre con questa lattina che aspettavo per ingrumare queste scorze di patate. Le mie amiche erano dentro che dicevano: “Noi ci buttiamo un poco”. Dicevo: “Buttatevi, io vado fuori se posso prendere qualche cosetta”. Tanto che mettevo ho detto: “Madonna mia, ma qua cos’è successo?”. Guardo dappertutto, non ci sono tedeschi, non ci sono scorze di patate, non c’è niente.

Chiamo: “Iole, Emma, correte fuori. Antonia, corri fuori”. Che poi i tedeschi hanno ucciso il figlio a quest’Antonia e la nuora bruciata in Risiera. “Cos’è, Letizia?”. “Cosa sono le bandiere?” ho detto, “Cosa sono le bandiere su in alto?”

Tutte bandiere su, di tutti i colori le bandiere, non solo tedesca. Oltre il portone non c’erano tedeschi intorno al Lager, perché poi penso che sotto facevano gli aeroplani dove eravamo noi in questa baracca. Solo che era tutto un …, dormivamo uno sopra l’altro, tutto bagnato, tutto sporco, tutto quello che vuoi, le donne piene di pidocchi, povere.

C’erano tante bestie intorno, era tutta sporcizia da numero uno. Noi andiamo su, quando veniamo su troviamo tutti questi morti uno sopra l’altro. Non si capiva se erano donne o erano uomini, perché la natura dell’uomo non la vedevi, il collo era tutto dentro, ritirati i nervi, solo questa povera testa che non era né dentro, non aveva niente, cadaveri proprio.

Come se li avessi tirati proprio fuori dalla bara, ecco. “Dio, Dio”, ho detto, “quante mamme piangeranno queste creature”. Dopo questi americani ….., erano bloccati in giro, tutto attorno hanno dovuto scavare con la gru, hanno messo solo un coperchio così sopra in modo che solo il viso era coperto, chi era così, chi aveva le gambe così, erano tutti storti, poveri, uno sopra l’altro. Guardiamo come li seppelliscono e tutto.

Queste povere donne, puoi immaginare, mangiare mai né condito né cotto niente neanche, cominciano a dare margarina, tè, questo e quell’altro, una roba e l’altra, hanno preso tutti la diarrea. Io grazie a Dio no. Io e una mia amica, questa è bella, sa? Abbiamo rotto una coperta e abbiamo fatto a mano una borsa a tracolla, siamo andate fuori dal Lager.

Ho detto: “Andiamo, andiamo a domandare di darci un pochettino di cipolla, un po’ di aglio, una roba e l’altra”. Avevamo desiderio di mangiare quella roba là. “Zweite Reihe Italienish, los”, diceva, “geh mal los “. Va bene.

Se non che noi andiamo avanti, c’era un russo che lavorava in una fattoria, si è innamorato della mia amica. Io so abbastanza parole in russo, adesso magari mi sono anche dimenticata abbastanza, ho detto: “Aspetta, aspetta”. Abbiamo preso la falce, addosso a una gallina così e l’abbiamo tagliata, abbiamo messo la testa, il collo sotto l’ala, perciò non veniva fuori sangue. Siamo venute al campo, avevamo abbastanza verdura, abbiamo rotto il gabinetto, avevamo un secchio.

Io ho cucinato il brodo e l’ho portato da mangiare alle ragazze, brodo e questo. Dovresti andare a Pola, ti racconterebbero loro quello che ho fatto io per loro, non per loro, per tutte. Sempre io ho fatto per loro. Di queste ragazze che c’erano, ho detto: “Madonna mia, bisogna dargli da mangiare qualche cosetta, perché non possono stare così”. Sono andata dove c’erano quei bei lenzuoli a quadri, ho detto “Aspetta che li porto nella mia baracca, dopo a me mi portano a casa”.

Allora io ho portato a casa questa roba, signorina. Mi dicono: “Letizia, cosa pensi di fare con questa roba? Lascia stare”. Portavo tutte queste cose e mettevo tutto sopra alla baracca, sopra questo letto. Quando vedevo che questa signora stava male, ho detto: “Cosa ha, signora, che non lascia andare su?”. Corre in gabinetto e aveva tutto questo mangiare sopra la branda, prendo questa roba e tutta via in condotta, in gabinetto.

Quando via di là, mi fa: “Ma chi mi ha portato via tutto il mio mangiare?”. “Io”. “Ma perché mi hai fatto questa roba?” ha detto. “Perché l’ho fatto? Perché ti porti la testa a casa” le ho detto, “Non ti da più figlio, hai una creatura piccola a casa, bisogna che vai a casa per lei”.

Perché aveva lasciato un piccolino a casa e il marito, uno l’avevano ammazzato i tedeschi, impiccato. Ti raccontavo che ieri sera c’era il nome di questa ragazza. Siamo andate a casa per via Lubiana, Maribor, a Trieste, siamo scampate via da là.